La provocazione di Drouet: la notte dei Gilet gialli

“La notte gialla. Preparatevi”: la promessa da parte di Eric Drouet di una nuova forma di mobilitazione dei Gilet gialli se l’Eliseo non ascolta le loro richieste, suona come una minaccia per Emmanuel Macron. Con una lettera sulla pagina Facebook del movimento “La France en colère”, il camionista di 33 anni, uno dei principali portavoce del movimento, ha chiesto di incontrare il presidente e lanciato l’ultimatum: “Monsieur le Président – ha scritto – più volte, negli ultimi due mesi le abbiamo chiesto un incontro. Stiamo ancora aspettando che ci risponda. Una nuova era sta iniziando e gli impatti economici saranno più forti. Può ancora evitare un aggravamento della situazione, ma se resta sulle sue posizioni il popolo riprenderà il potere”.

I Gilet manifestano tutti i sabati dal 17 novembre e l’atto 11 del 26 gennaio è già in programma ora che la protesta torna a crescere. Per due sabati di seguito ha riunito 84 mila persone in tutta la Francia, secondo i dati del governo, ma per i Gilet erano più di 100 mila. “Questi ultimi sabati sono stati calmi, le manifestazioni dichiarate. Ma molti Gilet perdono la pazienza. Capirà allora, signor presidente – minaccia ancora Drouet – che le prossime settimane si annunciano dure. I Gilet gialli possono manifestarsi a ogni istante e ovunque”. Ai più radicali tra loro Drouet parla tutti i giorni nelle sue live Facebook filmandosi al volante del camion. È uno degli iniziatori del movimento e anche uno dei più controversi. L’8 dicembre, nello studio di BFMTv, aveva invitato i dimostranti a “occupare” l’Eliseo e il governo lo aveva accusato di fomentare un colpo di Stato. Da allora è guardato a vista ed è stato arrestato due volte per “porto d’armi illecito” (è stato trovato con un bastone) e per “organizzazione di una manifestazione non autorizzata”. I suoi messaggi sono al limite di incoraggiare la violenza: “Le manifestazioni in giornata vanno bene, ma non è così che si cambiano le cose. La notte è più complicato, va a finire male”, ha detto dopo aver postato la sua lettera a Macron. Ai “più fragili” e ai “feriti” ha consigliato di restare a casa la notte. In ogni caso ogni volta che il barbuto Gilet ha guai con la giustizia sembra che il movimento riparta più forte.

Prende le sue difese anche il leader della sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon, che lo chiama “Portavoce del popolo” e lo corteggia spudoratamente sperando di richiamarlo nei ranghi della France Insoumise.

Drouet non crede neanche al “dibattito nazionale” lanciato da Macron per risolvere la crisi sociale. Dopo aver incontrato i sindaci della Normandia e dell’Occitania, il presidente sarà domani in Alvernia, a Valence. Per Drouet solo un altro tentativo di “addormentare i francesi”. Per ora il dibattito è la sola soluzione che Macron è riuscito a trovare. E l’esercizio, in cui fa bella figura rispondendo a tutte le domande in dibattiti di 7 ore in diretta tv, lo sta aiutando a risalire nei sondaggi, di pochino – è al 27% di popolarità – ma per la prima volta da aprile. Non dovrebbe invece aiutare Macron con i sondaggi il viaggio di ieri a Aquisgrana, in Germania, per firmare con la cancelliera Merkel un nuovo trattato che rafforza l’intesa stretta da De Gaulle e Adenauer nel 1963, per favorire la cooperazione nel settore della difesa e dare nuovo impulso all’Ue. La protesta lo ha raggiunto anche lì, con decine di manifestanti in gilet muniti di fischietti, uniti al grido “Macron démission”.

Fra Brexit e nostalgie Irlanda di nuovo divisa? Ora la Nuova Ira recluta

“Derry è in stato di choc. Quelli della mia generazione, quaranta/cinquantenni, sono avviliti e preoccupati. Nessuno, nessuno vuole tornare alla violenza dei Troubles… Ma sui social ho visto ragazzi più giovani esultare per quello che è successo sabato. Non hanno idea di cosa è stato”.

