“Siamo pronti a ridiscutere il Jobs Act”

“L’unità della Cgil è un valore, come lo è per tutte le esperienze del campo progressista sociale e politico”. Maurizio Martina, candidato alla segreteria del Pd, è pronto ad accogliere a braccia aperte Maurizio Landini alla guida del sindacato. “Dobbiamo guardare con grande attenzione alla nuova stagione che si aprirà in casa Cgil, riprendere un confronto nel rispetto delle reciproche autonomie”.

Onorevole, siete pronti a una piattaforma comune con la Cgil?

Guardo con grande attenzione alla condivisione delle battaglie e degli impegni, a partire dal 9 febbraio quando parteciperò alla manifestazione unitaria dei sindacati contro il governo, spero con gli altri candidati del Pd.

Riprenderete un’interlocuzione?

Con Landini, come con Colla, ci conosciamo da tempo, l’interlocuzione non è mai mancata.

Quella di Landini è di certo una leadership forte, mentre quella del Pd rischia di essere più debole. Un problema?

Quella del Pd sarà forte dopo le primarie. E tutte le leadership si misureranno con la sfida della rappresentanza. Non guardo con preoccupazione alla leadership di Landini. Anzi, è importante per un cambiamento sociale.

La Camusso, nel chiudere l’accordo con Landini, è stata molto critica con il governo.

Giustamente.

Ma non vi è venuto il dubbio che il reddito di cittadinanza, con tutti i suoi limiti, sia una misura alla quale avrebbe dovuto pensare un governo di centrosinistra?

Faccio una controproposta: rafforzare il reddito di inclusione, che noi abbiamo fatto, e mettere il resto delle risorse sull’assegno di disoccupazione, la Naspi.

Anche il Rei, però, lo avete fatto solo a fine legislatura.

Dovevamo farlo prima e finanziarlo per intero. Con il reddito di cittadinanza si pone un tema che non possiamo sottovalutare, ma con modalità applicative che non reggeranno.

Si riprende un percorso comune con la Cgil?

Voglio un dialogo vero con tutti i sindacati. Nella mia mozione ho scritto che è tempo di tornare a investire su mediazione sociale, corpi intermedi e rapporto forte, plurale, libero con le associazioni sindacali.

Però il governo Renzi, di cui lei ha fatto parte, la Cgil l’ha attaccata duramente, relegandola a un’organizzazione antica.

Ma abbiamo fatto anche molte cose insieme: penso alla legge contro il caporalato. Ma è chiaro che serve una nuova stagione di rapporti.

Nella sua mozione ci sono molti ex renziani doc. Può dire che il Pd ha definitivamente rimosso Renzi, anche rispetto al rapporto con la Cgil e con Landini?

Non bisogna personalizzare: su tante crisi aziendali c’è stato un lavoro importante condiviso. So che ci sono stati momenti di divisione. Una pagina nuova si scrive costruendo la consapevolezza che c’è la diffusa necessità di un soggetto sociale e politico. Il faro è l’articolo 3 della Costituzione.

Nella rottura è stato centrale il Jobs act. Pentimenti?

Ne difendo l’impianto riformista, ma sono pronto a discutere come si fa meglio o di più. Nella mozione parlo di salario minimo legale, abolizione definitiva dei tirocini gratuiti, di una legge sul modello tedesco per dare equilibrio ai tempi di lavoro.

La sponda che serve ai 5Stelle sul tema dell’orario di lavoro

I Cinque Stelle si giocano il loro futuro politico su un tema solo: il lavoro. Tutto il resto – dall’ambiente alla collocazione europea, ai rapporti con la Lega – sono dettagli. Bastava osservare la scaletta degli interventi al grande show di giovedì a Roma per presentare il reddito di cittadinanza: sul palco si è parlato soltanto di quello. E ora arriva Maurizio Landini alla guida della Cgil, uno che potrebbe anche essere un concorrente dell’ala sinistra dei Cinque Stelle, una specie di Jeremy Corbyn all’italiana, ma che Luigi Di Maio e i suoi si aspettano sia soprattutto un interlocutore attento, che dia una legittimità “di sinistra” a certe scelte che ai Cinque Stelle serve per rassicurare un pezzo del loro elettorato che non ama l’alleato leghista.

Il segretario uscente della Cgil, Susanna Camusso, non è mai stata indulgente con il governo: in una recente intervista al Fatto ha definito “di destra” la prima legge di Bilancio gialloverde e ha previsto un futuro prossimo a “pane e acqua”, per quei 50 miliardi di aumenti di Iva automatici che il governo Conte ha previsto tra 2020 e 2021 in cambio del via libera europeo al bilancio 2019. La Camusso, come molti sindacalisti e gran parte delle forze socialdemocratiche, era anche piuttosto fredda sul reddito di cittadinanza: troppo confusa la distinzione tra assistenza e politica attiva del lavoro, troppo sbilanciato sulle imprese che si prendono gli incentivi all’assunzione del beneficiario, troppo aggressivo verso il disoccupato, trattato sempre come un potenziale fannullone.

