Porti Spa, con l’idea leghista di aprire ai privati si rischia una svendita in stile Pireo

Iporti italiani rischiano di essere privatizzati, almeno stando alle parole degli esponenti leghisti di governo, arrivate proprio nelle ore seguenti la formalizzazione dell’indagine sul regime fiscale delle Autorità portuali italiane da parte della Commissione europea. Oltre a chiudere i porti, insomma, la Lega vorrebbe prenderseli. Un progetto che sicuramente non piacerà al Movimento 5Stelle, finora poco attento a un dossier che invece ha un peso notevole.

Primo su tutti, a ventilare la possibilità di una riforma per trasformare le Autorità portuali in Spa a controllo pubblico, è Edoardo Rixi, il viceministro leghista alle Infrastrutture con delega ai porti. Il tema è un vecchio pallino federal-leghista: togliere la fiscalità portuale a Roma e affidarla agli enti locali, ed è stato recentemente rilanciato dal presidente forzista della Liguria, Giovanni Toti, in vista delle Regionali 2020, forte di sostenitori anche nel Pd e oggetto proprio oggi di una riunione al ministero dei Trasporti per convincere l’alleato di governo.

Dopo la riforma Delrio, nel 2016, le Autorità Portuali (Ap), gli enti pubblici che regolano le attività economiche nei porti, sono 15 (la sedicesima, quella dello Stretto, è in via di costituzione). Attraverso i 58 porti amministrati nel 2017 sono passati circa 500 milioni di tonnellate di merci e 51 milioni di passeggeri. La Commissione europea, concedendo due mesi per rispondere, ha messo nel mirino la fiscalità delle Autorità portuali italiane assimilandole. nel percepire i canoni per il rilascio di concessioni sui terminal, a soggetti economici tenuti quindi a pagare le relative imposte allo Stato. Malgrado i bizantinismi del nostro ordinamento, un evidente paradosso. Le Autorità portuali sono lo Stato. Stato che, come avviene per le autostrade o gli aeroporti, incamera per l’uso dei terminal portuali canoni non soggetti a imposizione fiscale: che senso ha che uno Stato paghi tasse a se stesso? La preoccupazione è che l’identificazione delle Ap come attori economici renderebbe poi soggetto alla normativa sugli aiuti di Stato ogni finanziamento statale sulle infrastrutture portuali. Per questo il dialogo con Bruxelles è aperto da anni.

Il nuovo governo ha però ammorbidito la difesa dello status quo (l’infrastruttura è statale e lo Stato deve poterne disporre), ipotizzando un avvicinamento alle posizioni della Commissione con la trasformazione in soggetti economici (Spa) degli enti.

Difficile dire se e come si possa risolvere l’aporia dell’obiettivo di fondo: assegnare agli enti locali soci delle Spa le risorse oggi incamerate dalle Autorità portuali: quelle trattenute per le proprie esigenze (canoni di concessione, tasse d’ancoraggio e imbarco/sbarco) e, la vera ‘ciccia’, quelle consegnate all’erario (Iva sulle importazioni: 10-12 miliardi di euro l’anno). Come potrebbe una Spa trattenere un’imposta, per giunta slegata dalla propria attività?

Quel che è certo è che la riforma avrebbe il senso dichiarato (alleggerire il presunto eccesso di burocrazia che affligge le Ap) solo patrimonializzando le Spa col conferimento delle aree portuali, prima sdemanializzate. Operazione complessa. Innanzitutto perché sarebbe un aiuto di Stato, da vedere se compatibile con le norme Ue. A quel punto, poi, ogni scelta su infrastrutture e concessioni sarebbe presa non nell’interesse dello Stato (come oggi, almeno in teoria) ma in quello di una Spa. Il controllo pubblico non necessariamente coincide con l’interesse pubblico.

Esempio: qualora il ‘mercato’ non lo reputi conveniente, un intervento infrastrutturale, anche di banale mantenimento come un dragaggio, sarebbe arduo. Interi porti rischierebbero l’abbandono e fra gli altri si aprirebbe una feroce concorrenza.

Non solo. A prescindere dall’eventuale adozione di golden share o altre garanzie sulla proprietà pubblica dei moli, è evidente che un tale assetto si presterebbe molto di più dell’attuale a una loro alienazione, come avvenuto ad esempio in Grecia, dove il Pireo è ormai quasi un’enclave cinese.

Infatti, senza coperture erariali, come potrebbero le Spa finanziare i propri necessari investimenti se non cartolarizzando/vendendo il loro patrimonio?

Ammesso che la Lega sia consapevole degli effetti extra federalistici, che ne diranno M5S e il ministro Danilo Toninelli? Finora i 5Stelle non sembrano aver compreso la portata dell’iniziativa, anche perché è assai in contrasto con la tutela dei “beni comuni” che da sempre è il tratto distintivo del Movimento.

Poche sono tuttavia le voci (finora solo Uil e Cgil) levatesi contro l’uscita di Rixi. Questo nonostante il settore marittimo sia sempre più caratterizzato da fenomeni di concentrazione nelle mani di pochi potentissimi soggetti (parastatali, come i conglomerati asiatici, o privati come le multinazionali occidentali) in grado di orientare a proprio piacimento le scelte infrastrutturali e le politiche del lavoro di interi Stati.

