Torna a 300 milioni di euro il fondo Imu-Tasi che nella manovra era stato ridotto grazie a un taglio al fondo per il reddito di cittadinanza. Da qui, infatti, arriveranno 90 dei 110 milioni necessari per recepire le richieste avanzate al governo dai Comuni. Altri 10 milioni saranno, invece, dirottati dal fondo per gli interventi strutturali di politica economica e gli ultimi 10 milioni dal fondo dei Residui passivi. Il provvedimento è contenuto in un emendamento al decreto legge Semplificazioni presentato dai relatori in commissione al Senato. L’incremento del ristoro per i Comuni, tuttavia, vale solo per il 2019. Mentre dal 2020 al 2033 la dote rimane pari a 190 milioni l’anno. Il fondo serve a restituire ai Comuni il gettito non più acquisibile dopo la revisione delle tasse sulla casa. Il fondo per il reddito di cittadinanza viene dunque ritoccato ancora una volta al ribasso. Ora gli stanziamenti per il 2019 ammontano a 5,8 miliardi di euro, contro i 5,9 miliardi di euro previsti nella bozza dell’8 gennaio. Sono stanziati 7,1 miliardi di euro per il 2020, 7,3 miliardi di euro per il 2021 e 7,2 miliardi di euro a decorrere dal 2022.
Centri impiego slittano i tempi per potenziarli: si va ad agosto
Non è ancora pubblico il testo definitivo del decreto approvato giovedì in Consiglio dei ministri, ma il Reddito di cittadinanza è già al centro di un acceso confronto tra governo e Regioni. Con queste ultime che prevedono l’arrivo di uno tsunami di richieste e non hanno nascosto perplessità e malumori. Ad accogliere a Palazzo Chigi i 20 assessori al Lavoro, guidati dalla coordinatrice Cristina Grieco (Toscana), c’erano il ministro Luigi Di Maio, il suo consigliere Pasquale Tridico e il prossimo presidente dell’Anpal Mimmo Parisi. “Abbiamo chiesto di riprendere il dialogo istituzionale che non c’è stato in questi mesi e ci hanno dato massima diponibilità”, ha detto Grieco. Le Regioni accusano il governo di aver fatto tutto da solo, senza coinvolgerle in una materia – quella delle politiche attive del lavoro – che è di competenza regionale. Il nodo principale resta l’assunzione dei navigator, cioè dei tutor che seguiranno i disoccupati. L’obiettivo di Di Maio è farne assumere 6 mila ad Anpal servizi, società privata ma in mano al ministero del Lavoro, e 4 mila alle Regioni. I primi possono arrivare già ad aprile, almeno questa è l’intenzione, per gli altri 4 mila i tempi saranno più lunghi. “Almeno sei mesi”, ha detto Grieco. In attesa dei concorsi regionali, i navigator reclutati dall’Anpal saranno già operativi. E qui le Regioni hanno fatto notare che gli attuali uffici dei centri per l’impiego non hanno abbastanza stanze e scrivanie per ospitarli tutti. Gli immobili, insomma, vanno ristrutturati e ampliati. Secondo l’assessore lombardo Melania Rizzoli, “i tempi non sono compatibili”. Il governo resta fermo: i primi accrediti arriveranno ad aprile, sperando di avviare nel minor tempo possibile la macchina dei percorsi di inclusione sociale e inserimento lavorativo. Le Regioni temono di essere individuate come i responsabili se si dovesse fallire l’obiettivo delle offerte di lavoro ai percettori.
