Fischi contro Macron e Merkel per il nuovo asse franco-tedesco

Mano nella mano, si rinsalda l’asse franco-tedesco. Il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno firmato ieri il trattato di Aquisgrana, che rilancia il contratto dell’Eliseo siglato nel 1963 da Charles de Gaulle e Konrad Adenauer. Per contrastare i nazionalismi emergenti in Europa e i problemi economici del Vecchio continente, Francia e Germania si tutelano e si rafforzano a vicenda. Una zona economica franco-tedesca, la difesa comune europea, il sostegno francese alla Germania come membro permanente del Consiglio di sicurezza, delle nuove regole – leggasi deroghe – per le regione transfrontaliere Alsazia e Lorena (punto che ha sollevato critiche delle destre sia in Germania sia in Francia) sono alcuni dei 15 punti del dossier. “Macron dimettiti” e “Merkel deve andarsene” hanno accolto i due leader al momento dei saluti iniziali, poi Merkel e Macron hanno salutato con il sorriso i contestatori tra cui alcuni con indosso un gilet giallo. “L’amicizia tra i nostri Paesi non è scontata visto il passato” ha dichiarato la cancelliera “andremo avanti mano nella mano”.

Grandeur sulla pelle degli altri: il vetero-colonialismo di Parigi

Possibile che in Italia si abbia così poco spirito nazionale dall’interpretare ogni azione del nostro governo come propaganda senza badare ai fatti? Nell’attuale scontro fra Italia e Francia il governo italiano ha perfettamente ragione. Quando Luigi Di Maio afferma “alcuni Paesi europei con in testa la Francia non hanno mai smesso di colonizzare decine di Stati africani, se la Francia non avesse le colonie africane, che sta impoverendo, sarebbe la 15ª forza economica internazionale e invece è tra le prime per quello che sta combinando in Africa, l’Ue dovrebbe sanzionare queste nazioni come la Francia che stanno impoverendo questi posti, è necessario affrontare il problema anche all’Onu”, dice una pura verità.

La Francia è l’ultimo Paese europeo ad aver conservato una mentalità vetero-coloniale. Se prendiamo Le Monde, che pur è un giornale di sinistra, troviamo pagine e pagine dedicate ai Paesi africani e tutte orientate, come faceva il vecchio colonialismo, a vedere la Francia come benefattore e non come oppressore quale effettivamente è. Del resto, per restare alle cose più recenti, è stata la Francia, prima ancora degli Usa, ed è tutto dire, ad aggredire la Libia di Muammar Gheddafi per la sola ragione che voleva rafforzare la sua posizione economica in Libia ai danni dell’Italia che purtroppo si accodò a quella sciagurata operazione di cui il nostro presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi, non era affatto convinto ma ebbe la debolezza di subirla.

La Francia ha in Africa forze militari un po’ ovunque, senza che, in quasi tutti i casi, la presenza di queste truppe sia stata autorizzata dall’Onu e nemmeno dalla Nato. Prendiamo un esempio fra i tanti, che abbiamo già fatto ma che è bene riprendere (Mali: la balla del terrorismo, 20.1.2013; Mali, l’Occidente ha reso globale una guerra locale, 22.11.2015; La spocchia di Parigi è un problema europeo, 17.6.2018, pubblicati tutti sul Fatto). Nel Mali del sud, con capitale Bamako, la Francia aveva pieno controllo attraverso il solito presidente fantoccio Ibrahim Boubacar Keita. Ma non gli bastava. Così pochi anni fa aggredì il Mali del nord abitato da pacifici e laici Tuareg (fra i Tuareg quando una coppia si separa è il marito a dover abbandonare la tenda coniugale e tornare in quella dei genitori) che praticavano, come han sempre fatto, il nomadismo senza peraltro debordare in quello del Sud. Il risultato di questa brillante operazione è che i Tuareg, in ovvia inferiorità militare, per difendersi si sono alleati alle componenti islamiche radicali dell’area e così è nata una guerra e, con essa, un’emigrazione maliana che non c’era mai stata.

