Il governo solo giallo: la Lega sparisce insieme a Quota100

Se non fosse per l’intervento sopra le righe del viceministro Lorenzo Fioramonti e per l’intemerata del battitore libero Alessandro Di Battista, visto da questa sala congressi del centro di Roma, il governo gialloverde avrebbe già perso la sua metà. Come musica di sottofondo hanno scelto la hit di Alice Merton, No roots, ma tutta la scenografia è costruita affinché il Movimento Cinque Stelle possa provare a riprendersi proprio le sue, di radici. E per farlo deve necessariamente cancellare gli alleati di Palazzo Chigi, i nemici numero uno delle Europee che si terranno tra soli 120 giorni.

Nell’invito spedito ai giornalisti, il concetto era sfumato: “Dedicheremo un momento importante anche alla presentazione della misura Quota 100 – scrivevano nella email – che consentirà a centinaia di migliaia di cittadini di andare in pensione”. Ma della riforma previdenziale targata Lega, sono rimasti solo i pannelli sopra il palco. A favor di telecamere, alle spalle degli oratori c’è solo la scultura in polistirolo dedicata al reddito di cittadinanza. L’altra, quella realizzata per celebrare Quota100, è rimasta dietro le quinte, nel corridoio laterale della sala. Tanto per evitare di mescolare il sacro col profano. E infatti Quota100, al convegno in cui tra gli oratori c’è anche il premier Giuseppe Conte, viene solo citata qua e là, come uno strumento utile a liberare posti di lavoro per i giovani.

Matteo Salvini deve rimanere fuori dalla porta. Così, lo evoca polemicamente solo il già citato Fioramonti: “La diseguaglianza aumenta i crimini. Forse questo lo dovrei dire anche al nostro ministro degli Interni, mi dispiace che non ci sia”. Di striscio, lo nomina anche il redivivo Di Battista, quando accenna a “quella storia di essere subalterni”: “Sono orgoglioso – dice l’ex deputato – di aver costretto politicamente la Lega a votare il reddito di cittadinanza”. Ricorda, ancora Di Battista, che quella era una delle battaglie con cui hanno cominciato Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Tradotto: noi non siamo cambiati, non abbiamo tradito le origini, men che meno con il contratto di governo.

Che sia aria di campagna elettorale, lo ammette lo stesso Luigi Di Maio quando ricorda che i colori e l’organizzazione della kermesse assomigliano molto a quelli della presentazione della squadra dei ministri del 2 marzo scorso. Lui nel ruolo di anchorman (“Ottimo l’ingresso”, è il commento della comunicazione quando “Luigi” comincia a parlare fuori campo e poi raggiunge il palco camminando dalla platea), il blu istituzionale, gli interventi che alternano “tecnici” e politici.

La card per il sostegno economico sarà il “santino” con cui il Movimento girerà l’Italia: “Non andate sui territori a dire cosa abbiamo fatto – ha detto ieri Di Maio ai suoi – ma spiegate come si ottiene il reddito di cittadinanza”. L’operazione, però, è appena cominciata e perfino i più vicini al vicepremier confessano che la strada è tutt’altro che in discesa: “Abbiamo dovuto fare in fretta, stiamo lavorando come pazzi: noi gli abbiamo spiegato che sarebbe stato meglio aspettare dopo l’estate, ma le Europee sono adesso: non c’è stato niente da fare”.

Bel suol d’amore

Non è vero che i partiti italiani di maggioranza e di opposizione non abbiano più un minimo comun denominatore. Uno ce l’hanno: l’allergia, comune e trasversale, al principio di realtà. Nessuno, né i pupulisti né gli antipopulisti, vuole arrendersi all’idea che la politica sia l’arte del possibile. Se ne stanno accorgendo i leghisti, che han visto sfumare la flat tax, l’abolizione delle accise e l’espulsione dei 600 mila clandestini (che poi nessuno sa quanti siano davvero), perché non ci sono i soldi e mancano gli accordi di rimpatrio. E se ne rendono conto i 5Stelle, che han dovuto rinfoderare i proclami anti-Tap (c’è un trattato internazionale, con possibili penali), anti-Terzo Valico (non serve a nulla, ma purtroppo è in fase troppo avanzata) e anti-Ilva (10 mila operai non si riconvertono con una diretta Facebook). Perciò era giusto che due movimenti che negli ultimi sette anni si erano gonfiati a dismisura all’opposizione fossero messi alla prova del governo. Ma ora che gli anti-sistema fanno i conti col sistema e scoprono la necessità dei compromessi, i partiti di sistema che avevano governato per 25 anni vengono contagiati dall’utopismo irresponsabile che era dei loro avversari. Come quei vecchietti un po’ rincoglioniti che, di botto, regrediscono all’infanzia.

