Franco è “vivo” e lotta con loro

Esumazione sì, esumazione no. La mummia di Francisco Franco – il dittatore spagnolo morto nel 1975 – non ha più pace da quando al governo sono tornati i socialisti di Pedro Sanchez, non più disposti a seppellire – è proprio il caso di dirlo – quasi quarant’anni di regime sotto un mausoleo. C’è chi la ritiene una mossa propagandistica dell’esecutivo. Fatto sta che ormai è guerra sullo spostamento del corpo del caudillo dalla “Valle de los caidos” (la Valle dei caduti), che lui stesso fece costruire per José Antonio Primo de Rivera, fondatore della falange spagnola e per “perpetrare la memoria dei caduti per la nostra gloriosa Crociata”.

Da una parte il governo, che con il sostegno delle forze della società sempre meno convinte che quel “pari e patta” con cui si ricucì il Paese diviso dalla Guerra civile, la “transizione” abbia funzionato, come dovrebbe ricordare il monumento in cui finirono poi sepolti i caduti di entrambi gli schieramenti. Dall’altra, la famiglia Franco che minaccia Sanchez di dover passare sul loro cadavere per spostare la salma del congiunto. “Non c’è legge che li tuteli”, ha sentenziato però la Corte suprema spagnola, “la famiglia non ha alcun titolo per opporsi”. Non la pensa così il priore benedettino della Valle che si oppone all’esumazione e continua a officiare messa per il dittatore. D’altronde dove portarlo? La famiglia chiede la sepoltura nella cattedrale della protettrice di Madrid, la vergine dell’Almudena. Sia mai. Il governo ha chiesto l’intervento del papa per scongiurarlo. Il Vaticano tace, non ci vuole entrare, almeno da 80 anni. E mentre si litiga sulla salma del “generalissimo”, a tenere in vita la sua memoria ci pensa la Fondazione Franco. Finanziata da entusiasti del regime con più di 2 milioni di euro che si sommano ai 150 mila provenienti da sovvenzioni pubbliche del governo di destra di José Maria Aznar, si può dire che Franco in Spagna non ha bisogno certo di essere riesumato. Di tutte le associazioni gemelle, dedicate ad altri golpisti o falangisti, la sua risulta, infatti, la più presente in adepti e denaro: 2 milioni di euro, appunto, con cui si omaggia il caudillo in tutte le ricorrenze oltre a pagare i dipendenti che tra le altre cose tengono in ordine l’archivio. Tra le attività annoverate nei bilanci, la più curiosa è quella di lobby: soprattutto per spingere alla cancellazione della legge spagnola della “Memoria storica”. E non è un caso, visto che è proprio questo uno dei punti del programma del partito di ultra-destra Vox, appena entrato nel Parlamento in Andalusia e che promette grossi numeri nel resto della Spagna. Intanto si pensa all’apertura di nuove sedi della Fondazione: una sorta di Franco franchising da finanziare con le donazioni incentivate dal 2015 dallo Stato attraverso gli sgravi fiscali. Con questi soldi, la Fondazione organizza conferenze, dibattiti via web, via radio e invia anche una newsletter. Nel periodo d’oro del governo Aznar, con 150 mila euro della sovvenzione per la digitalizzazione di 29 mila documenti, la Fondazione comprò anche pc, mobili, estintori e soprattutto un tritadocumenti. Peccato che restino da digitalizzare altri 3 mila fogli dal contenuto sconosciuto, che, si suppone, dovrebbero essere già consultabili. Altri 159 mila euro sono destinati agli atti annuali del 20N – data della morte del dittatore – del 18 luglio – il colpo di Stato – omaggi floreali, la tomba della Valle de los Caidos ha sempre fiori freschi, o la pubblicazione di fascicoli e dvd per un totale di 26 mila euro. Ma è proprio di quest’anno la più grande donazione della storia della Fondazione: quasi 90 mila euro. Non è difficile immaginare il perché, visto che il 2018 ha dato slancio a quello che alcuni analisti politici spagnoli considerano il “lavoro di rinverdimento delle ideologie” di destra.

Costituita come Fondazione culturale l’8 ottobre del 1976, la Fondazione Francisco Franco, presieduta fino alla sua morte dalla figlia del dittatore, consta di 550 libri “su vari temi della natura”, di altri 555 specifici sulle tematiche franchiste, 2240 tra fotografie e video. Come dotazione iniziale possedeva 90 mila euro in buoni del tesoro, 20 azioni Land Rover Santana Sa e 12 obbligazioni nel Cda del Porto di Valenzia. Ma quella del caudillo non è l’unica fondazione di impronta franchista in Spagna. Altre, che mantengono viva la memoria di personaggi come il cognatissimo del “generalissimo”, Serrano Suñer o il golpista Primo de Rivera, raccolgono milioni, posseggono immobili, opere d’arte, biblioteche e addirittura hanno tentato di mettere su Università estive. A proposito di donazioni e rinverdimento degli ideali fascisti, la campagna elettorale del crescente astro politico Vox è stata finanziata con 1 milione di euro dal Consiglio della resistenza iraniana. A imperitura memoria.