Mary è cresciuta a Derry nel periodo dei Troubles, prima di trasferirsi a Londra per il suo lavoro di giornalista. All’immagine delle violenze settarie vuole sovrapporre quella della Derry di oggi, la città dei Festival e della rinascita sociale e culturale.

Ma l’autobomba esplosa sabato sera nel centro della città ha smosso antiche paure mai completamente sopite, malgrado la sostanziale pace garantita nel 1998 dagli Accordi del Venerdì santo che hanno messo fine alla lunga guerra civile in Ulster.

Secondo gli investigatori, l’autobomba sarebbe stata piazzata di fronte al tribunale cittadino dalla New Ira, una formazione paramilitare che la polizia nord-irlandese da tempo considera “la più grave minaccia” per una città al centro di alcuni dei più sanguinosi scontri fra nazionalisti repubblicani e lealisti fedeli alla Gran Bretagna. E la sigla New Ira, finora quasi sconosciuta, ha fatto il giro del mondo.

“Con gli accordi di pace, l’Irish Republican Army e il suo braccio politico Sinn Fein hanno abbandonato la lotta armata in favore di quella politica, e il Sinn Fein è cresciuto fino a diventare un attore politico fondamentale in Irlanda – spiega al Fatto William Matchett, agente dell’intelligence militare britannica durante i Troubles e ora ricercatore all’Edward Kennedy Institute for Conflict Prevention della Maynooth University, vicino Dublino – ma per alcuni dissidenti repubblicani quegli accordi sono una svendita della causa indipendentista, un tradimento del sacrificio di quanti hanno perso la vita per liberare l’Ulster dall’occupazione britannica. La New Ira fa parte di una galassia di piccole formazioni paramilitari decise a continuare la lotta armata. Si tratta quasi certamente di un’alleanza fra vecchi terroristi e nuove leve. I primi passano ai secondi la loro esperienza in azioni terroristiche. Ma la loro capacità militare è minima rispetto alla vecchia Ira. Non c’è nessun rischio di un ritorno di quel livello di violenza”. Per Matchett, la forza militare della New Ira sarebbe molto ridotta, fra i 10 e i 20 elementi attivi. Dieter Reinisch, che studia i postumi dei Troubles da 15 anni, parla di due o tre dozzine di elementi armati. Ma punta l’attenzione su un altro tipo di supporto, molto più ampio. L’attentato a Derry non è stato rivendicato dalla New Ira, ma mezz’ora dopo i fatti sul sito di Saoradh, il Revolutionary Irish Republican Party, è comparso un comunicato che celebrava l’azione dei Rivoluzionari repubblicani nel centenario dell’imboscata di Soloheadbag, considerata l’inizio della guerra di indipendenza contro gli occupanti britannici.

Il Saoradh è una formazione recente, creata da ex militanti delusi dalla politica del Sinn Fein. Ufficialmente i suoi leader negano ogni associazione con la New Ira, ma secondo Reinisch il Saoradh è il braccio politico dell’organizzazione armata, cui fornirebbe supporto logistico, nell’ordine di alcune centinaia di fiancheggiatori, a cui si aggiunge qualche migliaio di simpatizzanti. Sono popolari in zone molto povere di Derry come Bogside, Creggan and Shantallow, comunità repubblicane dove i benefici degli accordi di pace non sono mai arrivati e il Sinn Fein non entra. E arrivano segnalazioni di allarme da alcune scuole della zona, che riportano attività di reclutamento di giovanissimi. La roccaforte del Saoradh è Derry, ma il partito, che ha anche una sezione giovanile, si sta espandendo anche a Belfast e Dublino.