Il Pd marcia in ordine sparso verso il congresso con tre o quattro aspiranti segretari (più quell’anima in pena di Calenda) che non si capisce che cosa vogliano né perché siano l’un contro l’altro candidati, visto che dicono tutti le stesse cose: giurano di combattere questo governo orripilante, che peraltro 9 mesi fa fecero di tutto per rendere inevitabile, ma non precisano cosa vorrebbero al suo posto. A parte, si capisce, un bel monocolore Pd. Che però è dato fra il 15 e il 17%, dunque dovrebbe triplicare i voti o trovare un donatore di almeno 30 punti per avere la maggioranza. Il principio di realtà dovrebbe indurre questi buontemponi a fare ciò che tutti fanno nelle democrazie parlamentari con legge elettorale proporzionale (peraltro voluta da loro): scegliersi un interlocutore, possibilmente fra quelli esistenti in natura, e convincerlo a dialogare con loro con una proposta che non si possa rifiutare. “Né con la Lega né col M5S”, “Di Maio e Salvini pari sono”, “Mai con le due destre” sono splendidi slogan per trattenere gli elettori superstiti. Ma, siccome le uniche due forze vicine al 30% sono la Lega e il M5S, o il Pd ne sceglie una, o resta a guardare per almeno 10 anni. Nel frattempo, magari, chi considera Conte il prestanome delle “due destre” avrà modo di rimpiangerlo.

Perché c’è pure il caso che al governo ci vadano per davvero le due destre, che sono la Lega e Forza Italia (tralasciando la terza: quella neorenziana di Calenda&C.). Due anni fa il Pd, dopo tante giaculatorie, aveva finalmente scoperto con Marco Minniti al Viminale il principio di realtà sul grande tema dei migranti. Per anni aveva opposto il mantra inconcludente dell’“accogliamoli tutti” e dei “porti aperti” (solo i nostri, grazie agli accordi-capestro di Dublino) a quello speculare dell’“aiutiamoli a casa loro” (i “piani Marshall” mai visti e le “cooperazioni” che arricchivano solo le corrotte classi dirigenti africane e nostrane). Poi nel 2017 decise che era meglio, o meno peggio, farsi ricattare da una sola Libia stabilizzata e controllabile dall’Ue che da un’accozzaglia di milizie e tribù in perenne guerra fra loro e contro di noi. Ora che quella politica la prosegue il governo gialloverde, con toni diversi (quelli sgangherati e xenofobi di Salvini, quelli istituzionali di Conte e Moavero, quelli pencolanti del M5S a seconda che parli Di Maio o Di Battista o Fico), ma senza deviazioni sostanziali, si è tornati all’anno zero: quando tutti pontificavano, nessuno (cioè Alfano) muoveva un dito e il Mediterraneo era una tonnara con mattanze quotidiane di esseri umani. Eppure quella politica spregiudicata finché si vuole, a costo di pagare il pizzo sottobanco ai due governi libici e forse anche a qualche milizia e di rimettere in riga le Ong usate dagli scafisti come nastri trasportatori, un successo l’ha ottenuto: ridurre drasticamente i morti in mare.
Certo, era impensabile che in due anni un (non) Stato canaglia come la Libia diventasse una democrazia modello, rispettosa dei diritti umani e pronta per le elezioni. Ma il principio di realtà indica che non esistono piani B rispetto a un paziente lavoro di costruzione di uno Stato, condizionando gli aiuti a un minimo sindacale di diritti umani, con un’azione unitaria dell’Europa (ora in ordine sparso, grazie al neocolonialismo francese). I naufraghi, se possibile, vanno salvati tutti. Ma l’idea che ogni migrante che affoga in acque libiche sia stato ucciso dall’Italia o dall’Europa è assurda. Intanto perché gli assassini sono i trafficanti di esseri umani che li reclutano nei villaggi promettendo l’Eldorado, li caricano su carrette del mare pericolanti e li usano per ricattare l’Italia e la Ue aprendo e chiudendo il rubinetto delle partenze. E poi perché, per assumere il controllo delle acque territoriali libiche, stazionarvi con navi europee pubbliche o private, imporre a quello Stato sovrano hotspot in loco per separare i profughi dai migranti economici, allestire corridoi umanitari e legali verso l’Europa, bloccare le partenze illegali, salvare i naufraghi e arrestare i trafficanti, non c’è che una soluzione: invadere la Libia manu militari e insediarvi un governo Quisling come ai tempi di Tripoli bel suol d’amore. Sarebbe una ricetta piuttosto curiosa, per i paladini della democrazia e i nemici del fascismo. Ma chi ancora non distingue l’Italia dalla Libia dovrebbe decidersi: o vuole la colonizzazione, come il Duce, o vuole la pace nel mondo, come Miss Italia.