Fmi taglia le stime di Pil dell’Italia. Governo all’attacco

Il Fondomonetario internazionale, presieduto da Christine Lagarde, taglia allo 0,6%, dall’1% di ottobre, la previsione di crescita per l’Italia nel 2019, mantenendola allo 0,9% per l’anno successivo. Una revisione della stima al ribasso identica a quella indicata nel bollettino economico di Banca d’Italia, 0,4 punti sotto le stime del governo già riviste al ribasso a dicembre nel corso della trattativa con l’Ue per evitare la procedura di infrazione. L’Italia, “dove i timori riguardanti i rischi sovrani e finanziari hanno impattato sulla domanda interna”, è individuata con la Germania come uno dei fattori la cui frenata a fine 2018 ha fatto rivedere in peggio anche le stime di crescita per l’Eurozona e comportato un calo dell’euro del 2% fra ottobre e gennaio. “Non credo che l’Italia sia un rischio né per l’Ue né globale”, replica il ministro dell’Economia Tria che esclude una manovra bis in primavera. E attacca: “I nostri conti pubblici non corrono alcun pericolo. Il quadro di finanza pubblica contenuto nella legge di Bilancio è già stimato su un quadro di crescita tendenziale dello 0,6%”. Per Tria “le correzioni si faranno solo se le entrate e le uscite da noi stimate dovessero cambiare, ma non perché cambia la congiuntura”.

Il Tav è un’opera inutile: sono i numeri a bocciarlo

Nelle decisioni sulle grandi opere dovrebbero contare i numeri oggettivi e non le opinioni soggettive. Le preferenze individuali hanno un ruolo ben diverso nelle scelte private rispetto alle scelte pubbliche sugli investimenti infrastrutturali. Nelle prime assumono un valore assoluto dato che il privato, pagando di tasca propria, ha pieno diritto di decidere ciò che ritiene meglio per sé. Nelle scelte pubbliche su opere di grandi dimensioni si decide invece oggi qualcosa che servirà per decenni, generando benefici distribuiti in un lungo periodo e su differenti generazioni. Poiché lo si finanzia a debito anche i costi saranno ribaltati prevalentemente sulle generazioni future. Chi è dunque più opportuno che decida oggi? E su quali basi? Far scegliere agli elettori comporta due rischi: da un lato di non tener conto dei costi netti che ricadranno sulle generazioni future, dall’altro di non dare adeguato peso all’utilità oggettiva dell’opera, dato che la gran parte dei decisori non ne saranno utilizzatori.

Nella scelta individuale di un bene il consumatore è legittimamente interessato sia alla sua utilità pratica sia alla soddisfazione che gli procura, alla sua utilità edonica. Le due tipologie di utilità convivono in differenti proporzioni in ogni bene: in un cacciavite sarà massima la quota di utilità pratica e in un gioiello quella edonica. Se utilizziamo questo schema per analizzare le opinioni di chi è favorevole e di chi è contrario alla Torino-Lione possiamo convenire che non è l’utilità pratica dell’opera la base principale dell’opinione favorevole né la sua dannosità la base di chi è contrario. Le passionarie torinesi pro-Tav, le madamine, non sono infatti lavoratrici pendolari tra Torino e Lione né importatrici o esportatrici di merci verso la Francia, così come tra i No Tav non sono numericamente prevalenti quelli che verrebbero danneggiati dai lavori. Poiché in entrambi i gruppi l’utilità o disutilità soggettiva prevale su quella oggettiva, un referendum darebbe il via a una grande battaglia edonica tra opposte opinioni anziché a una valutazione dell’utilità pratica dell’opera rispetto ai costi.

La decisione se fare o non fare una grande opera va presa con una rigida analisi oggettiva dei suoi vantaggi e costi, nel lungo periodo, l’esatto contrario di un confronto di brevissimo periodo tra soddisfazioni o insoddisfazioni soggettive. Quella che serve è una scelta illuministica, basata sulla realtà dei numeri, e non romantica, basata sul calore delle passioni. Occorre valutare se l’opera vale di più o di meno dei soldi necessari per realizzarla. La nuova Torino-Lione non serve a soddisfare opinioni ma a trasportare merci e passeggeri e dunque il tutto si riduce a comprendere se vi saranno in futuro in numero sufficiente merci e passeggeri.

Vediamo dunque i numeri. L’opera è un’idea progettuale fatta propria in sede europea nei primi anni ’90, dopo un decennio nel quale il traffico complessivo dei mezzi pesanti nei due trafori del Fréjus e del Monte Bianco era aumentato a un tasso medio annuo dell’8,5%, solo di poco inferiore alla crescita negli anni 70 del Monte Bianco, unico traforo dell’epoca. Se quella tendenza fosse proseguita invariata il milione e 600 mila veicoli pesanti del 1994 nei due trafori sarebbe divenuto più di tre milioni nel 2002 e più di cinque già nel 2010, pertanto il progetto ferroviario del nuovo Fréjus sarebbe stato ampiamente giustificato. Invece lo stesso anno 1994 in cui il consiglio europeo di Essen collocava l’opera tra quelle prioritarie fu anche quello in cui si raggiunse il massimo storico di veicoli pesanti nei due trafori. Mai decisione comunitaria fu più intempestiva: nello stesso momento in cui l’opera divenne prioritaria per chi desiderava realizzarla smise di essere necessaria per chi avrebbe dovuto usarla.