Oltre al sostegno a operazioni armate, i leader del Saoradh sono pronti a sfruttare a loro vantaggio l’ipotesi di una hard Brexit: “Dal nostro punto di vista la Brexit è stata una manna dal Cielo… può spaccare lo Stato britannico. Il ritorno di un confine fisico porterà inevitabilmente alla ripresa della resistenza contro l’occupazione britannica. Qualunque tipo di posto di blocco al confine verrà attaccato”.

Parole che risuonano forti e chiare nel vacuum politico in cui si trova l’Irlanda del Nord, senza un governo da due anni, da quando i due partiti principali, il DUP e il Sinn Fein, hanno rotto senza mai recuperarlo il delicato equilibrio di potere sancito dagli accordi di pace.

Con gli unionisti irlandesi che tengono in effetti in piedi il governo di Theresa May, la Gran Bretagna non è più vista come garante terzo di quegli equilibri, e dal punto di vista dei dissidenti repubblicani il Sinn Fein non fa abbastanza per opporsi allo strapotere degli unionisti.

Per Reinisch, l’autobomba di sabato va letta in questo contesto. “È un grosso successo simbolico, perché non ha ucciso nessuno ma ha dimostrato al mondo che la New Ira esiste e può colpire una istituzione britannica nel cuore della città. Pochi mesi fa, la polizia ha trovato un grosso deposito di armi dei dissidenti repubblicani. Sembrava un colpo mortale.

La New Ira non ha la forza militare e logistica per attacchi più gravi, ma ha dimostrato di non essere finita. E questo potrebbe accelerare il reclutamento di nuove leve”.

Un’economia mondiale meno aperta non è una cattiva notizia

Dani Rodrik è uno degli economisti più famosi del momento, ad Harvard studia l’intreccio tra globalizzazione e democrazia. Einaudi pubblica un libro che rielabora i suoi interventi più recenti ed è un contributo utile ai grandi dibattiti di oggi. La tesi: le reazioni populiste e nazionaliste alla “iperglobalizzazione” non sono una patologia, ma l’effetto inevitabile di un equilibrio insostenibile. L’idea che un commercio mondiale sempre più integrato avrebbe permesso l’industrializzazione e il progresso di tutti i Paesi, inclusi quelli che partivano da più indietro, si è rivelata falsa. Per questo, invece che denunciare l’ondata di protezionismo, bisognerebbe cogliere l’occasione per definire un nuovo equilibrio, che riconosca un ruolo allo Stato-nazione e la legittimità di alcune barriere, specie se a tutela delle parti più fragili della società. Rodrik sa di correre il rischio di essere classificato come un collaborazionista, membro dell’élite globale che legittima le tesi populiste, ma crede che sia più importante un dibattito onesto.

Precari della ricerca pubblica, fondi sbloccati ma poche stabilizzazioni

All’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) la stagione del precariato storico non è finita. Circa 150 ricercatori, pur con i requisiti per essere assunti a tempo indeterminato, sono stati esclusi dalle stabilizzazioni che l’ente ha effettuato in autunno. Il coordinamento dei Precari uniti Infn parla di un’ingiusta discriminazione e venerdì mattina terrà un presidio di protesta. Ancora studiosi precari in piazza, insomma.

I laboratori dei 22 enti di ricerca pubblica che operano per il ministero dell’Istruzione, in particolare il Cnr che è il più grande, sono affollati da personale a termine. C’è chi “vanta” oltre dieci anni con contratti a scadenza. Al punto che è nato il concetto di precariato storico, che l’ex ministro della Funzione pubblica Marianna Madia voleva cancellare. La legge approvata nel 2017 permette (non obbliga) agli enti di stabilizzare i precari con almeno tre anni di anzianità. Automaticamente per i dipendenti a tempo determinato; attraverso concorsi riservati per i titolari di co.co.co e per gli assegnisti di ricerca. Il Cnr ha già stabilizzato 1.200 del primo gruppo e fatto un concorso interno vinto da 700 del secondo gruppo, che aspettano l’assunzione (e manifesteranno il 30 gennaio per chiedere un’accelerata). I vertici dell’Infn, invece, in un primo momento avevano cercato di usare la norma solo per assumere i tecnici e amministrativi, stabilendo che per far entrare stabilmente i ricercatori l’unica via sia quella del concorso aperto anche all’esterno.