“Così funzionerà la carta per il reddito di Poste”
Sarà una card gialla, con il logo di Poste, il numero impresso in rilievo: in tutto e per tutto uguale a una normale carta di credito ma servirà per spendere soltanto le somme che vi verranno caricate per il reddito di cittadinanza. “È uno strumento che non stigmatizza chi la usa, il destinatario del reddito non deve sentirsi imbarazzato a usare questo strumento, per legge ci devono essere differenze da una normale PostePay, ma non saranno molto riconoscibili”, spiega Matteo Del Fante, amministratore delegato di Poste dall’aprile 2017, insieme al suo braccio destro Giuseppe Lasco, responsabile dei corporate affair; Poste ha un ruolo cruciale nella macchina amministrativa del reddito di cittadinanza: dal 6 marzo i quasi 5 milioni di potenziali beneficiari potranno fare domanda per il reddito negli uffici postali, oltre che online e presso i Centri di assistenza fiscale. E sarà prodotta da Poste la carta che permetterà di spendere il sussidio e di prelevarne fino a 100 euro al mese in contanti.
Dottor Del Fante, Poste è pronta a gestire il reddito di cittadinanza?
Il nostro ruolo è triplice, nella fase di ricezione della domanda standard del potenziale beneficiario, nella consegna della carta e nella gestione operativa dell’utilizzo della carta.
Il potenziale beneficiario fa domanda online o all’ufficio postale?
Tutto nasce sulla base di una convenzione preesistente, facciamo già da sportello della Pubblica amministrazione per certificati catastali, anagrafe, permessi di soggiorno e molto altro.
La domanda poi viene valutata dall’Inps.
Secondo il decreto legge ha cinque giorni per verificare i requisiti, quando l’Inps ci risponde noi convochiamo l’utente e gli consegniamo carta e pin insieme. Non si può spedire a casa perché la normativa antiriciclaggio impone di verificare il documento di identità prima di consegnare una carta di pagamento. Dopo la consegna, la carta è già funzionante con l’importo definito.
E questa procedura di consegna quanto richiederà?
Le carte sono già in stampa e sono già pronte potenzialmente per tutti gli aventi diritto. Saranno disponibili nei singoli uffici postali. Noi mandiamo la comunicazione al beneficiario di venire a ritirare la carta, il tempo della procedura sarà variabile, a seconda di quanto sono concentrate le domande sul territorio, ma comunque all’incirca 10 giorni.
Circolava l’ipotesi di controllare se i beneficiari, con la carta, faranno consumi “morali” o sprecheranno i loro soldi. Voi potrete vigilare?
Ogni utente potrà consultare online, all’ufficio postale, e negli Atm di Poste il proprio estratto conto. Noi poi dovremo rendicontare alla nostra controparte contrattuale, cioè il ministero dell’Economia, i dati sull’utilizzo della carta. Presumo ci chiederanno una reportistica per settore merceologici e per tipologia di esercenti.
Ci sarà una commissione per prelevare le somme in contanti, fino a 100 euro mensili, dagli sportelli bancomat?
Sì, ci sarà una commissione come avviene con tutte le carte di Poste.
Vi troverete con 5 milioni di potenziali nuovi clienti. Magari dal reddito basso, ma negli Usa questo genere di soggetti sono stati molto remunerativi negli anni prima della crisi, basti pensare ai mutui subprime.
Di solito le società che emettono carte di pagamento cercano di presentarle come gold, platinum, per associarle a una clientela più prestigiosa, noi facciamo il contrario, perché il nostro ruolo sociale lo richiede, ma non è una scelta lucrativa. Per noi quello che conta è che si consolidi la presenza di Poste sul territorio e la fiducia nei servizi che eroghiamo. Alla lunga è un investimento che ci ritorna: abbiamo fatto la scelta strategica di non chiudere gli uffici postali in 5.800 piccoli Comuni, un impegno preso con i sindaci, e ora vogliamo riempire di contenuti questi uffici postali: il reddito di cittadinanza sarà uno di questi, come le notifiche degli atti giudiziari, i servizi di tesoreria dei Comuni, la carta d’identità elettronica.
Il governo si è impegnato a fare privatizzazioni per 18 miliardi nel 2019. Si parla della possibile cessione di un altro pacchetto di azioni di Poste in mano pubblica. Che ne pensa?
