Ansaldo Energia, operaio 42enne muore schiacciato

Eros Cinti aveva 42 anni, padre di due bambini di 6 e 11 anni, era da poco vedovo. È morto sul colpo, ieri mattina, all’Ansaldo di Genova, schiacciato da un pesante rivestimento d’acciaio che stava impilando insieme ad altri due colleghi. Il materiale si è sganciato dalla gru, uccidendolo all’istante. L’ennesima tragedia sul lavoro è successa a due passi dall’area del crollo di ponte Morandi, tanto che parte dello stabilimento Ansaldo Energia per un periodo è stato inagibile perché inserito nella zona rossa. Il pm Silvia Saracino ha sequestrato la gru e i materiali e aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti. Nel mirino degli investigatori da un lato il pezzo che ha schiacciato Cinti, diverso dagli altri due dai quali si è ribaltato, e la posizione dello stesso operaio. Secondo una prima ricostruzione, infatti, i tre, dipendenti della ditta Geko, stavano impilando i pesanti rivestimenti uno sopra l’altro: una procedura già fatta altre volte. Cinti si trovava tra la gru e i materiali quando l’ultimo pezzo posizionato si è ribaltato e lo ha colpito. I sindacati hanno proclamato uno sciopero immediato di otto ore.

I magistrati contro il Dap: “Ridateci i 150 agenti”

Tutti i procuratori generali d’Italia contro Francesco Basentini, il capo del Dap. L’8 gennaio i procuratori generali hanno inviato una lettera al ministro della Giustizia Bonafede, per esprimere “preoccupazione” per una decisione presa dal Dap in solitaria: il ritiro di 150 agenti di polizia penitenziaria che lavorano presso le procure con funzioni preziose, come la collaborazione con i magistrati per l’esecuzione della pena o la sicurezza: “Vi è il rischio che si perda la professionalità acquisita dalla polizia penitenziaria” con una decisione presa senza “una consultazione degli uffici” coinvolti. I Pg denunciano che “addirittura” Basentini non ha risposto “alle note di diverse Procure generali e Corti d’appello” e poiché il ritiro deciso non prevedeva alcuna alternativa “si prospettava concretamente la chiusura dei più grandi uffici giudiziari”. Il riferimento è all’abbandono dei varchi di sicurezza dei Palazzi di Giustizia di Roma e Napoli. La decisione di Basentini risale a poco prima di Natale, ma il funzionario della polizia penitenziaria di Roma scrive che eseguirà l’ordine solo quando saprà a chi lasciare le consegne.

Cucchi, ancora depistaggi. “Ci vuole spirito di corpo”

Non solo nel 2009 e durante le indagini. La Procura di Roma sospetta che ci sia stato un tentativo di depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi anche di recente, poco più di tre mesi fa, con il processo in corso in primo grado a cinque carabinieri, di cui tre accusati del pestaggio. Il sospetto nasce dall’intercettazione del 6 novembre 2018 di una telefonata tra il vicebrigadiere della stazione Vomero-Arenella di Napoli, Mario Iorio e il maresciallo Ciro Grimaldi, anche lui ora in Campania ma nell’ottobre del 2009 a Tor Sapienza (Roma). Esattamente un mese dopo, il 6 dicembre, Grimaldi sarà sentito in aula come testimone nel processo Cucchi bis.

Il 6 novembre 2018 quindi, Grimaldi – come annota la Squadra mobile – chiama Iorio il quale, dopo aver parlato di una denuncia, dice che sta arrivando il comandante del gruppo, ossia “il tenente colonnello Vincenzo Pascale”, del tutto estraneo alle indagini. I due si risentono poche ore dopo e Iorio riferisce, continua l’informativa, “quanto detto da Pascale nel corso della visita”.

Dice Iorio a Grimaldi: “Ha detto: ‘Mi raccomando, dite al maresciallo che ha fatto servizio alla stazione… lì dove è successo il fatto di Cucchi… di stare calmo, tranquillo’… Me stanno abbuffando ‘e pall, loro e ’o fatt’ ’e Cucchi. (…) Ha detto: ‘Mi raccomando, dovete avere lo spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare’”.