Poi il governo ha stanziato 4,4 milioni di euro, obbligando l’ente a metterne a disposizione almeno altri 2,2 dal bilancio proprio vincolando il totale di 6,6 milioni alle stabilizzazioni. Allora l’Infn ha usato quei fondi per rendere permanenti i contratti di 170 precari, tra i quali 76 tra ricercatori e tecnologi. Ad avere i requisiti di legge, però, erano circa 320. Cinquantuno ricercatori sono stati esclusi perché raggiungevano l’anzianità di tre anni sommando i periodi passati con assegno di ricerca e quelli con contratto a termine.

La legge, però, garantisce anche a loro il diritto all’assunzione e infatti uno di loro ha avuto ragione dopo un ricorso al Tar (che l’Infn ha impugnato al Consiglio di Stato). Un altro centinaio invece è formato da chi ha maturato il requisito con almeno tre anni di assegno di ricerca. Questi, come detto, possono per legge essere stabilizzati con concorsi riservati, che però l’Infn non sembra intenzionato a fare. Nonostante nel frattempo il governo abbia vincolato alle stabilizzazioni altri 15,7 milioni di euro del fondo di finanziamento statale: una cifra che permetterebbe davvero di assumere tutti i precari storici.

E-fattura, il falso mito della lotta all’evasione

L’avvio della fatturazione elettronica sta confermando le preoccupazioni che molti avevano manifestato: il sistema produttivo italiano appare in larga parte impreparato e in difficoltà con i nuovi adempimenti, per ora scaricati su commercialisti e consulenti. Alcuni, ottimisticamente, ritengono che si tratti di un inevitabile periodo di rodaggio, e che i tanti casi di malfunzionamento segnalati si risolveranno con l’andare del tempo. Certo è possibile che alcuni degli inconvenienti riscontrati possano trovare soluzione in aggiustamenti dei software applicativi e adeguamenti organizzativi; resta tuttavia l’impressione di una clamorosa sottovalutazione dell’impatto che un così pervasivo e generalizzato obbligo sta provocando, nonché delle sue indesiderate conseguenze. Ma alcune di queste sembrano proprio difficilmente confutabili.

Tempi e costi di predisposizione ed emissione delle fatture elettroniche sono a oggi sensibilmente superiori a quelli delle fatture cartacee. Alcune imprese stanno ribaltando questi costi, in modo palese o sotto forma di aumento dei prezzi, sui clienti; altre, pongono in essere pratiche ostruzionistiche di fronte alla richiesta della fattura, al limite anche rifiutandosi di eseguire la prestazione. Le difficoltà di emissione delle fatture e/o il loro “scarto” da parte del Sistema di Interscambio (SdI), per ragioni irritanti e a volte insormontabili, creano un terreno fertile per accordi tra fornitore e cliente – quando la loro flessibilità organizzativa lo consente – volti alla gestione “in nero” dell’operazione, o portano a rinunciare alla richiesta della fattura con perdita della detrazione. La non contestualità tra il momento di invio della fattura allo SdI e il ricevimento della stessa da parte del cliente genera incertezze sul momento (e sullo stesso sorgere) del diritto a operare la detrazione. La possibilità per gli intermediari di emettere fatture per conto di altri soggetti potrebbe prestarsi, come alcuni hanno segnalato, a utilizzi frodatori, con generazione di fatture “soggettivamente” false (con creazione di documenti elettronici a nome di un soggetto diverso da quello che ha posto in essere l’operazione), o peggio ancora false “oggettivamente”, con creazione di documenti a fronte di transazioni mai avvenute. La fatturazione elettronica, che dovrebbe scongiurare l’evasioni Iva, rischia insomma di fallire l’obiettivo, mettendo un’ipoteca sulla riuscita dell’operazione. L’Italia, per estendere gli obblighi di fatturazione elettronica anche tra privati, ha infatti ottenuto dall’Unione europea una deroga fino al 2021: da lì in poi occorrerà fornire la dimostrazione che lo strumento ha consentito un recupero dell’evasione, soppesandolo con i costi dell’adempimento per le imprese. Ma l’esito non sembra affatto scontato. È ovvio che la fatturazione elettronica non incide sull’evasione al consumo finale connessa a pagamenti in nero (chi non emetteva fatture cartacee non le emetterà nemmeno elettroniche).