Ma il Mali è solo un esempio dell’oppressiva presenza francese in Africa Nera. Naturalmente – e qui ha ancora ragione Di Maio quando parla di “alcuni Paesi europei” – la questione riguarda anche altri Stati del Vecchio continente che sono presenti nell’Africa subsahariana pur senza manifestare la mentalità vetero-coloniale dei francesi (Di Maio ha solo torto quando attribuisce grande importanza al franco Cfa, che ha corso legale in 14 Paesi: questione marginale che sottolinea solo la mentalità vetero-coloniale dei francesi).

La questione dello straordinario impoverimento dei Paesi dell’Africa Nera ha radici ben più profonde e sono quelle indicate da Thomas Sankara, allora presidente del Burkina Faso, in un discorso del 1987 all’assemblea dei Paesi non allineati’, Oua: “Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere… Hanno fatto in modo che l’Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranei”.

In estrema sintesi: il violento ingresso del modello occidentale ha scardinato le economie (economie di sussistenza: autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto e a volte anche prosperato per secoli e millenni causando la miseria che oggi porta a quelle migrazioni da cui siamo tanto spaventati quanto responsabili, Italia compresa. E anche di questa situazione avevo dato conto, con largo anticipo, in un libro di notevole successo, Il Vizio oscuro dell’Occidente, che è del 2002, in cui si dimostra, dati alla mano, che l’Africa Nera era stata alimentarmente autosufficiente fino al 1960, quando non era ancora un mercato ritenuto interessante dagli occidentali (adesso ci si è messa di mezzo, in modo un po’ più intelligente e soft, anche la Cina). Poiché gli abitanti dell’Africa Nera sono 720 milioni (escludendo il Sudafrica che fa parte a sé) è chiaro che il loro passaggio da poveri a miserabili, ridotti alla fame, resi estranei alla propria cultura, porterà a migrazioni di cui quelle a cui assistiamo oggi sono solo un pallido fantasma. Possiamo fermarli sulle coste libiche, ma li costringiamo a vivere in un inferno da noi stessi causato con l’aggressione a Gheddafi che teneva sotto controllo la situazione. Possiamo cercare di fermarli – è l’ipotesi prima di Minniti e ora di Salvini – ai confini del Niger o di altri Paesi, ma così li recludiamo in un altro inferno che è quello della loro miseria (cosa sociologicamente diversa dalla povertà) e della loro fame.

Ricordiamoci che l’80% delle migrazioni provengono dall’Africa subsahariana e solo il 20% da guerre che prima o poi potrebbero anche finire. E quindi se un giorno saremo sommersi dalle popolazioni nere, come pare inevitabile, si potrà solo dire “chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Ma per tornare all’attuale conflitto diplomatico, cerchiamo di ritrovare un poco di quello spirito nazionale che c’è rimasto e rimandiamo al mittente, ancora attaccato a una grandeur ridicola quanto storicamente inesistente, le sue arroganti affermazioni e le sue mosse (“irresponsabili”, convocazione dell’ambasciatrice italiana a Parigi). Di Maio ha detto una verità, anche se solo parziale.

Vespa fa spostare “Povera patria” con Cazzullo e Giuli

“Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere…”. Sarà dunque il sempre attuale brano di Franco Battiato a dare nome e sigla a quello che Carlo Freccero ha trasformato nel programma di punta dell’informazione di Rai2. Povera Patria è la versione riveduta e corretta di Night tabloid: testi più adatti alla narrazione vigente, più servizi, più inchieste e più inviati. Ma la conduzione è sempre la stessa: Annalisa Bruchi, coadiuvata da Alessandro Giuli e Aldo Cazzullo, che ogni settimana realizzerà un’intervista di peso, la prima al cardinal Bassetti. Novità: le imitazioni in apertura di Liliana Fiorelli. Si parte venerdì, alle 23. Il programma in prima battuta era stato pensato per la seconda serata del mercoledì, cosa che ha fatto andare su tutte le furie Bruno Vespa, che si sarebbe trovato un concorrente interno a metà settimana. E proprio le pressioni di Vespa sui vertici di Viale Mazzini avrebbero determinato lo spostamento al venerdì. “Abbiamo aderito all’armonizzazione del palinsesto Rai”, ha detto Freccero con un sorriso amaro. “Saremo ancillari, andremo in onda per ultimi, ma saremo i migliori”.