A contrastare tale disegno non saranno quindi i grandi gruppi dei terminal, che oggi godono di concessioni pluridecennali, utili stellari e ricchi Roe (i ritorni sul capitale investito anche per manutenere infrastrutture pubbliche), come rivelato da uno studio di Fedespedi sui primi 10 player nazionali, tutti controllati da multinazionali estere. Una volta proprietari, infatti, sparirebbe quasi del tutto il pur remoto rischio che l’attuale concedente si risvegli dal torpore e metta mano al settore, magari diradando la giungla normativa, aprendolo a forme di maggiore concorrenza e attivandosi per una nuova distribuzione delle grandi rendite garantite.

Il motore franco-tedesco si è inceppato

Che il processo di integrazione europeo si sia inceppato è evidente, forse addirittura siamo in una fase di dis-integrazione, come la chiama il politologo Jan Zielonka. Di sicuro uscire dalla paralisi è complicato, basta guardare le reazioni al trattato tra Francia e Germania firmato ieri ad Aquisgrana da Emmanuel Macron e Angela Merkel. Poca sostanza e molto di simbolico in questa versione aggiornata del trattato dell’Eliseo del 1963. Doveva dare il messaggio che il motore franco-tedesco dell’Europa si è riacceso, che nonostante i due leader siano uno indebolito (Macron) l’altra a fine corsa (Merkel), la forza della storia prevale sulle biografie politiche e l’Unione può progredire soltanto sulle gambe di Parigi e Berlino. Risultato disastroso: in Francia il trattato è diventato il bersaglio di sovranisti vari e dei Gilet gialli, che gli hanno attribuito le più nefaste conseguenze tipiche del complottismo da web. In Germania non ha scaldato i cuori, è chiaro a tutti che la centralità tedesca (e in particolare dei partiti conservatori Cdu-Csu) sta finendo. L’Italia è stata palesemente esclusa e il governo che rivendica così spesso la sovranità nazionale e un ruolo europeo di peso, si è disinteressato della vicenda. Eppure avrebbe potuto essere un argomento di polemica anti-francese ben più efficace che le fantomatiche responsabilità del franco Cfa coloniale nell’arrivo di migranti in Italia. Quando Mario Monti arrivò al governo nel 2011, una delle sue primissime mosse fu incunearsi tra Francia e Germania nel tentativo di rendere l’Italia meno marginale.

Oggi l’Europa non può ripartire con il solo motore franco-tedesco ma neppure può rinunciare alla spinta che soltanto Parigi e Berlino possono darle. Quando le due grandi potenze europee erano in stallo di solito c’era uno spazio per l’Italia, come terzo polo. Questa volta non sembra che stiamo provando a sfruttare il momento.

Risiko bancario: solo chiacchiere, la crisi morde ma non c’è il regista

I due partiti di maggioranza, Lega e M5S, vogliono un intervento statale sulle banche. Anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco spinge per l’iniezione di soldi pubblici, evocando come testimonial un’icona liberista come Luigi Einaudi. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria dice invece che per Carige, la crisi più acuta del momento, auspica “una soluzione privata”. L’amministratore delegato dell’Ubi Victor Massiah dice che non è interessato. Anche il numero uno di Mps Marco Morelli ha fatto sapere che la banca genovese non fa per lui. Che ha semmai un altro problema, fondersi con una banca di almeno pari dimensioni per consentire a Tria di diluirsi e uscire dal controllo di Siena come promesso alla Commissione europea.

Massiah però non vuole saperne di Mps, anche perché gli uomini Ubi hanno problemi più urgenti da risolvere, per esempio l’assemblea del 12 aprile nella quale l’amministratore delegato e buona parte del vertice rischiano di saltare, anche a causa del maxi-processo di Bergamo che li vede imputati. Il capo di Unipol Carlo Cimbri, primo azionista di Bper, ha detto che non vede all’orizzonte l’integrazione della banca emiliana con Mps. Insomma, il Risiko bancario su cui si esercitano le cronache finanziarie delle ultime settimane sembra più “una cosa di fantasia”, come dice Cimbri. E più che a un Risiko assomiglia a una scacchiera dopo l’atterraggio di un piccione.

Rimane il fatto che questo non è un gioco. Le banche italiane hanno problemi serissimi e la notizia è che il “sistema” non li sta affrontando. Tolti i due colossi Intesa e Unicredit, che giocano in un altro campionato, e tolta Carige che i manager commissari Pietro Modiano e Fabio Innocenzi devono far uscire dalla zona retrocessione, i problemi più seri in prospettiva riguardano le medio-grandi, le banche da 100 miliardi di crediti: Banco Bpm, Ubi e Mps. Nei primi 9 mesi del 2018 hanno prodotto utili netti, rispettivamente, per 525, 201 e 379 milioni. Bene che vada, i dati 2018 mostreranno in tutto un miliardo e mezzo di profitti facendo ruotare 300 miliardi di euro attorno a un modello di business vecchio, non più in grado di remunerare il capitale.

Qui c’è il nodo che il sistema Italia non sa sciogliere. Una banca non remunera il capitale perché va male, o maluccio. La banca che va male rischia di fallire, ma se fallisce mette a rischio i soldi che i risparmiatori e le imprese le hanno affidato, in questo caso, circa 300 miliardi. Allora la vigilanza bancaria, cioè la Banca centrale europea che da quattro anni è subentrata alla Banca d’Italia per gli istituti maggiori, prudenzialmente intima a banche che non riescono più a remunerare il capitale di chiedere al mercato altro capitale a garanzia della solidità.