Nel quarto di secolo trascorso da allora quel traffico, più alto di circa un sesto rispetto al livello attuale, non è mai più stato raggiunto. E alla linea ferroviaria del vecchio Fréjus è andata molto peggio, con un calo complessivo delle merci di oltre 70% rispetto al picco del 1997. Nello stesso periodo vi è stato invece un vero e proprio boom nel traffico passeggeri con la Francia ma esso ha interessato esclusivamente i collegamenti aerei, grazie alla liberalizzazione comunitaria. I viaggiatori per via aerea sono quasi quadruplicati. Per i passeggeri l’alta velocità con la Francia esiste già da molto tempo e non è costata assolutamente nulla in infrastrutture data che passa sui cieli. Le merci non possono fare altrettanto ma una ripresa consistente del volume degli scambi appare incompatibile con un paese a crescita bassa o nulla e in declino demografico. La Torino-Lione è un’opera da primi anni novanta, coerente con la crescita economica di quell’epoca e con un trasporto aereo non liberalizzato e ancora alla portata di pochi. È totalmente fuori tempo un quarto di secolo dopo.

Trivelle, balla l’intesa M5S-Lega

Uno stop di due anni alle attività di ricerca di idrocarburi ma prosecuzione della produzione per chi ha già avviato quella che in gergo tecnico viene definita la “coltivazione”: era questo, per il Movimento 5 Stelle, l’accordo con la Lega sulla questione trivelle. Accordo, però, che in serata è diventato unilaterale visto che ieri, in serata, il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo ha precisato di star ancora “lavorando” alla formulazione finale dell’emendamento sulle trivelle al dl Semplificazione, che dovrebbe essere discusso e votato oggi nella commissione congiunta Affari Costituzionali e Lavori pubblici in Senato. Anche perché è forte il rischio di ricorsi.

La soluzione che avrebbe dovuto sanare lo scontro interno alla maggioranza delle scorse settimane, dopo l’emendamento presentato dai grillini che azzerava qualsiasi nuovo permesso e bloccava le coltivazioni in corso (nell’attesa della redazione di un piano delle Aree che indicasse dove si può o non può trivellare) era arrivata dopo una trattativa di giorni tra Giancarlo Giorgetti, sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio, e una delegazione dei Cinque Stelle guidata dal capogruppo al Senato, Stefano Patuanelli. L’emendamento, riformulato, ha invece come prima firma quella del senatore Gianluca Castaldi.

E proprio Patuanelli ieri sera aveva parlato di accordo chiuso. Però sull’intesa pende il rischio di ricorsi da parte di chi ha già avuto i permessi per trivellare (sostenendo di aver già ottenuto le autorizzazioni necessarie). E i comitati No Triv sembrano poco disposti ad accettare un parziale compromesso al ribasso sul piano ambientale. E ci sono altri nodi. Perché in un altro emendamento c’è spazio anche per le misure fitosanitarie ufficiali contro la Xylella. È previsto il carcere per chi non abbatte gli ulivi infettati e non applicherà le altre misure ufficiali imposte. La pena prevista è quella della reclusione da 1 a 5 anni. Il pugno duro del governo giallo-verde era stato invocato dagli agricoltori pugliesi che nei giorni scorsi hanno protestato contro il mancato interesse mostrato dall’esecutivo per la questione del batterio che nelle ultime settimane ha toccato sempre più anche le campagne dell’Alto Brindisino e del Barese. Non sono bastate le rassicurazioni del ministro delle Politiche agricole, il leghista Gian Marco Centinaio.

Ora si va anche oltre: la previsione del carcere al posto della multa è una novità di assoluto rilievo. Un modo per provare a evitare le rivolte, i ricorsi ei ritardi già registrati negli scorsi mesi da parte dei proprietari degli oliveti, come gli incendi, appiccati pensando di poter rendere così più veloci le procedure di distruzione delle piante soprattutto nelle zone cuscinetto e di contenimento.

Toh, riecco Gozi: l’uomo dalle idee giuste per gli altri

La vita non è mai stata granché tenera con Sandro Gozi, sin da quando lo ha fatto nascere Sandro Gozi. La sua notorietà mediatica è durata meno di un successo di Memo Remigi a Woodstock. In breve tempo, nel Pantheon dei fiancheggiatori garruli della Diversamente Lince di Rignano, è stato sopraffatto da chiunque. Persino da Marattin. E capite bene che essere oscurati da Marattin è un po’ come arrivare dopo Orfini in una gara di fascino. Gozi è un turborenziano di terza fascia. Lo caratterizza un bel capino implume, dal vago color asfalto bagnato. Più che una pettinatura, la sua è una sobria calottina che lo rende in qualche modo prossimo a un playmobil fuori corso. Come tutti i giocattoli di scarsa vendibilità e fruibilità, Egli è ben presto caduto in disuso, vuoi per il packaging poco appetibile e vuoi perché la vita è cattiva. Di lui non si ricorda nulla, e questo è normale. Sforzandosi parecchio, tornano alla mente alcune sue uscite televisive in cui si rivelava efficacissimo portatore di voti: ai 5 Stelle e alla Lega, però. Resta poi eroica la sua reazione, durante il vilipendio della lingua inglese perpetrato da Matteo “Shish” Renzi, al Digital Venice 2014. Gozi, coi suoi lineamenti vagamente bronzei da Big Jim saraceno, era dietro il Capo. Per un po’ se ne stette a testa bassa, chino su se stesso e forse genuflesso dinnanzi al Sire. Poi, ferito dalla mitraglia di pronunce sbagliate dal fascinoso Premier toscano, Gozi alzò di colpo il capino. Il suo sguardo parve smarrito: da poliglotta autentico qual è, non poteva credere che un presidente del Consiglio parlasse così male l’inglese. Ciò nondimeno, Egli restò fermo nella sua cieca fiducia al Condottiero, ostentando sicurezza allo stato brado.