Da manager, faccio quello che decide l’azionista, da amministratore delegato sono convinto che ci sia ancora del valore da estrarre dal titolo Poste che, dalla quotazione, è cresciuto da 6,6 euro ai 7,6 attuali. Eravamo arrivati sopra 8 euro prima che le settimane difficili dello spread avessero impatto anche sul nostro titolo, come su tutto il mercato.
Poste ha buoni rapporti anche con la Casaleggio Associati, avete finanziato con 30 mila euro il loro ultimo rapporto sulla blockchain. Un modo per tenere buoni i rapporti con i Cinque Stelle?
L’inizio del rapporto con la Casaleggio risale al 2016, prima del mio arrivo in Poste, abbiamo finanziato due loro ricerche. In particolare quella sull’e-commerce ci ha permesso di accedere a dati che noi non avevamo. Finanziamo molte ricerche prodotte da centri di ricerca esterni.
A Treviso la Lega chiusa in bagno
Un’azionediversiva, di opposizione politica, ha costretto il gruppo dirigente della Lega trevigiana a chiudersi in bagno. A Zero Branco, provincia di Treviso, i leghisti hanno promosso un convivio serale per accogliere – graditi ospiti – un assessore regionale, il presidente della Provincia e alcuni consiglieri. L’occasione era ghiotta: la festa del radicchio. La cena, che si è consumata serenamente, è stata però funestata dagli effetti collaterali. Nei bicchieri o nei piatti, non sappiamo ancora bene dove, qualcuno ha versato o sciolto del lassativo. L’azione, che i leghisti locali hanno subito inteso come una manovra per rallentare lo spedito passo politico del movimento, è stata purtroppo colta da successo. Il gruppo dirigente, in questo caso, ha subito i contraccolpi al tratto digerente. E il computo della verifica gastrointestinale ha portato alla luce che l’obiettivo era solo la Lega, essendo gli altri convenuti senza dolori addominali, o addirittura, e purtroppo, diarrea.
Il trambusto è stato clamoroso, l’imprevisto assai singolare. Le indagini sulla forza antagonista o sul singolo contestatore sono ancora nelle fasi iniziali. Tra le ipotesi in campo anche quella di un burlone creativo che ha voluto tracciare, con la metafora intestinale, il segno attuale della Lega che ingoia tutto pur di governare. Sono però congetture.
L’appello di Strada: “Sveglia! Ammazzano la gente davanti a noi”
“Gli italianinon sono mostri, come vengono dipinti, ma un popolo molto solidale e aperto, lo hanno dimostrato. Ora devono organizzare una resistenza a questa nuova barbarie”: l’appello a resistere arriva dal fondatore di Emergency, Gino Strada ai microfoni di Radio Capital. Parole dure all’indirizzo del governo gialloverde (“Una banda dove una metà sono fascisti e l’altra metà sono coglioni”) e soprattutto del ministro Matteo Salvini: “Mi stupisce la completa disumanità di questo signore. È un atteggiamento che non è soltanto non solidale o indifferente, ma è gretto, ignorante. È un atteggiamento criminale, questi sono dei criminali, dobbiamo svegliarci ci stanno ammazzando la gente sotto i nostri occhi”: Strada non risparmia una dura critica all’Unione europea: “Abbiamo una classe dirigente che dovrebbe essere processata per crimini contro l’umanità”. La risposta di Salvini arriva via Facebook e ha il consueto tono sprezzante: “La fine della mangiatoia dell’immigrazione clandestina li sta facendo impazzire. L’Italia ha rialzato la testa”.