“Il salva Rixi inapplicabile a Rimborsopoli”

Agli ex consiglieri regionali del Piemonte, condannati per i rimborsi gonfiati lo scorso 24 luglio, non si può contestare l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, reato modificato con l’emendamento “Salva-Rixi” voluto dalla Lega nella legge anticorruzione, ma quello più grave di puculato. In questo modo alcuni eminenti esponenti del Carroccio – l’ex governatore piemontese Roberto Cota e il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari – potrebbero avere meno appigli nel caso in cui tentassero di utilizzare il nuovo strumento ricorrendo in Cassazione.

Nelle motivazioni depositate ieri i giudici della Corte d’appello hanno voluto inserire un passaggio su quell’articolo del codice penale, il 316 ter, per eliminare ogni dubbio: “Nei casi per cui si procede non vi è stato ‘utilizzo o presentazione di dichiarazioni o documenti falsi o cose attestanti cose non vere’ – scrivono i magistrati Piera Caprioglio, Alessandro Prunas Tola ed Enrico Ceravone – poiché non si contesta la veridicità dei giustificativi di spesa portati a rimborso”. Nessuno degli ex consiglieri ha fatto carte false, gli è bastato consegnare “scontrini a catena” per mettersi in tasca migliaia e migliaia di soldi pubblici. E così sono stati condannati per peculato, così come la Cassazione ha confermato in casi molto simili: quello di Fiorito, dei consiglieri sardi e quelli valdostani.

In questo modo non dovrebbero esserci grosse vie di fuga per i 24 politici (più la figlia di una di loro) ritenuti colpevoli dalla Corte dopo le tante assoluzioni formulate dal Tribunale di Torino. Un caso su tutti è quello dell’ex presidente Cota, condannato a un anno e sette mesi per un peculato di 11.659 euro. Rispetto alla sentenza di primo grado i giudici non hanno chiuso gli occhi sugli “scontrini a catena” o sulle colpe gettate addosso alle segretarie che non hanno “alcun potere-dovere di sindacato e controllo”, ricordano spesso: “L’elevata frequenza di scontrini non inerenti di cui si afferma la presentazione erronea in buona fede è con tutta evidenza logicamente non credibile”, scrivono di Cota. Lo dimostra il caso delle famigerate “mutande verdi” (in realtà dei bermuda) acquistate a Boston: “Non si vede come possa ritenersi erronea la presentazione di uno scontrino per l’acquisto di un capo di abbigliamento avvenuto addirittura dagli Stati Uniti, per poi inserirlo – dopo un volo transoceanico – nella cartellina dei rimborsi” perché “la conservazione dello scontrino e la sua consegna alla segreteria palesa già di per sé l’intenzione di ottenere il rimborso”.

È andata meglio a Molinari, condannato a 11 mesi per la cifra di 1.241 euro che comprende spese “in località di interesse turistico e nei weekend in assenza di specifici e comprovati concomitanti eventi di interesse per il gruppo”. Ci sono poi i rimborsi per il carburante e hotel in occasione delle riunioni: “Percepiva mediamente tra gli oltre quattromila e i settemila euro al mese tra gettoni di presenza e rimborsi spese forfettari o per missioni, emolumenti che già largamente coprivano tutte le spese inerenti all’esercizio della sua funzione”. Lo stesso argomento è usato anche per il suo collega, Paolo Tiramani, condannato a un anno e cinque mesi per un peculato da 12mila euro circa. Per la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli, condannata a un anno e sette mesi, la Corte ha ricordato “scontrini eccentrici” e le spese “indifendibili” con scuse “inverosimili”: la borsa Borbonese e due Swarovski da donare durante incontri pubblici con i cittadini.

Buttava troppi soldi, andò via Maglie verso il ritorno in Rai

In Viale Mazzini non ci si fa mancare niente. Così, tanto per rendere frizzante l’aria in attesa del Festival di Sanremo, ecco profilarsi all’orizzonte il caso Maria Giovanna Maglie. Che nelle prossime settimane potrebbe aggiungere nuove puntate al braccio di ferro tra Lega e M5S in Rai, dopo i casi di Marcello Foa (il presidente diventato tale nonostante una prima bocciatura della Vigilanza) e Casimiro Lieto (l’autore di Elisa Isoardi che la Lega voleva alla direzione di RaiUno).