Landini ha la fortuna di arrivare quando quel dossier ormai si è chiuso: il dibattito intellettuale sulla necessità – o l’utilità – di un sussidio generalizzato contro la povertà che assomiglia molto a un assegno di disoccupazione con molti vincoli è per il momento messo tra parentesi. Nei prossimi mesi si discuterà soltanto dell’attuazione, dei mille problemi burocratici, della riforma dei centri per l’impiego. Tutti nodi cruciali, ma che non richiederanno prese di posizione troppo nette da parte della Cgil: a differenza del Pd, che è un avversario politico del M5S, Landini non avrà alcun incentivo a tifare per il flop del reddito di cittadinanza.

L’ex leader della Fiom sarà invece una sponda preziosa per i prossimi punti dell’agenda M5S sul lavoro. Nell’evento romano di martedì, Pasquale Tridico, il capo dei consulenti economici di Luigi Di Maio, ha già indicato la prossima battaglia culturale e politica: la riduzione dell’orario di lavoro, così da redistribuire i posti esistenti su più persone possibili. Una misura un po’ novecentesca, che non tocca i tanti super-precari che un orario non l’hanno neppure perché lavorano a partita Iva o in nero, ma che di certo troverà il consenso di Landini, così come è stato per il decreto Dignità che ha irrigidito l’utilizzo dei contratti a termine (e che dai primissimi dati, molto parziali, non sembra aver prodotto i disoccupati temuti).

Una certa sintonia di temi e toni – Landini non è uno che parla sottovoce – è quindi chiara. Ma c’è una grande incognita: la congiuntura economica. Secondo l’Istat siamo già in recessione, con due trimestri di crescita negativa, dalle stime di Bankitalia e Fondo monetario il 2019 potrà registrare al massimo un aumento del Pil dello 0,6 per cento, quasi la metà di quanto auspicato dal governo. Con l’economia ferma, di posti per i beneficiari del reddito di cittadinanza ce ne saranno pochi, le assunzioni dei precari oggetto del decreto Dignità saranno meno, il clima diventerà più teso. E Landini potrebbe trovarsi a diventare, anziché il partner sognato dai Cinque Stelle, il punto di raccolta di tutti i delusi dalle promesse M5S sul lavoro.

L’apertura di Boccia: “Ora basta conflitti, serve un nuovo patto”

Infrastrutture, giovani, Europa. Sono i punti che secondo Vincenzo Boccia condividono Confindustria e Cgil.

“I tempi sono maturi per trasformare il patto della fabbrica in un vero e proprio patto per il lavoro che rimetta questo tema al centro dell’agenda per il Paese”, ha dichiarato il presidente dell’Assemblea degli imprenditori che ieri ha partecipato al congresso della Cgil: il rappresentante dei “padroni” che entra nella casa dei rappresentanti dei lavoratori e dei pensionati. Con la prospettiva di mantenere il dialogo e “collaborare per la competitività, che è l’inverso del conflitto” mentre “la politica cerca colpe” sottolinea Boccia.

Dai sindacati invece viene “bastonata” l’assenza di esponenti del governo all’assemblea. Vincenzo Colla, ex sfidante di Landini e ora suo quasi sicuro vicesegretario generale, si rivolge al presidente del Consiglio: “Conte ha fatto un errore a non venire qui, quando loro non ci ascoltano, fanno anche tanti pasticci”. Ospite del congresso è stato Antonio, rider napoletano per Deliveroo, che ha ricordato due colleghi morti nel 2018.

“Non saranno mai il sindacato del M5S”

“L’accordo nella Cgil è una soluzione saggia. Consente di valorizzare due dirigenti di grande spessore e grande capacità. Ed essendosi rotta da moltissimo tempo la cinghia di trasmissione tra partiti della sinistra e Cgil, chiunque sarà segretario del Pd avrà il compito di ricostruire il rapporto con il sindacato. Compito di uguale importanza per il segretario della Cgil”. Andrea Orlando, che adesso appoggia Nicola Zingaretti nella corsa per il Nazareno, non nasconde le difficoltà che ci sono state negli scorsi anni. E neanche la dialettica che promette di esserci tra i Dem e la Cgil di Maurizio Landini.

Quella di Landini è una leadership forte: un problema per un Pd in perenne ricerca di un’identità politica, con dubbie leadership in campo?

Considero Nicola Zingaretti un leader autorevole e capace. Il segretario del Pd, inoltre, sarà eletto da centinaia di migliaia di persone. Non vedo questo rischio di squilibrio.

La forte connotazione di sinistra di Landini può essere un problema?

Landini si è caratterizzato per posizioni radicali, ma anche per forti temi di pragmatismo. Ne ho apprezzato la concretezza quando abbiamo affrontato il commissariamento dell’Ilva. Il sindacato ha interesse ad avere un’interlocuzione utile con il mondo politico. Quando si è pensato di risolvere la questione rivolgendosi solo a una parte del centrosinistra si è potuto constatare i limiti di questa scelta.

