Migranti salvati e rinchiusi nel lager libico di Misurata

Cercavano un porto sicuro, ma sono ripiombati nell’inferno da cui erano scappati. I 100 migranti salvati nel Mediterraneo sono tornati in Libia. Quando hanno visto la Lady Sham, il cargo battente bandiera della Sierra Leone, pensavano di avercela fatta. E invece la nave dirottata dai libici per le operazioni di soccorso ha invertito la rotta e ieri è approdata a Misurata. I migranti “sono stati trasferiti in un Centro di detenzione chiuso” scrive su Twitter il portavoce dell’Oim Flavio di Giacomo, spiegando che anche le donne incinta e i bambini sono stati accompagnati nel centro. “Erano in cattive condizioni fisiche”, ha sottolineato Di Giacomo ribadendo che “la Libia non è un porto sicuro dove dovrebbero essere portate persone salvate in acque internazionali”.

Anche l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati segue la faccenda: “Nessun rifugiato e migrante dovrebbe essere rimandato in Libia, dove nell’attuale contesto sono diffuse esplosioni di violenza e numerose violazioni dei diritti umani”, ha spiegato il portavoce Charlie Yaxley.

Accoglienza addio, molti finiscono in strada

Al pullman, ieri mattina, i ragazzi richiedenti asilo si abbracciavano commossi con gli operatori. Erano i primi 30 ad andarsene dal Cara di Castelnuovo di Porto, a nord di Roma, dopo la decisione improvvisa della chiusura. Entro sabato andranno via in 300. Lamie, vent’anni del Senegal, è quasi incredulo. “Sono qui da un anno e mezzo, faccio volontariato e gioco a calcio in una squadra di qui. Se me ne vado lascio un sacco di amici italiani bravissimi”. Infatti sale in macchina con Marta, una signora di Castelnuovo che con il figlio lo accompagna a prendere il certificato della scuola di italiano che ha frequentato. “Almeno ha un pezzo di carta”. Billo della Guinea Conacry è preoccupato per la scuola: “Frequento un istituto commerciale – racconta –, non so se riuscirò a finire”. Qualcuno ha trovato ospitalità da abitanti della zona.

Di fronte al Cara il sindaco Riccardo Travaglini è sconcertato. “Il centro ormai faceva parte di Castelnuovo di Porto – dice – , dopo dieci anni era parte della comunità. I ragazzi facevano volontariato alla protezione civile, si prendevano cura delle aiuole, andavano nelle scuole di Castelnuovo e giocavano nelle squadre di calcio. Non nego che ci siano stati problemi ma li abbiamo sempre risolti con la collaborazione di tutti. Oltretutto – continua il sindaco – verrà espulso chi ha solo la protezione umanitaria e con il decreto sicurezza non ha più la seconda accoglienza. Già stamattina i primi tre sono stati buttati fuori dal centro sono partiti con le loro valigie senza una meta, probabilmente passeranno la notte alla stazione Termini”.

Il Centro era rinomato per i programmi di integrazione, centinaia di persone hanno manifestato perché non vogliono che i “loro” ragazzi se e vadano. Dice il vescovo di Porto e Santa Rufina, Gino Reali: “Dopo tanti anni d’impegno – ha detto – mi pare assurdo interrompere progetti di integrazione bene avviati con la partecipazione di tanti cittadini e volontari delle diocesi”. Ci era stato anche il Papa.

Dal 2014 l’ente gestore è la cooperativa Auxilium. “È un modo inusuale di procedere – dice Roberto Rotondo, portavoce della coop –. È un centro di prima accoglienza ma forniva servizi simili a uno Sprar”. Ora 120 lavoratori rischiano il posto. Il Pd ha contestato la chiusura decisa dalla Prefettura e parla di “deportazioni con tanto di separazione di uomini, donne e bambini”, di “sgombero disumano”. È “un blitz ad effetto – dicono – a uso e consumo della propaganda di Salvini con la complicità del M5S”. Subito è arrivata la replica del ministro dell’Interno: “Salvini deporta i bambini, i migranti. Razzista, fascista, nazista… balle spaziali. Tutti gli ospiti che hanno diritto – ha aggiunto – saranno trasferiti con altrettanta generosità, perché se sei qui a chiedere asilo politico, non puoi pretendere di andare a Cortina. Se hai diritto rimani, altrimenti cominciano le pratiche perché tu torni da dove sei arrivato. Useremo i soldi risparmiati per aiutare gli italiani o chiunque abbia bisogno”.