Oxfam: “In Italia il 5% più ricco ha le risorse del 90% più povero”
La forbice si allarga ancora. L’ultimo rapporto di Oxfam, pubblicato alla vigilia dell’apertura del Forum di Davos, fotografa il continuo aumento delle diseguaglianze nel mondo: nel 2018 le fortune dei più ricchi sono aumentate del 12%, con un ritmo di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre il 50% più povero dell’umanità – 3,8 miliardi di persone – ha visto diminuire ancora le sue risorse dell’11%. I numeri sono aggiornati, la sostanza è la stessa di sempre: nel 2018 appena 26 ultramiliardari possedevano l’equivalente della ricchezza della metà più povera del pianeta. Oxfam ha diffuso anche le statistiche italiane. A metà dell’anno appena concluso, il 20% più ricco degli italiani possedeva circa il 72% dell’intera ricchezza nazionale, con il 5% dei più affluenti che deteneva la stessa ricchezza del 90% più povero. Le tendenze di lungo periodo mostrano che la quota della ricchezza globale nelle mani dell’1% più ricco è in crescita dal 2011, mentre la riduzione del numero di esseri umani in povertà estrema – calati drasticamente tra il 1990 e il 2015 – ha subìto un forte rallentamento negli ultimi tre anni. Le condizioni di miseria continuano a colpire soprattutto i contesti storicamente più fragili, come l’Africa subsahariana.
Ingannati e al gelo: “Non riportateci là”. L’incubo dei cento profughi sul cargo
Stanno ritornando in quella terra da cui erano fuggiti. Potrebbero essere rinchiusi nuovamente nei centri dove sono stati torturati, abusati e seviziati. È un incubo quello vissuto dai 100 profughi salvati su un barcone in avaria a largo di Misurata, proprio quando temevano di essere inghiottiti dalle acque. Perchè scampati alla tragedia rischiano di dover nuovamente affrontare l’inferno: stanno per essere riportati in Libia. “Si sono resi conto che stanno tornando in Libia e dicono che preferirebbero uccidersi piuttosto che sbarcare”. I tweet di Allarm Phone si susseguono mentre migranti, a bordo del cargo Lady Sham, battente bandiera della Sierra Leone, vengono accompagnati nel paese da cui erano scappati sebbene sapessero di dover affrontare un viaggio pericoloso. La Ong segue la situazione da quando gli operatori avevano raccolto un grido disperato: “Aiutateci, presto non riuscirò più a parlare perché sto congelando”. Dopo l’intervento del governo italiano, alla fine i libici hanno dirottato la Lady Sham, che ha soccorso i migranti a bordo di un’imbarcazione in avaria, evitando una tragedia a pochi giorni dalla strage dei 117 migranti annegati a 50 miglia da Tripoli, la stessa sui cui indaga la procura militare di Roma e la procura della Repubblica di Agrigento. Adesso però le 100 persone a bordo del cargo si trovano a dover affrontare un’altra difficoltà: “Sono terrorizzati – dicono dall’Ong – non vogliono tornare in Libia”. Perché gli abusi, le sevizie e i maltrattamenti subiti in Africa fanno più paura del mare. “Il rimpatrio in Libia è uno shock per loro e siamo molto preoccupati per il loro stato fisico e mentale”, aggiunge l’Ong. “Il fattore di spinta è sempre stato superiore al fattore di attrazione – spiega al Fatto Quotidiano Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale dei migranti – La gente è disperata e fugge dalle violenze. Dicono di preferire rischiare la morte che subire le violenze. Il 95% delle persone che arrivano via mare subiscono violenze. Noi abbiamo detto più volte al Governo libico di chiudere i centri di detenzione dove vengono portati anche i minorenni. Bisogna sostituirli con centri aperti – continua – perché anche nei 18 centri ufficiali le condizioni non sono accettabili”.