Lei andò a prendere un caffè con Landini, nel momento della sua massima frizione con Renzi.

Con Landini si è sempre mantenuto un rapporto, che si è costruito sulla base di un lavoro comune: come dicevo prima la Fiom sul commissariamento dell’Ilva è stata molto costruttivo. Sono convinto che Landini ci sorprenderà per concretezza.

Vi muoverete insieme contro il governo?

Mi sembra abbastanza evidente la convergenza dei giudizi. Questo governo non affronta nessun problema del Paese, si approccia a povertà e disoccupazione con misure inadeguate. Io non ho mai creduto che Landini volesse portare la Cgil a essere il sindacato dei Cinque Stelle, visto che loro teorizzano e praticano la disintermediazione.

Ma il primo a farlo è stato Renzi.

Renzi l’ha più predicato, sbagliando, che praticato. Invece i Cinque Stelle hanno dichiarato l’obiettivo della destrutturazione del sindacato. Di Maio ha detto che intendeva mettere insieme ministero dello Sviluppo economico e del Lavoro per far sì che lavoratori e imprenditori non litigassero più. Un’impostazione neocorporativa che un sindacato (che vive perché interpreta il conflitto) non può accettare.

Il reddito di cittadinanza non è un tipo di misura che avreste dovuto fare voi?

Avremmo dovuto pensare prima e in maniera più ampia al Rei. Questo non ci esime dal criticare questo strumento: la finalità è giusta, ma produrrà gli effetti contrari.

Landini segretario della Cgil: sarà una “variabile” politica

Il segretario della Cgil sarà Maurizio Landini. E la novità costituisce una variabile che potrebbe animare il dibattito politico. La notizia, che circola ormai da mesi, ha trovato ieri la sua sanzione in un accordo al vertice del sindacato di Corso d’Italia.

Allo sfidante, Vincenzo Colla, viene infatti offerta la carica di vice-segretario in tandem con Gianna Fracassi, aretina, abilitata come avvocato, ma sindacalista da sempre e già interna alla segreteria confederale con Susanna Camusso. Era da molto tempo che nella Cgil non veniva ricoperta la carica di vicesegretario, in questo caso due, da quando questa modalità di organizzazione regolava i rapporti tra la componente comunista e quella socialista. Fu poi riesumata per la vicesegreteria di Guglielmo Epifani nella gestione Cofferati. Torna oggi per dare unità a una vicenda che sembrava scappare di mano.

La notizia dell’accordo circola al mattino, ma potrà essere ufficializzata solo verso le 12, per via di dissensi di dettaglio. Oltre alla vicesegreteria, infatti, l’accordo prevede che le componenti a sostegno di Colla avranno tre posti nella futura segreteria (oggi sono due) con il previsto ingresso del segretario dei Chimici, Emilio Miceli. Ma ieri sera su questo punto non c’era ancora pieno accordo. Altro tassello, la composizione del direttivo nazionale (179 componenti), il parlamentino sindacale e dell’Assemblea nazionale (302 componenti) a cui spetta, per statuto, l’elezione del segretario generale. Per i due organismi, che saranno votati oggi (la votazione di ieri sera è slittata per i problemi di composizione delle liste) si stabilisce una quota del 60-40 a favore dell’area di Landini.

Tutti vincitori, dunque. Colla ottiene una visibilità che prima non aveva: “Non potevamo spaccare la Cgil in un momento così delicato per il Paese”, dichiara alla stampa subito dopo il raggiungimento dell’accordo. Vince ovviamente Landini che sarà eletto con circa il 90% dei voti e che ottiene un risultato a cui nessuno pensava fino ad alcuni mesi fa. Si troverà in una segreteria in totale continuità con quella precedente, ma del resto la sua elezione sarà il frutto di un accordo politico con Camusso sull’autonomia del sindacato dalla politica e sulla centralità dei temi del lavoro. Ruolo riconosciuto dall’attuale segretaria della Fiom, Francesca Re David, che ha dato a Camusso “prova di grande coraggio, anche nel voler cambiare”. Susanna Camusso tra l’altro, potrebbe rimanere in segreteria – scelta inedita e inusuale– con l’incarico delle relazioni internazionali.

Ma Landini non è Camusso e il suo ruolo mediatico e di influenza dell’opinione pubblica si farà sentire. I messaggi di attenzione che sta ricevendo in queste ore non provengono solo dai lavoratori e dagli iscritti, ma anche dal mondo confindustriale e dal mondo politico, compreso il M5S. Sono messaggi riservati. Il governo ha preferito non presentarsi al congresso, ma ci sono.