Sospetto di razzismo, l’Onu ispeziona l’Italia

Sarà una visita “tecnica”, una verifica “riguardo alle discriminazioni razziali”. Dopo averlo annunciato lo scorso settembre, provocando le ire di Matteo Salvini, la prossima settimana l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani (Ohchr) arriverà in Italia per valutare se davvero nel nostro Paese esista un’emergenza razzismo e ci sia una mancanza di tutele nei confronti delle minoranze e degli stranieri irregolari.

Saranno sei giorni – dal 27 gennaio al primo febbraio – di tavoli diplomatici e di incontri su tutto il territorio, che coinvolgeranno vari ministeri (tra cui il Viminale, la Farnesina, la Giustizia, il Lavoro), il dipartimento di Pubblica Sicurezza (che dipende dall’Interno), ma anche associazioni, amministrazioni locali (tra le altre: Roma, Milano e Napoli) e magistrati. Più che un’indagine sul campo nei contesti a rischio, dunque, sarà un confronto con chi ha il compito di gestire le crisi umanitarie – in politica o dal punto di vista giuridico –e con chi si occupa del loro impatto sociale.

A svolgere la visita non sarà direttamente la segretariadell’Ohchr Michelle Bachelet, ma saranno invece i funzionari dell’organismo, che a loro volta non avranno incontri con i ministri ma si confronteranno con le strutture tecniche dei dicasteri.

Al termine della visita l’Alto Commissariato diffonderà poi un rapporto scritto, chiarendo quali sono gli aspetti critici riscontrati e suggerendo eventuali interventi normativi. Nulla di vincolante per le istituzioni, ma un documento, come ammettono fonti del governo, “che ha indubbiamente un peso morale”.

Non è la prima volta che l’Alto commissariato arriva in Italia – l’ultima visita, tre anni fa, voleva indagare soprattutto sulle condizioni degli hotspot per i migranti – ma in questo caso si porta dietro conseguenze politiche.

Ieri un’altra agenzia dell’Onu, l’Alto Commissariato per i rifugiati (Unhcr) ha criticato il comportamento del governo italiano, dopo che nei giorni scorsi i migranti di un barcone in avaria erano stati recuperati dalla Guardia costiera libica e riportati verso Tripoli: “Considerato l’attuale contesto, in cui prevalgono scontri violenti e diffuse violazioni dei diritti umani, i migranti e i rifugiati soccorsi non devono fare ritorno in Libia.” Parole che hanno provocato la replica stizzita di Salvini: “Altri sbarchi, altri soldi agli scafisti? La mia risposta all’Onu è No.”

Un altro screzio, dunque, dopo che a settembre Michelle Bachelet – all’epoca appena nominata al vertice dell’Ohchr – aveva annunciato la visita in Italia facendo riferimento a “un forte incremento di violenza e razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e Rom”. Erano i giorni della stretta sulle Ong e della seconda crisi della nave Diciotti. Anche allora Salvini aveva alzato i toni: “L’Onu si conferma prevenuta, inutilmente costosa e disinformata. L’Italia dà più di 100 milioni all’anno di contributi alle Nazioni Unite, ragioneremo sull’utilità di continuare a dare questi soldi”.

Nei mesi successivi l’Alto commissariato ha poi definito tempi e modalità della visita – dall’Ohchr respingono il termine “ispezione” -, fino alla conferma di questi giorni: “Ci concentreremo sulle discriminazioni razziali e la missione è pianificata in stretta collaborazione con il governo e importanti stakeholder sul territorio”.