Il punto dolente rimane quello dei crediti deteriorati, sia gli inesigibili (sofferenze) che i casi dubbi (in sigla utp). La banca, di fronte a un credito deteriorato, valuta le possibilità di recupero. Se su 100 euro prestati prevede di recuperarne 40 deve accantonare 60 euro “a copertura” e scrivere in bilancio che quel credito nominale (lordo) di 100 ha un valore netto di 40. Adesso la Bce ha “consigliato”, cioè ordinato, di portare la copertura al 100 per cento, cioè di azzerare il valore dei deteriorati. Una bella pulizia, dal punto di vista Bce, un salasso che potrebbe uccidere il paziente, dal punto di vista dei banchieri. Il Monte dei Paschi ha comunicato che la cura prescrittagli è di azzerare 6 miliardi di deteriorati netti entro il 2026, alla media di 8-900 milioni l’anno. Significherebbe nel caso peggiore segnare una perdita di 8-900 milioni all’anno da compensare con nuovo capitale. Oppure procedere alla vendita dei deteriorati ai fondi avvoltoio, e a prezzo vile, tanto più basso adesso che, entrando in recessione, le possibilità di recupero dei crediti si abbassano. Diciamo che vendendo al 20 per cento del valore la purga (teorica e pluriennale) per Mps si ridurrebbe a 3 miliardi.

Applicando lo stesso calcolo a Banco Bpm ne esce un conto da 4-5 miliardi. Per Ubi il calcolo è più complicato. Da anni il gruppo bancario lombardo sopravvaluta i suoi deteriorati rispetto a tutte le altre banche, coprendoli solo al 40 per cento. Solo per portare i suoi deteriorati lordi al livello di copertura di Mps (che alla fine con il suo 56,4 per cento è quella messa meglio), dovrebbe tirar fuori un miliardo e mezzo. A quel punto la purga Bce gli costerebbe altri 2,5 miliardi. Tutto questo per puntellare una banca che ieri in Borsa valeva 2,7 miliardi.

I protagonisti del mercato vedono un’unica soluzione per tamponare la crisi: la fusione delle banche, preferibilmente corroborata da iniezioni di denaro pubblico, per contenere i costi e gli investimenti sui nuovi sistemi cosiddetti fintech e riportare la redditività a livelli consoni.

Un’operazione del genere richiede una regia di alto livello. La Banca d’Italia non è più in grado per due ragioni: l’ultimo grande regista, il governatore Antonio Fazio, si è rovinato con i suoi disegni; e poi ormai il pallino ce l’ha la Bce che la regia di sistema non ce l’ha proprio nel Dna. Tra i banchieri, appannate le stelle di Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti, non ce n’è uno in grado, e comunque gli attuali protagonisti sembrano più che altro impegnati a farsi gli affari propri, in tutti i sensi. Rimangono Tria e il premier Giuseppe Conte. E questo concorre a far temere che per il sistema bancario il 2019 sarà un anno buio.

 

Come fu che Cottarelli mandò Banfi al Cnr

Certe volte ti cadono le braccia. Uno cerca per anni di contrastare il mito della competenza, un’ideologia dello status quo che è volgarissimo positivismo ottocentesco travestito da scienza (ma coi fucili), e quelli “Lino Banfi”. Un altro cerca per anni di fornire un racconto sulle crisi bancarie un po’ meno episodico e farlocco di quello di moda tra Bruxelles, Francoforte e via Nazionale e quelli “non daremo un euro alle banche” (anche se poi, fortunatamente…). Altri ancora da decenni parlano e documentano politiche neocoloniali che tengono l’Africa in povertà, tra cui c’è di sicuro il complesso sistema di obblighi che ruota attorno al vecchio franco coloniale agganciato all’euro e adottato da 14 Paesi in cui Parigi fa un po’ il cazzo che vuole e le sue imprese anche di più (da Bouygues ad Areva, da Total a Thalis, da Danone a Sanofi fino a SocGén). Ma è l’unica? Certo che no: non scherzano Usa e Uk con l’aiuto del Fmi, non scherza la Cina e, nel suo piccolo e a un differente livello d’intensità, nemmeno l’Italia dell’Eni e delle maxicommesse infrastrutturali. E quelli “se c’è gente che emigra è perché alcuni Paesi europei con in testa la Francia non hanno mai smesso di colonizzare l’Africa”. A volte, dicevamo, ti cadono le braccia: troppa semplificazione, troppa propaganda da quattro soldi. E poi leggi il tweet del cattedratico ex Fmi Carlo Cottarelli sul franco Cfa, “la valuta che alcuni paesi africani hanno liberamente (sic!) scelto di usare” e pure Lino Banfi presidente del Cnr, tutto sommato, non ti sembra un’idea da scartare a priori…

Anno 2030: l’amore è stato abolito (Restano le scorie)

In una città del nord, nel 2030, il progresso ha raggiunto un’efficienza notevole. Il mondo è cambiato in meglio in questi ultimi settanta anni. Tutti i problemi che oggi turbano ancora l’umanità sono stati risolti radicalmente nella sopravvenuta pace universale. Non ci sono altri problemi se non quelli della “Eliminazione delle Scorie”. La profezia di Hegel si è avverata: l’arte è finita.

La Musica è diventata silenzio, la Poesia è negli atti stessi dell’esistenza, la Pittura non serve più: è un fatto interiore che non bisogna consegnare all’oggetto, alla tela o al muro. Il pensiero filosofico, anche questo collima ormai con la vita. La vita stessa si esaurisce nel quotidiano. Questo stato di felicità raggiunto ha fatto gli uomini quasi perfetti. I problemi che hanno sempre angustiato l’umanità si stanno avviando all’annullamento. Non c’è più conquista, non c’è più il successo.