“Oggi compio 80 anni, ma quel rigore è un dolore che non passa”

Dodici promozioni in Serie A, una Coppa Uefa vinta, la Coppa Italia, anni e anni di massima serie, riconoscimenti ovunque, affetto condiviso, eppure a ottant’anni (oggi il suo compleanno: auguri, mister), Gigi Simoni quel sassolino non lo ha ancora tolto dallo scarpino, e alla seconda domanda rispetto alla sua vita-carriera, cambia tono e attacca: “Lo può definire rimpianto, dolore, ingiustizia subita. Come vuole. La sostanza è solo una: sono passati vent’anni ma quel rigore su Ronaldo non lo dimentico”.

(Breve spiegazione per chi non sa o non ricorda: 26 aprile del 1998, big match tra Juventus e Inter. È lotta per lo scudetto. Scontro in area bianconera tra Ronaldo e Iuliano: l’arbitro Ceccherini decide per il tutto regolare)

Mister, ancora lì…

Da tempo provo a dimenticarlo, ed è impossibile: pure se allontano il pensiero, sono gli altri a riportarmi lì, in quell’attimo. Ogni anno mi chiamano per un commento.

L’attimo di una vita.

È una ferita e non si riesce a relativizzarla: con tutto quello che è avvenuto in questi ultimi vent’anni, e mi riferisco a scandali, polemiche, altri rigori negati, e tutto il repertorio, per chi segue il calcio, quel fallo era e resta l’emblema di qualcosa di sbagliato e palesemente ingiusto.

Per la sua carriera, decisivo.

Avrei vinto il mio primo scudetto, ovviamente tutto sarebbe cambiato.

Magari la Nazionale.

Solo una volta ho letto sui giornali il mio nome accostato, niente più. Nessun contatto, quindi solo qualche voce.

Peccato…

Sì, perché non dico di tutti, ma rispetto a qualcuno poi scelto non ero inferiore. Anzi.

Lei è uno degli allenatori più stimati in Italia.

Forse perché ho girato tanto, e ovunque ho cercato di mantenere il mio stile. Sempre. Anche da ragazzo quando giocavo al Napoli ed ero militare.

Gigi Simoni da ragazzo.

Non molto differente da oggi, diciamo che sono cresciuto in fretta e per necessità: a 15 anni ero via di casa per allenarmi con la Fiorentina. So io quello che ho patito…

In particolare?

Non è stato semplice, veramente altri tempi, però questo lavoro mi ha permesso di scoprire delle realtà meravigliose.

Come…

Napoli. Lì l’affetto non è paragonabile: quando tornavo a casa trovavo quasi sempre una busta con dentro del pesce fresco, omaggio dei pescatori.

Li conosceva?

No, mai visti. Delle persone deliziose. Un’altra volta mi rubarono l’auto, e senza dire nulla poco dopo la ritrovai.

Grazie a chi…

Credo ai capi del tifo, già allora funzionava come oggi.

Da ragazzo per chi tifava?

Il grande Torino, impazzivo per quella squadra: ricordo ancora la mia disperazione per la tragedia di Superga (4 maggio 1949).

Juve-Inter a parte, la sua è una bella carriera.

Credo di avere il record di promozioni, ho vinto in tutte le categorie. Però quel match non lo mando proprio giù (e scoppia a ridere, ma non scherza).

