Armin Loacker, dalla pasticceria di papà all’impero mondiale dei wafer

Alfons Loacker austriaco di Gotzis, nel 1925 apre una pasticceria in piazza Domenicani, non lontano dal duomo di Bolzano. La Prima guerra mondiale è finita da pochi anni, e la seconda arriverà. Pochi soldi in tasca, il pasticciere era specializzato nelle produzioni dolciarie austriache. Piccoli e grandi compravano i suoi wafer al cioccolato. Guerra e dopoguerra sono però anni poveri. La piccola impresa crebbe infatti solo negli anni 50, ma sempre come pasticceria artigianale. Nel 1958 Armin Loacker, poco meno che diciottenne, diplomato in pasticceria, entra in azienda e la trasforma. Armin, che è morto ieri a 78 anni, è il maggiore di tre fratelli (l’altra colonna della famiglia è la sorella Christine, per anni responsabile dell’amministrazione, mentre il minore Rainer si dedicherà al vino). Ad Armin si deve la modernizzazione dell’impresa paterna e la sua trasformazione in marchio internazionale. Nel 1969 acquista il primo forno industriale per wafer, 5 anni dopo (Alfons muore nel ’70) nasce il primo stabilimento ad Auna di Sotto, sul Renon. Sei forni sono in grado di produrre 40.000 confezioni di wafer al giorno. Nel 1979 arriva il marchio, nel 1983 i “nanetti” e il Massiccio dello Sciliar (dove Armin fu messo al riparo durante la Seconda guerra). Nel 2017 l’azienda, oggi in mano ai nipoti, ha un fatturato di 335,4 milioni, 181,5 di export.

Gender, Lega a Luxuria “Indottrinamento”. M5S: “No a omofobia”

“Indottrinamento gender in classe”. “Giù le mani dai bambini”. “Luxuria in Rai una vergogna”. Sono solo alcune delle frasi arrivate dal centrodestra e da frange cattoliche tradizionaliste come Family Day in riferimento alla puntata di “Alla lavagna!” (Rai3) dove la transgender Vladimir Luxuria ha spiegato a una classe di bambini che “gay si nasce”. A provare a spegnere le polemiche è intervento il deputato M5s e sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega alle Pari opportunità, Vincenzo Spadafora. “Atteggiamenti omofobi e culturalmente regrediti che non tengono conto della realtà e del rispetto dei diritti di tutti”, ha detto. Aggiungendo: “Occasioni del genere vanno sostenute dato che nelle nostre scuole sono sempre più rare le lezione sull’affettività e non rari i casi di bullismo”. Cinque senatrici pentastellate componenti della Commissione diritti umani in una nota hanno affermato che “la vera regressione è nascondere la realtà. I tempi dell’oscurantismo sono lontani”. “La Rai ha sbagliato sia con Vladimir Luxuria che con Matteo Salvini. Sessualità e sovranismo sono argomenti delicati che vanno spiegati agli studenti solo attraverso gli insegnanti, ha commentato Codacons“.

Tradimenti e omicidi social, così diventiamo i “vicini impiccioni”

Idettagli del delitto sono su ogni quotidiano: il corpo carbonizzato, il martello sotto il cadavere, il piano per attrarre la vittima, la scusa del chiarimento, la gelosia per quella moglie da cui lui aveva scelto di tornare. Li leggiamo avidamente. Cronaca e delitti attirano l’attenzione, ancor più quando sono passionali, d’amore o per gelosia. Il giornalismo fa la sua parte nel portare alla luce quante più minuzie e intrecci possibili. Ma ci sono anche i social network: Facebook, Instagram, Twitter. Luoghi virtuali per studi sociologici. La domanda che domenica mattina ha spinto tutti (incluso chi scrive) a digitare su Facebook i nomi dei protagonisti dell’ultimo fatto di cronaca del Bergamasco – Stefania Crotti, la vittima, Stefano Del Bello, il marito/ex amante, e Chiara Alessandri, che ha confessato l’omicidio –, è una: ma che tipi erano? C’erano stati segnali? Era possibile prevederlo?