Come segretario farà il suo debutto il 9 febbraio nella manifestazione unitaria organizzata con Cisl e Uil contro la manovra di Bilancio. Quindi contro il governo. Un ruolo che ha già ricoperto, ma che non sarà scontato. Quando fu eletto alla segreteria della Fiom stilò delle proposte concrete e chiese incontri a tutti i partiti e alle forze sociali. È prevedibile che faccia lo stesso anche adesso, magari chiedendo un faccia a faccia anche a M5S e Lega – che due estati fa lo voleva alla sua scuola-quadri – oltre che ai partiti della sinistra. Il personaggio ha una idea della Cgil che lavora a tutto campo per ottenere i risultati e che stabilisce un rapporto stretto e diretto con la base e con i lavoratori. La variabile Landini, quindi, potrebbe produrre queste novità: una figura pubblica e un tema, il lavoro, che irrompono nel dibattito costringendo gli altri, a partire dalla politica, a pronunciarsi. Chi lo conosce ricorda che Landini è “post-ideologico” e che al fondo delle sue scelte prevale il merito. E chi lo osserva con un occhio ai consensi elettorali sa che tra gli iscritti alla Cgil c’è una cospicua fetta di elettori del M5S e della Lega. Mondi che si sovrappongono in modo diverso da prima.

Il popolo sono me

Se non lo vedessimo sovente in tv o in fotografia, ma ne leggessimo soltanto i pensieri leggermente retrò, il professor Sabino Cassese ce lo immagineremmo con la parrucca bianca e il codino infiocchettato, il volto impomatato e il neo finto sotto il nasino, o meglio ancora con la tuba sul capo, la redingote un po’ lisa a coda di rondine, il panciotto con l’orologio a cipolla incatenato, il monocolo o gli occhialini a pince-nez, le babbucce di velluto cremisi misura 46-47 per tener comoda la gotta. Un perfetto cicisbeo del 7-800, di quelli che rientrarono a corte un po’ anchilosati, col girello e la flebo, dopo il Congresso di Vienna al seguito dei sovrani deposti dalla Rivoluzione e da Napoleone. Invece pare che il nostro sia un contemporaneo, anche se dalle sue recenti uscite non si direbbe: da quando il popolo (per non dire volgo, plebaglia, feccia) ha smesso di votare come dice lui, non passa giorno senza che l’arzillo misirizzi ci renda partecipi della sua diffidenza verso il suffragio universale, spaziando dal Corriere al Sole, dal Foglio a Repubblica, per tacer dei talk. L’estate scorsa fu tarantolato dall’improvvisa urgenza di dimostrare a edicole unificate che non era colpa di Autostrade se a Genova era crollato un ponte gestito da Autostrade su 43 cadaveri. E dunque guai se il governo avesse rinazionalizzato quel bene pubblico regalato alla Sacra Famiglia Benetton. Non gli faceva certo velo il fatto di aver seduto nel Cda di Autostrade dal 2000 al 2005, per 700 mila sudati euro tra gettoni di presenza e consulenze. La sua era una posizione ideale, sentimentale.

Ora, a levargli il sonno, è la riforma Fraccaro del referendum propositivo, che invece gli piaceva tanto quando la varò il governo Renzi col ddl Boschi-Verdini (che però si limitava a prometterla, rinviando tutto a una legge costituzionale tutta da scrivere), poi bocciato dagli italiani per tutt’altri motivi il 4 dicembre 2016. Intervistato da Repubblica, è “positivamente” sorpreso dal fatto che i 5Stelle abbiano “udito” degli “esperti” e il governo “cominci a rispettare la competenza”: si era fatto l’idea che questi aborigeni fossero fermi alla clava, alla pietra focaia e ai segnali di fumo dalle loro palafitte. Invece hanno addirittura accolto vari emendamenti delle opposizioni sul quorum. Ma questo non basta a restituirgli il sonno, perché purtroppo nei referendum, come del resto nelle altre elezioni, non votano solo lui e gli amici del circolo della canasta: vota nientemeno che “il popolo legislatore”. E questo è un bel guaio. Perché accade sempre più spesso che lui gli dica (al popolo legislatore) di votare in un modo e quello voti in tutt’altra maniera. Per sfregio.

In democrazia, di solito, il popolo ha sempre ragione, anche quando dà torto a Cassese. Invece, per Cassese, il popolo ha ragione solo quando dà ragione a lui. “Come assicurare quegli errori madornali che il popolo può fare (vedi la Brexit)?”, si domanda svegliandosi tutto sudato dal solito incubo. Un bel problema, non c’è che dire. Lui gliel’aveva detto, agli inglesi, di votare Remain. E quelli, dispettosi, gli han votato Brexit. Bisogna assolutamente “introdurre qualche limite esplicito (ad esempio di materia o relativo ad alcuni diritti indisponibili) per evitare errori che l’abuso dei referendum ha prodotto in California, per esempio”. Già, perché pure quelle merde dei californiani hanno l’abitudine di non leggere Cassese o, se lo leggono, di fare l’opposto. Dunque: dicesi “errore madornale” o “abuso dei referendum” quando il voto disattende le aspettative di Cassese; e dicesi “diritto indisponibile” qualsiasi cosa stia a cuore a Cassese. Purtroppo il referendum presenta altre controindicazioni: tipo il “carattere necessariamente dicotomico (si risponde solo sì o no)”: ma tu pensa. Ergo bisogna assolutamente prevedere altre caselle sulla scheda: “Boh”, “Ni”, “Forse”, “Magari”, “Casomai”. Ma non è finita: “quale effetto questo avrà sull’ipertrofia legislativa italiana, senza un limite alle leggi popolari?”. Giusto: siccome abbiamo già chi dice 150 mila, chi 300 mila leggi, tutte fatte dal Parlamento, come si può permettere al popolo legislatore di aggiungerne 3 o 4 all’anno? E “come possono promotori e popolo indicare i mezzi per farvi fronte?”. Non sia mai che facciano “come gli emendamenti di bilancio di Rifondazione comunista, che indicava sempre l’introduzione di un’imposta patrimoniale”: si rischierebbe una tassa equa, che prenda ai ricchi anziché ai poveri, Dio ne scampi.

