Iporti italiani rischiano di essere privatizzati, almeno stando alle parole degli esponenti leghisti di governo, arrivate proprio nelle ore seguenti la formalizzazione dell’indagine sul regime fiscale delle Autorità portuali italiane da parte della Commissione europea. Oltre a chiudere i porti, insomma, la Lega vorrebbe prenderseli. Un progetto che sicuramente non piacerà al Movimento 5Stelle, finora poco attento a un dossier che invece ha un peso notevole.
Primo su tutti, a ventilare la possibilità di una riforma per trasformare le Autorità portuali in Spa a controllo pubblico, è Edoardo Rixi, il viceministro leghista alle Infrastrutture con delega ai porti. Il tema è un vecchio pallino federal-leghista: togliere la fiscalità portuale a Roma e affidarla agli enti locali, ed è stato recentemente rilanciato dal presidente forzista della Liguria, Giovanni Toti, in vista delle Regionali 2020, forte di sostenitori anche nel Pd e oggetto proprio oggi di una riunione al ministero dei Trasporti per convincere l’alleato di governo.
Dopo la riforma Delrio, nel 2016, le Autorità Portuali (Ap), gli enti pubblici che regolano le attività economiche nei porti, sono 15 (la sedicesima, quella dello Stretto, è in via di costituzione). Attraverso i 58 porti amministrati nel 2017 sono passati circa 500 milioni di tonnellate di merci e 51 milioni di passeggeri. La Commissione europea, concedendo due mesi per rispondere, ha messo nel mirino la fiscalità delle Autorità portuali italiane assimilandole. nel percepire i canoni per il rilascio di concessioni sui terminal, a soggetti economici tenuti quindi a pagare le relative imposte allo Stato. Malgrado i bizantinismi del nostro ordinamento, un evidente paradosso. Le Autorità portuali sono lo Stato. Stato che, come avviene per le autostrade o gli aeroporti, incamera per l’uso dei terminal portuali canoni non soggetti a imposizione fiscale: che senso ha che uno Stato paghi tasse a se stesso? La preoccupazione è che l’identificazione delle Ap come attori economici renderebbe poi soggetto alla normativa sugli aiuti di Stato ogni finanziamento statale sulle infrastrutture portuali. Per questo il dialogo con Bruxelles è aperto da anni.
Il nuovo governo ha però ammorbidito la difesa dello status quo (l’infrastruttura è statale e lo Stato deve poterne disporre), ipotizzando un avvicinamento alle posizioni della Commissione con la trasformazione in soggetti economici (Spa) degli enti.
Difficile dire se e come si possa risolvere l’aporia dell’obiettivo di fondo: assegnare agli enti locali soci delle Spa le risorse oggi incamerate dalle Autorità portuali: quelle trattenute per le proprie esigenze (canoni di concessione, tasse d’ancoraggio e imbarco/sbarco) e, la vera ‘ciccia’, quelle consegnate all’erario (Iva sulle importazioni: 10-12 miliardi di euro l’anno). Come potrebbe una Spa trattenere un’imposta, per giunta slegata dalla propria attività?
Quel che è certo è che la riforma avrebbe il senso dichiarato (alleggerire il presunto eccesso di burocrazia che affligge le Ap) solo patrimonializzando le Spa col conferimento delle aree portuali, prima sdemanializzate. Operazione complessa. Innanzitutto perché sarebbe un aiuto di Stato, da vedere se compatibile con le norme Ue. A quel punto, poi, ogni scelta su infrastrutture e concessioni sarebbe presa non nell’interesse dello Stato (come oggi, almeno in teoria) ma in quello di una Spa. Il controllo pubblico non necessariamente coincide con l’interesse pubblico.
Esempio: qualora il ‘mercato’ non lo reputi conveniente, un intervento infrastrutturale, anche di banale mantenimento come un dragaggio, sarebbe arduo. Interi porti rischierebbero l’abbandono e fra gli altri si aprirebbe una feroce concorrenza.
Non solo. A prescindere dall’eventuale adozione di golden share o altre garanzie sulla proprietà pubblica dei moli, è evidente che un tale assetto si presterebbe molto di più dell’attuale a una loro alienazione, come avvenuto ad esempio in Grecia, dove il Pireo è ormai quasi un’enclave cinese.
Infatti, senza coperture erariali, come potrebbero le Spa finanziare i propri necessari investimenti se non cartolarizzando/vendendo il loro patrimonio?
Ammesso che la Lega sia consapevole degli effetti extra federalistici, che ne diranno M5S e il ministro Danilo Toninelli? Finora i 5Stelle non sembrano aver compreso la portata dell’iniziativa, anche perché è assai in contrasto con la tutela dei “beni comuni” che da sempre è il tratto distintivo del Movimento.
Poche sono tuttavia le voci (finora solo Uil e Cgil) levatesi contro l’uscita di Rixi. Questo nonostante il settore marittimo sia sempre più caratterizzato da fenomeni di concentrazione nelle mani di pochi potentissimi soggetti (parastatali, come i conglomerati asiatici, o privati come le multinazionali occidentali) in grado di orientare a proprio piacimento le scelte infrastrutturali e le politiche del lavoro di interi Stati.
A contrastare tale disegno non saranno quindi i grandi gruppi dei terminal, che oggi godono di concessioni pluridecennali, utili stellari e ricchi Roe (i ritorni sul capitale investito anche per manutenere infrastrutture pubbliche), come rivelato da uno studio di Fedespedi sui primi 10 player nazionali, tutti controllati da multinazionali estere. Una volta proprietari, infatti, sparirebbe quasi del tutto il pur remoto rischio che l’attuale concedente si risvegli dal torpore e metta mano al settore, magari diradando la giungla normativa, aprendolo a forme di maggiore concorrenza e attivandosi per una nuova distribuzione delle grandi rendite garantite.