Si torna a parlare di Gozi non solo perché ne siamo e saremo fan nei secoli, ma perché è stato lui venerdì scorso a dettare la linea ai turborenziani. E già qui c’è l’ulteriore cortocircuito di quel che resta della dottrina renziana: un concentrato di nulla ridotto a farsi consigliare le mosse da Gozi. Una sorta di evanescenza politica al quadrato. L’idea di Gozi (si perdoni l’ossimoro) è parsa subito geniale: un bel referendum contro il reddito di cittadinanza. Attenzione: non contro il dl Salvini, bensì contro la cosa – se funziona, e il “se” è enorme – più vicina ai poveri e quindi “più di sinistra” che prova a fare il Salvimaio. A Gozi si sono subito accodati non pochi fiancheggiatori dell’Alain Delon di Rignano e perfino “Ginger Ale” Vittorio Feltri. Grande entusiasmo financo da Carfagna e Meloni, note comuniste italiche. Inarrestabile pure l’entusiasmo di Mary Helen Woods, ovvero la Boschi, che quando c’è da sbagliare qualcosa ha un fiuto del gol che in confronto Inzaghi era una chiavica. Un obbrobrio d’opposizione così non saremmo neanche riusciti a immaginarlo: e invece eccolo qua, proprio in mezzo a noi. Che culo. L’impegno con cui Gozi, ex sottosegretario agli Affari europei nei governi Renzi & Gentiloni, cerca di radere al suolo anche quel 3% di sinistra che resta nel Pd è encomiabile. Del resto Gozi, classe (poca) 1968, è ontologicamente leggendario. Il 22 settembre 2012 si candidò alle primarie del centrosinistra per la carica di presidente del Consiglio. Bello. Bellissimo. Poi però, il 15 ottobre dello stesso anno, fu costretto a ritirare la sua candidatura. Cambiò idea lui? Non esattamente. Per candidarsi bisognava raggiungere 95 firme utili tra i delegati dell’assemblea nazionale del Pd. Novantacinque, eh: non 95.000. Ma Gozi non riuscì a raccoglierle. Si fermò molto prima, forse a 90 o forse a -12. Una prece.

Libia e migranti: non si vede alcun piano B

Gli attivisti, le associazioni cattoliche e alcuni intellettuali pongono una questione etica: nessuno deve morire nel Mediterraneo, anche se questo significa andare a prendere sulla costa chi parte dalla Libia e non rispedire indietro nessuno, perché la Libia non è un porto sicuro e perché non ci può essere giustificazione a rinchiudere i disperati in campi di prigionia inumani. È un approccio che si fonda su basi etiche, più che giuridiche, visto che la Convenzione di Ginevra sulla protezione umanitaria è stata approvata nel 1951 per gestire 11 milioni di europei che avevano dovuto cambiare Paese durante la Seconda guerra mondiale, non certo per regolare migrazioni di massa dall’Africa in Occidente.

Questi paladini dei diritti umani si sono assunti il compito di ricordare con intransigenza il costo di ogni scelta politica. Chi governa, però, ha un compito ancora più difficile: scegliere tra opzioni tutte incompatibili con quell’intransigenza. E optare per il male minore, che spesso significa – per quanto suoni disumano affermarlo – scegliere un male oggi per prevenirne uno maggiore domani. Il governo Gentiloni ha iniziato la strategia poi proseguita in modo più sguaiato dall’attuale esecutivo: evitare che la Libia diventi uno Stato fallito controllato dai trafficanti, cercare di riportare un ordine che possa garantire un’alternativa economica al Paese al business dei barconi, così da limitare gli sbarchi sulle nostre coste e preservare l’influenza italiana sul Paese che è tanto rilevante per il nostro interesse nazionale (categoria fuori moda in Italia ma non tra i nostri concorrenti francesi). Questo ha significato eliminare dal mare le Ong: il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa ha analizzato i dati e dalla sua sintesi non risulta che le Ong siano un fattore di pull factor, cioè che incentivino le partenze e dunque i morti, ma il nostro intelligence ha prove – non utilizzabili in processi giudiziari – che molti contatti ci sono stati tra volontari e scafisti. Con i criminali che approfittavano della buona fede delle Ong per ridurre il rischio d’impresa.

Poi, nel luglio 2018, il secondo passo di questa strategia: attribuire alla Libia una zona di competenza per le attività di ricerca e soccorso (Sar) in mare. Una zona estesa, che la Guardia costiera libica forse non sa gestire neppure con il supporto di motovedette e formazione fornito dall’Italia. O che forse non vuole gestire davvero, perché quando aumentano gli sbarchi e i morti è il momento di battere di nuovo cassa a Roma per chiedere altri aiuti. È una strategia che implica il rischio di molti morti e di molto dolore tra chi sognava l’Europa e si trova respinto in Libia. Ed è destinata a durare: le elezioni in Libia per riunificare il Paese erano auspicate per dicembre ma sono rinviate a data destinarsi.