Anche stavolta c’è lo zampino di Matteo Salvini. Il quale, in triangolazione con Foa e la direttrice di Rai1 (in quota Lega) Teresa De Santis, vorrebbe riportare Maglie in tv. Non in reconditi spazi del palinsesto, ma addirittura in primissima serata, con un approfondimento d’informazione quotidiano in onda alle 20.30, dopo il Tg1. Il medesimo spazio televisivo, per dire, de “Il Fatto” di Enzo Biagi. Che si starà rivoltando nella tomba. Già, perché se il suo “Fatto” era tagliente nei contenuti ma moderato nei toni, la striscia serale della Maglie, visto il personaggio, si annuncia roboante e vulcanica. Ma soprattutto ben indirizzata politicamente in senso destrorso e sovranista.

Maglie, infatti, da anni passa da una testata all’altra (Libero, il Giornale, il Foglio, Radio 24), spesso chiudendo i rapporti con immancabili litigate, sempre su quel fronte della barricata. E dopo i lustri del berlusconismo imperante e della lotta senza frontiere al terrorismo arabo, da tempo è abile e arruolata dall’esercito sovranista, filo-Trump e filo-Putin, veemente voce degli oltranzisti del refrain “popolo contro élite”. Quelli che appena vedono un migrante (o qualcosa di sinistra) mettono mano all’Ak-47. E nel suo mirino è finito anche Sergio Mattarella.

Per lei si tratterebbe di un ritorno, dopo l’uscita di scena poco onorevole da Viale Mazzini a seguito di un caso di “spese pazze”. All’inizio dei Novanta, infatti, Maglie era la corrispondente negli Usa del Tg2 di Bettino Craxi. Le sue pirotecniche corrispondenze, però, erano costose: 150 milioni di lire di note spese in un anno e mezzo, dal gennaio del ’92 al giugno del ’93. Un’esagerazione per cui fu oggetto di un audit interno dell’azienda e di un’indagine della magistratura per truffa aggravata. L’inchiesta finì con l’archiviazione (spese molto, ma non falsificò le fatture). Dalla Rai, però, dovette andarsene nel 1994. E ora, a 25 anni di distanza, il possibile ritorno.

Per il momento non vi è ancora nulla di certo, ma da Viale Mazzini si fa sapere che si sta studiando un programma per il dopo Tg1 e che il nome della Maglie è in pole position. Tutto è rimandato a dopo Sanremo e, se la cosa quaglierà, si parla della primavera, giusto in tempo per la campagna elettorale per le Europee. Fonti parlamentari, poi, raccontano come l’idea sia stata partorita dal triangolo Foa-Salvini-De Santis (che è anche amica personale della Maglie), ma che abbia trovato l’opposizione dei Cinque Stelle. Che su Rai1 non la vogliono. Il piano B sarebbe quella di dirottarla su Rai2, sempre dopo l’edizione serale del Tg, alle 21. Ma qui a storcere il naso sarebbe Carlo Freccero che, per quello spazio, insieme a Gennaro Sangiuliano, sta pensando a un prolungamento in forma di talk del Tg2. Insomma, non siamo ancora allo scontro andato in scena tra l’ad Fabrizio Salini e Matteo Salvini su Casimiro Lieto (che nel frattempo è sbarcato a “La vita in diretta”), ma poco ci manca. E sarà interessante vedere se Salini riuscirà ad avere la meglio anche stavolta o dovrà cedere alle richieste del Carroccio. Maglie, intanto, si diletta tra ospitate in tv e articoli per Dagospia (“America fatta a Maglie”, la sua rubrica sulla politica Usa). In attesa di un roboante ritorno.