E il rapporto coi sessi…? Il rapporto coi sessi è stato ragionevolmente risolto. Questo tipo di rapporto viene anzi regolato dall’alto, burocraticamente, non esistono più i sentimenti e le passioni che lo agitavano e lo rendevano tanto importante! È stata una grande vittoria.

Ucciso, anzi eliminato l’amore nel suo concetto classico-romantico, sono stati eliminati i sentimenti classici e romantici della gelosia o dell’esaltazione di sé, della furia. Eliminato quasi tutto, l’uomo non soffre più. L’uomo vive nelle sue belle case perfette, aperte alla natura, vive nella contemplazione serena della natura. L’unico problema – dicevamo – che può turbare quest’umanità che ormai ha raggiunto l’apice della sua forma è un problema per tecnici: come eliminare le scorie. La società oggi va avanti con macchine nucleari, le quali producono un’energia sufficiente per tutti gli usi della vita. Resta il problema della eliminazione delle scorie che queste macchine producono trattando i minerali carburanti. È un problema molto grave che non fa dormire gli scienziati… Ecco dunque che questo problema è l’unico che turbi un’umanità felice in tutto il resto.

È a questo punto che comincia Il divano meridionale. Tutto è chiaro in una società perfetta e l’unico sentimento che s’insinua in questa società, oltre l’orgoglio di aver raggiunto uno stato simile, è quello di una leggera noia, una noia che nessuno osa confessarsi ma che è sempre presente negli atti di una vita, che ormai sembra essere diventata fine a se stessa.

Il protagonista di questo racconto è un giovane sui venticinque anni. È inutile dire che egli non si è mai innamorato, non è mai caduto nel peccato, non è mai caduto nell’amore. Egli non sa nemmeno che cosa sia. Per le sue soddisfazioni di natura animale, la società, come dicevo, provvede abbastanza bene e dà tutto ciò di cui si ha bisogno. Macchine? Sì, macchine efficientissime: lo Stato le mette gratuitamente a disposizione di ogni cittadino…

Un’altra cosa forse bisognerà dire prima di iniziare il nostro racconto, che la media dei suicidi in questo paese è purtroppo abbastanza alta. Si tratta di suicidi che non danno più fastidio allo statista, che non preoccupa. Sono auto-eliminazioni volontarie che rientrano nell’ordine delle cose. Chi non è più capace di resistere in una società simile, è giusto che scompaia per lasciare posto agli altri: il mondo deve essere perfetto.

Orlando, quella mattina si era svegliato di malumore. Perché poi di malumore? Che cos’è il malumore? Orlando – e facendo ciò sapeva di contraddire gli ordini severissimi delle autorità – scriveva. Che cosa scriveva? Egli cercava di mettere delle note in un quaderno. Un grave atto d’insubordinazione. Quella mattina facendo colazione egli scrisse… Ah! un pensiero orribile. Comunque lo scrisse: “Noi viviamo in un’epoca in cui le cose immaginate da quegli imbecilli dei nostri nonni e da noi realizzate, ci danno la certezza di un’onnipotenza che abbiamo invece perduto scendendo a una competizione meccanica con l’universo”.

Scrivendo quelle poche righe egli stava varcando la soglia di un mondo che non doveva appartenergli. Perché le idee, anche così semplicemente formulate, erano del potere centrale, dello Stato e, in certi casi, anche del Comune. Mai dell’individuo. L’individuo non doveva avere idee ed era questo il principio della felicità terrena…

Mah! Pensava Orlando, che importanza ha essere vissuti per tanti anni se un giorno solo ci fa capire che non ci resta niente. Questo doveva pensare Achille quando ha ingoiato quella pillola. E così, nella mente di Orlando si precisò un’idea, quella di andarsene per un po’ di tempo dalla città.

Forse poteva addurre come scusa un ulteriore studio alle sue ricerche per l’eliminazione delle scorie. Ecco, andarsene in una piccola città, una città di provincia. Una città che ricordava di aver visto nella sua infanzia e in cui viveva una sua cugina. Questa cugina si chiamava Angela, aveva qualche anno meno di lui. Se la ricordava molto bella.

Orlando si trova in casa di Angela – con rispetto – come nel salotto di nonna Speranza. Le buone cose di pessimo gusto. Che cosa c’è in questa casa di strano che colpisce subito Orlando? C’è una piccola biblioteca, dei libri. In città i libri non si usano più, ci sono le grandi biblioteche di studio. Anche l’Ufficio ne ha una molto importante. I libri, come sono intesi oggi, non hanno più ragione di essere. Quando si ha bisogno di una citazione o di una pagina speciale o di rivedere un testo, si va in biblioteca e con le macchine elettroniche si fa rapidamente la scelta e rapidamente si ascolta il libro. Il libro di carta non ha senso, chi potrebbe più usarlo? Lì invece ci sono ancora dei libri, questo è molto curioso. Libri che parlano di amore. Sono romanzi un po’ polverosi, forse romanzi che legge Angela o che ha letto. Sono libri un po’ vecchi in cui le cose sono descritte con una passione smodata, senza freno. Orlando non può fare a meno di sorridere aprendo quei libri e leggendo qualche frase a caso. Come tutto è ridicolo…

Vedremo che Orlando, dal suo ingresso in questa casa, avrà un sorriso sulle labbra. Tutto lo fa sorridere. Come tutto ci fa sorridere quando torniamo in una casa che ci è appartenuta, che ci ricorda un’età superata. Insomma, in provincia sono rimaste vive certe superstizioni. Non vi è da dubitare che qualcuno coltivi ancora l’Arte nel suo intimo o nella sua casa, che ci siano poeti, è possibile. Orlando sarebbe curioso di conoscerne qualcuno…