Nel rapporto finale delle Nazioni Unite non finiranno solo le considerazioni sulla gestione degli sbarchi e dei salvataggi in mare: a seconda dell’esito dei diversi incontri in agenda è facile ipotizzare che l’Ohchr decida di occuparsi, per esempio, della situazione dei campi Rom o dell’emergenza caporalato nelle zone agricole. Argomenti che nei decenni scorsi sono spesso finiti nelle relazioni periodiche che l’Alto commissariato ha svolto in Italia. Questa volta, però, la visita non fa parte delle spedizioni di routine ed è diretta conseguenza delle preoccupazioni sui migranti della Bachelet, rafforzate dalle crisi degli ultimi giorni nel Mediterraneo e dalle centinaia di morti in mare. Al governo e ai territori, adesso, il compito di tranquillizzarla.

“La battaglia sul franco Cfa è una cosa di sinistra”

“Di Maio e Di Battista hanno sollevato una questione cruciale per l’Africa, parlando del franco Cfa. Anche se l’hanno fatto in modo un po’ superficiale e per ragioni elettorali”. Yvan Sagnet è nato in Camerun – ex colonia francese – 33 anni fa. Nel 2017 Sergio Mattarella l’ha nominato Cavaliere della Repubblica per le sue battaglie contro il caporalato agricolo. “Il tema della sovranità monetaria – spiega – è uno dei più sentiti dalla gioventù africana, che chiede da anni cambiamenti radicali. Anche se è solo una delle molteplici forme dello sfruttamento da parte dell’Occidente”.

E non è la causa dei flussi verso l’Italia, visto che solo il 10% dei migranti sbarca dai Paesi che adottano il Franco Cfa.

È vero. Dall’Africa si scappa per tanti motivi. C’è la questione del debito, che l’Fmi chiama “programma di aggiustamento strutturale”. Un debito ingiusto e abnorme, che blocca sul nascere ogni programma di sviluppo. E ci sono le politiche commerciali sleali degli altri Stati, e anche dell’Unione europea.

Anche dell’Italia?

L’eccedenza commerciale che l’Italia rimprovera alla Germania è la stessa che mette in pratica nei confronti di alcuni Stati africani. Poi, come noto, c’è lo sfruttamento delle nostre risorse da parte delle multinazionali. Anche italiane. Alcune delle quali già condannate per i loro saccheggi. Infine pesano, tanto, l’instabilità politica e le guerre. Se si aggiunge a tutto questo, il controllo monetario della Francia su 14 Paesi africani è un’ingiustizia intollerabile.

L’adesione al franco Cfa però è volontaria.

Solo formalmente. Chi prova a uscirne subisce ricatti e pressioni. Non solo economiche. Il primo a provare a lasciare questo sistema fu Sekou Touré, presidente della Guinea, nel 1958: fu ucciso dopo tre giorni. Negli ultimi 50 anni in Africa ci sono stati 67 colpi di stato, il 61% dei quali è avvenuto nelle ex colonie francesi.

Ci sono economisti che sostengono che l’unione monetaria convenga agli Stati africani.

Conviene alle marionette che li governano con il sostegno degli Stati occidentali, Francia in primis. I nostri capi di Stato sono molto ricchi, hanno conti e beni all’estero, specie in Svizzera. Loro, sì, sono al riparo dalle svalutazioni della moneta.

Il Movimento governa con Salvini. Non le pare sospetto che tiri fuori la questione del franco Cfa nei giorni dei morti in mare?

Sono convinto lo facciano per ragioni elettorali. Ma le dico un’altra cosa: io sono un uomo di sinistra. Mi sorprende di più la sinistra, o sarebbe meglio dire il Pd, che per le stesse ragioni elettorali e per attaccare i grillini arriva a sostenere che questo sistema conviene ai cittadini africani. Questo lo trovo vergognoso.

Conte “amico” della Francia. Il caos gialloverde agli Esteri

La linea italiana in politica estera è un ghirigoro: linguaggi diversi, relazioni diverse, strategie diverse. Più cacofonia che polifonia.

I Cinque Stelle hanno sbertucciato la Francia sul colonialismo in Africa e i flussi migratori verso l’Europa, Parigi ha replicato con il solito canovaccio di scaramucce diplomatiche e, dopo un giorno di ponderata riflessione, il premier Giuseppe Conte e il ministro Enzo Moavero hanno emesso un comunicato fotocopia per sopire la tensione. In sostanza, dicono: siamo “amici e alleati” dei francesi; scusate, “i partiti sono in campagna elettorale per le Europee” (e Di Maio li corregge, “battaglia contro ipocrisia”); visto che ci siamo, parliamo pure del “passato che si riverbera sul presente africano”.