Per questo motivo, i migranti fatti trasbordare a bordo della Lady Sham sarebbero stati ingannati. “Abbiamo parlato con diversi di loro e ci hanno riferito che era stato detto loro che sarebbero stati sbarcati in Italia”, scrive l’organizzazione Alarm Phone in un tweet. Nel frattempo, in un Mediterraneo che sembra improvvisamente affollatosi di disperati come qualche anno fa, a bordo della Sea Watch si lotta contro il vento e il maltempo. Nella nave della Ong tedesca – che nel pomeriggio ha contattato la Lady Sham per chiederle se erano disposti a trasbordare alcuni naufraghi ed evitare il loro sbarco in Liba – ci sono 47 persone occorse tre giorni fa al largo di Tripoli. Da 3 giorni attendono che qualcuno conceda un porto sicuro dove attraccare. “Non ci viene ancora detto di chi è il coordinamento dell’operazione”, affermano dalla Sea Watch spiegando che “le condizioni meteo stanno peggiorando”. In mare, da soli e senza aiuti, i membri dell’equipaggio stanno provando a contattare la Libia: “Non rispondono, non c’è modo di parlare con loro”. E quando la notizia della Lady Sham arriva a bordo ritorna alla mente il caso “Nivin”: lo scorso novembre 79 rifugiati si rifiutarono di scendere in un porto libico, lo stesso da cui erano scappati, e si contarono i feriti perché furono fatti sbarcare dai libici con la forza. Anche un’altra Ong, la Open Arms, ferma nel porto di Barcellona fa sentire la sua voce: “200 persone sono annegate nei primi 21 giorni del 2019. La storia ce lo ricorderà e indicherà da che parte stavano vittime e carnefici”.
Il governo del ricatto: il nostro pizzo ai libici non basta mica più…
Purtroppo non si può impedire che mentre rischiano di affogare le loro urla disturbino la domenica di ‘prima gli italiani’. Purtroppo siamo nella civiltà dell’immediatezza e il solo modo per non udire, non vedere e non sapere è non udire, non vedere, non sapere. Certo che se poi, terminato il calcio show e le varie domeniche talk incappi in qualche tg significa proprio che te la sei cercata.
Purtroppo la tv del cambiamento non è ancora cambiata come promesso (tempo al tempo) e i soliti resoconti buonisti ci informano, parola per parola, di quanto sta avvenendo al largo di Misurata. “Stiamo congelando, la barca prende acqua, ci sono bimbi a bordo, vi scongiuro aiutateci”, e cose del genere. Be’, essere sovranisti o populisti o identitari non significa avere un cuore di pietra, e non domandarsi se qualcosa si potrebbe pure fare per salvare quei poveretti (certo che se restavano a casa ora saremmo tutti più tranquilli).
Proviamo a informarci. Il vicepremier Matteo Salvini accusa le ong e ripete che i porti italiani sono chiusi per le navi dei disperati (la linea della “pacchia finita” che va alla grandissima: è al 34% dei voti e se non molla ai facili piagnistei si può puntare quota 40%). L’altro vicepremier, Luigi Di Maio, se la prende con la colonizzazione francese dell’Africa impoverita mentre Alessandro Di Battista straccia, in diretta da Fabio Fazio, il franco africano (che per quelli al largo di Misurata è comunque una consolazione).
Il presidente della Camera, Roberto Fico, esprime dolore, rabbia, tristezza e afferma che se una società sana non riesce a salvare vite umane è un terribile fallimento per tutti noi. Verità sacrosanta che sarà opportunamente adoperata nei pastoni politici come spunto in funzione anti-Salvini. Giorgia Meloni ripete che ci vuole il blocco navale davanti alla Libia (però più del 4% nei sondaggi non schioda). Quanto al Pd, sono troppo impegnati a scannarsi nelle primarie per dedicarsi ad altre vittime. Tutti comunque imprecano contro l’Europa ipocrita e assente (mantra che comunque si porta bene con tutto).
E Giuseppe Conte? Annuncia che al termine del mandato da premier si dedicherà al diritto penale per assicurare i trafficanti alla giustizia. I trafficanti ne saranno sicuramente intimoriti. Poi si decide finalmente a chiamare Tripoli e un cargo della Sierra Leone riporta in Libia i cento migranti, sul punto di raggiungere in fondo al mare i 170 del giorno prima. È il primo atto concreto per impedire un’altra strage e infatti Salvini proclama che “la collaborazione con la Libia funziona”. Sì, ma a esclusivo vantaggio dei libici. Descritti come un’accozzaglia di bande armate divise su tutto. Ma indubbiamente unite e compatte nella pratica dell’estorsione ai danni dell’Italia.