Un mese dopo Grimaldi si presenta nell’aula, che diventa un ring per lui e il pm Giovanni Musarò. Il maresciallo racconta che la sera dell’arresto di Cucchi era di turno. Il pm a un certo punto però chiede: “Ricorda se, quando la notizia è diventata pubblica, Colicchio (un altro carabiniere, ndr ) ha avuto modo di commentare con lei?”.

Grimaldi ricorda: “(Colicchio, ndr) notò che la cinta dei pantaloni (di Cucchi, ndr) era rotta (…) Mi disse: ‘Sono stati o gli amici tua o gli amici mia’”. Il pm non sembra convinto: in passato Grimaldi ha raccontato infatti che Colicchio gli disse che Cucchi aveva riferito: “Me l’hanno rotta gli amici tuoi”.

“Dopo l’istruttoria ho avuto modo di pensare”, spiega in aula Grimaldi. E Musarò affonda: “C’è qualcuno che l’ha aiutata a pensare? Ha cambiato versione?”. Il maresciallo nega. Ma quel giorno, in aula, Musarò nelle sue domande sembra far riferimento, senza rivelarlo, alla telefonata tra Grimaldi e Iorio. La prende alla lontana: “Chi è il comandante del Gruppo dove è in servizio?”, chiede. “È cambiato da poco, non mi ricordo – dice il maresciallo – Ah, è il colonnello Pascale”. Lo stesso – secondo l’intercettazione della Squadra mobile – dal quale sarebbe partito un mese prima il consiglio di “stare tranquillo” e “aiutare i colleghi”.

Da lì il pm chiede di ricostruire la scala gerarchica, fino al suo attuale comandante interregionale: “È il generale Tomasone”, dice Grimaldi in aula. Estraneo alle indagini, Tomasone era il comandante provinciale di Roma che nell’ottobre 2009 convocò una riunione sul caso Cucchi in cui non emerse nulla di quanto oggi è al centro del processo ai carabinieri.

Il maresciallo: “Mandolini mi dettò la nota”

La conversazione tra Iorio e Grimaldi fa dunque parte di una serie di atti nuovi depositati nel processo. C’è anche il verbale del maresciallo Davide Speranza, nel 2009 in servizio alla stazione Quadraro di Roma. Il militare ha tirato in ballo due degli imputati: Roberto Mandolini, accusato di calunnia e falso, e Vincenzo Nicolardi, a processo solo per calunnia. Parlando di una nota di servizio del 16 ottobre 2009, Speranza dice: “Mandolini mi disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla perché avremmo dovuto redigerne una seconda in sostituzione della prima. (…) Il contenuto fu dettato da Mandolini”. Parlando delle due versioni, Speranza ricorda che nella prima si affermava che “Cucchi era in stato di escandescenza”, mentre nella seconda è scritto: “È doveroso rappresentare che, durante l’accompagnamento, non lamentava nessun malore né faceva alcuna rimostranza”. Il maresciallo viene sentito anche su un ordine di servizio in cui compare la scritta “bravi” nello spazio dedicato alle note dei superiori. “Non so dirvi per quale ragione è scritto ‘Bravi’ – ha spiegato –, considerato che avevamo fatto una mera azione di routine”.

“Magari morisse” la telefonata nascosta

Ma c’è anche un’altra novità che emerge dai nuovi atti depositati. Riguarda gli accertamenti sulle comunicazioni telefoniche “intercorse sull’utenza del 112” la sera dell’arresto di Cucchi. Alcune di queste telefonate non sono state individuate durante le indagini del 2009. Nella nota del reparto operativo dei carabinieri, come scrive la Squadra mobile, non è stata riportata per esempio neanche la telefonata tra Nicolardi e il capo turno della sala operativa, quella in cui l’attuale imputato ad un certo punto dice: “Magari morisse, li mortacci sua”.

