Col Pnrr si valorizzino i beni levati alle mafie

In un Paese nel quale la pandemia accresce la paura degli italiani e la ripresa economica si appalesa timida, l’azione invisibile della criminalità mafiosa trova linfa vitale ed è pronta a drenare le risorse che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) porterà con sé, sfruttando la fragilità del tessuto economico e sociale nel quale opera. Una realtà che induce a riflettere per verificare quali strumenti e risorse possano essere valorizzati per cercare di arginarla. Innanzitutto, oltre al potenziamento dell’attività repressiva, il ricorso agli strumenti del sequestro e dalla confisca, introdotti dalla legge Rognoni-La Torre, su cui ho già scritto su questo giornale (6 aprile 2021), che consentono di intervenire sui beni e attività illecitamente acquisiti dagli indiziati di appartenere a sodalizi mafiosi, sulla scorta di un giudizio di pericolosità sociale, senza aver prima ottenuto una sentenza penale di condanna. Ma anche l’impiego di strumenti diversi esistenti, che consentono di recuperare le imprese a rischio di infiltrazione o di condizionamento mafioso. L’esperienza ha evidenziato che la realtà economica non si esaurisce nell’alternativa tra impresa sana e mafiosa. Si registrano in maniera crescente casi di imprese che risultano avere rapporti anche occasionali con sodalizi mafiosi (derivanti per esempio da finanziamenti o assunzioni di personaggi di estrazione criminale), non essendo dunque tout court mafiose, o che non vivono solo di corruzione, ma che accettano di proliferare con il supporto della corruzione. Il codice antimafia si è fatto carico di tali esigenze prevedendo due specifiche misure applicabili dal tribunale alle imprese, ove sussista il rischio che il mafioso se ne appropri: l’amministrazione giudiziaria (art. 34), che comporta la nomina di un amministratore che assuma la gestione dell’impresa; il controllo giudiziario (34 bis), disponendo misure di controllo per vigilare sull’attività degli amministratori esistenti, applicabile anche nei confronti di imprese destinatarie di interdittive antimafia disposte dai prefetti (che in tal caso vengono sospese nella loro efficacia). Lo scopo è costituito dal consentire la prosecuzione dell’attività e di salvaguardare i posti di lavoro, neutralizzando i rischi di infiltrazione mafiosa, o di utilizzo per sistematiche attività di corruzione e la restituzione dei beni ai titolari, sempre che possano essere curate (per esempio con la rimozione degli amministratori e/o di dirigenti collusi, cambiando fornitori e subappaltatori e così via). Tali strumenti sono già stati applicati in più sedi giudiziarie, come nel caso di una singola agenzia di un’importante banca, o di un grande consorzio di cooperative di rilevanza nazionale, in cui gli amministratori erano responsabili di attività corruttive. Situazioni nelle quali l’amministrazione giudiziaria ha consentito di risanare l’azienda in un congruo lasso temporale, dopo averla ripulita dai legami con le cosche. Altra direttrice percorribile appare quella di dare maggiore consistenza alla destinazione sociale dei beni confiscati, prevista dalla legge del 7 marzo 1996, n. 109, varata grazie all’iniziativa di Libera, che seppe raccogliere un milione di firme. La ricordata legge Rognoni-La Torre – approvata il 13 settembre 1982, dieci giorni dopo l’uccisione del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, con le sue successive modificazioni – ha reso possibile l’acquisizione definitiva di 36.616 beni immobili riconducibili a indiziati di appartenere alla mafia, evasori, riciclatori, corrotti, bancarottieri, usurai e altri soggetti socialmente pericolosi, ma solo circa 17.300 sono stati destinati dalla preposta Agenzia nazionale alle previste finalità sociali (asili, scuole, residenze per soggetti in difficoltà, ecc) e istituzionali (caserme, uffici pubblici), attraverso assegnazioni dirette ai soggetti legittimati, fra i quali, i comuni, le associazioni e i soggetti del “privato sociale”. Sarebbe, perciò, auspicabile prendere cognizione e, soprattutto, rimuovere le cause (quali la mancata effettuazione delle verifiche dei creditori, sussistenza di quote indivise, irregolarità urbanistiche, occupazioni abusive, condizioni strutturali precarie) che sono alla base di una tale obiettiva inaccettabile criticità, cominciando con il prevedere una procedura più snella nelle assegnazioni in modo da accorciarne le tempistiche, trasformando l’Agenzia nazionale da struttura burocratica in soggetto dinamico capace di una visione imprenditoriale e prevedendo adeguati finanziamenti per gestire e valorizzare gli immobili, impiegando parte delle risorse del Pnrr, anche per nuove assunzioni di personale adeguato. Nella fase di crisi economica in cui versa il Paese corrisponde a un’esigenza collettiva evitare distruzioni di ricchezza e la perdita di posti di lavoro, offrendo alle attività imprenditoriali insidiate dalla mafia l’opportunità di rientrare nel mercato in condizioni di legalità.

 

Berlusconi al quirinale: Ecco un promemoria dedicato al candidato

E ora, per la serie “Lo zombie nel forno”, la posta della settimana. Avete di meglio da fare? Non credo. Mi state leggendo, no?