Di chi ha la maglia?

Ne ho molte, qualcuna mi è stata sottratta, però la mia preferita resta quella di Ronaldo.

Il “Fenomeno”.

Soprannome azzeccatissimo: era di un’altra categoria e non solo come giocatore; la maglia che mi ha regalato è dopo una doppietta in Coppa Uefa contro lo Spartak Mosca. Non l’ho mai lavata.

È come allora.

Sporca di fango e sudore.

Ha mai alzato le mani su un giocatore?

Mai uno schiaffo, urlacci sì. E certe mie frasi sono state molto peggio di un ceffone.

Rimpianti su qualche giocatore?

Nessuno, chi doveva giocare, lo ha fatto al meglio.

Nessun “cocco”, quindi?

Magari non sono stato sempre giusto…

Lei?

Qualche volta ho mandato in campo non il più forte, ma chi mi stava più simpatico, chi mi convinceva maggiormente per il carattere.

La testa conta.

È fondamentale. Per fortuna mi ha accompagnato come si deve.

Però il giorno di quel rigore è uscito dal campo avvelenato.

Già, e proprio non mi passa.

Ancora auguri.

Tornano i Mòn, il pop vince ancora

In una Roma mai così fervente di creatività da anni, perlomeno in ambito musicale, dove ogni giorno spuntano nuovi cantautori o divi trapper, fa piacere ricevere conferme da band dedite ad altri generi, come i Mòn, che già solo in parte avevano fatto intravedere le loro potenzialità. Immersi in un suono e in un’estetica che sono sempre più circoscritti, questa band romana formata da giovanissimi è piuttosto abile nel gestire al meglio le opzioni contenute nel loro bagaglio artistico, che ha nei Beirut, gli XX e i Mùm i suoi riferimenti più importanti. Sempre più dreampop ma ancorati all’elettrofolk delle origini, esce il 25 gennaio il loro nuovo album Guadalupe, composto da 10 brani (consigliati Mantis e Calypso), che a livello di lavorazione si discosta, e di molto dal precedente Zama anche se, sotto gli strati di suono, a emergere è ancora una predilezione per le melodie pop eleganti e sinuose. Musica di cuore, e di pancia, che colpisce laddove deve colpire, che coniuga un espressionismo astratto all’estetica pop. Val la pena seguirli.

Seeyousound, Torino omaggia Berlino

In un periodo in cui il biopic rock polverizza ogni record di affluenza al cinema grazie alla Bohemian Rhapsody-mania, il festival Seeyousound di Torino torna a esplorare l’intreccio tra visioni e suoni da un’ottica più laterale e suggestiva. Giunta alla quinta edizione, la rassegna (ideata dalla associazione culturale Choobamba) presenta tra il 25 gennaio e il 3 febbraio al cinema Massimo una novantina tra film e videoclip, comprensiva di varie anteprime assolute. Ad aprire le danze, in tutti i sensi, sarà il film di Johannes Schaff Symphony of Now, presentato all’ultima Berlinale: ispirato a Berlino – Sinfonia di una città di Walter Ruttman, è un viaggio tra i ritmi e le mille luci stroboscopiche di una delle capitali dell’elettronica mondiale. Tra techno, house, dub e ogni altra pulsazione “electro”, la colonna sonora di questa sinfonia contemporanea sarà protagonista anche del party di apertura con il dj set di Alex Do. A dieci mesi dal trentesimo anniversario della caduta del Muro, Seeyousound gioca d’anticipo celebrando la città tedesca anche con Hansa Studios – By the Wall 1976-90 di Mike Christie, che racconta la gloriosa storia degli studi di registrazione a un passo dal famigerato Mauer nei quali nacquero capolavori discografici di artisti come David Bowie, Iggy Pop, Nick Cave, U2, Depeche Mode. Tra gli eventi del festival ci sarà anche una reunion, quella dei musicisti che nel 2010 portarono in tour in Italia lo spettacolo Songs With Other Strangers. In parallelo con la presentazione del bel documentario che il film-maker (nonché scrittore e giornalista) siciliano Vittorio Bongiorno realizzò nell’occasione, saliranno sul palco i protagonisti di quel breve ma affascinante incontro di “stranieri”: da Manuel Agnelli a John Parish, da Steve Wynn a Marta Collica, da Cesare Basile a Hugo Race e altri.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Il resto del programma del SYS è multiforme e stimolante, come deve essere (citiamo la denominazione ufficiale del festival) una vera “Music Film Experience”. Esperienza che in autunno si estenderà ad altre città come Pisa, Lecce e Palermo.