Più complessa è invece la questione con riguardo all’evasione Iva negli scambi intermedi. La “catena” di adempimenti Iva nei rapporti tra operatori economici, in cui il documento del fornitore consente al cliente la detrazione, stimolandolo a chiederne l’emissione, è in prima battuta un presidio antievasivo, che tuttavia entra in crisi in caso di accordo tra fornitore e cliente (che occultando i propri acquisti può più agevolmente occultare anche le vendite), o anche in assenza di accordo laddove il fornitore ometta di registrare la fattura e/o di versare l’imposta. Ora, il primo tipo di evasione non può emergere da controlli incrociati, nemmeno se basati su fatture elettroniche, visto che i dati trasmessi sarebbero per definizione tra loro coerenti.

L’evasione senza consenso del cliente può invece essere scoperta grazie alle informazioni da esso fornite. Queste erano però già disponibili all’amministrazione grazie alle comunicazioni Iva e ai dati delle liquidazioni periodiche, rispetto alle quali non è chiaro che cosa consentirà in più di ottenere la fatturazione elettronica. Ammessa la possibilità di incroci in tempo reale, qual è il loro senso dato che l’evasione Iva si materializza al momento dei versamenti mensili o trimestrali? Non era sufficiente affinare le Comunicazioni Iva, già molto analitiche? Forse l’intento è di far leva su immodificabilità e maggiore “affidabilità” delle fatture elettroniche, rispetto alle comunicazioni Iva, che potrebbero essere compilate erroneamente.

Come l’evidenza empirica insegna, tuttavia, la deterrenza prodotta da informazioni incrociate non è sufficiente a impedire l’evasione, se non accompagnata da effettivi controlli dell’autorità fiscale. A fronte di eventuali anomalie occorrerà stabilire chi sta riportando il dato correttamente, ma le limitazioni imposte dal garante della Privacy nell’uso dei dati, la mancanza di una profilazione dei contribuenti e di un’analisi del rischio, nonché l’esclusione dei contribuenti forfettari dall’obbligo di fatturazione elettronica, con conseguente incompletezza della base-dati non forniscono sufficienti garanzie rispetto all’eventualità che l’enorme giacimento di fatture elettroniche rimanga inutilizzato, come accaduto per l’anagrafe dei conti bancari. Se costi e disagi della fatturazione elettronica sembrano innegabili, preoccupa il fatto che la stessa potrebbe paradossalmente innescare comportamenti evasivi, mentre i benefici attesi sono sulla carta e ancora tutti da dimostrare.

Tim, pesante calo in Borsa: ai minimi dal 1993. Nuove accuse di Vivendi

Ancora sotto pressione il titolo Tim che in Borsa cede il 6,24% dopo aver toccato un nuovo minimo storico a 0,441 euro, come nel 1993. A pesare sulle azioni dell’ex monopolista contribuiscono l’incertezza legata allo scorporo della rete dopo la bocciatura dell’Agcom al progetto di separazione volontaria presentato a suo tempo dall’ex ad Genish, ma anche le caute prospettive per l’anno in corso. A ciò si aggiunge lo scontro sulla governance tra i due principali azionisti: la francese Vivendi (che aveva spinto il progetto bocciato dall’authority) e il fondo Elliott, favorevole invece alla separazione delle due attività. Le ultime indiscrezioni suggeriscono che sarà convocato un tavolo sull’ipotesi di rete unica tra Telecom Italia e Open Fiber. E, mentre continua il braccio di ferro, cresce l’attesa per l’assemblea dei soci del prossimo 29 marzo, quando saranno chiamati ad esaminare la proposta di Vivendi di revoca di cinque consiglieri supportati da Elliott, il bilancio d’esercizio del 2018 e la relazione sulla remunerazione.