E poi va tutelato il Parlamento “da tempo sotto attacco”: per i decreti e le fiducie a raffica degli ultimi 5-6 governi? No: “si pensi alla questione dei vitalizi”. In effetti applicare ai parlamentari le regole pensionistiche che essi hanno imposto ai non parlamentari è un attacco al Parlamento. E, se il nuovo governo fa le sue nomine senza consultare o nominare Cassese, è “occupazione dello Stato”. E se Di Maio accusa Bankitalia, che sbaglia sempre le previsioni, di sbagliare sempre le previsioni, è “meno democrazia”. E se si blocca un’opera inutile da 15-20 miliardi come il Tav, “ci vuole una partecipazione dei cittadini alle grandi decisioni collettive”. Cioè un bel referendum, che in quel caso – e solo in quello – non sarebbe un “errore madornale” tipo Brexit né un “abuso” tipo California. Ma solo se poi si vota come vuole lui. Se no, è nullo. Per evitare inutili equivoci e risparmiare centinaia di milioni a ogni referendum, basta un emendamento semplice ed efficace di due soli commi. Cassese non osa proporlo per un fatto di eleganza, ma si vede che ci tiene: “1. Hanno diritto al voto tutti i giudici costituzionali emeriti nati ad Atripalda (Av) il 20.10.1935 e nomati Sabino Cassese. 2. Sulla scheda, in luogo delle caselle per il Sì e il No, ne comparirà una sola con la dicitura ‘Come vuole Cassese’”.

Grazie a Tsitsipas c’è chi crede al predominio dell’estetica

Stefanos Tsitsipas è un panda, e come tutti i panda verrà amato da molti e al tempo stesso rischierà l’estinzione. Di sicuro l’habitat del tennis contemporaneo, pieno di muscolari banali e culturisti iper-atletici, non lo aiuterà. La sua sarà una vita agonistica per niente facile, e anche in questo risiede il suo fascino. Il suo approdo alle semifinali degli Australian Open è una notizia splendida e una sorpresa: non la più grande di uno Slam che è da sempre il più incline agli exploit, ma comunque un evento difficilmente prevedibile.

A dispetto di quello che si sta leggendo in questi giorni, Tsitsipas non è il nuovo Federer e neanche il più vincente tra i tennisti della nuova generazione. È casomai Alexander Zverev, più grande di un anno, il giovane destinato a divenir cannibale (anche se negli Slam per ora stecca). Vero è però che Tsitsipas, assieme al canadese Denis Shapovalov (1999), è il più divertente tra i nuovi talenti. Il più irrituale. E il meno banale. Ci sarebbe anche Kyrgios, classe (tanta, troppa) 1995, ma è troppo pazzo e ancor più dissipatore.

Tsitsipas è nato a Vouliagmeni il 12 agosto 1998. Madre russa e padre greco: è lui ad allenarlo. Numero uno del mondo juniores, è professionista dal 2016. Nel 2017 è entrato nei top 100 e un anno fa nei top 20, grazie al primo titolo Atp (Stoccolma) e alla finale al Master 1000 di Toronto. Lì, più giovane nella storia del tennis a riuscirci, ha battuto quattro top ten di fila: Thiem, Djokovic, Zverev e Kevin Anderson. In quei giorni, prima di andare a sbattere con quel Nadal che troverà domani in semifinale e contro il quale ha perso due volte su due, Tsitsipas ha dispensato tutto il suo tennis alieno e lunare. Sin dall’aspetto pare una scheggia impazzita che proviene dal passato dei McEnroe e Gerulaitis. Ricorda pure il tennista stralunato dei Tenenbaum, con quei capelli lunghi biondi da dio greco timido. Tsitsipas è dichiaratamente anacronistico e fa quasi strano vederlo giocare con le racchette di oggi e non con quelle di legno di Panatta e Bertolucci. La sua diversità è meraviglia estetica e al contempo condanna. Mentre quasi tutti picchiano come fabbri belluini, lui cesella assecondando il fronzolo. Non ha grande potenza, le sue risposte al servizio escono spesso mosce e il suo fisico pare orgogliosamente refrattario all’ostentazione di qualsivoglia muscolo. Ha un rovescio a una mano che canta e anela al divino, ma è un colpo che richiede più preparazione e nei campi veloci non sempre ha il tempo di sguainarlo. Il dritto ha un movimento tutto suo come il servizio: sono fondamentali in cui ora brilla e ora balbetta, dotati di una meccanica personalissima e umorale. Come quasi tutto, nel suo gioco. Compreso quel suo andare a rete come un ossesso naif senza elmetto.