Di alternative a questo approccio se ne vedono poche: per l’Italia rinunciare al tentativo di ricostruire una sovranità statuale in Libia significa scegliere una modalità neocoloniale (gestiamo noi il Paese: auguri!) oppure disinteressarsi delle partenze e sparare ai barconi, come una volta auspicava una certa destra. Alessandro Di Battista e i 5Stelle invitano ora a parlare delle “cause” delle migrazioni più che dei sintomi: ma l’idea che il problema si affronti facendo sviluppare l’Africa in pochi mesi è, nel migliore dei casi, ingenuità.

Chi vuole affrontare la questione e ridurre il numero dei morti deve pretendere una sola cosa, semplice e concreta: un canale legale di migrazione in Italia, tramite ambasciate, consolati, hotspot. Chi ha diritto di protezione umanitaria (o è utile all’Italia, perché no) deve essere identificato prima di partire poter entrare senza dover pagare un trafficante. Questo significa avere più migranti. E, speriamo, meno morti tra chi non ha diritto alla protezione ma cerca comunque una vita migliore. Qualche partito è disposto a proporlo sul serio? E qualcuno a votarlo?

Calenda e il miracolo dell’accozzaglia

Sono sobbalzato a fronte del coro di adesioni trasversali all’appello di Calenda per una lista unitaria di tutti gli europeisti nostrani: dai due candidati in competizione per la guida del Pd a sindaci e presidenti di Regione Pd diversamente posizionati nel partito, dal fronte di sinistra come Boldrini e Enrico Rossi, sino all’interesse manifestato dal berlusconiano Paolo Romani. Troppa grazia…

Sorprendente perché quell’appello non è cosa molto diversa dalla precedente proposta di Calenda di un indistinto Fronte repubblicano, che non escludeva settori del centrodestra, alternativo ai populisti nostrani, una proposta che invece aveva raccolto pochi, isolati consensi dentro e nei dintorni del Pd. Riflettendoci tuttavia lo si può spiegare: un po’ tutti i soggetti che si sono precipitati a firmare scontano una tale debolezza – a cominciare dall’animoso promotore dell’appello, per ricomprendere i competitor nelle primarie Pd, sino a chi, alla sua sinistra ha, come primo problema, di rientrare in gioco dal binario morto nel quale si è cacciato – da non sentirsela di sfidare il generico allure unitarista che promana da quell’appello. Dunque, a quel largo consenso sottende una dose di tatticismo, di dissimulazione, di ambiguità, che tuttavia, trascorse quarantotto ore, è puntualmente affiorata. Enrico Letta ha notato che un listone del “tutti contro i sovranisti” paradossalmente sarebbe un regalo fatto a loro; Andrea Orlando ha altrettanto giustamente obiettato che c’è modo e modo di essere europeisti, da conservatori ovvero da progressisti; buona parte dei renziani si è sfilata perché, in attesa che Renzi ponga fine alla sua spregiudicata doppiezza, non intende legarsi a un carro unitario che includa la sinistra. Del resto, segnalo che, nella prima versione dell’appello, figuravano due tesi che, paradossalmente, marcano semmai la continuità con il corso renziano: a) l’enfasi sulla svolta riformista operata dal governo Renzi dopo trent’anni sprecati; b) Lega e 5stelle sarebbero la stessa cosa, suscettibile di essere inscritta sotto la medesima cifra della dell’“internazionale sovranista”. Martina che, un po’ per indole grigia, un po’ in quanto vice di Renzi e sostenuto da molti dei suoi, può smarcarsi solo a metà dal pregresso renziano, è costretto a cavalcare tale ambiguità. Ma, domando, lo può fare Zingaretti? Può egli sottoscrivere quei due assunti impliciti nell’appello di Calenda senza smentire la discontinuità e la differenza che egli si vorrebbe intestare? Ancora: sulla base di quell’appello non è chiaro quale sarebbe la collocazione politica degli eletti nel Parlamento europeo. Presumibilmente in più gruppi, dai socialisti ai liberali. È plausibile che Zingaretti revochi l’ancoraggio del Pd al gruppo europeo dei socialisti, di nuovo paradossalmente, deciso dal segretario Renzi? Con un listone politicamente indistinto – si provino a immaginare i candidati – si può davvero confidare di riconquistare il consenso di quegli elettori di sinistra che hanno lasciato il Pd rifluendo nell’astensione, nei 5stelle, nelle pur piccole formazioni a sinistra?

Esagero per farmi intendere: ciò che sta scritto e ciò che è implicito nel documento Calenda, nonché il profilo biografico e politico dell’autore (un tecnocrate liberale, che ha esordito con Monti, ministro dei due ultimi governi che, se anche dovesse d’improvviso professarsi castrista, difficilmente potrebbe emanciparsi da tale profilo), più plausibilmente dovrebbe condurre a una lista di centro liberale insieme a Renzi, finalmente approdato a lidi a sé più congeniali. Magari con una Bonino, che resistesse al suo istinto personalistico e autonomistico. Una lista europeista distinta da quella diversamente ma altrettanto europeista, patrocinata da un Pd a guida Zingaretti limpidamente espressione di un centrosinistra di governo. In questo frangente, in tema di spirito unitario e inclusivo, si è evocato l’Ulivo, ma esso ha sempre associato l’europeismo prodiano a un inequivoco posizionamento di centrosinistra.