Farmaci di fascia C, la liberalizzazione salta anche dal dl Semplificazioni

Escono dal dl Semplificazioni i sei emendamenti bipartisan “per semplificare l’acceso al farmaco e stimolare lo sviluppo del settore” che avrebbero assicurato ai farmacisti iscritti all’Albo almeno il 51% delle quote delle società di capitali proprietarie di farmacia e la liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C con obbligo di ricetta (ma a carico del cittadino), consentendo la vendita anche nelle parafarmacie e nei corner della Gdo. L’apertura continua a sliattare dal 2012. Ora a pesare sulla decisione c’è un testo di legge ad hoc sulle parafarmacie che sarebbe allo studio, ma che – secondo l’accusa della maggioranza delle sigle sindacali del settore – è frutto di un lavoro “elaborato non da tavoli rappresentativi, ma da una sola sigla”, espressione di Federferma (farmacie) e non delle parafarmacie. Intanto ieri si è trattato ancora sulle trivelle con l’obiettivo di chiudere in nottata.

Palazzo Chigi (e M5S) stringe la presa sul digitale

L’assalto dei Cinque Stelle a quello che si può definire “digitale di Stato” ha forse il suo apice in un emendamento al decreto Semplificazione, in discussione in commissione Affari Costituzionali e Lavori Pubblici in Senato. È l’8.500, firmato dai relatori Daisy Pirovano della Lega e Mauro Coltorti dei Cinque Stelle ed è importante perché consegna ai grillini l’Agenda digitale. Una partita importante per il Movimento e per la Casaleggio.

Stabilisce, infatti, la fine dell’attuale Commissario per la digitalizzazione e ne porta tutti i poteri nelle mani del presidente del Consiglio. “A decorrere dal 1 gennaio 2020, al fine di garantire l’attuazione degli obiettivi dell’Agenda digitale italiana (…) sono attribuiti al presidente del Consiglio dei ministri o al ministro delegato che li esercita per il tramite della struttura della Presidenza del Consiglio dei ministri dallo stesso individuate, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze per le materie di sua competenze”, si legge nel testo. La figura del commissario straordinario per il digitale era stata voluta nel 2016 dall’allora premier Matteo Renzi per mettere ordine nella strategia digitale italiana e avviare soluzioni operative per l’applicazione dell’agenda digitale. Una figura che era già collocata a Palazzo Chigi e che aveva la libertà di nominare consulenti ed esperti di alto livello per sviluppare i progetti. Fu quindi Renzi a volere in quella posizione Diego Piacentini, l’ex senior vicepresidente di Amazon in aspettativa. E fu Piacentini a nominare il gruppo di esperti che da tre anni lavora sottola presidenza del Consiglio ma anche a stretto contatto con Agid (Agenzia per il digitale) e Sogei (inhouse del Tesoro).

La permanenza per altri due anni (durata del mandato per decreto) del commissario per il digitale, in verità non ha mai convinto il governo giallo-verde: la proroga, con la nomina di Luca Attias (già direttore generale dei sistemi informativi della Corte dei Conti) su indicazione di Piacentini serviva a non spezzare la continuità operativa del team digitale e dei progetti iniziati. L’idea ora è che, una volta conclusi e ‘stabilizzati’ i progetti, non sia più necessario un commissario perché il digitale entrerà nella macchina di governo. Dettaglio: nella parte centrale il testo prevede che il presidente del Consiglio o il ministro delegato si avvalgano di “un contingente di esperti messi a disposizione delle strutture” che siano “in possesso di specifica ed elevata competenza tecnologica e di gestione dei processi complessi” compreso “lo sviluppo di programmi e piattaforme digitali con diffusione su larga scala”. È una parte dell’emendamento che, di fatto (e anche in base al riferimento normativo), rende possibile confermare tra due anni i membri dell’attuale gruppo che sviluppa le soluzioni tecniche e digitali della pubblica amministrazione e che ha competenze e conoscenze difficilmente rimpiazzabili. Va via quindi la figura apicale di impostazione renziana ma si cerca di tenere ingranaggio e valore operativo.