Grillo: “Minenna alla Consob è garanzia per tutti i cittadini”

E alla fine parlò Beppe Grillo. “L’Elevato garante vuole esprimere un parere su garanzia cittadini per nomina Consob: senza dubbio Marcello Minenna” ha twittato ieri il fondatore del M5S, spingendo così ufficialmente per il candidato dei Cinque Stelle. Una mossa irrituale e di fatto inopportuna, visto che il presidente dell’autorità che vigila sulla Borsa e sul mercato immobiliare è formalmente nominato dal presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio. E l’uscita di Grillo rischia di irrigidire ulteriormente il Quirinale, dove già sono perplessi sul nome di Minenna, proprio perché è percepito come troppo vicino al Movimento (l’economista è stato anche per qualche settimana assessore al Bilancio e alle Partecipate nella giunta di Virginia Raggi a Roma). Ma sulla sua figura è arrivato giorni fa anche il via libera di Matteo Salvini, e Luigi Di Maio può quindi insistere sul suo nome (senza entusiasmo, dicono dal Movimento). E il senatore del M5S, Elio Lannutti, intimo amico di Grillo, avverte: “Sfido chi si oppone a portare al Cdm di mercoledì questa nomina, nell’interesse esclusivo dell’Italia”. Tradotto, tra due giorni serve la delibera da inviare al Colle.

“Chi partiva dagli operai è finito con Marchionne”

“Lino Banfi sarebbe popolo o élite? Ma fatemi il piacere…”. Gad Lerner, giornalista e fino all’anno scorso militante del Pd, rifiuta in blocco l’interpretazione corrente dei rivolgimenti politici e culturali del 2018. Il divorzio tra la classe operaia e la sinistra risale addirittura a quarant’anni fa, alla sconfitta sindacale alla Fiat del 1980: “È allora che si avvia un massiccio dirottamento di quote di ricchezza nazionale dai salari a vantaggio dei profitti e delle rendite”, spiega. “Le imprese non reinvestono i profitti accumulati, ma scelgono più comode diversificazioni. Così azionisti e manager non solo si arricchiscono, ma esercitano il loro potere di soggezione sulla politica e sul giornalismo”. Per raccontare come i gruppi dirigenti della sinistra siano caduti in questa ragnatela, Lerner rispolvera l’introduzione che aveva scritto dieci anni fa a un suo libro inchiesta (Operai, Feltrinelli).

Come si è consumato questo divorzio tra la sinistra e il suo mondo d’origine?

La generazione di giovani dirigenti del Pci che ereditarono la leadership di Berlinguer, e che avrebbero poi fondato il Partito democratico, non ha più intrattenuto alcuna consuetudine con il mondo del lavoro dipendente. Aspirando al governo del Paese e costretta a fare i conti con la dominante cultura neo-liberista, ha cercato legittimazione in un establishment nazionale di cui ha tollerato, in cambio, i vizi. Sposandone talvolta i comportamenti. Il mio amico sociologo Bruno Manghi, sintetizza in uno sfottò l’impedimento a rimettersi in sintonia col mondo del lavoro da parte dei vertici della sinistra: “Vi siete abituati a frequentare troppi ricconi”. Lo stile e il tenore di vita dei politici, ma anche di molti intellettuali, si è avvantaggiata del brutale incremento della disuguaglianza. Per necessità o per vocazione frequentava altri ambienti, incrociando di rado lo sguardo dei pochi militanti anziani rimasti a condividere la vita del popolo delle formiche.

La famosa connessione sentimentale?

Per anni le fondazioni culturali di sinistra hanno promosso convegni con i banchieri e i principali esponenti del malconcio capitalismo italiano. Mentre non si ricorda un momento di riflessione significativo dedicato alle difficoltà di rapporto con le organizzazioni sindacali né tantomeno al peggioramento della vita operaia.

Quando dice intellettuali, parla anche di sé?

Certo, vivo anch’io una contraddizione. Ho avuto un percorso di vita fortunato, e pur conservando gli amici di prima, negli anni mi è capitato di diventare amico anche di alcuni “padroni”. Nulla di cui vergognarmi, sia chiaro. Ho lavorato sodo e guadagnato bene. Meno di tanti odierni “capipopolo”, ma bene. Per questo non mi atteggio a vittima quando mi rinfacciano il rolex, ma non smetterò per questo di denunciare la china fascistoide implicita nello slogan “Prima gli italiani” che la Lega ha ripreso da Casapound. Semplicemente, come ho già detto al Fatto, so bene che la rigenerazione di una sinistra popolare toccherà inevitabilmente ad altri. Figure più credibili, chiamate a contrastare la deriva italiana: un lungo ciclo di boom dei profitti abbinato a decrescita infelice.