I dettagli del delitto sono su ogni quotidiano: il corpo carbonizzato, il martello sotto il cadavere, il piano per attrarre la vittima, la scusa del chiarimento, la gelosia per quella moglie da cui lui aveva scelto di tornare. Li leggiamo avidamente. Cronaca e delitti attirano l’attenzione, ancor più quando sono passionali, d’amore o per gelosia. Il giornalismo fa la sua parte nel portare alla luce quante più minuzie e intrecci possibili. Ma ci sono anche i social network: Facebook, Instagram, Twitter. Luoghi virtuali per studi sociologici. La domanda che domenica mattina ha spinto (incluso chi scrive) a digitare su Facebook i nomi dei protagonisti dell’ultimo fatto di cronaca del Bergamasco – Stefania Crotti, la vittima, Stefano Del Bello, il marito/ex amante, e Chiara Alessandri, che ha confessato l’omicidio – è una: ma che tipi erano? C’erano stati segnali ? Era possibile prevederlo?

Pochi clic ed eccoli lì: foto, post, pensieri, opinioni, video, figli. Il profilo Facebook della Crotti è stato in poche ore trasformato in una pagina “In memoria di”, processo che il social attiva quando muore un utente. Tutto resta lì, congelato e cristallizzato. È possibile rivedere in eterno gli ultimi post pubblici (anche quelli privati se si è amici della persona deceduta), nel caso specifico, se si va indietro al 2013, si può ancora osservare il primo piano sorridente della Crotti al mare. E, con una sorta di indignazione misto a timore, leggere i commenti che la Alessandri e il marito avevano lasciato sotto l’immagine cinque anni fa: “Tu adesso dimmi come fai ad avere capelli e frangia a posto anche in spiaggia!”. La Crotti aveva risposto: “Ognuno hai i suoi segreti…”. Apparentemente uno scambio tra amiche. Poi subentra il terzo, il marito/amante. “È una parrucca!!”, scherza Stefano Del Bello. La Alessandri rincara: “O ha rimorchiato un parrucchiere sulla spiaggia?”.

Meno datate, le foto in cui la Alessandri è con Stefano a un concerto con Del Bello. Occhio: sono foto con la privacy impostata su “pubblico”. Significa che chiunque, anche non amico dell’utente, può vederli a meno che l’utente non modifichi le impostazioni. È il 19 luglio 2018, il concerto è di Fabrizio Moro. È indicato anche dove, i due, si sono scattati la foto guancia a guancia: Villafranca di Verona. Lei posta una citazione: “Quando in fondo l’eternità per me sei tu”. È la foto che circolerà su ogni quotidiano, quella che per tutti sarà la prova del tradimento, della separazione netta tra causa (il marito), vittima (la Crotti) e carnefice (la Alessandri).

Alessandri che, evidentemente, non è riuscita a bloccare il proprio profilo dai commenti degli altri utenti e che da ore riceve insulti di ogni genere. Commenti al post del 5 novembre 2018 in cui ha condiviso la locandina del film di Netflix su Stefano Cucchi (da “assassina” a “schifosa viscida”), commenti al video sugli elefanti che salvano un uomo (“Crepa”), insulti alla foto di un piccolo gatto rosso (“salvate il gatto”). Commenti sul fatto che non abbia pensato ai suoi figli, commenti sui commenti. Nessuno che pensa a quei figli che potranno leggere tutto. Per due donne che non hanno potuto fare marcia indietro, c’è poi lui, Stefano Del Bello. Il punto di unione tra le due donne, il marito che a Facebook ha affidato l’appello dopo la scomparsa della moglie, che ha come foto di copertina la foto della sua famiglia al completo, che da un utente è stato accusato di avere ancora la Alessandri tra gli amici quando ha diffuso l’allarme: e qui, il gossip. Impossibile per noi guardoni dello schermo verificare se fosse ancora così. Provare a controllare è un buco nell’acqua: l’amicizia non c’è, ma non potremo mai sapere se l’abbia tolta prima o dopo. Ci discuteremo su, ricameremo, noteremo che ha rimosso l’appello, aumentato la privacy, fatto in modo che nessuno possa commentare o offendere ancora il suo dolore. E ci arrenderemo di fronte all’improvvisa assenza di sfogatoi, per ricominciare a cercare la prossima serratura.