Quello che seguirà possiamo immaginarcelo. Angela e Orlando diventano amanti. Orlando s’incaponisce anzi in questa nuova funzione erotica che non sospettava in lui, se ne vergogna anche, perché gli sembra di ricadere in un’età che la sua mente ha ormai abbandonato, ma il piacere che ne prova è così vivo e così violento che sente di dover continuare. Non credo che Orlando s’innamori di Angela, né credo che Angela si innamori di Orlando. È una pura funzione fisica quella che svolgono e che li porta quasi a un parossismo di verità… Orlando non riesce però a far nascere nel suo animo quel sentimento che invece trova così bene espresso nei libri che trova per casa. Che cos’è? Che cos’è quest’amore di cui si parla, di cui tutti i personaggi soffrono, di cui la musica sembra cantare le dolcezze e la pittura le perplessità. Questo problema lo prenderà parecchio nel corso del secondo atto.

Il commissario Natale Lo Gatto, da Risi all’Unesco

Nonno Libero patrimonio dell’Unesco. Il vicepremier Luigi Di Maio sintetizza così la nomina di Lino Banfi alla Commissione italiana per l’Unesco, presentandolo talmente in pompa magna che ieri mattina sembrava che l’attore pugliese fosse diventato il rappresentate italiano presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Ovviamente non è così: quel ruolo è ricoperto dall’ambasciatore Massimo Riccardo. Banfi prende il posto del grande Folco Quilici, scomparso un anno fa, e non di Pupi Avati come aveva in un primo tempo detto il ministro. Dunque farà parte dell’Assemblea della Commissione, che conta una cinquantina di membri, nominati dallo stesso Mise (tra l’altro alle convocazioni dell’Assemblea pare si presentino esclusivamente i funzionari indicati dai vari ministeri). Tra i compiti dell’ente dare pareri e formulare raccomandazioni al governo sui programmi Unesco, collaborare per l’esecuzione delle decisioni prese, diffondere informazioni, organizzare e promuovere incontri: l’Italia è al primo posto per numero di siti nella lista Unesco del Patrimonio Mondiale con 54 beni e 7 iscrizioni nell’elenco del Patrimonio culturale immateriale.

Un ruolo di raccordo insomma, completamente pro bono e non particolarmente impegnativo se, come spiega il diretto interessato a pagina 3, Pupi Avati non c’è mai andato e se per sostituire un membro defunto trascorre quasi un anno. Nel Direttivo della Commissione compare anche Vincenzo De Luca, ma è un caso di omonimia. Resta da spiegare l’enfasi e la confusione, non è chiaro quanto involontaria, con cui è stato dato l’annuncio del passaggio del Commissario Lo Gatto a Commissario Unesco.

L’82enne Banfi (amico personale di Berlusconi, “voterò sempre lui, anche se un giorno ammazzasse 122 persone”) deve aver pensato che si trattasse di qualcosa d’importante: “Quando mi hanno chiamato ho detto ‘ma che c’entro io con la cultura?’, perché sapevo che in questi casi i rappresentanti all’Unesco sono laureati, persone che conoscono la geografia o le lingue. Io allora voglio portare il sorriso ovunque, anche nei posti seri”. Dice l’altro vicepremier Matteo Salvini che l’Italia è tanto bella, che tutti la possono promuovere (però intanto butta lì: “E Jerry Calà, Renato Pozzetto, Umberto Smaila?”). Invece sul web ci s’interroga sul significato della mossa grillina: un modo per distrarre l’attenzione, come sostengono in molti? Di certo per mettere il culo davanti alle pedate dei commentatori che ci vedono l’elogio dell’incompetenza e la demonizzazione del sapere.

Forse perfino il ministro Luigi Di Maio si rende conto che Lino Banfi non è Dario Fo e quest’operazione fa semplicemente l’occhiolino all’ampissimo pubblico di fan di Oronzo Canà e Pasquale Zagaria (che poi sarebbe il vero nome del nostro). Sarà così, eppure è una scelta – di comunicazione, visto che si è chiarito che il ruolo è inesistente – sbagliata. E non certo perché la “cultura” sia materia da cenacoli ristretti (le famose élite), ma perché “non va neanche bene spalmata sopra il pane come la marmellata” (un memorabile Giorgio Gaber sulle iniziative bislacche di certi assessori alla Cultura degli anni Ottanta). Insomma, non per banalizzare, ma come direbbe il nostro eroe se qualcuno gli sottoponesse un’idea del genere in un film, “ma come vi vengono ’ste stronzéte?”.

Pochi ricchi, tanti poveri! Strano… ogni anno torna la stessa classifica

Ed ecco che anche quest’anno, puntuali come le cambiali, arrivano le classifiche dei ricconi del mondo, le statistiche sulle diseguaglianze che aumentano (rapporto Oxfam), e il teatrino per miliardari di Davos. Tutto insieme, così, per gradire, scandalizzarsi un po’, dedicarci una quota del proprio fondo-indignazione, e poi passare ad altro. In attesa di un nuovo anno, quando avremo la nuova classifica dei ricconi del mondo, il rosario delle diseguaglianze che aumentano, e il privé svizzero dei potentissimi. Altro giro, altra corsa.

Questo accade da anni, da molti anni, ed è diventato ormai un esercizio di stile mettere in fila le cifre più strabilianti: i 26 ricchi che hanno in mano la stessa ricchezza dei quattro miliardi di persone più povere, oppure il 5 per cento di italiani con patrimonio pari a quello del 90 per cento dei meno abbienti, eccetera, e potremmo continuare.