Cambiano poi gli stanziamenti: se Piacentini aveva avuto a disposizione 6 milioni di euro nel 2016, 11 nel 2017 e 18 nel 2018, dal 2020 si prevede che siano in totale 12 per il biennio, provenienti dai “Fondi di riserva e speciali” e dal Fondo per esigenze indifferibili”. Anche perché, a settembre 2018, ne risultavano impegnati in totale 10 ed effettivamente spesi circa 7. Prematuro immaginare quale ministero potrebbe prendere le deleghe o che coordinamento si darà al dipartimento. Al momento le maggiori partite sul digitale si giocano al ministero dello Sviluppo Economico ma questi temi riguardano da vicino anche la Pa di Giulia Bongiorno. Ma la Lega, in questa partita, finora non ha messo piede.

Il Qatar sacrifica Air Italy per fare la sua politica estera

Sardegna addio. La compagnia aerea Meridiana che oggi si chiama Air Italy, voluta 56 anni fa da Sua Altezza, Karim Aga Kahn, per lanciare il turismo in Costa Smeralda, si sta preparando a salutare la storica base di Olbia. Destinazione Malpensa, che ospita il secondo aeroporto lombardo dove i nuovi padroni, cioè Qatar Airways, si stanno apprestando a spostare la flotta e tutto il resto, compresi i 350 dipendenti. Una cinquantina sono già stati trasferiti, per gli altri è questione di tempo, soprattutto dopo che alcuni giorni fa Air Italy ha perso la gara per la cosiddetta continuità territoriale, cioè i collegamenti con l’Italia, un affare da circa 100 milioni di euro in 3 anni, saldamente mantenuto da Meridiana-Air Italy per quasi un ventennio.

La gara è stata vinta dalla disastrata Alitalia e per i qatarini, tutti concentrati sui collegamenti esteri, soprattutto verso gli Stati Uniti e in misura minore l’India, a questo punto la permanenza di Air Italy in Sardegna è superflua. Il rovescio della medaglia è che finora Air Italy era riuscita a sopravvivere grazie al radicamento sardo e ai collegamenti con l’Italia, mentre la svolta forzata verso l’estero potrebbe essere il colpo fatale per la compagnia.

Il nuovo corso intercontinentale per ora si presenta con risultati deludenti: il bilancio dei primi 6 mesi della campagna d’America avviata a giugno 2018 con i voli per New York e Miami ha fruttato poco più di 100 mila biglietti. I qatarini intendono però fare il bis la prossima primavera lanciando tra aprile e maggio nuovi voli da Malpensa verso Los Angeles, San Francisco, Chicago e Toronto con una mossa che ha il gusto incerto dell’azzardo. Per una serie di motivi: il primo è che Air Italy ha a disposizione appena 5 aerei di lungo raggio, Airbus 330-200 vecchi di 15 anni affittati da Qatar Airways. Il secondo motivo è che non c’è un disegno organico di crescita: non ci sono accordi per i voli di prosecuzione negli Stati Uniti e in India, non ci sono alleanze né code-share con vettori americani o indiani mentre per i voli in arrivo a Malpensa mancano le prosecuzioni in coincidenza con le aree più floride del Nord Europa. Il rischio è un bagno di sangue di perdite.