“Da Pavarotti pasta alle vongole e lezioni di canto”

“Mi sembra ieri e invece sono passati 25 anni da quando abbiamo iniziato, ho quasi nostalgia dei vecchi tempi”. Una elegantissima e pimpante Skin ha presentato ieri a Milano il primo album live degli Skunk Anansie insieme al collega Ace (mancano all’appello Cass Lewis e Mark Richardson). “È la prima volta che ci fermiamo per guardare indietro quanta strada abbiamo fatto” prosegue Ace, “ci sentiamo davvero dei privilegiati ad aver condiviso così tante esperienze insieme. Suonare in giro per il mondo ci ha permesso di conoscere Nelson Mandela, il Dalai Lama, David Bowie e altre grandi personalità del nostro tempo”. “Per me – dice Skin – siamo essenzialmente una rock band inglese e di questi tempi non è facile esserlo, tutti nel nostro business vogliono altri generi musicali. Eppure noi resistiamo, forse perché – in qualche modo – siamo unici, non c’è un’altra band come la nostra in giro. 25 Live @ 25 (nei negozi da venerdì prossimo, ndr) è un compendio della nostra carriera, trovo giusto celebrare una rock band come la nostra con un disco suonato dal vivo”. La cifra stilistica della band è senza dubbio la grande energia sprigionata sul palco, unita alle tematiche sociali dei testi scritti da Skin, aggiungendo così un suo personale sigillo su ogni brano, con un grandangolo sui diritti delle persone, sulle problematiche del lavoro e sulle diversità. “Oggi tutte canzoni d’amore, è più facile”, commenta ridendo Skin. “Venticinque anni fa non è stato per niente facile”, ci tiene a ricordarlo Ace: “Non avevamo soldi, eravamo in quattro in giro su una piccola macchina, in cerca di locali per suonare. Ma poi siamo stati headliner al Festival di Glastonbury, per noi è stato un traguardo”. Skin ricorda con affetto un momento del Pavarotti & Friends: “Per me è stato incredibile incontrare il Maestro Luciano, con il quale ho duettato in You’ll Follow me down. Era un grande cuoco e si è messo a cucinare per me e mi ha pure dato lezioni di canto. Mi ha fatto assaggiare un piatto di spaghetti alle vongole incredibilmente buono. Peccato che una vongola era forse di pessima qualità e ho passato una nottataccia a digerirla”. Skin oltre a partecipare a diversi film si è fatta conoscere in Italia anche come giudice a X Factor, nell’edizione del 2015: “Tornassi indietro non lo rifarei. Ho dovuto studiare la vostra lingua in poche settimane e ho capito quanto sia difficile parlare bene in tv ed essere divertente quando devi esprimere un concetto importante. Ma, in ogni caso, ricordo l’ottima qualità delle proposte, il livello era molto alto e credo lo sia sempre di più dato che oggi X Factor ha preso il posto dei talent scout delle etichette discografiche”.

L’ultima domanda riguarda il futuro della band: “Volete sapere se stiamo incidendo nuove canzoni o se ci sarà un nuovo disco? Certamente! E quest’estate suoneremo in Italia in quattro date (Torino il 4 luglio, Bologna il 5, Legnano il 7 e Roma l’8)”.

Adriano c’è, scommessa vinta da ultimo Amleto

Adriano c’è. Nessuno pronosticava la sua presenza, lui ha aspettato di incassare l’ultima scommessa poi si è presentato sul palco del Teatro Comploy di Verona. Tranquillo, compassato, quasi sorpreso dell’adrenalina di cui è rimasto uno degli ultimi dispensatori. La scommessa di Aspettando Adrian è degna di Amleto: esserci e non esserci allo stesso tempo, costruire la presenza sull’assenza evitando accuratamente ogni spiegazione. Nessun conduttore, nessuno show in senso stretto; nei primi, destrutturati minuti di diretta su Canale 5 a introdurre il primo episodio della serie Adrian, Adriano non si vede, però si sente da subito, nell’atmosfera indecifrabile, sospesa e notturna, vero marchio di fabbrica dove fra’ Nino Frassica fa il padre guardiano dell’arca e gli aspiranti migranti – tutti noi – fanno la fila per essere imbarcati in un mondo migliore. “Avete pagato per non vedere Celentano, ma non dovete essere delusi perché è la storia della vostra vita”. Se parliamo della vita di noi spettatori, difficile dargli torto. Ma insomma, arriverà o no? Cominciamo a sperare di no, così possiamo continuare ad aspettarlo; e in quel preciso momento, eccolo lì.