Se la politica seguisse una sua logica, se non fosse ostaggio di tatticismi, personalismi, doppiezza, ipocrisia… Infine si consideri che alle Europee vige una legge elettorale proporzionale. Sia chi pensa agli equilibri nel futuro Parlamento europeo, sia chi si preoccupa della ripercussione sulla politica domestica – due questioni intimamente connesse – dovrebbero convincersi che, anche ai fini del saldo elettorale, differenziare e articolare ragionevolmente l’offerta politica (con più liste che plausibilmente possano superare la soglia del 4%) piuttosto che fare un tutt’uno indistinto, rappresenterebbe un valore aggiunto e, chiedo scusa se è poco, un servizio reso alla chiarezza nella scelta del cittadino-elettore.

Mail box

 

Conflitti d’interessi sul 5G? Ma chi lo studia è indipendente

In merito all’articolo “5G, i conflitti d’interessi che delegittimano studi e comitati dell’Ue” voglio fare alcune osservazioni in quanto mi occupo da molti anni di onde elettromagnetiche e sono membro di alcuni degli organismi internazionali citati nel pezzo. Innanzitutto, scegliere i migliori ricercatori nel campo e coinvolgerli nei comitati di controllo è la prima e più sicura assicurazione per l’indipendenza e l’alta qualità degli studi che negli ultimi 150 anni ci hanno permesso conoscere le leggi che regolano i campi elettromagnetici. Anche sulle onde millimetriche citate nell’articolo la comunità scientifica ha approfondito da tempo la fisica affinando i propri risultati nel tempo attraverso la Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti (Icnirp), organo indipendente riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che non “detta legg” ma valuta le evidenze scientifiche relative (in questo caso) agli effetti delle radiazioni non ionizzanti sulla salute umana ed emanare delle linee guide per salvaguardarla. Le prime linee guida sui limiti all’esposizione alle emissioni elettromagnetiche dell’Icnirp risalgono al 1998, ma se ne sono sempre continuati a indagarne gli effetti e risale a pochi mesi fa, nel 2018, la riformulazione. L’Icnirp ha commentato gli studi condotti dal National Toxicological Program e dall’Istituto Ramazzini, rilevandone inconsistenze e limitazioni che ne pregiudicano l’attendibilità per definire nuove regole di esposizione. Infine, una parola sugli effetti non termici: oggi non risultano prove solide dell’insorgenza di effetti di natura non termica, ma la comunità scientifica è sempre aperta al dibattito.

professore Gugliemo d’Inzeo

 

Referendum Tav solo al Nord? Si esprimano tutti gli italiani

Nel tentativo di realizzare a tutti i costi il Tav, Sergio Chiamparino e gli altri hanno minacciato un referendum nelle regioni del cosiddetto Nord.

Ma, per realizzare quest’opera, bisognerebbe utilizzare i soldi dei contribuenti.

Per cui un eventuale referendum che – come ricorda il direttore – sarebbe soltanto consultivo, dovrebbe interessare l’intero paese che potrebbe esprimere il consenso alla realizzazione del Tav o al contrario ritenere che i costi considerevoli dell’opera potrebbero essere sostenuti per realizzare qualcosa di più necessario per l’intero paese, come (ad esempio) il miglioramento del servizio ferroviario già (in)esistente.

Sonia Calabrese

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Direttore,

sono uno degli ex elementi del Sisde citati dal libro in oggetto, richiamato nel libro di Sergio Flamigni, Il quarto uomo del delitto Moro(Kaos edizioni 2018) di cui Il Fatto ha pubblicato un estratto lo scorso 20 gennaio. Per salvaguardare l’onorabilità mia, dei miei colleghi e degli Organismi di Informazione e Sicurezza vorrei confutare le affermazioni dell’autore del libro, frutto di una sua personale interpretazione dei fatti.

Come ampiamente documentato nelle sedi opportune (Corte d’Assise di Roma, Commissione Parlamentare di inchiesta sul caso Moro), naufragato il tentativo di attirare fuori dal Nicaragua il latitante Alessio Casimirri per farlo catturare, organizzammo con lui un incontro. Contrariamente a quanto affermato dal Flamigni, non fummo inviati in missione, ma costruimmo noi stessi le premesse per effettuarla, nonostante i forti dubbi espressi dai vertici del Servizio. L’indicazione del Morbioli come affittuario della prigione di Moro fu semplicemente ipotetica, dovuta al fatto che costui rispondeva pienamente a tutte le caratteristiche indicate dal Casimirri, il quale aveva però fatto riferimento a tale “Germano” (non ricordava se nome proprio o di battaglia); le nostre indicazioni contribuirono comunque a confermare le risultanze investigative che la Digos aveva già acquisito nei confronti di Germano Maccari.

Anziché ipotizzare depistaggi, sarebbe stato opportuno sollecitare serie indagini sulla fuga di notizie che portò alla pubblicazione dell’articolo de L’Unità che, di fatto, affondò un’operazione che sin dalle prime battute aveva svelato importanti e inediti particolari sul sequestro dell’on.le Moro.

Senza nulla togliere alle opinioni di altri, era mia intenzione fornire la versione di chi ha operato all’esclusivo servizio dello Stato.