Il bisticcio con i francesi è soltanto l’epifenomeno di una stravagante, se non proprio ambigua, politica estera del governo. La Lega di Matteo Salvini ha riferimenti non tradizionali per l’apparato diplomatico italiano e alimenta i rapporti in autonomia: il gruppo di Visegrad con Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca; la Russia di Vladimir Putin e i parlamentari di Russia Unita; la corte più conservatrice di Donald Trump. Luigi Di Maio esporta nel mondo il brevetto pentastellato della democrazia diretta e patrocina le proteste più o meno spontanee e organizzate dei cittadini – come i Gilet gialli in Francia – e professa il cambiamento, non lo sfascio, delle istituzioni europee. I Cinque Stelle hanno pochi contatti tra le feluche, ma agiscono in un contesto classico, tra Europa e Nato, a differenza dei leghisti.

Il ministro Enzo Moavero Milanesi, catapultato agli Esteri sotto l’egida del Quirinale, è il simbolo di una continuità di sistema, soprattutto con l’Unione europea. Moavero asseconda gli azionisti di governo, nell’ultimo periodo sembra più in sintonia col Carroccio che col Movimento, ma spesso esagera con la cautela, con la virtù dell’equilibrismo, e rallenta la già esitante macchina diplomatica. Il voto di maggio è un momento dirimente anche per Moavero, che custodisce l’ambizione di un ritorno a Bruxelles con i galloni di commissario o comunque con un incarico di prestigio.

Conte ha mantenuto la struttura diplomatica dei predecessori e lavora sempre in sinergia con la Farnesina e il Quirinale. All’esordio il premier s’è affidato a Maria Angela Zappia, già consigliere diplomatico di Paolo Gentiloni, poi trasferita – ma la nomina era precedente – alle Nazioni Unite come rappresentante permanente. Al posto di Zappia, su indicazione del ministero degli Esteri, Conte ha reclutato Pietro Benassi, richiamato dall’ambasciata di Berlino. Oltre il clamore mediatico, lì dove la propaganda finisce, si muove Benassi assieme a Elisabetta Belloni, segretario generale agli Esteri, a Emanuela D’Alessandro, consigliere diplomatico di Sergio Mattarella. Così funziona la diplomazia italiana tra Farnesina, Quirinale, Palazzo Chigi. Quella che ha rassicurato i francesi dopo l’offensiva di Di Maio. Quella che non subisce l’influenza di Salvini. E adesso Benassi, su pressione dei Cinque Stelle, rischia la rimozione.

Conte ha capito, invece, che per rafforzare il suo peso in Italia, stretto da una coppia di vicepremier strabordanti, deve aumentare il suo peso all’estero. Il metodo è semplice: diventare l’unico interlocutore dei leader stranieri, non distribuire il potere che gli conferisce la carica di premier. E la delega all’intelligence, non assegnata ai sottosegretari, è una condizione fondamentale. Più posizioni sugli Esteri significa, però, apparire poco credibili e poco efficaci.

Oggi l’Italia è ondivaga sui dossier Egitto (e verità su Giulio Regeni), Stati Uniti, Russia, Cina, India. Giuseppe Buccino Grimaldi prenderà servizio il primo febbraio all’ambasciata di Tripoli: l’Italia ha impiegato più di sei mesi per sostituire Giuseppe Perrone, rientrato a Roma in agosto perché considerato “persona non gradita” dal generale Haftar e in parte dai tripolitani per un’intervista.

Perrone è rimasto congelato sei mesi in Italia perché Salvini l’ha protetto e Moavero era titubante. I francesi saranno pure padronali con gli antichi interessi, troppo nostalgici del colonialismo, spesso speronano l’Italia in Libia – ancora invidiano la protezione che garantisce il funzionamento degli impianti di Eni mentre attorno c’è la guerriglia – ma l’Italia a volte si sperona da sola.