Sul Fatto di lunedì, Antonio Massari ha descritto con precisione la lubrificata macchina del ricatto. Pagata da noi. Sei motovedette, una sala operativa, il controllo dei soccorsi in mare. Più una missione del nostro esercito. Più dieci funzionari dei Servizi (Aise) in pianta stabile. Più, naturalmente, un mucchio di soldi versati sottobanco dalla nostra intelligence alle fazioni libiche per fermare le partenze.
Paghiamo il pizzo profumatamente ma adesso, da Tripoli a Misurata a Bengasi, si pretende di più, molto di più. Il segnale è giunto forte e chiaro. Aumento delle partenze dalle coste africane. Blackout telefonico nelle drammatiche ore del naufragio dei barconi. Finché Palazzo Chigi è costretto a chiedere, per favore, alla Guardia costiera libica – che esiste solo grazie ai mezzi forniti dal governo italiano – di mettere in sicurezza i migranti alla deriva. Concesso.
Infine, una domanda facile facile: secondo voi i crudeli “trafficanti di esseri umani” partecipano oppure no alla distribuzione della ricca torta? Altro che complotto delle organizzazioni non governative. Va bene tutto, ma basta prenderci in giro. Prima gli italiani? No, prima i libici.
Tutti gli impegni con la Libia non rispettati da Italia e Ue
Il presidio a Ghat, nel Fezzan, a sud della Libia, di fronte al Niger, per presidiare il punto più caldo del traffico di migranti? Il governo italiano, nel giugno scorso, l’ha inaugurato soltanto sui media: non esiste ancora. E i 20 gommoni per presidiare le coste e bloccare le partenze? Mai arrivati. E gli hotspot annunciati dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, al rientro del suo viaggio a Tripoli nel giugno scorso, da allestire “ai confini a sud della Libia e alle frontiere esterne, per bloccare l’immigrazione? Anche di quelli, nemmeno l’ombra. La Libia ha accettato di fare da “tappo”. Invece di far partire i migranti ce li conserva nei suoi lager. Ma non intende violare i diritti umani senza una contropartita. Non solo. Aspira a non doverlo fare più: l’Italia e l’Ue si sono impegnate ad aiutarla nel bloccare, o quantomeno a dirottare i flussi migratori verso Tripoli. Ma non hanno mantenuto gli impegni.
C’è un’intera “lista della spesa” – per il “dossier libico” sono stati finanziati in parte anche dall’Italia, ben 160 milioni di euro – che è rimasta solo sulla carta. È il principale motivo per cui, nelle prime tre settimane di gennaio, le partenze sono raddoppiate rispetto allo scorso anno. Il Fatto è in grado di rivelare la “lista della spesa” e le trattative intercorse per chiuderla. Partiamo da Sud.
Il fronte più caldo – dal quale entrano più migranti – è il confine con il Niger. In realtà, non esiste una vera linea di confine: sono proprio le strade “carovaniere” a delinearlo. Ed è facilissimo per i trafficanti attraversarlo. Se Italia e Ue pretendono meno sbarchi – sostengono i libici – devono aiutarci a evitare gli ingressi da sud. Senza più prese in giro.