Lì, con movimenti sincopati da piccola piovra ellenica, riesce chissà come a coprire tutta la rete. Gli altri lo crivellano con passanti cinicamente vili, e lui prende quasi tutto. Non di rado, si tuffa per raggiungere la pallina e incentivare l’applauso. Che arriva, perché uno come Tsitsipas non puoi non adorarlo. A Melbourne ha cominciato il suo cammino da testa di serie 14 perdendo il primo set al tie-break con Berrettini, il nostro prospetto più bello.

Nessuno, in quel momento, lo avrebbe immaginato in semifinale. E invece c’è arrivato, giocando benissimo i momenti chiave e prendendo i treni della vita che passavano. Troicki, Basilashvili, Federer e ieri Bautista Agut. Una vittoria pesantissima, perché dopo le imprese capita quasi sempre che l’underdog fallisca la prova del 9. Oltretutto Bautista Agut è uno dei giocatori più solidi, e dunque tignosi, e quindi brutti, del circuito. Con questa semifinale Tsitsipas è già 12 al mondo: se vincerà domani, entrerà nei top ten. Il miglior Tsitsipas può unire la bellezza dello Shapovalov più incantato alla solidità dello Zverev più efferato, ma non sarà sempre così. Ecco perché la sua vittoria con Federer non può essere paragonata al passaggio di consegne tra Roger e Sampras a Wimbledon 2001. Federer è più completo, più perfetto e più dittatoriale. Si somigliano però nell’aspetto più importante: si ostinano a credere ancora al gesto bianco. Al predominio dell’estetica. Non è che Tsitsipas sia l’erede di Federer: più esattamente, sarebbe bello che lo fosse. O che anche solo, con l’altro panda Shapovalov, ci ricordasse di continuo come il tennis possa essere non solo sport del diavolo ma talora pure degli dei. Greci o canadesi che siano.

“Paranoia Airlines”, il lato più pop di un Fedez “volutamente cupo”

Nella testa di Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, c’è una gran voglia di reinventarsi. Questa è la prima impressione dopo aver ascoltato in anteprima il nuovo album Paranoia Airlines, in uscita questo venerdì. I più veloci nell’acquisto online e i partecipanti ai firma-copie riceveranno una collezione creata apposta dai Ferragnez in collaborazione con Diesel. Questo perché oggi, un certo tipo di musica interagisce sempre di più con i brand (alla presentazione stampa di ieri a Linate presenti anche Spotify e Amazon, ciascuno con una iniziativa). I grandi marchi corteggiano rapper e trapper – ricordiamo solo Gucci con Ghali – e, di fatto, hanno sostituito le entrate economiche derivanti – un tempo – dalle vendite di dischi (con lo streaming si guadagna poco). Paranoia Airlines è un album definito da Fedez “intenzionalmente cupo”, teso ad esorcizzare paure e patologie nelle quali molti potrebbero ritrovarsi: “Il fatto di vivere in una condizione elitaria – seppur guadagnata – non significa non avere delle zone d’ombra. Io ne sono affascinato rispetto alla gioia ingiustificata verso la vita”.