In effetti, il rosario è impressionante, se il libero mercato è “libera volpe in libero pollaio”, qui nel mercato liberissimo le volpi sono diventate onnivore e grasse da far schifo, mentre intere moltitudini di terrestri sono condannate a morte o a stenti quotidiani, mentre il lavoro viene sempre più precarizzato e svilito, mentre nei paesi ricchi avere un’occupazione non è più nemmeno una garanzia di non essere poveri.

Insomma, a farla breve, ogni anno si lancia l’allarme e ogni anno le cose sembrano peggiorare, ci si scandalizza ma non si attacca la rendita, che fa somigliare il mondo a una specie di paesino medievale con quattro signorotti padroni di tutto che fanno a chi ha il cazzo più lungo, e la plebe che sopravvive a stento. Molta plebe, tra l’altro, imbesuita e accecata dal terrore di scivolare ancora più in basso, difende i signorotti e li ammira, in una specie di masochismo di massa.

Ora il problema è semplice e non riguarda “le politiche” degli anni passati, ma la sola univoca e praticamente unanime politica che si è portata avanti in trent’anni, ovunque nel mondo, dalla cosiddetta destra e dalla cosiddetta sinistra: quella di non disturbare, e anzi agevolare, l’accumulazione vergognosa di fortune immense. A destra lo fanno per ideologia: da Trump che aiuta i grandi patrimoni perché fa parte del club, ai vagheggiatori nostrani di flat tax. A sinistra, almeno dal signor Blair in poi, ha prevalso l’idea furbetta che aiutando i ricchi, quelli ci avrebbero pensato loro a redistribuire, sotto forma di sviluppo e lavoro. Il vecchio concetto un po’ scemo che se il principe ha quindici polli sulla tavola imbandita forse finirà per lanciare una coscia ai quelli che non mangiano da due giorni. Scemenza grossa, come si vede dai numeri che smentiscono ogni anno questa risibile teoria social-paracula. Si aggiunga come aggravante la sudditanza psicologica e culturale di questa sinistra moderna ed ex-rampante per le figurine dei padroni del mondo, con cui ama flirtare, posare in foto e disquisire di sviluppo e progresso, che è un po’ come andare a pranzo con lo zar nel 1916, e lodare gli antipasti.

Controcanto un po’ grottesco: sulle politiche sociali si recita continuamente il mantra del non-ci-sono-i-soldi, proprio mentre si nota – classifiche e indignazione alla mano – che i soldi ci sono, invece, e pure tanti, e ce li hanno quasi tutti quei 26 tizi lì, quelli dell’album delle figurine dei padroni del mondo (più qualche migliaio di loro amici). I quali possono permettersi tali e tante pressioni sulle politiche fiscali da aumentare ogni anno il loro bottino, ed è chiaro come il sole che finché non si va a toccare lì, quell’accumulazione, quell’esagerazione, ogni bel discorso su popolo ed élite somiglia a un altro teatrino, in attesa di altre classifiche, di altra sincera indignazione, ah, che diseguaglianze, signora mia!, ma passiamo ad altro, ci ripenseremo tra un anno.

Calenda, un elisir per i gialloverdi

Il “Manifesto per la costituzione di una lista unica delle forze politiche e civiche europeiste alle elezioni europee” lanciato da Carlo Calenda, e già abbracciato dai due candidati alla guida del Pd, Martina e Zingaretti, è – per parafrasare Tayllerand – peggio di un crimine: è un errore. Un boomerang, il più efficace elisir di lunga vita per gli esecrati gialloverdi.

La retorica è quella della chiamata alle armi per la salvezza della patria: i barbari sono alle porte, anzi sono al governo. E dunque tutti i buoni devono unirsi in un fronte patriottico che abbia come bandiere il tricolore e il vessillo azzurrostellato dell’Europa, puntualmente inalberati sul sito ufficiale dell’appello.

Ora, in molti pensano che il governo Salvini-Di Maio abbia degli inaccettabili tratti di barbarie: chi scrive, per esempio, condivide, fino in fondo, il grido di don Luigi Ciotti, che in queste ultime ore ha chiamato all’insorgenza contro la violazione “dei più elementari diritti umani”. Dal disprezzo delle vite dei migranti fino alla strumentalizzazione del corpo dell’omicida Cesare Battisti, in molti troviamo ripugnante una politica per cui la persona umana è un mezzo e non un fine.

Ma Calenda di tutto questo non si occupa. Anzi. Stigmatizza, dell’Europa attuale, “l’incapacità di gestire i flussi migratori provenienti dalle aree di prossimità colpite da guerre e sottosviluppo”: riducendo un’epocale questione di giustizia a un fatto di polizia. E lasciando intendere che la soluzione sia una “buona gestione”, alla Minniti: “Aiutare i Paesi di origine e transito dei migranti nella gestione dei flussi, nell’assistenza umanitaria e nei rimpatri”. La famosa assistenza umanitaria dei campi libici.

La parola “giustizia” non compare mai nel manifesto, mentre ricorre quattro volte “sicurezza”. La “nostra” sicurezza, ovviamente, “il nostro ruolo nel mondo, la nostra sicurezza – economica e politica”, scrive Calenda: mentre Oxfam ricorda che l’1% del patrimonio del padrone di Amazon equivale all’intero bilancio sanitario dell’Etiopia (105 milioni di abitanti). Ma non è questo che preoccupa Calenda: che, di fatto, non propone nessuna seria inversione di rotta, e si limita a difendere “un mercato unico di cinquecento milioni di persone, regolato dai più alti standard di sicurezza”.