Casamassima: interrogate la ministra Trenta

Intanto l’appuntato Riccardo Casamassima, la cui testimonianza ha riaperto le indagini su Cucchi, ha presentato una denuncia per chiedere ai magistrati di chiarire se il comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, lo avesse diffamato durante un incontro riservato con Ilaria Cucchi e il ministro della Difesa Elisabetta Trenta. La sorella di Stefano parlò di uno “sproloquio contro gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà”. Circostanza negata da Nistri. Il legale di Casamassima, l’avvocato Serena Gasperini, ha chiesto di ascoltare anche il ministro Trenta.

Inter-Napoli, il capo dei Viking ammette: “Quella sera io c’ero”

Non ha fatto scena muta, come si era ipotizzato dato la sua fama di leader della curva, ma rispondendo ad alcune domande e con dichiarazioni spontanee Nino Ciccarelli, capo dei Viking interisti, ha ammesso davanti al gip Guido Salvini la sua partecipazione agli scontri di Santo Stefano, prima di Inter-Napoli. Un interrogatorio nel carcere milanese di San Vittore, durato circa un’ora, e nel quale, però, lo storico capo ultrà, arrestato quattro giorni fa, non ha voluto parlare di presunti ruoli organizzativi in quell’agguato contro i supporter napoletani, costato la vita a Daniele Belardinelli, travolto da una o due auto. Nel frattempo, in carcere deve rimanere anche Marco Piovella, detto ‘il Rossò, ritenuto il capo del gruppo Boys della curva interista e un altro dei sei arrestati per rissa aggravata nell’ inchiesta della Digos, coordinata dall’aggiunto Letizia Mannella e dai pm Rosaria Stagnaro e Michela Bordieri. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame (Tacconi-Amicone-Alonge, motivazioni tra 30 giorni), che ha confermato la misura cautelare anche per Francesco Baj e Simone Tira, i primi arrestati assieme al 21enne Luca Da Ros, che ha ottenuto i domiciliari facendo, tra gli altri, i nomi proprio di Piovella e Ciccarelli.

Insulti razzisti e botte: a processo 28 carabinieri

L’indagine ha retto: su 176 capi d’imputazione solo 5 sono stati rigettati. Ieri il giudice dell’udienza preliminare di Massa ha rinviato a giudizio quasi tutti gli indagati nell’inchiesta sulle violenze nelle caserme dei carabinieri di Aulla e della Lunigiana. Di 31 indagati per cui era stato chiesto il giudizio ne andranno a processo 28. Un indagato, Mario Mascia, esce dall’inchiesta per non luogo a procedere, due hanno scelto l’abbreviato.

Pestaggi, violenze, minacce, insulti razzisti. Quasi sempre contro immigrati. Secondo i pm, sono andati avanti per anni, finché le vittime hanno raccontato al loro avvocato, Chiara Lorenzelli di Aulla, che ha predisposto la querela. Ma anche lei, racconta l’ordinanza, finì per subire le conseguenze della sua coraggiosa denuncia. In un clima di crescente paura e omertà. Raccontato dalle intercettazioni, dalle cimici nascoste nelle auto di servizio: “Quello che succede all’interno della macchina… non deve scoprirlo nessuno, dal brigadiere in su. È cosa nostra, proprio come la mafia!”, si dicevano gli indagati. A preoccupare non erano tanto i superiori, ma un’inchiesta della magistratura: “Non ho paura dei capi. Il mio superiore mi ha assicurato che posso stare tranquillo’, il carabiniere mi disse proprio così”, ha raccontato una vittima. Le carte dell’inchiesta riportano decine di episodi: “Nell’ufficio c’era una pistola sul tavolo”, diceva un carabiniere. E il collega: “Era da prendere e sparare al marocchino”. Dalle conversazioni intercettate emerge un’antologia di frasi razziste: “I negri sono scimmie”, “C’è un negro – dice un appuntato – gli ho messo la pistola in bocca. Ho detto che se devo andare in galera ci vado per qualcosa”. È un pestaggio continuo: “Menavamo di brutto”. Seguono cori da stadio: “Stupendo!”. Fino all’accusa di violenza sessuale, un dito nell’ano a un arabo con la scusa di cercargli droga nell’intestino, quando i regolamenti chiedono una radiografia.