 

Caro Daniele, che te ne pare dell’ipotesi di Silvio Berlusconi presidente della Repubblica?

(Silvano Tommasi, Ivrea)

Una volta che ti ci abitui, smetti di avere le convulsioni. Berlusconi è un enorme peggioramento rispetto alla sua mancanza, e l’Italia ha bisogno di lui come Van Gogh aveva bisogno di uno stereo. Ricordi l’editto bulgaro? No? Carino da parte tua averci messo una pietra sopra. Biagi comunque se l’era cercata: mangiare la merda in diretta! Disgustoso. Promemoria sul candidato: quando Berlusconi andava all’estero, i reati in Italia si dimezzavano. Gianni Letta una volta gli disse: “Silvio, non puoi fare tutte le leggi a tuo favore”. E lui: “Ah ah ah! Come se ci fosse una regola”. Davvero non ricordi più la volta che Berlusconi, in un atto di follia prostatica, rubò in un supermercato cinese all’Esquilino mezzo chilo di salmone affumicato del mar Baltico, scaduto da 12 giorni, e immediatamente il Parlamento approvò una legge che depenalizzava il reato di furto di mezzo chilo di salmone affumicato del mar Baltico scaduto da 12 giorni in un supermercato cinese dell’Esquilino? Il procuratore capo parlò di “legge irresponsabile che risponde a interessi particolari facilmente individuabili, un testo di legge preparato dagli avvocati di Berlusconi che diverge dagli standard delle democrazie liberali”. Al che il ministro della Giustizia Castelli aprì subito un’indagine disciplinare sul procuratore capo per appurare se aveva valicato il confine fra libertà d’opinione e indebite ingerenze da parte di chi deve applicare le leggi. Il procuratore generale difese il procuratore capo: “Tacere le cose sarebbe pavida connivenza, soprattutto da chi è professionalmente in grado di comprenderne il senso”. Castelli: “Opinioni personali e irrilevanti”. Questo era il clima che si respirava all’epoca. Davvero hai dimenticato quando i processi svelarono che Berlusconi aveva pagato la mafia e tutti gli artisti di sinistra che lavoravano per Mediaset e Mondadori si licenziarono per protesta? Tutti credevano che la colpa fosse di Berlusconi. No. A dare gli ordini era Sandra Mondaini. Non hai letto i verbali delle Olgettine? Come può fare il presidente della Repubblica uno che quando fa sesso continua a esclamare il proprio nome? Stiamo parlando di un uomo che una volta cercò di insegnare a Pavarotti come si canta. Non può costringerci a essere incazzati per altri sette anni: è disumano, non infierite su di me, sono ancora sconvolto dalla morte di Craxi. Il passo successivo è la Repubblica presidenziale: i poteri forti la vogliono, Napolitano ne diede un assaggio e Silvio sa che i tempi sono maturi: la pandemia ha reso evidente l’inconsistenza dei partiti. Ma eleggerlo presidente della Repubblica sarà come chiedere a un gatto di fare la guardia ai nostri tramezzini col tonno. La prospettiva del ritorno in pompa magna getta nel panico le diplomazie, dove non hanno dimenticato il suo stile informale (una volta salutò Clinton strizzandogli il pacco). Quanto agli italiani, il 40% vorrebbe Berlusconi presidente della Repubblica, ma solo perché così i giornali smetterebbero di parlare della pandemia. Illusi: poi vorranno un’altra pandemia per non sentir più parlare di Berlusconi. ffdjzòòsdjdxcvmxbpf, potrei scrivere a questo punto, se mi addormentassi sui tasti. Comunque la NASA ha appena scoperto un nuovo sistema solare. È bello sapere che abbiamo delle opzioni.

 

Su Rep Mattarella è il divino Maradona

Ci mancava Mattarella “Barrilete Cosmico”. Ma adesso abbiamo anche questo. Ieri Concetto Vecchio si è esercitato su Repubblica nel commiato anticipato del capo dello Stato, per l’occasione paragonato a Diego Armando Maradona con l’aiuto di Paolo Sorrentino (“È stata la mano di Mattarella”, titola Rep). Con sobrietà, Mattarella viene descritto come “un tipo frugale, fuori da ogni mondanità”, “mite, che non vuol dire arrendevole”, “timido, non accomodante”, “gentile, che però riconosce il sentimento di ruolo”. Uno che “sapeva che avrebbe prodotto dei fiori anche tra le ortiche”, qualunque cosa significhi. Prima di salire al Quirinale “la sera cenava da solo”. E se l’è vista brutta, “potevamo fare la fine dell’Ungheria di Orban” per colpa dei populisti, ma lui “li ha messi alla prova fissando doverosi paletti, come il no a un ministro dell’Economia anti euro”. Che infatti finì agli Affari europei, classica casella con cui si neutralizza un no euro. Non s’illuda però chi spera nel bis, “la sua decisione l’ha presa ormai”: ancora un anno per provare a vincere i Mondiali con l’Argentina, poi lascerà il calcio giocato.