Una fake news sul tg2: lo share

Il nuovo Tg2 ultraleghista di Gennaro Sangiuliano ha di sicuro stabilito un record nell’innovazione del linguaggio, abbattendo ogni muro concettuale e sostanziale tra l’informazione pubblica e la propaganda politica, ma non ha fatto segnare alcun record per quanto riguarda gli ascolti. A differenza di quanto lascia intendere lo stesso Sangiuliano, generosamente “intervistato” da un suo ex collega di Libero due giorni fa, lo share del Tg2 non è aumentato nei primi mesi della sua gestione. I numeri li ha messi in fila ieri il deputato del Pd Michele Anzaldi, segretario della commissione di vigilanza Rai. “Rispetto alla precedente direzione – sottolinea l’ex falco renziano – non c’è stata alcuna crescita di audience, basta leggere i dati: nell’ultimo mese pieno della direzione di Ida Colucci, ottobre 2018, il Tg2 ha segnato uno share del 15,44% nell’edizione delle 13 e del 7,1% in quella delle 20.30. Sangiuliano gode dell’onda lunga di quel tg e replica quello stesso share: a dicembre 2018 guadagna lo 0,1 nell’edizione delle 20.30 e perde lo 0,1 in quella delle 13. In pratica non è cambiato nulla”. La vera novità rimane la linea editoriale, talmente generosa col “Capitano” che lui stesso pubblica continuamente i servizi del Tg2 sui suoi profili social. È la Rai, bellezza.

Camera, la deputata 5Stelle organizza un evento per i no vax

Una deputata del M5S organizza un evento per i no vax alla Camera. Così il Pd protesta, il Movimento prende le distanze e anche Montecitorio si smarca. Reazioni alla notizia della conferenza stampa che il 24 gennaio il Corvelva, il Coordinamento Regionale Veneto per la libertà delle vaccinazioni, terrà nella sala stampa della Camera, prenotata dalla deputata dei Cinque Stelle, Sara Cunial. E non può stupire, visto che la veneta Cunial è una nota no vax. Così ha trovato uno spazio per il Corvelva, che intende presentare “analisi quali-quantitative su vaccini utilizzati sul territorio italiano”. Ma il capogruppo del M5S Francesco D’Uva precisa: “Prendiamo le distanze dall’iniziativa della deputata Cunial, ha prenotato la sala in totale autonomia: abbiamo detto più volte che il M5S è favorevole alle vaccinazioni”. Infine, si fa sentire anche l’ufficio stampa della Camera: “L’ evento non si svolgerà in una sala di rappresentanza ma all’interno della sala stampa. Né gli uffici né la presidenza possono esprimere valutazioni sul merito della conferenza che rimane pienamente nella responsabilità del parlamentare che la organizza”.

“Va bene chiunque, tanto non si fa nulla”

“Mi han chiamato tutti, Pupi, è vero? Ti han rimpiazzato con Lino Banfi?”. Il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio aveva erroneamente indicato Banfi quale sostituto di Pupi Avati, anziché dello scomparso Folco Quilici, nell’Assemblea della commissione nazionale italiana per l’Unesco (Cniu), la successiva correzione lascia all’80enne regista un sogghigno: “Sono contento per Banfi, poverino, è un amico, ma non me ne capacitavo: io sono un falegname e lui un idraulico, o viceversa, come poteva sostituirmi?”.

Avati, qual è il problema?

Abbiamo entrambi, io e Lino, un passato cinematografico importante, ma siamo agli antipodi: sono rimasto interdetto da questa supposta intercambiabilità. Siamo ai confini della realtà.

In che senso, maestro?

Viviamo nell’incompetenza, come ha detto Sabino Cassese è il momento degli incompetenti, hanno grandissimo successo ovunque, vengono premiati indistintamente.

Il problema non è Banfi, dunque.

Macché, si sarebbero potuti affacciare dal balcone bendati e indicare il primo che passasse, perché c’è la nomina, esiste il ruolo, ma manca il compito. Almeno, è mancato finora: io sono stato insignito, ma nemmeno mi hanno interpellato al riguardo. Il lavoro da commissario non l’ho mai svolto, non so nemmeno che dovrei fare, perché la commissione non è mai stata convocata.