Uccisero bimbo di tre anni, doppio ergastolo a Cosenza

La Corte d’Assise di Cosenza ha condannato all’ergastolo Faustino Campilongo detto “panzetta” e Cosimo Donato detto il “topo”, sono accusati di triplice omicidio: del piccolo “Cocò” Campolongo, il bambino di 3 anni ucciso assieme al nonno e alla compagna marocchina di quest’ultimo il 16 gennaio 2014, quando i corpi delle tre vittime furono trovati a Cassano allo Jonio, carbonizzati all’interno di un’auto data alle fiamme. Carcere a vita e isolamento diurno per sei mesi. È questa la sentenza emessa su richiesta del procuratore aggiunto di Catanzaro Luberto che, durante la requisitoria, aveva ricostruito la dinamica e il movente del delitto maturato nell’ambiente del traffico di droga gestito dalla cosca Abruzzese. Pur essendo imparentato con gli esponenti della famiglia mafiosa, il nonno di Cocò (Giuseppe Iannicelli) da mesi era un bersaglio perché si sarebbe rifornito dai rivali. Iannicelli si faceva accompagnare sempre dalla compagna e dal nipotino utilizzati come “scudi umani”. Sul fatto di sangue, nel 2014 intervenne anche Papa Francesco in occasione della visita a Cassano allo Jonio dove, davanti a 250 mila fedeli, il Pontefice scomunicò i mafiosi.

Assunzioni clientelari all’Ama, ora c’è chi spera nel reintegro

Dopo la sentenza della Corte dei Conti che ha assolto Franco Panzironi, accusato di un danno erariale di 1,7 milioni di euro, ora i licenziati della Parentopoli romana sperano nel reintegro. Dei 38 lavoratori assunti fra il 2008 e il 2009 dall’allora amministratore delegato di Ama Spa – la società che raccoglie i rifiuti nella Capitale – e cacciati nel 2015 in seguito alle prime condanne penali, in 6 attendono la discussione in appello al Tribunale del Lavoro dopo aver perso la causa in primo grado. Il jolly per loro “insperato” segue la pronuncia della I Sezione centrale d’appello della Corte dei Conti, il cui presidente, Enzo Rotolo, scrive che le assunzioni furono frutto di una “seria selezione dei candidati”, evidenzia la “natura privatistica” dell’azienda e spiega come la legge Brunetta – che obbliga le partecipate ad assumere tramite bando – sarebbe entrata in vigore solo pochi mesi dopo.

“Siamo convinti di poter ribaltare le sentenze negative – spiega Vito Morrione, avvocato di alcuni ex dipendenti –. Aspettiamo a giorni il primo pronunciamento. Il giudice contabile descrive la tesi difensiva che abbiamo sposato sin dal primo giorno. Non potrà non avere peso”. Poche speranze per i 32 che hanno già concordato la transazione con Ama: “L’ultimo si è arreso 2 mesi fa – dice il legale – Ma non escludo un’azione di risarcimento verso chi ha firmato i licenziamenti”.

Per la Parentopoli, Panzironi è stato condannato in via definitiva a 2 anni di carcere per falso e abuso d’ufficio, cui si sommano gli 8 anni e 4 mesi rimediati in appello per Mafia Capitale. In Ama si dicono tranquilli: “La Corte dei Conti non può ordinare reintegri e fin qui il giudice del lavoro ci ha sempre dato ragione. Le assunzioni furono frutto di un reato accertato”. Nelle accuse a Panzironi, i giudici avevano indicato i legami degli assunti “di parentela o di affinità con esponenti politici” perlopiù di centrodestra.

L’avvocato Ingroia attacca i pm: “Indagini pretestuose contro Massimo Ciancimino”

“Le intercettazioni, nate nel processo de L’Aquila che parte dall’indagine su illeciti commessi nella ricostruzione post-terremoto in Abruzzo, appaiono pretestuosamente puntate su Massimo Ciancimino nel momento in cui stava diventando un teste chiave nel processo ‘Trattativa’”. È un’arringa difensiva che ricorda una requisitoria dell’accusa, quella ascoltata ieri dai giudici della IX sezione del Tribunale penale di Roma. Del resto a pronunciarla è l’ex pm della Trattativa Stato-mafia, Antonio Ingroia. Il contesto è quello del processo in cui l’accusa sostiene che parte del tesoro di Vito Ciancimino, sindaco di Palermo condannato per i suoi rapporti con i corleonesi e scomparso nel 2002, sarebbe stato riciclato in un groviglio di aziende che ruotano intorno alla Ecorec, la società rumena che gestisce la più grande discarica d’Europa. L’avvocato Ingroia difende proprio l’amministratore della Ecorec Victor Dombroschi, accusato insieme a Sergio Pileri, Raffaele Valente, Nunzio Rizzi e Romano Tronci di aver cercato di preservare finanziamenti illeciti di non meglio noti soci occulti, “quantomeno di Massimo Ciancimino”, già condannato per riciclaggio. Ingroia capovolge i ruoli e si scaglia contro gli amministratori giudiziari come Gaetano Cappellano Seminara, imputato a Caltanissetta insieme al giudice Silvana Saguto nel processo sulle consulenze pilotate. “Il piano criminale non era di Victor Domrovschi, ma di Gaetano Seminara”, dice l’avvocato accusando la Procura di essersi “appiattita alla testimonianza di Gaetano Seminara”. L’ex pm parla di reati “inventati”, di pressioni sull’ambasciatore italiano, sui magistrati rumeni, su colonnelli della Guardia di Finanza e dirigenti dell’Interpol. Insomma il quadro dipinto da Ingroia esula dalle accuse mosse nei confronti del suo assistito e inserisce i fatti in un contesto più ampio, dove uomini dello Stato siedono tra i banchi degli imputati.