Chi può avere le credenziali per guidare questa “resistenza”?

Vale la pena ricordare che i fondatori del movimento sindacale in Italia furono Bruno Buozzi, Achille Grandi e Giuseppe Di Vittorio: cioè tre persone che avevano cominciato a lavorare tra i nove e gli undici anni. Erano un meccanico, un tipografo e un bracciante che hanno conosciuto di persona la povertà e il lavoro minorile e che in seguito hanno vissuto uno straordinario percorso di acculturazione che li ha fatti diventare anche grandi intellettuali. A un certo punto, negli anni Ottanta, si è interrotto il circuito virtuoso che portava i figli del popolo ai vertici del sindacato e del partito. Ma anche a diventare grandi sociologi del lavoro, come l’ex operaio Aris Accornero e lo stesso Luciano Gallino, giovane benzinaio che in provincia di Ivrea incontra per caso Adriano Olivetti. Altro che forconi e Gilet gialli, allora si parlava semmai di aristocrazia operaia.

Quel circuito si è spezzato.

Molti dirigenti della sinistra che avevano vissuto in prima persona la vertenza Fiat, come Piero Fassino e Sergio Chiamparino, si contraddistingueranno nel secolo nuovo per l’ostentata sintonia con Sergio Marchionne, il manager “apolide” intenzionato a trattare la manodopera italiana né più né meno di quella brasiliana, polacca, serba, statunitense (segno di civiltà, se non avvenisse al ribasso). Tenendo, nel 2007, in un luogo simbolico come l’ex stabilimento del Lingotto il discorso d’investitura alla guida del Pd, Walter Veltroni enfatizzò la sua adesione allo spirito d’impresa condannando le non meglio precisate manifestazioni di “invidia sociale”.

Perché non crede allo schema élite versus popolo?

Ma quale élite e quale popolo? Credo sia l’ultima mascheratura ideologica del disastro in cui siamo precipitati. Non a caso ne ha fatto la sua armatura la nuova élite, quella vincente. Quella di derivazione televisiva Raiset del Movimento 5 Stelle, figlia di Grillo e del Gabibbo che a un certo punto si è camuffata fingendo di parlare a nome del popolo, destinata a fare da battistrada al leghismo, più attrezzato sul piano ideologico e insediato da decenni al governo delle regioni del Nord. Capisco che si tratta di un’élite smandrappata di un Paese in declino, ma pur sempre élite.

Piero Ignazi ha detto: il Pd dovrebbe elogiare misure come il reddito di cittadinanza. D’accordo?

Sì, non è stato affrontato per tempo il problema di un sostegno alle persone che non lavorano. Ma altrettanto grave è la piaga, elusa da tutti perché è più difficile trovare una ricetta, della epidemia di lavoro povero. Chiedete a Salvini se è davvero favorevole a una redistribuzione della ricchezza circolante.

Una patrimoniale?

Magari bastasse. La piaga dei salari da fame si può affrontare e risolvere solo su scala europea. Il patriottismo sovranista è una favola che serve solo ad alimentare la guerra fra poveri: l’idea che potremmo distribuire fette di torta più generose se la spartizione fosse riservata agli italiani… Ha presente l’assessore di Monfalcone che il giorno dell’Epifania ha pubblicato quella filastrocca? “Vien dall’Africa il barcone per rubarvi la pensione”. La rima tra barcone e pensione è la truffa con cui si pretende di difendere il popolo contro le élite.