C’è poi una questione spinosa: la posizione del tenente colonnello Valerio Liberatori, all’epoca comandante provinciale di Massa accusato di concorso in favoreggiamento. Con lui il capitano Saverio Cappelluti, comandante della compagnia di Pontremoli. La loro posizione è stata stralciata. Avevano scritto i pm: “Aiutavano i carabinieri indagati a eludere le investigazioni delle autorità”. Come? Avrebbero dato disposizione che gli indagati fossero accompagnati durante i servizi esterni riducendo così il rischio che commettessero altri reati. La pm Alessia Iacopini e il procuratore di Massa Aldo Giubilaro avevano chiesto l’archiviazione per i due ufficiali, ma con la speciale formula della “particolare tenuità del fatto”. Il reato, secondo i pm, sarebbe stato commesso. Ma ecco la sorpresa: la Procura generale di Genova ha disposto l’avocazione e rappresenterà l’accusa in aula al posto dei pm di Massa. Per Liberatori e Cappelluti la Procura di Genova ha chiesto la piena archiviazione. Una decisione che ha diviso le due Procure.

 

Dal 27 gennaio stop alla banconota da 500 euro

A partire dal 27 gennaio, 17 delle 19 banche centrali dell’eurozona non emetteranno più le banconote da 500 euro. Lo ha comunicato ieri la Banca centrale europea sul suo sito, spiegando che “per assicurare un agevole passaggio e per motivi logistici, la Banca Centrale tedesca e quella austriaca continueranno a emettere queste banconote fino al 26 aprile incluso”. Francoforte precisa, inoltre, che le banconote da 500 euro in circolazione continueranno ad avere “corso legale e potranno essere scambiate dalle Banche centrali europee in qualsiasi momento”. Ce ne sono in giro poco più di 520 milioni, ma visto il peso specifico insuperabile valgono oltre 260 miliardi di euro. Di certo non aumenteranno più. La decisione era nell’aria: le autorità europee considerano queste banconote un mezzo di pagamento poco sicuro, che si presta a favorire attività illegali. Oggi rappresentano il 2,4% del totale delle banconote in circolazione e il 20% del totale del valore. Gli altri tagli sono in via di rinnovamento, con la nuova serie “Europa” che presenta caratteristiche aggiuntive di sicurezza. Nello scorso settembre sono stati presentati i modelli da 100 e 200 euro, che devono ancora entrare in circolazione.

Intelligenza artificiale, la partita dei fondi

Al tavolo del ministero dello Sviluppo economico, ieri, i 30 esperti sull’intelligenza artificiale stavano strettini. Si stavano insediando, non devono averci fatto molto caso. A loro, nei prossimi mesi e con scadenza al 25 marzo (ultima riunione prevista) tocca tracciare la direzione per spendere i 90 milioni di euro destinati all’implementazione dell’Intelligenza Artificiale: 45 milioni in tre anni già inseriti in legge di bilancio, altri 45 milioni dalla rimodulazione di una delibera Cipe del 2017.

Il sottosegretario pentastellato con delega all’Industria, Andrea Cioffi, ha parlato di un’Italia che “punta ad avere un ruolo di avanguardia in Europa su settori strategici come Intelligenza Artificiale e tecnologie blockchain” di un “contributo” che “dal punto di vista culturale e scientifico, può essere davvero determinante”.