Per 45 anni e fino al 2008, quando ancora si chiamava Meridiana, la compagnia sarda era invece riuscita ininterrottamente a fare utili. I guai sono cominciati nel 2008 mentre le perdite hanno toccato il culmine nel 2012 dopo che l’Aga Kahn aveva deciso di acquistare la compagnia charter Air Italy da Giuseppe Gentile affidando a quest’ultimo la guida dell’intera azienda. Nel 2007 Meridiana trasportava più di 4 milioni e mezzo di passeggeri, ora Air Italy ne trasporta a malapena 2. Dai 35 milioni di utile di allora è passata a 100 milioni di perdite di oggi, da una flotta di 35 aerei a una di 16. Per arginare l’emorragia il premier Matteo Renzi e il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi tre anni fa si dettero da fare favorendo l’ingresso di Qatar Airways nel capitale di Air Italy. Ora i qatarini hanno il 49 per cento (il resto è del fondo Akfed dell’Aga Kahn), ma hanno il bastone del comando. La Guidi è stata ricompensata con un posto in cda, ma la nuova fase targata Qatar non sta dando i risultati sperati, soprattutto per l’Italia e la Sardegna. Non c’è un amministratore delegato e come capo azienda è stato scelto un semplice assistente di volo, Rossen Dimitrov. Il responsabile delle operazioni è un greco che non parla italiano e il direttore commerciale non è mai stato nominato.

I qatarini puntano tutto su Usa e India con due obiettivi. In India stanno usando Air Italy come vetrina promozionale in vista dell’acquisto di una compagnia aerea locale. Negli Usa il loro intento è punzecchiare con i voli diretti dall’Europa le grandi compagnie aeree americane sperando di farsi ascoltare in questo modo da Donald Trump. Dal presidente americano i qatarini vorrebbero che convincesse l’Arabia Saudita, storico partner Usa in Medio Oriente, a togliere il fastidiosissimo ed economicamente molto svantaggioso blocco al sorvolo della penisola araba dei jet in partenza e in arrivo a Doha, capitale del Qatar. Il blocco è stato posto perché l’Arabia accusa il Qatar di foraggiare il terrorismo dei Fratelli Musulmani.

Il lavoro al bivio, tra sviluppo sostenibile e catastrofe sociale

La vera utopia è pensare che si possa andare avanti con l’attuale modello di sviluppo. Ci sono 190 milioni di persone nel mondo senza un lavoro, di cui un terzo sono under 25, mentre stanno continuando a crescere le disuguaglianze sociali ed economiche nel mondo del lavoro con l’arrivo dei robot e dell’intelligenza artificiale. Il cambio di passo deve avvenire subito investendo in un futuro del lavoro e dello sviluppo socialmente sostenibile. Questo il monito che arriva dal nuovo rapporto mondiale sul futuro del lavoro realizzato dall’Ilo (l’organizzazione internazionale delle Nazioni Unite) che preme su “cambiamenti urgenti”, soprattutto in una fase di frenata dell’economia. Ad aver partecipato alla stesura del rapporto, come membro italiano della commissione globale sul futuro del lavoro, è Enrico Giovannini, ex ministro ed ex presidente dell’Istat. Il documento è frutto di un lavoro durato 18 mesi che per Giovannini rappresenta un triplete legato all’impegno internazionale degli ultimi due anni, insieme al rapporto dell’High-Level Expert Group on the Measurement of Economic Performance and Social Progress (Stiglitz Commission II) diffuso a novembre e del rapporto della Independent Commission for Sustainable Equality.

I tre documenti hanno diversi punti in comune e raccomandazioni forti per cambiare comportamenti e politiche e dunque per cambiare l’attuale modello di sviluppo, chiaramente insostenibile, non solo dal punto di vista ambientale ma anche da quello economico e sociale. Per Giovannini, “le istituzioni e i tempi di elaborazione delle soluzioni europee devono essere ripensati, per investire sulla resilienza, su un benessere sostenibile e sul pilastro sociale dell’Unione”. Elementi che tutti insieme hanno conseguenze dirette sulla stabilità dei Paesi e sulla giustizia sociale per elaborare una nuova agenda per il futuro del lavoro incentrata sul capitale umano.