La ringrazio per l’attenzione

Carlo Parolisi

Che Guevara. Altro che “comunista”, fu un anarchico mai amato dal nostro Pci

Vorrei cortesemente far notare alcune inesattezze e una plateale “bestemmia” scritte da Massimo Fini nel suo articolo “Torna Che Guevara, le élite non capiscono”: 1) Cina e India furono coinvolte, eccome, nella Seconda guerra mondiale, la Cina direttamente (il Giappone l’aveva invasa) e l’India con i contingenti militari reclutati dai colonialisti britannici. 2) Fini crede davvero che gli Usa hanno fatto le guerre in Afghanistan e in Iraq “per motivi ideologici”, cioè per “esportare la democrazia e i diritti umani”? È una balla talmente grossa alla quale non crede neanche il più incallito dei filoamericani. 3) La Seconda guerra mondiale “l’hanno vinta le democrazie”? Mi fa piacere che Fini consideri democrazia anche l’Unione Sovietica di Stalin, determinante per la sconfitta nazista. 4) E qui passiamo alla “bestemmia”: “Ernesto Che Guevara che non era né di sinistra né di destra”. Ma cosa dice l’esimio giornalista? Ernesto Guevara de la Serna detto el Che era comunista, punto e finito, da lui sempre dichiarato e rivendicato, dire che el guerrillero heroico fosse un donchisciotte utopista senza ideologie è una balla sesquipedale che oltretutto offende la memoria del Grande Rivoluzionario. Che vogliamo arruolare anche il Che nella squinternata banda grillina?
Mauro Chiostri

 

Rispondo alla sua lettera zeppa di insulti, di alcune giuste precisazioni ma anche di altrettante confusioni. 1) Nel mio articolo io mi occupo soprattutto dello scenario europeo-occidentale. L’India fu coinvolta in modo marginalissimo nel conflitto. La Cina, è vero, condusse una guerra col Giappone iniziata prima della Seconda guerra mondiale, nel 1937, e a parte il seggio permanente all’Onu non colse grandi frutti da quella guerra. In ogni caso, non era certamente la Cina di oggi, il più grande competitor economico degli Usa. 2) È la prima volta che mi si dà del ‘filoamericano’. Sulle reali ragioni dell’aggressione all’Afghanistan ho scritto un libro “Il Mullah Omar”, che le consiglierei di leggere, e decine di articoli, anche sul “Fatto”, che mi hanno provocato la nomea di “antiamericano compulsivo”. In ogni caso, ufficialmente, gli americani insieme poi ai loro alleati hanno occupato, e ancora occupano, l’Afghanistan, provocando un numero incalcolabile di vittime civili, per portarvi la Democrazia e i loro cosiddetti valori. 3) Quello che a me premeva dire è che le democrazie non si sono dimostrate all’altezza, innescando così tutte le rivolte chiamate “populiste”, ma che io preferisco definire “popolari”. Comunque in questo caso sono d’accordo con Salvini: tutte le rivolte “populiste” sono una ribellione del popolo contro le élite. In ogni caso l’Urss, non so se le è noto, è scomparsa da un trentennio. 4) I comunisti italiani furono sempre ostili a Guevara ritenendo che non fosse un comunista. Mi ricordo in proposito uno sprezzante articolo di Amendola su “l’Unità”. Non sta nei geni positivisti dei comunisti che uno, conquistato il potere, lo abbandoni per andare a combattere una guerra che sapeva perduta. Guevara non era né di sinistra né di destra tant’è che la destra ne fece una sua icona. Era un eroe romantico, un anarchico, così io lo vissi dalla prima volta che lo vidi sul settimanale di destra “Gente”, che ne faceva un ritratto lusinghiero, e così lo voglio ricordare.
Massimo Fini

La destra azzanna le élite da tartina

Fino a prova contraria, se ritorniamo sulla cena “garantista” organizzata l’altra sera da Annalisa Chirico è perché essa ha costituito un “episodio-matrice”, in grado di rivelare i bruschi riposizionamenti delle classi dirigenti nazionali attraverso le porte girevoli del potere italiano.

Quel convivio non ha rappresentato soltanto l’eterno riproporsi del vecchio, una cena da ancien régime come l’ha definita in modo efficace ma superficiale Alessandro Di Battista, bensì il calcio d’inizio di una nuova partita che sarebbe utile leggere in anticipo e non sottovalutare.

Intendiamoci: davvero non meraviglia che un’associazione privata organizzi una cena per finanziare la propria attività come avviene in tutti i Paesi civili. E neanche stupisce che vi prenda parte, come ospite d’onore, il ministro degli Interni Matteo Salvini, il quale è arrivato tardi e trafelato come tutti gli ospiti d’onore che si rispettino. E neppure sorprende che l’organizzatrice abbia dichiarato di avere conosciuto Salvini perché suo vicino di casa e che ogni tanto mangiano del sushi insieme.