È quasi impossibile scindere Fedez dai gossip (l’ultimo riguarda Fabrizio Corona), social esasperati e sovraesposizione (“X Factor? Non ho ancora deciso cosa fare”). L’album è prodotto da Michele Canova, entrato dalla porta della trap con la supervisione dell’ultimo disco per la Dark Polo Gang (presenti nell’ultima traccia chiamata “Tvtb”, un divertissment) e accreditato da oggi anche nel rap (nonostante Fedez racconti di sentirsi più vicino al post-punk). Canova è la mente dietro tutte le collaborazioni, esclusa quella con Emis Killa. Il risultato – tenendo conto anche di tre tracce prodotte da Takagi & Ketra – è un album pop, soprattutto per i brani più eleganti e riusciti, quelli con Lp e Zara Larsson: “Holding Out For You” stenta ad imporsi nelle classifiche di vendita e streaming, forse troppo raffinata rispetto a “Italiana” e “Vorrei ma non posto”. Il duetto con Emis Killa è un’altra delle canzoni più valide, nata da un’amicizia e una sana competizione, sviluppata dall’età di sedici anni e portata avanti sino al traguardo di un figlio appena arrivato per entrambi: “Kim & Kanye West” è un piccolo spaccato di ciò che di più genuino c’è nel Dna di Fedez. Eppure non sembra molto attento ad altri suoi contemporanei: “Il nuovo disco di Salmo? Non l’ho ancora sentito. Quello di Sfera come si chiama?”. Charlie Charles (produttore di Sfera e altri talenti emergenti della scena) e Sick Luke (autore dei beat della Dark Polo Gang tra cui “Cambiare adesso”, veramente innovativa) sono i nuovi fari, i mentori più richiesti sul mercato, oppure si guarda oltreoceano: “Non ho i soldi per permettermi un produttore famoso, ci vorrebbe una milionata”, chiosa Fedez. Con Comunisti con il Rolex– grazie anche all’apporto e all’esperienza di J-Ax – l’artista ha riempito lo stadio di San Siro; difficile, quindi, colmare un vuoto così grande. Paranoia Airlines va ascoltato come un album di transizione, per stessa ammissione dell’artista (“non voglio lavorarci per tre anni”) e senza troppe aspettative commerciali (“se non venderà un cazzo non me ne frega niente”). La politica è quasi assente: “Rispetto ai tempi di Pop-Hoolista oggi io guardo con la consapevolezza che abbiamo un governo espressione della maggioranza degli elettori. Non mi va di fare la canzone ‘Salvini è uno stronzo’ perché gli italiani erano perfettamente consci di ciò che avrebbe fatto. Questo accordo è stata una scelta saggia e intelligente. Io ho detto che i 5stelle sono i meno peggio tra tutti; vedo parecchia confusione, hanno promesso tante cose e sono parecchio complicate. È stato abbattuto un sistema clientelare, ma rimando la mia analisi a un futuro prossimo”. È previsto un tour nei palazzetti (“non l’ho mai veramente fatto”) a partire da marzo, la data di Milano è già sold out.

Netflix, Lee, i supereroi: sono gli Oscar da prime volte

Novantunesimi Academy Awards, guidano Roma di Alfonso Cuarón e La favorita di Yorgos Lanthimos, ma è lungi dall’essere una partita a due.

Dieci le nomination ex aequo per il dramma in bianco e nero del regista messicano e il triangolo cortigiano del cineasta greco (due stranieri, da quanto non accadeva?), ma dentro ai giochi sono anche A Star is Born, esordio alla regia di Bradley Cooper, e Vice di Adam McKay, appaiati con otto candidature. E non è detto che la Notte degli Oscar, in programma il prossimo 24 febbraio, non possa esaltare il superhero movie Black Panther, capace di sette statuette potenziali, oppure BlacKkKlansman di Spike Lee a sei, senza dimenticare il tandem Green Book – scommetteteci un euro – e Bohemian Rhapsody con cinque candidature. Sono i magnifici otto che competono nella categoria più ambita, quella del Best Picture, dove peraltro troviamo novità ed exploit di assoluto rilievo.

Il primato Netflix. Il servizio streaming può esultare: dal 2014, con The Square, sin qua aveva incassato quattordici nomination, quest’anno ne fa quindici in una volta sola, complici Roma e The Ballad of Buster Scruggs (3) dei fratelli Coen. Il memoir di Cuarón garantisce alla società di Los Gatos un tot di primizie: l’agognata candidatura a miglior film, e anche quelle per regia, attrice protagonista (Yalitza Aparicio), sceneggiatura originale, film in lingua straniera, scenografia, nonché sound editing e mixing. Viceversa, non sono inedite in casa Netflix quelle per l’attrice non protagonista (Marina de Tavira) e la fotografia, dello stesso Cuarón. I notisti americani hanno stigmatizzato un altro record di Roma: è il primo “best picture nominee” per cui non ci sono incassi, o almeno mancano i dati, giacché è stato distribuito tra Los Angeles e New York su appena cento schermi, e nemmeno rendicontati.

Cuarón, Trump e gli #OscarsSoMexican.Alfonso di statuette ne ha già messe in bacheca due, per la regia e il montaggio di Gravity nel 2014. Con Roma fa un record in prima persona singolare – è appena il quinto nella storia degli Oscar a ottenere per un solo film quattro nomination in altrettante categorie – e si associa al polacco Pawel Pawlikowski, autore di Cold War (Amazon), per un secondo: entrambi sono candidati per regia e fotografia. Non solo, era dal 1966 che due film in bianco e nero non trovavano posto nella seconda categoria. Sia Pawel che Alfonso, si capisce, concorrono per il miglior titolo in lingua straniera. Sul versante sovra-interpretazioni, viceversa, troppo ghiotta è parsa la contingenza dello shutdown, ovvero dell’opposizione al muro tra Messico e Usa che Trump fortissimamente vuole, perché più di qualcuno non addebitasse agli ottomila e passa membri dell’Academy una scelta politica, segnatamente anti-The Donald, nella predilezione di Roma. Basti ricordare, a questi commentatori improvvisati, che l’hashtag #OscarsSoMexican ha qualche anno, e che nell’ultimo lustro, prevalentemente obamiano, ben quattro messicani hanno vinto l’Oscar per la regia: Cuarón con Gravity, Alejandro González Iñárritu con Birdman nel 2015 e Revenant nel 2016, Guillermo del Toro con La forma dell’acqua nel 2018. Del resto, li chiamano i Three Amigos, Hollywood l’hanno già conquistata.