Comunque può stare sereno, Lino sostituisce Folco, e non lei.

Quilici era da sostituire necessariamente, essendo defunto. Forse mi si riteneva morto a mia volta, chissà. Non so, siamo alle comiche, la situazione di certo è curiosa.

È il governo del cambiamento.

Sì, ma non è che con i governi precedenti andasse diversamente. Le faccio un esempio che mi riguarda e che mi sta molto a cuore: il film su Dante. È da 18 anni che lo preparo, ho radunato tutti i dantisti più illustri d’Italia nel comitato scientifico sotto l’egida dell’Accademia della Crusca; dal Magnificat a I cavalieri che fecero l’impresa con la medievalistica ho qualche consuetudine, e i premi che ho ricevuto, quali il Jacques Le Goff, sono lì a dimostrarlo. Eppure, è tutto fermo, non si muove una mosca. Perché, mi chiedo, c’è questa diffidenza verso il ruolo di sollecitatore culturale che un artista, un intellettuale deve necessariamente avere? Perché il servizio pubblico, l’industria culturale Rai non fa nulla?

Lanci un appello.

Senza nulla togliere alle sorelle Fontana, un film su Dante il nostro Paese lo merita. O mi sbaglio?

Banfi all’Unesco? Al massimo potrà tifare per Canosa

Doveva essere il momento “faceto” di una giornata assai “seria” per i Cinque Stelle di governo. Ma la trovata comunicativa per alleggerire la presentazione del reddito di cittadinanza è riuscita ad oscurare il resto della kermesse: ieri, insomma, si è parlato solo di Lino Banfi “patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco”.

La storia è a tratti commovente: Luigi Di Maio è un accanito fan dell’Oronzo Canà nazionale e quando ha avuto modo di incontrarlo lo ha supplicato di interrogarlo sui dialoghi dei suoi film, a dimostrazione della fede inscalfibile nella madonna benedetta dell’incoroneta. Sono diventati amici, al punto che Di Maio a luglio si è presentato nell’orecchietteria della famiglia Banfi (un take away nel quartiere Prati, a Roma) con un mazzo di fiori. Così, quando da ministro dello Sviluppo Economico si è trovato a dover scegliere una personalità italiana con cui sostituire il defunto Folco Quilici all’Assemblea della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco, ha pensato a Banfi. E ieri ne ha “approfittato” per dare la notizia che lo “riempie di orgoglio”.

Il resto del mondo si è fatto contagiare dall’enfasi del vicepremier: tutti a fantasticare sull’ingresso dell’uomo che ha dato il volto al commissario Lo Gatto nella sede parigina dell’istituto dove si selezionano i siti di più alto valore internazionale. Perfino il collega di governo, Matteo Salvini, si è subito alzato in difesa dell’immaginario nazionalpopolare del Nord: perché il pugliese sì e “Jerry Calà, Renato Pozzetto, Umberto Smaila” no?. Altri l’hanno presa decisamente peggio: Matteo Renzi si preoccupa addirittura del “messaggio diseducativo e di incompetenza” che offriamo al mondo.

Ma Lino Banfi a Parigi non andrà. Da Roma, se mai, potrà continuare a condurre la “battaglia per Canosa”, la sua città natale che vorrebbe candidare come patrimonio dell’umanità. La sua nomina, infatti, riguarda solo l’assemblea: un organismo nazionale in cui siedono una cinquantina di persone in rappresentanza di istituzioni varie. Per il Senato, per dire, c’è Andrea Marcucci, capogruppo del Pd e imprenditore della sanità: uno che con l’Unesco, non ce ne voglia Renzi, c’azzecca quanto Lino Banfi.

Il rappresentante permanente dell’Italia nell’agenzia delle Nazioni Unite è e rimane una carica di rango diplomatico – oggi ricoperta dall’ambasciatore Massimo Riccardo – che fa parte dei dodici titolari del consiglio direttivo presieduto dal manager Franco Bernabé, che è poi l’organismo che ogni anno seleziona le candidature da inviare a Parigi. In Assemblea, Banfi al massimo potrà fare gli scongiuri per Canosa. Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio.