Sangue infetto, Poggiolini verso l’assoluzione: “Falle di sistema, non può essere l’unico a pagare”

Il processo “Sangue Infetto”a Napoli si avvia verso le assoluzioni nel merito di tutti gli imputati dalle accuse di omicidio colposo plurimo. Perché, secondo il pm Lucio Giugliano, “non può pagare il solo Duilio Poggiolini per falle dell’intero sistema sanitario” e perché dal dibattimento non è emersa la prova del nesso causale tra l’infusione di plasmaderivati prodotti dal gruppo Marcucci e la morte delle 9 persone emofilia che i cui familiari si sono costituiti parte civile. Queste le ragioni della richiesta di assoluzione per Poggiolini ed ex tecnici e dirigenti di Farmabiagini e Aima Derivati, aziende del gruppo Marcucci – difeso dall’avvocato Alfonso Maria Stile – fondato da Guelfo Marcucci. Richiesta che avrebbe riguardato anche lui, scomparso dopo il rinvio a giudizio. “So che sto per dire cose che dispiaceranno ai familiari delle vittime che hanno sofferto molto”, ha detto in premessa il magistrato della Procura guidata da Giovanni Melillo. Il pm ritiene che non ci sia la prova di un nesso certo tra il plasma del gruppo Marcucci e la morte dei trasfusi, sottolineando che le aziende dei Marcucci coprivano solo il 7% del mercato italiano dei plasmaderivati.

Vicende dolorose, fatti vecchissimi. Scoperti nel 1993, con lo scandalo delle tangenti di Poggiolini, direttore per 20 anni del Servizio Sanitario Nazionale. È la storia dei pazienti contagiati negli anni 80 per le infusioni di sangue proveniente da donatori mercenari esteri malati di Hiv ed epatite C. Morirono in centinaia. Una strage. Affossata, dal punto di vista giudiziario, dal rimpallo del camion di faldoni tra diverse procure: Trento, Roma, Napoli. Anni sprecati. Nel 2007 un Gup di Napoli rideterminò le accuse di epidemia colposa (prescritte) ordinando invece l’imputazione coatta per omicidio colposo plurimo, reato che non cadeva in prescrizione perché le morti sono avvenute anche moltissimi anni dopo i presunti contagi . Ora Poggiolini, difeso dall’avvocato Gigi Ferrante, ha quasi 90 anni e langue in una casa di riposo.

Indagato il sindaco-senatore della Lega. “Scomparse le donazioni pro-terremotati”

Giuliano Pazzaglini, sindaco di Visso (Macerata), uno dei paesi più importanti del cratere del terremoto, divenuto senatore della Lega grazie alle denunce sulla “ricostruzione lenta e lacunosa” leitmotiv della campagna elettorale, è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Macerata per vari reati contro la Pubblica amministrazione legati a donazioni post sisma 2016 per un ammontare di decine di migliaia di euro che mancherebbero all’appello. Mancherebbero all’appello anche due consistenti donazioni di Emil Banca di Bologna. In questo primo filone gli viene contestato il reato di peculato. Riguarda la somma di 11.800 euro di una iniziativa di beneficenza organizzata da Moto Nardi “In moto per ricostruire” a favore dei commercianti, di cui non vi è traccia. Soldi in contanti consegnati al sindaco in Comune dal titolare, Vincenzo Cittadini.