Cesare Battisti parla dal carcere: “Mi sono sentito umiliato”

“Mi sono sentito umiliato, non sono più la persona che ero 40 anni fa, non ci si può accanire così né si può scontare una condanna due volte”. È quanto ha detto Cesare Battisti durante un colloquio con gli esponenti dei Radicali Maurizio Turco e Irene Testa, nel carcere di Oristano, dove l’ex terrorista dei Pac è stato rinchiuso dopo la cattura in Bolivia e il trasferimento in Italia. A riferirlo sono gli stessi rappresentanti dei Radicali all’uscita dall’istituto penitenziario. Nello stigmatizzare l’assenza di un garante dei detenuti in Sardegna, ancora non nominato nella seconda consiliatura regionale consecutiva, i Radicali hanno ispezionato il penitenziario e alla fine hanno incontrato in cella d’isolamento Battisti: “Battisti lo abbiamo trovato abbastanza bene, tranquillo – dicono Testa e Turco – ci ha ribadito che gli agenti della polizia penitenziaria di Oristano lo stanno trattando bene, cosa peraltro confermata da altri detenuti ”. Pronta la replica di Salvini su Fabeook: “Battisti si sente umiliato? Abbia dignità, abbia rispetto: chiedi scusa ai parenti, ai familiari a cui hai tolto il padre, il figlio”.

Conte e Alpa, ecco i sette incarichi e le parcelle del duo

Le Iene hanno dato la caccia al presidente del consiglio Giuseppe Conte chiedendo a lui e al professor Guido Alpa se avessero emesso una fattura o due fatture separate quando hanno difeso il Garante della Privacy contro la Rai a partire dal 2002.

La causa, chiusa nel 2015, verteva sull’uso degli elenchi degli acquirenti delle tv per scovare gli evasori. I giudici hanno dato ragione al Garante però non è questo il punto. Per le Iene (e per Repubblica che ha dato la notizia) quella vecchia causa potrebbe tornare utile per sostenere che il concorso del 2002 del professor Conte sarebbe viziato dalla presenza in commissione di Alpa. La causa inizia a gennaio 2002 e due mesi dopo i due difensori si ritrovano come esaminato e esaminatore. Alpa e Conte quell’anno vanno a lavorare in un medesimo ufficio con un solo numero di telefono ma non costituiscono uno studio associato. Se Alpa e Conte avessero emesso una sola fattura per l’incarico attribuito a entrambi nel gennaio 2002- è la tesi delle Iene – ci sarebbero gli estremi per sostenere l’esistenza di una ‘cointeressenza economica’ al momento dell’esame. Per questo le Iene hanno fatto domanda al Garante per l’accesso civico agli atti della causa. Dopo il diniego, motivato anche con il rifiuto di Alpa di mostrare le carte (Conte invece non si è opposto) sono andati a chiedere lumi ai due professori. Il Fatto però ha scoperto che sul sito del Garante da due mesi sono pubblicati gli incarichi e i compensi incassati. Tra questi ci sono anche quelli incassati da Conte a fine luglio, dopo la nomina a premier, proprio per la causa tra il Garante e la RAI che tanto interessa alle Iene.

Sul sito ci sono solo i pagamenti degli ultimi quattro anni. Conte e Alpa hanno ricevuto nel periodo sette incarichi per altrettanti gradi di giudizio relativi però a sole quattro cause. Conte e Alpa sono stati pagati sempre con due fatture separate per ciascun incarico e il Garante contabilizza sempre separatamente i loro crediti. Talvolta le fatture sono emesse dai professionisti lo stesso giorno per pari importo, altre volte sono emesse in tempi diversi. Per esempio, per l’incarico relativo alla causa Garante/RAI, Conte ha incassato tutto e Alpa ancora no. Le fatture e le spettanze di Conte e Alpa sono però separate. Sul sito però non è pubblicato l’incarico del primo grado della causa contro la Rai. Solo per quel giudizio deò 2005 non sappiamo se sia stata emessa solo una fattura o due separate.