Questa la cronaca dell’agognato debutto di Adrian. In realtà l’evento è in corso d’opera da almeno una settimana, quando, di fronte alle continue assenze del Molleggiato dalle prove e all’impossibilità di capire cosa avesse in testa, prima Michelle Hunziker poi Teo Teocoli hanno deciso di dare forfait. Qualcuno ha immaginato che ci fosse una regia, una gag, altri scommettono sul ritorno di Teocoli ma a Mediaset giurano che si tratta di imprevisti veri. E dunque funzionali. Nell’era dei format, delle scalette, dei gobbi elettronici Celentano insiste nella sua televisione-happening, e avere voluto Ambra Angiolini, l’indimenticata dea dell’auricolare, è un autentico tocco di classe

In questo senso Adrian, pur nella continuità delle gesta da predicatore solitario, eterno ragazzo della via Gluck, rappresenta una svolta. Da virtuoso della pausa è passato alla mistica dell’assenza. Per essere assenti non basta non esserci; bisogna far desiderare la nostra presenza, vedo e non vedo, farsi notare di più perché non si è venuti alla festa, ma poi però chissà. Essere sovranisti di se stessi, ma ogni volta in modo differente, molleggiare da un decennio all’altro e trasmigrare nel fumetto come gli era accaduto col cinema, in Joan Lui. Oggi la graphic novel si è conquistata un fascino simile a quello dei film di quarant’anni fa, in questo il re degli ignoranti dimostra di essere ancora lucido e di saper fare bene i suoi conti.

Certo, stavolta ha voluto davvero esagerare. Prodotto dalla Clan Celentano con costi da vero kolossal, stimati attorno ai 30 milioni di euro, questa graphic serie che abbina la firma di Milo Manara a un vago sapore manga è il programma più rimandato della storia della Tv.

L’idea dell’orologiaio in lotta contro il consumismo e l’inquinamento ambientale è stata una delle ultime invenzioni del pasoliniano Vincenzo Cerami, scomparso nel 2012, cui sono seguite le sceneggiature di alcuni studenti della Scuola Holden, le tavole di Manara e le musiche di Nicola Piovani. Il primo annuncio ufficiale della messa in onda è del 2015, da allora si è regolarmente ripetuto a ogni presentazione dei palinsesti Mediaset, ma ogni volta saltava fuori qualche problema, niente da fare perfino in occasione dell’ottantesimo compleanno del Molleggiato, lui non era convinto e non ha avuto problemi a pagare a Mediaset le salatissime penali previste dal contratto. Cos’è un milione di euro, quando si punta alla perfezione?

L’impressione potrebbe essere che né Adriano né Adrian avrebbero dovuto fare gli orologiai, visti i ritardi accumulati. Ma è un’impressione sbagliata, perché la televisione si basa sul tempo, è l’orologio che scandisce l’immaginario collettivo, e nessuno ne è consapevole quanto Celentano. Da stasera la serie continua con altre sette puntate, due storie e due suspense parallele. Una, più prevedibile, riguarda le imprese del nostro avatar a fumetti impegnato a salvare il mondo con la forza dell’amore. L’altra, le apparizioni e le sparizioni dell’avatar in carne e ossa del suo avatar a fumetti. Chi trova le differenze è bravo.

Casa Bianca, Kamala Harris sulle orme di Obama

Sono già mezza dozzina e manca ancora un anno all’inizio della stagione delle primarie per la scelta del candidato democratico alla Casa Bianca: nel lunedì dedicato a Martin Luther King, gli aspiranti alla nomination si sono messi in mostra, mentre Donald Trump non sa nascondere l’idiosincrasia per la ricorrenza. La senatrice della California Kamala Harris ha dichiarato le proprie ambizioni, altri come il senatore del Vermont Bernie Sanders e l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg si sono messi in mostra.