C’è questo aspetto, certo. Ma c’è pure quello economico, l’orizzonte degli stanziamenti europei che su Intelligenza Artificiale e IoT (Internet of Things) sta spingendo anche attraverso il Nuovo Programma per l’Europa Digitale. Ancora i numeri parlano da soli: l’Ue metterà a disposizione degli stati circa 9,2 miliardi di euro. Semplificando molto, chi meglio fa, più prende. E chi più prende, più può finanziare imprese e ricerche. E infatti basta guardare alla strategia nazionale (coordinata anche dal consulente giuridico del ministro Di Maio per telecomunicazioni e innovazione digitale, Marco Bellezza) che punta – secondo lo schema che detta le tappe – a “portare l’Intelligenza Artificiale dal laboratorio al mercato”, a “incentivare l’educazione”, ad “attrarre investimenti”, a utilizzare “i dati come nuovo fattore di produzione”, a tracciare una “cornice normativa” considerando gli “impatti etici”.

Infine, a “migliorare i servizi pubblici”. Insomma, sensori, robot, sistemi digitali, utilizzo dei dati per migliorare le performance, per togliere servizi ai big del digitale.

Anche perché è questa la direzione verso cui vanno il mercato e le istituzioni europee (fondamentale, in questa partita, sarà lo sviluppo della rete 5g): e infatti, attorno al tavolo, c’erano i rappresentanti di ogni categoria. Giuristi (da Oreste Pollicino, specializzato sui temi della privacy, a Marco Pierani, che si occupa di diritto dei consumatori), docenti universitari (statistica, economia, robotica, analisi dati, matematica) e, soprattutto, manager: da Ibm a Fastweb e Tim passando per Comau, St Microelectronics e Leonardo. Anche tre membri provenienti dal mondo della consulenza aziendale: Deloitte, The European House – Ambrosetti e P4I. E un sindacalista, Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl.

Sono esperti, diventati tali nei campi in cui hanno sviluppato le loro competenze. Le loro professioni e i legami con le aziende sono dichiarati, a protezione e controllo di qualsiasi rischio di conflitto d’interesse. Anche perché uno dei punti fermi nella distribuzione di questi fondi sarà l’indizione di bandi e chiamate pubbliche a cui, è l’idea di fondo, far partecipare sia le grandi realtà (se portatrici di know how) sia le piccole e medie imprese. Si vedrà. Così come si vedrà come andrà anche il secondo tavolo che si è insediato ieri, quello sulla blockchain. Cavallo di battaglia dei Cinque Stelle, ha raccolto la stessa eterogeneità di esperti e molti giovani esponenti di startup. Curiosa una delle istanze venute alla luce più spesso: prima di tutto bisognerà identificare i campi di applicazione. Altrimenti il rischio è che blockchain significhi tutto e niente.

Pd, nei circoli Zingaretti vola e la mozione Martina si sfalda

“È una brutta abitudine quella di usare in modo parziale e difforme i dati di un congresso che si sta celebrando per cercare il titolo di giornale a effetto”. Così parlava ieri Simona Malpezzi, portavoce della mozione Martina. E domenica: “Stanno circolando tabelle, stime e risultati parziali sul Congresso Pd distribuiti ad arte da altri e senza alcuna certificazione”. Sabato: “È curioso che girino dati parziali sul #congressoPd, veicolati da siti magari di consulenti di uno dei candidati (no, non siamo noi). È un vecchio modo di fare e anche un po’ triste. Noi, con il sorriso, attenderemo i dati ufficiali”. Da quando hanno cominciare a girare i risultati del congresso dei circoli, si trova più o meno tutti i giorni una dichiarazione così della senatrice. Che però non controbatte con altre elaborazioni. I nervi tesissimi nella mozione sostenuta prima di tutto da Luca Lotti certificano un fatto: che Zingaretti (almeno ai dati ufficiosi) vola oltre le aspettative. Quando ha votato l’80% dei circoli è al 49,9%. Con Martina che risulta al 32,1% e Roberto Giachetti al 13,7%. E poi, Zingaretti è avanti in tutte le città più importanti: Torino, Milano, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari.

Nello staff del Governatore si respira euforia. E pure la percezione che – andando avanti così – la vittoria nei gazebo è a portata di mano, e non servirà neanche l’Assemblea (che sarebbe necessaria se nessuno arrivasse al 50%).