Il senatore, alcuni mesi fa, ha reso dichiarazioni spontanee in presenza dell’avvocato Giuseppe Villa che lo difende con l’avvocato Giancarlo Giulianelli di Macerata, legale anche di Luca Traini, il simpatizzante di CasaPound e di Forza Nuova, candidato della Lega alle Amministrative 2017, condannato a dodici anni per strage con l’aggravante razzista per aver sparato a Macerata ferendo sei immigrati per “vendicare l’omicidio di Pamela Mastropietro”, del quale sono accusati alcuni spacciatori nigeriani. Ma entrambi gli avvocati, da noi sentiti, negano di difendere il senatore Pazzaglini a cui, dopo le dichiarazioni spontanee ritenute evidentemente non credibili, il 14 gennaio scorso è stato notificato l’atto di sequestro preventivo del conto corrente. “Non ho percepito la somma in qualità di sindaco, di pubblico ufficiale, bensì come privato cittadino, come custode della somma – si è difeso Pazzaglini – e l’ho utilizzata alla bisogna per lavori in economia alle casette nell’area Laghetto di Visso”. E la rendicontazione? “È in un file che al momento non trovo”.

Al senatore è stata anche notificata la proroga delle indagini riguardanti gli altri reati contestati, i cui termini scadranno fra un mese. Indagato anche Giovanni Casoni che Pazzaglini ha portato con sé in Senato come assistente dopo che era stato costretto a dimettersi da presidente della Croce Rossa locale a seguito dell’inchiesta del Fatto che aveva rivelato che Pazzaglini era socio di Casoni nella Sibyl Project per il confezionamento di cesti con prodotti tipici acquistati dai produttori locali da rivendere sul mercato con la scritta “Ripartiamo da qui… Pacco solidale Sisma”. Una normale attività commerciale, finalizzata al profitto, certamente, se non fosse che la scritta sui pacchi lasciava intendere che acquistarli equivalesse ad aiutare i terremotati oltre al fatto che i soggetti interessati all’affare erano il sindaco e il presidente della Croce Rossa. Il Fatto aveva anche rivelato la storia di sei casette di legno donate a Visso dai Comuni di Meolo (Venezia) e Taino (Varese) transitate nelle società del senatore e di Casoni attraverso operazioni opache a cui si è aggiunto un corposo esposto di cittadini sulle donazioni.

Clan baresi, omicidi, rapine e traffici: a giudizio in cento

Il gip del Tribunale di Bari Francesco Agnino ha emesso il decreto di giudizio immediato nei confronti di 100 persone, tutte presunte affiliate ai clan Diomede-Mercante e Capriati di Bari, accusate di associazione mafiosa pluriaggravata, tentati omicidi, armi, rapine, furti, lesioni personali, sequestro di persona e violazioni della sorveglianza speciale. L’indagine dei carabinieri del Ros, coordinata dai pm della Dda di Bari Giuseppe Gatti, Lidia Giorgio e Renato Nitti, è stata denominata Pandora. Tra gli imputati, oltre ai capi storici dei due clan, i boss Giuseppe Mercante e Nicola Diomede, il pluripregiudicato di Bitonto Domenico Conte in qualità di referente dei Capriati e l’imprenditore Roberto De Blasio, ex vicepresidente dell’associazione Fai-Antiracket di Molfetta. In dodici anni di indagini, grazie anche alle dichiarazioni di 50 collaboratori di giustizia, gli inquirenti hanno ricostruito le ramificazioni dei due clan e hanno accertato collegamenti con le altre organizzazioni criminali pugliesi, oltre a rapporti commerciali (per l’approvvigionamento della droga) con ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra. Il processo , comincerà il 5 marzo 2019 nell’ex sezione distaccata di Modugno (Bari).

Quei due ufficiali e la scomparsa dell’agenda rossa

L’uomo in divisa è l’allora tenente colonnello Emilio Borghini, all’epoca comandante del gruppo carabinieri di Palermo, prossimamente chiamato a deporre nel processo ai tre poliziotti per il depistaggio di via D’Amelio: nelle immagini di quel 19 luglio 1992 lo si vede lasciare l’auto di servizio in via Autonomia Siciliana per dirigersi a piedi, tra idranti, fumo e macerie, verso la Croma blindata di Paolo Borsellino, saltato in aria da pochi minuti con i cinque agenti di scorta.