Durante gli incontri dell’estate scorsa, con i rappresentanti di Viminale, Esteri e della nostra intelligence , i capi tribù hanno intavolato le trattative esordendo con questa battuta sarcastica: “Siamo capaci anche noi di farli entrare da Sud e farli uscire da Nord”. Un modo per ricordare all’Italia che anche da noi, almeno fino a qualche tempo prima, molti migranti entravano, sì, ma per poi dileguarsi nel resto d’Europa. Le tribù del Fezzan, in quel primo incontro, tra febbraio e marzo 2018, per fermare il flusso di migranti hanno chiesto innanzitutto armi. “Niente da fare”, ha risposto l’Italia. Sul resto abbiamo stretto gli accordi. Ovvero: una rete radar per sorvegliare il confine con il Niger, la costruzione di presidi fissi – caserme e vari luoghi di controllo –, mezzi tropicalizzati – Range Rover o altri in grado di muoversi in quei territori –, moto Enduro, addestramento per le guardie di confine e divise. Di tutto questo, nel Fezzan, non è arrivato nulla. È ovvio che incide la pericolosità del luogo che, finora, non ha reso facile la realizzazione dei progetti. “Le caserme e i posti di controllo – hanno chiesto gli italiani ai capi tribù – volete che li costruiamo noi? O preferite che vi diamo soldi e fate da soli? In questo caso, però, vogliamo sapere i soldi a chi vanno”. I libici hanno scelto la prima ipotesi. Il governo ha attivato le agenzie Invitalia e Sviluppo Italia per affidare a qualche imprenditore i progetti. Le spese per mettere in sicurezza i cantieri hanno reso finora impossibile l’operazione.
E ancora. L’Italia si era impegnata – già con il ministro Marco Minniti – ad allestire dei campi profughi all’interno della Libia, dove avrebbero potuto operare anche Unhcr e Oim, per consentire trattamenti umanitari migliori che non pesassero sulle casse libiche. Impegno disatteso.
Passiamo al nord e, quindi, al controllo delle coste.
I libici, per continuare a gestire il fallimentare coordinamento dei soccorsi – adesso sono titolari di un’area Sar – hanno fatto da tempo richieste precise: una sala operativa regionale, 20 “super gommoni” tra i 10 e i 14 metri di lunghezza – costo: 350/400 mila euro l’uno – e un’officina per la manutenzione con annesso scalo di alaggio. Al momento gli sono rimaste le 6 motovedette fornite dalla Guardia di Finanza e una sala operativa con tre computer e un paio di telefoni. Che peraltro squillano spesso a vuoto. Delle altre 12 motovedette promesse ne sono giunte 2.
Il cambio d’ambasciatore a Tripoli – per i tempi necessari al passaggio di consegne tra Giuseppe Perrone e Giuseppe Buccini – non è stato d’aiuto. Così come la conferenza di Palermo, indetta dal premier Giuseppe Conte, che buona parte delle fazioni libiche non ha trovato soddisfacente. E anche i trafficanti che, trattando in passato con la nostra intelligence, sono riusciti a guadagnare un bel po’ di soldi, vogliono tornare all’incasso. Se prendi degli impegni e non li mantieni, sul fronte libico, prima o poi ti esponi al ricatto.
L’Oms: i migranti non portano malattie, si ammalano qui
I migrantinon portano malattie, anzi si ammalano quando sono in Europa per la condizioni disagiate in cui vivono, e sono molti meno di quanto si creda. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) indossa i panni del myth-buster e smonta due falsi miti molto diffusi. È quanto emerge dal primo rapporto sulla salute dei migranti e dei rifugiati basato su documenti raccolti nei 54 Paesi che fanno parte della regione Europa dell’Oms. Chi fugge in Europa non “importa” malattie. Anzi, quelle non trasmissibili, come tumori o problemi cardiaci, tra i rifugiati hanno un indice più basso rispetto alla popolazione generale, che cresce quanto più è lungo il periodo di mancato accesso ai servizi sanitari e delle condizioni igieniche spesso insufficienti. Un altro falso mito sui migranti è il loro numero: sono 90 milioni nell’area Europa Oms. Realtà ben diversa da quello che pensano gli europei, che ritengono i rifugiati siano 3 o 4 volte di più. “Senza entrare nelle scelte politiche delle singole nazioni, che non ci competono, “Da parte di alcuni governi si distoglie l’attenzione dai fatti, si alimentano preoccupazioni che poi i dati reali smentiscono” ha commentato Santino Severoni, coordinatore del programma Oms Europa.