Riteniamo anche che abbia ragione la Chirico, indimenticata autrice del libro Siamo tutti puttane, quando spiega che al Paese reale di queste cene irreali “non frega un ca**”: esse, infatti, sono soltanto lo spot che tiene in vita il Movimento 5 Stelle, una forza politica che ha dimostrato, a suon di voti, di avere qualcosa a che fare con il Paese reale, come i suoi più abili dirigenti sanno bene. Peraltro, secondo lei “lo slogan della serata è più giustizia e più crescita in nome del Pil”, che ricorda tanto quel “cchiù pilu per tutti” del sempiterno “Cetto La Qualunque” che tra leghisti e pentastellati di voti deve averne arraffati parecchi. Neppure meraviglia che alla serata abbiano partecipato Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi, forse memori di quelle cene a pagamento organizzate dal loro mentore Matteo Renzi, quando assommava la carica di segretario del Pd e di premier. Di quegli appuntamenti american style ancora non è dato conoscere, a differenza degli Stati Uniti, l’elenco dei partecipanti, se non che si presentò lo stato maggiore della cupola di Mafia Capitale, con il cappello in mano e i suoi do ut des all’amatriciana, come avremmo appreso un paio di inchieste dopo. Per giustificare la sua presenza dell’altra sera, la Boschi ha dichiarato: “Io sono contraria all’accordo con i 5stelle, ma anche all’accordo con la Lega”, offrendo una sorta di certificato di garanzia, rilasciato dalla premiata ditta produttrice di pop-corn, il “Giglio magico di Firenze”, che consentirà, se testardamente applicata, al Partito democratico di restare fuori dai giochi per i prossimi dieci anni. O, più realisticamente, permetterà ai renziani doc di fare l’ala sinistra della nuova configurazione di destra che si intravede all’orizzonte, un po’ come l’“ala verdiniana” fece con loro perché, in certi ambienti, determinati favori si ricambiano sempre. E ancora: non stupisce la presenza del ghigno sempre rassicurante di Edward Luttwak (oppure era Guzzanti o Crozza?) il quale ha sostenuto che in Italia “la giustizia civile è cri-mi-no-gena perché se rubi un asino sei ancora a processo dodici anni dopo”, autore nel 1969 di un “manuale pratico” – ipse dixit – intitolato Tecnica del colpo di Stato; magari mancava il suo “gemello diverso” Michael Ledeen, ma basterà attendere la prossima cena. E infine, davvero non meraviglia il famelico accorrere del generone romano, l’antico popolo dei boiardi di Stato, il facoltoso mondo dei liberi professionisti e degli imprenditori della Capitale e non solo, insieme con qualche grembiulino sparso qua e là: così va il potere italiano e così funziona da qualche millennio quello romano, che della nazione è specchio e metafora. La Città eterna, infatti, possiede l’innata capacità di adattarsi all’arrivo di sempre nuovi barbari; un’attitudine appena superiore a quella dimostrata dai barbari, dal generale Stilicone in poi, nel sapersi acconciare ai suoi smaliziati e decadenti costumi, ponendosi al servizio di quell’imperium che, dopo avergli spolpato l’anima, li risputa via come un nocciolo di “persica” o “spaccarella” qualsiasi. Piuttosto, ben altro ha suscitato meraviglia, senza indignazione, sia chiaro, perché, ormai, se ne sono viste, lette e studiate tante. Ci riferiamo alla presenza di alcuni procuratori capo di importanti città italiane e di un certo numero di magistrati. È vero, la cena aveva all’ordine del giorno un tema serio come il garantismo, ma siamo lo stesso rimasti impressionati da quell’anomalo schieramento togato. Infatti, anche l’ultimo dei pretori sa che le carceri italiane straboccano di immigrati e di tossicodipendenti e quindi è abituato a prendere le distanze dalle forme pelose di un garantismo classista e dall’alto, forte con i deboli e debole con i forti. Peraltro, ben personificato dal ministro Salvini, che ignora gli ultimi e i disperati, anzi se ne serve in modo cinico e impietoso per alimentare il proprio consenso, ma poi rivendica le garanzie per i potenti della scala sociale che accorrono pure a baciargli la pantofola. Che ciò non lo pensi Flavio Briatore non stupisce, ma che un alto magistrato non si ponga il problema, tra un flûte di champagne e una tartina, duole e preoccupa: ci sono certi mestieri e certe funzioni che, se si smarrisce il senso del proprio ruolo e dell’opportunità sociale in cui esso è esibito, si è già perduto molto senza neppure accorgersene.

Il nodo politico, tuttavia, è soprattutto un altro: interi pezzi delle classi dirigenti italiane, post-berlusconiane, post-montiane e post-renziane, e del mondo imprenditoriale nazionale ormai guardano a Salvini come al nuovo protagonista della “democrazia del personaggio” di oggi. La perfetta fusione tra “il giovane Berlusconi che fu”, quello dei “lacci e lacciuoli” (ricordate?), e “il Renzi evaporato”, quello della “rottamazione” (ricordate?), che tutti o quasi applaudirono perché sapevano che stava corrodendo, dall’interno, il fusto – in verità già ammalato – della sinistra italiana come solo certe termiti sanno fare, che tanto la destra ne avrebbe raccolti poi i frutti. Questa nuova sedimentazione del potere, dopo le elezioni europee, sceglierà i tempi, i modi e le forme per manifestarsi, certamente facilitata da due enormi problemi. Il primo è la palese insufficienza e inadeguatezza del Movimento 5 Stelle, in versione Luigi Di Maio, nel contrastare l’energia di questo processo. Il secondo è che la sinistra e il centrosinistra italiano non sono mai stati, forse dal 1921 in poi, così deboli, disarticolati, incapaci di individuare il vero avversario e privi di prospettiva politica come in questa fase. Sta arrivando, anzi è già arrivata, una nuova destra, che in realtà è la destra di sempre, la quale, come suo solito, quando è in salute, ha l’energia per presentarsi con abiti freschi e privi di memoria. Questa destra italiana, quando riesce a saldarsi con gli ambienti sociali moderati e i ceti professionali e imprenditoriali presenti alla cena dell’altra sera, ha il brutto vizio di non fare prigionieri. Sarebbe bene ricordarlo, tenere gli occhi aperti e regolarsi di conseguenza, prima che sia troppo tardi. Fino a prova contraria.