La linea italiana in politica estera è un ghirigoro: linguaggi diversi, relazioni diverse, strategie diverse. Più cacofonia che polifonia.
I Cinque Stelle hanno sbertucciato la Francia sul colonialismo in Africa e i flussi migratori verso l’Europa, Parigi ha replicato con il solito canovaccio di scaramucce diplomatiche e, dopo un giorno di ponderata riflessione, il premier Giuseppe Conte e il ministro Enzo Moavero hanno emesso un comunicato fotocopia per sopire la tensione. In sostanza, dicono: siamo “amici e alleati” dei francesi; scusate, “i partiti sono in campagna elettorale per le Europee” (e Di Maio li corregge, “battaglia contro ipocrisia”); visto che ci siamo, parliamo pure del “passato che si riverbera sul presente africano”.
Il bisticcio con i francesi è soltanto l’epifenomeno di una stravagante, se non proprio ambigua, politica estera del governo. La Lega di Matteo Salvini ha riferimenti non tradizionali per l’apparato diplomatico italiano e alimenta i rapporti in autonomia: il gruppo di Visegrad con Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca; la Russia di Vladimir Putin e i parlamentari di Russia Unita; la corte più conservatrice di Donald Trump. Luigi Di Maio esporta nel mondo il brevetto pentastellato della democrazia diretta e patrocina le proteste più o meno spontanee e organizzate dei cittadini – come i Gilet gialli in Francia – e professa il cambiamento, non lo sfascio, delle istituzioni europee. I Cinque Stelle hanno pochi contatti tra le feluche, ma agiscono in un contesto classico, tra Europa e Nato, a differenza dei leghisti.
Il ministro Enzo Moavero Milanesi, catapultato agli Esteri sotto l’egida del Quirinale, è il simbolo di una continuità di sistema, soprattutto con l’Unione europea. Moavero asseconda gli azionisti di governo, nell’ultimo periodo sembra più in sintonia col Carroccio che col Movimento, ma spesso esagera con la cautela, con la virtù dell’equilibrismo, e rallenta la già esitante macchina diplomatica. Il voto di maggio è un momento dirimente anche per Moavero, che custodisce l’ambizione di un ritorno a Bruxelles con i galloni di commissario o comunque con un incarico di prestigio.
Conte ha mantenuto la struttura diplomatica dei predecessori e lavora sempre in sinergia con la Farnesina e il Quirinale. All’esordio il premier s’è affidato a Maria Angela Zappia, già consigliere diplomatico di Paolo Gentiloni, poi trasferita – ma la nomina era precedente – alle Nazioni Unite come rappresentante permanente. Al posto di Zappia, su indicazione del ministero degli Esteri, Conte ha reclutato Pietro Benassi, richiamato dall’ambasciata di Berlino. Oltre il clamore mediatico, lì dove la propaganda finisce, si muove Benassi assieme a Elisabetta Belloni, segretario generale agli Esteri, a Emanuela D’Alessandro, consigliere diplomatico di Sergio Mattarella. Così funziona la diplomazia italiana tra Farnesina, Quirinale, Palazzo Chigi. Quella che ha rassicurato i francesi dopo l’offensiva di Di Maio. Quella che non subisce l’influenza di Salvini. E adesso Benassi, su pressione dei Cinque Stelle, rischia la rimozione.
Conte ha capito, invece, che per rafforzare il suo peso in Italia, stretto da una coppia di vicepremier strabordanti, deve aumentare il suo peso all’estero. Il metodo è semplice: diventare l’unico interlocutore dei leader stranieri, non distribuire il potere che gli conferisce la carica di premier. E la delega all’intelligence, non assegnata ai sottosegretari, è una condizione fondamentale. Più posizioni sugli Esteri significa, però, apparire poco credibili e poco efficaci.
Oggi l’Italia è ondivaga sui dossier Egitto (e verità su Giulio Regeni), Stati Uniti, Russia, Cina, India. Giuseppe Buccino Grimaldi prenderà servizio il primo febbraio all’ambasciata di Tripoli: l’Italia ha impiegato più di sei mesi per sostituire Giuseppe Perrone, rientrato a Roma in agosto perché considerato “persona non gradita” dal generale Haftar e in parte dai tripolitani per un’intervista.
Perrone è rimasto congelato sei mesi in Italia perché Salvini l’ha protetto e Moavero era titubante. I francesi saranno pure padronali con gli antichi interessi, troppo nostalgici del colonialismo, spesso speronano l’Italia in Libia – ancora invidiano la protezione che garantisce il funzionamento degli impianti di Eni mentre attorno c’è la guerriglia – ma l’Italia a volte si sperona da sola.