E non è solo una difesa del sistema inteso come Occidente: c’è da difendere il sistema interno, inteso come casta. Calenda parla dell’Italia, ma da un qualunque lettore medio italiano, quel suo “nostro” è inevitabilmente inteso in un senso assai più ristretto: i benestanti, i pochi salvati, la famosa élite i cui tradimenti stiamo pagando. La stessa Oxfam torna a dire che il 5% più ricco degli italiani possiede una ricchezza equivalente a quella posseduta dal 90% più povero. Una sperequazione che comporta il sacrificio dell’interesse generale della conservazione dell’ambiente sull’altare degli interessi privati di pochi. Quando, con reticente giro di parole, Calenda prospetta la “necessaria costruzione di un modello di sviluppo legato alla sostenibilità”, chi può credergli? L’ex ministro delle Infrastrutture Delrio si è precipitato a dire che su questa base il Pd potrà allearsi “con i movimenti civici che in questi mesi si sono ribellati: quelli contro il blocco delle grandi opere e quelli contro il degrado delle città. O agli intellettuali, come Massimo Cacciari”. La ribellione sarebbe, dunque, quella delle madamine Sì Tav, dei movimenti securitari che difendono il “decoro” delle città (“i poveri e i neri stiano al loro posto, cioè fuori”), e di un sindaco che ha cavalcato senza remore la mercificazione di Venezia, fino a farla estinguere come città.

Nessuna autocritica, nessun ripensamento, come conferma la mirabile lista dei firmatari: i coraggiosi professori che firmarono il manifesto per il Sì alle riforme costituzionali Renzi-Boschi, e un bel gruppo di governatori regionali Pd mangia-territorio, da Chiamparino a Bonaccini. Con la surreale presenza di quello della Toscana, Rossi, che firma da LeU mentre Calenda dice che LeU deve starne fuori: tanto per certificare la morte cerebrale della Sinistra politica.

Come la Boschi che scelleratamente attacca il reddito di cittadinanza gialloverde non da sinistra (e c’è un fiume di argomenti assai efficaci per farlo), ma da destra (osando dire che porterà a “una vita in vacanza”), così Calenda attacca i “populisti” da posizioni di conservazione del sistema.

Per avere qualche possibilità di vincere contro i nuovi padroni, bisognerebbe parlare una lingua di giustizia, radicale: e invece questo manifesto non solo non è di sinistra (e questo nessuno se lo aspettava), è anche palesemente a favore di uno stato delle cose ingiusto. E dunque è suicida: perché ripropone tutto quello che la maggioranza degli italiani ha già giudicato, a ragione, non più accettabile. La notte appare ancora assai lunga.

Mail box

 

Salvini si maschera in divisa ma non lo sanziona nessuno

Ho visto più volte in tv il ministro dell’Interno e vicepremier Salvini con il giubbotto della Polizia. Vorrei ricordare che l’articolo 498 del codice penale prevedeva come reato, ora depenalizzato e punito con una sanzione fino a 1.000 euro, la condotta di “chiunque abusivamente porta in pubblico la divisa o i segni distintivi di un ufficio pubblico”. I prefetti dei luoghi dove Salvini è apparso con quella divisa avrebbero dovuto dunque provvedere ad applicare la sanzione amministrativa, con la recidiva e le aggravanti (motivi futili e abuso d’autorità). Il fatto che il prefetto sia un dipendente del ministro non elimina, ma anzi aggrava, l’omissione e rende i prefetti a loro volta suscettibili di essere denunciati e processati.

Emilio Zecca

 

Con riferimento all’articolo “Paradisi fiscali: quanto evadono le multinazionali e i numeri negativi della grande elusione” Vodafone contesta i contenuti dell’articolo e precisa quanto segue: Vodafone non solo è la prima ma è l’unica impresa a essersi dotata di un Tax Transparency Report che ogni anno rendiconta quanto ogni Paese in cui opera (26 paesi) contribuisce all’economia dello Stato (includendo anche ricavi e profitti prima delle tasse) nel pieno rispetto delle leggi fiscali locali e internazionali. Il Report dimostra con fatti e numeri come Vodafone non trasferisca artificialmente profitti da una giurisdizione all’altra per ridurre o eludere tasse. Vodafone organizza le sue attività di business centralizzate, comprese le operazioni di approvvigionamento e finanziamento globali, le strutture di gestione del capitale e la gestione del marchio, in diversi luoghi (incluso il Lussemburgo), tenendo conto del contesto politico, normativo, sociale e fiscale pertinente, nonché di fattori quali le competenze adeguate nell’ambito della forza lavoro, collegamenti di trasporto, qualità delle comunicazioni e così via. Non c’è niente di errato o illegale in questo. Tutte queste attività sono regolate da condizioni commerciali, il che garantisce che i profitti siano tassati correttamente nella giurisdizione in cui vengono percepiti, conformemente alle norme fiscali internazionali e locali. Gli utili in Lussemburgo sono generati dalla gestione delle attività legittime di finanziamento, approvvigionamento e roaming per l’intero Gruppo (le tasse di roaming sono tassate nel paese di origine dei clienti). In Lussemburgo lavorano 325 dipendenti Vodafone. In base alle norme fiscali lussemburghesi, è possibile compensare le perdite fiscali storiche con gli utili. Le perdite si riferiscono a una riduzione del valore contabile degli investimenti di una società (una svalutazione o svalutazione dell’avviamento) che è stata verificata da revisori indipendenti e dalle autorità fiscali locali.