In altri casi, per esempio il 16 dicembre del 2014, il Garante ha pagato separatamente a Conte 5 mila e 400 euro per due fatture relative a due gradi di giudizio della stessa causa iniziata a ottobre del 2011. Esattamente la stessa cifra è stata pagata con fatture separate emesse anche da Alpa lo stesso giorno. Anche per la controversia Garante/Rai è andata così, almeno per gli ultimi due gradi di giudizio. Sul sito si legge infatti che Conte e Alpa sono stati incaricati insieme – come sempre – il 29 gennaio 2002. La causa è finita nel 2015 e l’appello risale addirittura al 2010. Ma Conte ha incassato solo pochi mesi fa. Dal sito risulta che il Garante ha pagato il 25 luglio del 2018, quando era già premier. “Il presidente Giuseppe Conte ha fatturato i suoi compensi al Garante per gli ultimi due gradi di giudizio – spiegano dallo staff del premier – ad aprile 2018 e ha incassato il 31 luglio del 2018”, qualche giorno dopo la data indicata sul documento del Garante per i tempi bancari. Le fatture sono due e precedono quindi la nomina. Il compenso del secondo grado è pari a 6 mila e 270 euro mentre quello del terzo grado è pari a 7.979 euro. “Anche Alpa ci risulta abbia fatturato a ottobre 2018” – spiegano dallo staff di Conte- il pagamento, con i tempi dell’Autorità, sarà fatto a breve e per questo non risulta. I professori fatturano spesso con grande ritardo. Non hanno di questi problemi”.

Il professor Alpa conferma: “Non ho incassato perché sono in ritardo nelle richieste di pagamento. Con Stefano Rodotà ho lavorato a costruire il Garante e ho un particolare affetto per quell’ufficio che considero un po’ la mia famiglia”. Il sito riguardo ai compensi spettanti ad Alpa per i due gradi già svolti della causa contro la RAI (già pagati a Conte) come “in corso” con importo: “da determinare”. Poi ci sono altri tre incarichi presi insieme da Alpa e Conte: il primo, del febbraio 2010 e gli altri due del marzo 2014 e del novembre 2016 che riguardano due gradi di giudizio della stessa causa. Tutti e tre sono ufficialmente ‘in corso’ e con compenso ‘da determinare in relazione allo svolgimento…” sia per Alpa che per Conte. “Il presidente Conte – spiegano dallo staff – ha rimesso il mandato per tutti gli incarichi e si è sospeso dall’Albo appena nominato”. E allora perché i tre incarichi risultano in corso? Spiegano all’Autorità che è solo una questione formale: “Il Professor Conte ha rinunciato agli incarichi professionali assunti con il Garante dopo la sua nomina a presidente del Consiglio. Nei documenti contabili relativi a consulenti e collaboratori, pubblicati sul sito, sono indicati i compensi pagati a fronte di fatture emesse. La formula “in corso” si riferisce sia agli incarichi tuttora in corso (e non è questo, come detto, il caso del Prof. Conte), sia ad incarichi per i quali non si sia ancora conclusa la procedura di pagamento delle eventuali fatture”.

Quindi, stando ai documenti pubblicati dal Garante, se il primo grado del giudizio contro RAI fosse stato pagato dal Garante solo a uno dei professori, non saremmo di fronte alla prova di un sistema bensì a un caso unico. Per gli altri gradi di quel procedimento e per gli altri giudizi, almeno negli ultimi anni, infatti Conte e Alpa hanno semore emesso fatture separate.

Le navi tedesche via per la linea dura del Viminale sui porti

La Germaniaha abbandonato ieri l’operazione europea Sophia, impegnata nel contrasto alla tratta dei migranti. Dopo la fregata Augusta, nessun’altra nave tedesca sarà mandata davanti alle coste della Libia. Dietro la scelta di Berlino c’è la linea dura dell’Italia che impedisce alla navi delle Ong di entrare nei porti della penisola con i loro carichi di migranti. L’operazione Sophia, il cui nome completo è Eunavfor Med – operation Sophia, è la prima operazione militare di sicurezza marittima europea che opera al centro del Mediterraneo per contrastare la tratta di esseri umani.

Oltre a questo, all’operazione spetta anche il compito di addestrare la guardia costiera libica e contribuire all’attuazione dell’embargo dell’Onu sulle armi in alto mare al largo delle coste libiche. La missione è partita il 22 giugno 2015, per fronteggiare l’emergenza morti in mare. Poco più di due mesi prima, il 18 aprile, un peschereccio con a bordo oltre 800 migranti affondò a nord della Libia. In realtà l’operazione Sophia è agli sgoccioli: prorogata a metà dicembre 2018 per tre mesi, terminerà a fine marzo.