Sono le 17.28. L’ora, calcolata misurando l’ombra del sole sul muro del palazzo di via D’Amelio, non lascia spazio a dubbi: è quella del prelievo (il primo) della borsa del magistrato con dentro l’agenda rossa. Tre minuti dopo, alle 17.31, si vede l’allora capitano Giovanni Arcangioli allontanarsi dal luogo dell’esplosione, con la borsa del giudice assassinato in mano, e dirigersi verso via Autonomia Siciliana.

A 26 anni dalla strage, ecco le immagini inedite che, incrociate a vecchie testimonianze, gettano nuova luce sulla scena della sparizione della “scatola nera della Seconda Repubblica’’, com’è stata definita l’agenda rossa di Paolo Borsellino, custode dei segreti, degli incontri e delle riflessioni del giudice ucciso. Gli ultimi 56 giorni della sua vita sono anche gli ultimi giorni della Prima Repubblica, cancellata dalle stragi del ’92 e del ’93. Ed è stato un attivista delle Agende Rosse, Angelo Garavaglia Fragetta, a esaminare decine di ore di filmati dell’inferno di via D’Amelio, a controllare personalmente per anni quell’ombra sul muro per fissare con certezza i tempi delle misteriose manovre attorno alla borsa del magistrato, e a montare il video, proiettato in aula durante il Borsellino quater (e poi anche alla Camera, presente il presidente della commissione Giustizia, Giulia Sarti), che mostra anche altri potenziali testimoni dei movimenti di quella valigetta in pelle: uno è il giudice Nicola Mazzamuto, mai interrogato, filmato a pochi metri di distanza, e l’altro è l’ex pm Giuseppe Ayala, che del prelievo della valigetta in pelle dall’auto carbonizzata di Borsellino ha fornito diverse ricostruzioni contrastanti.

Da qualche giorno sul web (www.antimafiaduemila.com e www.19luglio1992.com) con un appello rivolto “a chiunque abbia foto o materiale video di quel giorno”, affinché li metta a disposizione dell’autorità giudiziaria, il video testimonia passione civile in memoria del giudice ucciso e competenza tecnica, con qualche ingenuità visto che ipotizza un terzo prelievo della borsa, oltre ai due già accertati processualmente, e chiama in causa il generale Mario Mori. Nel filmato, infatti, si cita un’intercettazione di Calciopoli in cui Luciano Moggi legge una lettera del suo consulente Nicola Penta che indica Arcangioli come un ufficiale molto legato a Mori, intercettazione però smentita dal pm napoletano Pino Narducci, che fu titolare di quell’inchiesta.

Al netto delle due ingenuità, il video alimenta tutti gli interrogativi sul ruolo degli apparati presenti quel pomeriggio in via D’Amelio, che i testi non hanno finora fugato. Se, infatti, Ayala ha sempre ripetuto di aver avuto in mano la borsa e di averla consegnata “a un ufficiale dei carabinieri in divisa” di cui non conosceva il nome’, nel suo interrogatorio, l’8 febbraio 2006, Arcangioli (indagato e prosciolto dall’accusa del furto dell’agenda) dice di non ricordare se “al momento del prelievo della borsa dall’auto del dottor Borsellino” ci fosse accanto a lui anche “un collega ufficiale dei carabinieri in divisa”. E aggiunge che, mentre si trovava in via Autonomia Siciliana, l’allora colonnello dei carabinieri Marco Minicucci gli comunicò “che erano state date disposizioni affinché alle attività investigative della strage procedesse il Ros”. E a chiusura del verbale, Arcangioli precisa che “se uno dei colleghi del Ros o di altro reparto” gli avesse chiesto “di visionare il contenuto della borsa” non avrebbe avuto motivo “di rigettare tale richiesta”.

Ma il Ros dei carabinieri non è mai stato titolare delle indagini su via D’Amelio. E Minicucci, sentito a sua volta dai pm, ha dichiarato coerentemente che “l’attività tecnica sul luogo fu lasciata nelle competenze della Polizia di Stato, in segno di rispetto per le perdite subite”. Il contrario cioè di quanto affermato da Arcangioli. Perché l’allora capitano davanti ai pm tira in ballo, a sorpresa, il gruppo investigativo all’epoca guidato operativamente da Mario Mori? Ed è l’ultimo interrogativo che si aggiunge ai misteri dell’agenda rossa sparita nel nulla con i segreti più inconfessabili della Seconda Repubblica al quale Borghini, citato dall’avvocato Fabio Repici a deporre nel processo ai tre poliziotti accusati di calunnia, è chiamato a fornire un contributo di memoria.