Figlia di immigrati (madre indiana e padre giamaicano), Harris, 54 anni, è una senatrice al suo primo mandato, proprio come lo era Barack Obama quando si candidò e vinse. Cresciuta a Oakland, una carriera da magistrato fino a diventare procuratore generale del suo Stato, la Harris s’è detta, ed è apparsa, “molto emozionata”, nel mettere le carte in tavola a Good Morning America, programma del mattino della Abc. Se dovesse arrivare alla Casa Bianca sarebbe la prima donna e la seconda persona di colore. Ai nastri di partenza, con Harris ci sono già le senatrici del Massachusetts Elisabeth Warren, un’icona dell’America liberal, e dello Stato di New York Kirsten Gillibrand; e, poi, la deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard, reduce della guerra in Iraq. Ma i potenziali candidati democratici, sono un gruppo molto numeroso e ancora magmatico, dove ci sono dinosauri della politica come Joe Biden, Clinton o Sanders, e volti nuovi come, oltre alla Harris, Cory Booker e Beto O’Rourke.

Se non altro per ragioni di età, Harris è nel partito un ponte fra i settantenni e i quarantenni. Il suo slogan non è contundente: “Kamala Harris, per la gente”. In un video, la neo-candidata mette nel mirino Trump senza citarlo (“chi mette i propri interessi davanti agli interessi della gente”).

Siria, la guerra all’Iran che piace a Bibi

L’escalation nello scontro tra Israele e Iran nei cieli della Siria tra domenica e lunedì notte ha riportato alla luce la guerra segreta che si è combattuta negli ultimi due anni.

Domenica scorsa, Israele ha effettuato una rara serie di attacchi aerei nell’area dell’aeroporto di Damasco, seguita da un tentativo iraniano di sparare un missile a medio raggio verso il nord di Israele, che è stato intercettato dall’Iron Dome. Lunedì notte poi, all’1 del mattino, Israele non solo ha lanciato una seconda serie molto più ampia di attacchi contro obiettivi iraniani in Siria, ma per la prima volta ha annunciato in tempo reale ciò che stava avvenendo. Undici le vittime dei raid israeliani contro 10 obiettivi diversi sul territorio siriano secondo fonti indipendenti. Le immagini più surreali di questo ennesimo scontro sono i video pubblicati lunedì mattina sui social media d’Israele. Gli sciatori che scendevano dal Monte Hermon hanno colto l’attimo in cui si vedono le scie dei missili israeliani che intercettano un missile sparato dalla Siria. Subito sul lato israeliano della montagna sono suonate le sirene di allarme, e anche le piste da sci sono state chiuse. Israele e Iran sono adesso impegnati in un conflitto diretto e aperto in Siria, il che forse non è così sorprendente, se si considerano come tutti gli eventi degli ultimi otto anni di guerra civile in Siria abbiano portato a questo momento. Ma è grave che questa pericolosa crisi si stia sviluppando senza che né Stati Uniti nè Russia stiano cercando di esercitare un’influenza significativa sul risultato.

L’ennesimo scontro e l’aumento delle tensioni tra Israele e Siria, e il suo principale sostenitore, l’Iran, arrivano in un momento in cui la situazione interna in Siria sta cambiando rapidamente a causa del recente ordine di disimpegno delle truppe Usa ordinato dal presidente Donald Trump. La Russia finge di avere piani per il futuro della Siria ma non sembra che stia facendo molto per attuarli. Gli Stati Uniti non fanno nemmeno finta di averne.

La minaccia di uno scontro diretto tra Israele e Iran è incombente da quando in Siria le forze armate iraniane hanno costruito una presenza importante per aiutare Bashar al-Assad. Ancora ieri il capo dell’Aviazione iraniana da Teheran minacciava Israele, annunciando che i suoi piloti “non vedono l’ora di combattere”. Da parte israeliana il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha sempre lanciato accuse contro il regime iraniano – dalla costruzione della bomba atomica al build-up militare in Siria – ha i piani d’attacco pronti da tempo. È un momento delicato per il premier, sta per affrontare le accuse di corruzione in quattro diversi casi ed è già in campagna elettorale per le elezioni del 9 aprile. Una guerra – sia per le accuse al premier che per le elezioni – congelerebbe tutto fino a data da destinarsi.