Ufficio stampa Vodafone

 

La replica di Vodafone al nostro articolo aggiunge nuovi elementi che confermano quanto da noi riportato dal rapporto Icrict. Abbiamo scritto che Vodafone, la prima grande multinazionale a pubblicare volontariamente i dati, Paese per Paese, dei suoi rendiconti finanziari per il 2016/2017, mostra che quasi il 40% dei suoi profitti sono assegnati a paradisi fiscali, con 1,4 miliardi di euro dichiarati in Lussemburgo, dove la società fornisce servizi e finanziamenti all’interno del gruppo ed è soggetta a un’aliquota fiscale pari allo 0,3%. L’operazione, effettuata evidentemente negli interessi dell’azienda, come abbiamo scritto chiaramente è del tutto legale. Per quanto riguarda le intenzioni – che non vogliamo certo processare – e le motivazioni che hanno portato la società telefonica ad avere un’importante filiale in Lussemburgo, apprendiamo e prendiamo atto che lo scopo non è pagare meno tasse ed eludere il fisco.

Luciano Cerasa

 

Egregio direttore, la “confutazione” dell’ex funzionario del Sisde Carlo Parolisi su quanto ho scritto nel libro Il quarto uomo del delitto Moro (Kaos edizioni 2018), non confuta un bel niente. Infatti:

1) Come scrive la II Commissione parlamentare Moro nella relazione 6 dicembre 2017, “la missione del Sisde [a Managua] si svolse nell’agosto 1993… autorizzata il 18 agosto dal Direttore, che ne aveva informato l’Ag nella persona del dott. Ionta”. Dunque, nonostante il lodevole attivismo individuale e “preventivo” dei due funzionari del Servizio, il loro viaggio in Nicaragua per colloquiare col latitante Alessio Casimirri fu una missione ufficiale del Sisde, come ho correttamente scritto.

2) La “precisazione” del Parolisi a proposito del “quarto uomo”, da lui e dal collega erroneamente indicato nella persona di Giovanni Morbioli anziché in Germano Maccari, conferma quanto ho scritto. E cito al riguardo quanto dichiarato dal magistrato Ionta alla Commissione parlamentare stragi: “A un certo momento, mentre le attività dell’Ag, in particolare della Digos di Roma [indicavano] il quarto uomo in Maccari… è pervenuto un appunto relativo alla missione compiuta nell’estate… da due funzionari del Sisde che avevano avuto contatto con Casimirri in Nicaragua. All’esito di questo appunto si faceva un’indicazione del quarto uomo diversa dal Maccari, indicando un certo Morbioli. Dall’appunto [del Sisde] non risulta molto chiaro se il nome di Morbioli viene fatto da Casimirri o se vi è per così dire una sollecitazione fatta dai funzionari del Sisde a indicare in Morbioli il quarto uomo. Questo per dire che l’attività svolta dal Sisde sul quarto uomo non avrebbe in realtà portato all’indicazione di Maccari ma su persona diversa”.

In conclusione, benché il Parolisi mi attribuisca “affermazioni frutto della mia personale interpretazione dei fatti”, io mi sono limitato a riportare correttamente fatti e documenti non smentibili. E se da essi emergono grottesche stranezze, gravi ambiguità o “ipotetici depistaggi”, non so che farci.

Sergio Flamigni

CR7 Una condanna da qualche “spicciolo” (anche grazie alle leggi italiane)

 

Cristiano Ronaldo, da quanto ho letto, ha patteggiato per chiudere il contenzioso col fisco spagnolo sulle tasse che avrebbe evaso durante gli anni al Real Madrid e pagherà 18,8 milioni di euro. Per uno che soltanto nel 2018 ha guadagnato 30 milioni, non è un dramma. Questi “campioni” ricevono sempre un trattamento di favore a differenza di noi “comuni mortali”. Quindi sono i soldi che fanno la differenza tra loro e le persone normali di fronte alla legge?

Fausto Stellati

 

Gentile Fausto, la verità è che CR7 è venuto in Italia, alla Juventus, essenzialmente per una questione di soldi. La Juventus gli paga un ingaggio di 31 milioni netti (60 lordi) ma soprattutto il fuoriclasse ex Real si avvale, del tutto legittimamente, della legge varata dal governo Renzi, quella della tassa forfettaria di 100 mila euro per attirare in Italia gli stranieri miliardari. Sapendo di mettersi in tasca, qui da noi, un’infinità di milioni in più grazie all’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero (all’incirca un secondo ingaggio pagando, appunto, solo 100 mila euro), CR7 non ha avuto alcuna difficoltà, ieri, ad accettare il patteggiamento col Tribunale di Madrid per l’evasione fiscale compiuta negli anni tra il 2011 e il 2014: pagherà al fisco spagnolo 18,8 milioni di euro e soprattutto non andrà in prigione perché i giorni di detenzione (in totale 24 mesi) sono stati commutati in multa. A dispetto del “Tutto bene ragazzi!” pronunciato all’uscita dal Tribunale, tuttavia, Cristiano Ronaldo proprio tranquillissimo non è: se dovesse finire a processo negli Usa per l’accusa di stupro ai danni di Kathryn Mayorga, fatto avvenuto il 13 giugno 2009, i rischi che correrebbe sarebbero alti: le pene dello Stato del Nevada, in materia, sono molto severe, se è vero che vanno dai 15 anni all’ergastolo. Scommettiamo però, e in questo siamo d’accordo con lei, che i soldi del cinque volte Pallone d’Oro faranno il miracolo. Niente palla al piede. Solo pallone.

Paolo Ziliani