Se dalle parti di Zingaretti il clima è questo, da quelle dei post-renziani-lottiani che appoggiano Martina serpeggia il panico. E tutti cominciano a riflettere su come riposizionarsi.

Alcuni pensano di passare a Zingaretti. Tra i primi a rifletterci molto seriamente c’è anche il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio. Altri, invece, pensano direttamente di cominciare a lavorare per Giachetti.

D’altra parte, a questo punto, i post-renziani che sono saliti sul carro del Governatore cominciano a essere un nutrito drappello. Gli ultimi a rendere noto il loro endorsement a Zingaretti sono stati Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna, che guidava il comitato elettorale Renzi nel congresso del 2013 e Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, che nella segreteria dell’ex premier era il responsabile Enti locali. Ma, per esempio, nel risultato della Lombardia ha molto pesato il lavoro di una ex renziana come Lia Quartapelle. E poi, ci sono state Elisabetta Gualmini e Marianna Madia. Oltre a personaggi meno noti alle cronache, ma che Renzi si portava dietro dagli inizio, come la deputata Rosamaria Di Giorgi. Ha scelto Zingaretti anche Gianluca Benamati, il deputato che solo un paio di mesi fa aveva organizzato la convention di corrente di Salsomaggiore.

Comunque vada, ci sarà poco da esultare: perché quando hanno votato l’80% dei circoli, il numero di quelli che lo hanno effettivamente fatto è di poco più di 86 mila persone: un quinto degli iscritti.

E si comincia già a litigare sul dopo, ovvero il listone proposto da Carlo Calenda. Che ha avuto una serie di stop (da Pier Luigi Bersani a Andrea Orlando, da Enrico Letta a Emma Bonino), ma anche qualche adesione non proprio richiesta. Come quella di Laura Boldrini e l’interesse di Paolo Romani. Nonostante la dichiarazione dell’ex Ministro: “Non credo che debba entrare nel movimento chi cerca alleanze nazionali a destra o a sinistra, con Lega o M5S se no sarebbe un’operazione di trasformismo politico. Quindi, nello specifico credo che non debbano entrare LeU e Forza Italia”. Incognita numero 1 da sciogliere, il simbolo del Pd. Se Zingaretti si è detto pronto a non presentarlo alle Europee, sul tema c’è una discussione in testa (sia Franceschini che Delrio si sono espressi per tenerlo). La soluzione che circola è quella di mettere insieme più simboli. Della serie: il Pd porta più voti di quanti ne toglie, o viceversa?

Ira del Movimento. Poi arrivano scuse e marcia indietro

”Ho pubblicato un link sui banchieri Rothschild, senza alcun commento. Poiché non avevo alcuna volontà di offendere alcuno, tantomeno le comunità ebraiche od altri, mi scuso se il link ha urtato la sensibilità. Condividere un link non significa condividere i contenuti, da cui comunque prendo le distanze. Ci tengo a sottolineare che non sono, né sarò mai antisemita”. Nella tarda serata di ieri arriva il post di scuse pubblicato su Facebook dal senatore M5S Elio Lannutti dopo il tweet dal sapore antisemita che nel pomeriggio aveva provocato le ire della comunità ebraica, la reazione sdegnata del Pd e imbarazzo all’interno del Movimento Cinque stelle. Tanto da costringere il vicepremier Luigi Di Maio a dissociarsi. “Come vicepresidente del Consiglio e come capo politico del M5S prendo le distanze, e con me tutto il Movimento, dalle considerazioni del senatore Elio Lannutti”, ha detto Di Maio. Durissima la reazione della comunità ebraica attraverso il sito dell’ebraismo italiano, Moked. “Un delirante post antisemita”, viene definito senza mezzi termini.