Grillo sfuocato nel M5S dei nuovi potenti

Il fondatore è sfuocato, come il video dove parla sottovoce. Prima era tutto per il M5S, ora è la voce dello sketch di fine festa: e alcuni ridono per educazione, altri cercano il cappotto. Nel giorno del raduno all’americana sul reddito di cittadinanza, con eletti e ministri ripartiti per gerarchie e Luigi Di Maio che fa il presentatore, Beppe Grillo è altrove. “Ha l’ernia” spiegano. E comunque già lunedì sera l’Adnkronos scriveva che si sarebbe collegato via Skype.

Perché i Cinque Stelle ormai sono un’altra cosa, cioè un partito, e Grillo è come certi parenti che si sentono a Natale e Pasqua. E le parole dicono perfino più dell’assenza, visto che in oltre due ore gli unici a ricordare Grillo sono la senatrice Nunzia Catalfo, la prima firmataria della pdl sul reddito, e Alessandro Di Battista. E c’è un inciso di Davide Casaleggio, all’imperfetto: “Beppe era con noi in tutto questo…”. Poi, certo, c’è l’introduzione al video finale di Di Maio, in cui il capo politico saluta “la persona grazie a cui siamo qui, colui che ha sempre creduto nel reddito di cittadinanza”. Ma a contare sono gli equilibri e il linguaggio nel M5S di governo. Con i ministri in prima fila a sinistra, e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e gli altri maggiorenti a destra. Gli eletti più dietro, anche rispetto ai giornalisti.

E il precedente, ricordato anche da Di Maio, è quello della presentazione dei ministri del futuro governo a 5Stelle del marzo scorso. Anche in quel caso dominava il blu e il simbolo del Movimento era di contorno. Dieci mesi dopo quello che doveva essere un ministro, Conte, è premier. E proprio lui, l’avvocato, scippa a Grillo la parola che incarna il suo ultimo ruolo: “Sarò il garante di un nuovo patto sociale sul reddito”.

E magari Conte neanche rammenta che il Garante da Statuto è l’artista genovese. Ma Di Maio, attento ai fogli della scaletta, non fa una piega. E infila anche una gaffe presentando il nuovo capo dell’Anpal, l’italo americano Mimmo Parisi. “È italo-pugliese” sostiene il vicepremier. Ma si accorge subito dell’errore e ride forte. Però c’è anche chi non ride, come il viceministro all’Istruzione Lorenzo Fioramonti, l’economista che insegnava a Pretoria. Non è entusiasta di come vanno le cose dentro il Movimento, e dal palco morde subito: “È un piacere rivedervi tutti dopo mesi…”. Parla a tono alto, e fa sapere: “Stasera lo dirò in tv, se deciderò di andare”. Frasi in sintonia con la pancia del M5S, dove in molti invocano “più condivisione”. E l’hanno ripetuto anche lunedì a Di Maio in un’assemblea congiunta.

Così non è un caso se nella sala tutta sorrisi e telecamere non si vedono parlamentari vicini a Roberto Fico, il presidente della Camera che è rimasto a istituzionale distanza. A riempire le file sono soprattutto parlamentari della nuova leva: giovani, spesso avvocati, per nulla barricaderi. Quel ruolo è tutto per Di Battista, che si siede un attimo prima dell’inizio come le star accanto a Virginia Raggi. Nella gara degli applausi batte tutti. Ma ognuno ha il suo ruolo. Di Battista è d’assalto, anche contro la stampa (“Le coperture ce stavano” urla), mentre Conte è il legale che rassicura e Paola Taverna parla alla base con l’elogio del pauperismo: “Ero povera, ma il M5S mi ha reso ricca di valori”. È emozionata la senatrice, e quasi piange quando torna a sedersi. Ma alla fine ecco quello che non c’è, Grillo.

Vestito di nero, sussurra che “questa è la più grande manovra economico-finanziaria della storia di questo Paese”. E piazza la battutina: “ Se le persone stanno meglio risparmiamo, ve lo dice uno di Genova”. Poi si riaccendono le luci, e tutti inseguono Di Battista e Conte. Quelli che contano.