L’Iran si sta muovendo velocemente per consolidare la sua presenza in Siria. Le sorti della guerra civile vanno in modo sempre più deciso a favore del regime di Assad, e le recenti decisioni dell’amministrazione Trump appaiono come un disimpegno militare e strategico che rischia di essere colmato, avvicinando ancora di più le truppe iraniane del generale Qassem Suleimani ai confini dello Stato ebraico. E questo Israele non può permetterlo.

La “città rosa” si trasforma nella piazza dei Gilet gialli

“Macron Bolsonaro, no”, hanno scritto i Gilet gialli sulla facciata del municipio di Tolosa, imbrattando il bel palazzo del ‘700, simbolo della città, nella place du Capitole. I manifestanti si sono stesi per terra, al centro della piazza, cantando slogan e cartelli contro il rincaro delle tasse, contro il presidente e le violenze nei cortei. Sabato scorso, per l’Atto 10 della protesta, Tolosa è diventata la capitale dei Gilet gialli.

Circa 10.000 dimostranti sono stati contati nelle strade della “città rosa” (così chiamata per il colore della pietra dei suoi palazzi), mentre a Parigi erano 7.000.

Se sul piano nazionale la protesta resta stabile (per due sabato di seguito si sono contati in tutto circa 84.000 manifestanti), a Tolosa invece sta crescendo. Il sabato precedente, 12 gennaio, i Gilet erano 6.000. E per l’atto 11 di sabato prossimo nuovi appelli a manifestare in massa in centro sono già sui social. Tolosa è la quarta città della Francia in termini di abitanti (475.000). Una città in cui si vive bene, bella, dinamica e in crescita; ha un polo universitario importante e via ha sede il colosso dell’aeronautica Airbus. Negli stabilimenti di Blagnac, nei pressi dell’aeroporto, si assembla il gigante A380. È qui che il movimento dei Gilet gialli sembra trovare un nuovo respiro: “C’è a Tolosa una tradizione di contestazione e di rivolta, e questo può giustificare che un fenomeno complesso come quello dei Gilet trovi l’epicentro della contestazione”, ha spiegato il politologo Jean-Michel Ducomte, originario della città, al giornale regionale La Depêche du Midi. Nel ‘68 Tolosa fu la prima grande città di provincia, in Francia, a seguire la contestazione parigina. “Tolosa – ha aggiunto lo specialista – ha una bella storia popolare, con la diversità della sua popolazione, i fenomeni migratori della sua storia anche se, e può sembrare contraddittorio, è governata da mezzo secolo da sindaci di destra”. La città attira nel suo centro le contestazioni delle campagne circostanti. Molti Gilet gialli arrivano il sabato dalle regioni vicine del Gers e del Tarn, rispondono all’appello di una delle principali figure del movimento, Maxime Nicolle, alias Fly Rider, 31 anni, che gestisce la pagina Facebook “Fly Rider Info Blocage” ed è vicino al gruppo “radicale” della “France en colère” di Eric Drouet.

Una figura controversa per aver messo in dubbio il movente terrorista dell’attentato di Strasburgo dello scorso dicembre al mercato di Natale. Il portavoce del governo, Benjamin Grivaux, ha accusato lui e Drouet di voler “rovesciare” le istituzioni.

“Tolosa è da tempo una base di contestazione – ha commentato su BFM Tv il sindaco della città, Jean-Luc Moudenc, del partito della destra conservatrice Les Républicains (Jean-Luc Mélenchon (del partito radicale di sinistra, La France Insoumise, ha raccolto il 29%, ndr). Sono sicuro – ha aggiunto – che una parte dei suoi simpatizzanti si è mobilitata”. Anche a Tolosa gli ultimi cortei, come a Parigi o a Bordeaux, sono degenerati.

Sabato degli slogan anarchici sono comparsi sui muri dei palazzi. Negozi e ristoranti sono stati ancora saccheggiati. Gli esercenti, stufi, con la paura di dover chiudere una volta per tutte, hanno manifestato nelle strade esponendo cartelli di protesta di questo tipo: “Negozi in pericolo. Vendesi”.

Dall’inizio della mobilitazione, il 17 novembre scorso, secondo i dati della Procura, più di 300 persone sono state fermate in città.