“Di Maio cacci il senatore che cita i protocolli di Sion”

Il senatore Elio Lannutti domenica ha ritwittato un articolo complottista pubblicato su un sito sconosciuto. La citazione ripresa da Lannutti rilancia un classico dell’antisemitismo: “Gruppo dei Savi di Sion” e Mayer Amschel Rothschild, l’abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale, portò alla creazione di un manifesto: “I Protocolli…”. Sul sito di informazione che ha fondato, Open, Enrico Mentana ieri ha scritto una “Lettera aperta a Di Maio su un senatore impresentabile”. Il direttore del Tg7 scrive: “Onorevole Di Maio, lei guida la prima forza politica del paese, scelta da un terzo degli elettori(…) tra pochi giorni, immagino, pronuncerà parole sentite e sincere in occasione del giorno della memoria, (…) sarebbe secondo me importante che prima di quel giorno lei separasse i destini del suo movimento da quello di un vostro eletto, il senatore Lannutti, capace ancora ieri di citare il complotto ebraico mondiale dei Protocolli dei Savi di Sion, quella che il linguaggio del nostro tempo chiamerebbe la fake news più foriera di odio e morte nella nostra storia”.

Mentana, lei ha chiesto al vicepremier di dividersi dal destino del senatore Lannutti. Di Maio ha preso le distanze. È soddisfatto?

Ci mancherebbe altro che non prendeva le distanze. Per me la scelta è una sola: non si può restare nel medesimo gruppo di uno che dice un’enormità del genere. Il tema è vedere cosa faranno i colleghi di Lannutti. Non è che possono trattarla come una divisione su una questione qualsiasi. Che diranno? Mica possono cavarsela dicendo ‘io non la penso così sui protocolli dei savi di Sion ma resto con Lannutti perché sono d’accordo sul reddito di cittadinanza’. È come se un deputato M5S avesse detto una roba come ‘è giusto rubare’ oppure ‘è giusto far violenza alle donne’. Di Maio avrebbe solo preso le distanze? Sarebbe rimasto nel suo gruppo?

Qual è la cosa che la indigna di più di quel tweet?

Lo sa qual è la cosa più grave? La data. Quel tweet è di ieri. E la notizia è che non hanno funzionato gli anticorpi. Io l’ho letto poco fa sul web. Nessuno del suo gruppo e nessuno degli alleati di Governo ha preso posizione prima della mia lettera aperta a Di Maio.

A cosa è dovuta questa distrazione secondo lei?

I fattori sono tanti. Capisco anche che stiamo parlando di Lannutti, non di una figura di primo piano. Capisco che il movimento ha eletto un centinaio di persone e non puoi controllare tutti sui social. Capisco pure che sono distratti dalla crisi diplomatica con la Francia. Però, che a 24 ore dal quel tweet non ci sia nessuno che abbia detto qualcosa, mi è parso strano.

Domenica 27 è il giorno della memoria, il senatore ha scelto un timing perfetto…

E allora approfittiamone per ricordare a tutti che secondo gli storici quel falso è stato fabbricato dalla Polizia segreta zarista proprio per dare il destro alla repressione e ai progrom. I falsi protocolli dei savi di Sion sono un classico della retorica hitleriana e dell’antisemitismo italiano. Siamo ancora a questo?

La distrazione con la quale si scrivono e ascoltano certe frasi è sintomo di un clima più favorevole all’antisemitismo?

No, no. Io mi ostino a pensare che siamo di fronte a una persona sola. Il problema di questo tempo non è l’antisemitismo quanto l’assenza di memoria. In altre epoche, dopo aver scritto quella frase, Lannutti non sarebbe più stato presentabile nel suo Movimento e in Parlamento. Sarebbe intervenuto il Presidente della Repubblica.

Quindi paradossalmente l’effetto della dichiarazione di Lannutti potrebbe essere positivo. Potrebbe portare tutti a capire l’importanza della celebrazione della giornata della memoria?

Sì. Il problema è che ci deve essere un terreno all’interno del quale la memoria non dev’essere contendibile. Ci sono fatti che non devono essere messi in discussione. Possibile che tutti si interessino del terrorismo rosso e degli anni ’70 perché abbiamo arrestato il comunista Battisti e poi un parlamentare scrive una cosa simile e nessuno ne parla?