La prima volta di Spike Lee. Incredibile ma vero, Spike Lee non aveva mai preso una candidatura per il miglior film, né per la regia: BlacKkKlansman – candidato anche per lo script non originale – lo ricompensa, ed era ora. Iconico e influente quanto volete, Spike, eppure in carnet può vantare solo l’Oscar onorario del 2016, nonché le nomination per la sceneggiatura di Fa’ la cosa giusta (1989) e il documentario 4 Little Girls (1997).

I supereroi, finalmente. Black Panther è il primo film di supereroi a trovare posto nella categoria Best Picture, che fu allargata da cinque a dieci titoli – e quindi rettificata tra cinque e dieci – dopo l’incredibile esclusione proprio di un superhero movie, The Dark Knight di Christopher Nolan, due lustri or sono. Giustizia è fatta, e ci piace più pensare a quello che a questo, di titolo supereroico.

Venezia vincit omnia. Se a rappresentare l’Italia è anche Sara Pichelli, fumettista classe 1983 di Porto Sant’Elpidio, nel team di disegnatori dell’animazione – favorita – Spider-Man: Un nuovo universo, la Mostra di Venezia si conferma “il” trampolino degli Oscar: trentanove le nomination per i titoli passati in Laguna.

@fpontiggia1

Zimbabwe, otto morti nelle proteste per i rincari

Sono almeno otto le vittime della brutale repressione delle forze di sicurezza dello Zimbabwe contro i manifestanti che da due settimane protestano per i rincari della benzina e dei beni di prima necessità. Il presidente Emmerson Mnangagwa ha definito “inaccettabile” la violenza usata dalla polizia e dai militari per poi lanciare un appello per un “dialogo nazionale” tra i partiti politici.

Ma l’opposizione nel paese africano, governato per decenni con il pugno di ferro dal dittatore Robert Mugabe, è stata di fatto talmente indebolita che difficilmente sarà in grado, anche qualora lo volesse, di sedare la rabbia della popolazione. Mnangagwa, già vicepresidente, è diventato capo dello Stato nel novembre del 2017 promettendo agli elettori di far uscire il Paese dalla devastante crisi economica che negli anni ha causato un’inflazione stratosferica. Fu lui a spingere per ottenere le dimissioni di Mugabe in seguito al golpe dell’esercito il 15 novembre di due anni fa. L’apertura, per ora solo a parole, a un dialogo nazionale è stata annunciata poche ore dopo il rientro anticipato in patria del presidente dalla località svizzera di Davos dove si tiene l’annuale forum internazionale. Dopo aver lasciato Davos senza poter partecipare ad alcuna riunione, Mnangagwa ha sottolineato che il caos e l’insubordinazione tuttavia non saranno tollerati e ha difeso il pesante aumento del prezzo dei carburanti. Lo ha reso noto oggi la Commissione per i diritti umani dello Zimbabwe, che non è del tutto indipendente essendo appoggiata dal governo.

Nel suo rapporto, la Commissione ha comunque criticato l’uso dell’esercito e di proiettili veri per reprimere le proteste e ha sottolineato che il governo non ha imparato nulla dalla repressione post-elettorale di agosto in cui morirono sei persone.

La Commissione ha inoltre commentato che il governo dovrebbe risarcire le famiglie delle vittime della violenza da parte di soldati e polizia. Le settimana scorsa assieme al costo della benzina sono raddoppiati i prezzi di alcuni generi alimentari di base e dei biglietti per i trasporti pubblici nella capitale Harare.

Nel 2016 erano state introdotti titoli obbligazionari a causa della carenza di dollari Usa e Rand sudafricani, le principali valute utilizzate quotidianamente al posto della moneta locale diventata carta straccia a partire dal 2009. Ma l’inflazione ha continuato a salire facendo perdere valore alle obbligazioni e di conseguenza la maggior parte delle persone ha ripreso a cercare i dollari statunitensi e persino l’EcoCash, un sistema di pagamento per i telefoni cellulari.

La spaventosa crisi economica ha spinto migliaia di abitanti dello Zimbabwe a espatriare nel limitrofo Sudafrica alla ricerca di un lavoro. Non avendolo trovato, sono costretti ad arrangiarsi andando ad aggiungersi ai tanti disoccupati del paese vicino. Per timore di una nuova ondata migratoria, il presidente Ramaphosa sembra determinato a trovare una soluzione, sottolinenado che la crisi è una sfida non solo per lo Zimbabwe, ma per l’intero continente. Il presidente sudafricano presente a Davos ha inoltre chiesto che la comunità internazionale rimuova le sanzioni economiche inflitte a più riprese per depotenziare Mugabe.

Intanto nelle strade dello Zimbabwe sembra essere tornata una certa normalità, ma i soldati continuano a pattugliare i quartieri più poveri delle principali città.

Il sogno di uno Zimbabwe democratico e meno povero è ancora molto lontano dall’avverarsi.