Il no dell’operaio al “Corriere”: l’ex sindacalista Cisl fa male di conto

Chiedere all’oste se il vino è buono non è mai una buona idea. Ma il Corriere della Sera, forse inebriato, forse perché ha perso l’abitudine agli scioperi generali, è andato oltre lo stupore e l’indignazione già espressa contro la manifestazione indetta da Uil e Cgil di giovedì 16. Così per argomentare “le assurdità di chi se la prende con questo governo”, ha chiesto il parere di Gerardo Giannone, un operaio alla catena di montaggio di Stellantis (ex Fca) a Pomigliano in cassa integrazione. Del resto, chi meglio di un lavoratore con Cud di 20 mila euro può raccontare la pancia del Paese e dire la sua sulla decisione del governo di dedicare la maggior parte dei 7 miliardi di euro al taglio delle tasse dei redditi medio-alti? Eppure, il giudizio di Giannone è netto: lo sciopero non lo capisce proprio, perché facendosi due conti ha scoperto che il prossimo anno potrebbe prendere “700 euro in più”. E di questi tempi, signora mia, chi non vorrebbe ritrovarseli in busta paga? Giannone fa di conto tra Irperf, aliquote regionali, costi degli scioperi e sentenzia che “c’è solo della cattiva fede” contro il governo, perché “questo sciopero fa tutto tranne che dare una mano ai lavoratori”. E di scioperi Giannone se ne intende. Racconta di aver fatto per tanti anni il sindacalista Fim-Cisl e che ha lasciato il sindacato quando lo volevano far passare in segreteria provinciale. Quello che però il lavoratore di Pomigliano, ma anche scrittore (ha all’attivo due tomi sulla classe operaia) ha omesso, così come il suo interlocutore, è che abbia deciso di non professare più il sindacalismo già dal 2010 quando ha votato Sì all’accordo con Fiat a Pomigliano. Poi si è convertito al renzismo nel 2016 organizzando in fabbrica un comitato a favore del Sì al referendum. E l’anno successivo si è dimesso da segretario del circolo Pd dello stabilimento Fca di Pomigliano, quello che era l’unica sezione politica nello stabilimento campano. Alle cronache Giannone è finito anche perché da candidato del Pd a Casalnuovo di Napoli ha rivolto insulti sessisti alla Cinquestelle Paola Taverna. Ma tra uno stupore e un imbarazzo dell’operaio e dello stesso Corriere di fronte a uno sciopero generale, qualcuno avrebbe anche dovuto ribattere a Giannone che dei suoi 700 euro in più all’anno, ben 600 euro non arriverebbero con la riforma Irpef, ma grazie al nuovo assegno unico e a una riforma della Regione Campania. Ma quando si chiede all’oste come è il vino…

Fisco, il gigante dribbla le tasse grazie all’intesa in Lussemburgo

La concorrenza non è l’unico campo sul quale Amazon si fa gioco dei rivali. L’altro sono le politiche fiscali: la multinazionale si avvantaggia di schemi complessi e Paesi compiacenti. Secondo l’ultima edizione del rapporto sui giganti del web dell’Area studi Mediobanca, l’anno scorso grazie alla pandemia Amazon ha realizzato ricavi per€314,6 miliardi, in crescita del 37,6% su base annua, e utili netti per 17,38 miliardi (+84%) ma, a fronte di una aliquota fiscale teorica del 21%, ne ha pagata una effettiva del 12%. Lo stesso hanno fatto anche gli altri 24 colossi digitali: nel 2020 il 40% del loro utile ante imposte è stato tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con un risparmio di€10,7 miliardi nel 2020 e di 24,5 dal 2018.

L’elusione riguarda anche l’Italia. Tutte le 10 società del gruppo Amazon presenti nella Penisola sono controllate da holding estere, sette da “scatole” lussemburghesi. Le controllate italiane del colosso dell’e-commerce, su un fatturato di 1,93 miliardi, hanno pagato solo 24,3 milioni di imposte, con un’aliquota formale del 34,5%. Ma l’edizione 2020 del rapporto di Mediobanca ha dimostrato che il fatturato reale generato in Italia da Amazon nel 2019 “valeva” 4,5 miliardi, mentre dai bilanci disponibili delle società italiane emergeva un giro d’affari di appena 1,1. Nemmeno l’imposta globale sui redditi delle multinazionali, varata a ottobre, risolverà la situazione perché offre una scappatoia tecnica decennale. Pure la web tax nazionale è un’arma spuntata: l’Italia ha siglato un accordo con gli Usa in base al quale – in cambio della rinuncia di Washington ai dazi sulle nostre merci – il gettito sarà detraibile dalle imposte locali delle aziende Usa. Secondo il Guardian, nel 2020 Amazon ha ottenuto in Europa un fatturato di 44 miliardi ma non ha pagato l’imposta sulle società grazie a un accordo fiscale con il Lussemburgo firmato grazie all’ex premier (poi presidente della Commissione Ue) Jean-Claude Juncker. Su questo fronte, il 12 maggio scorso il colosso ha vinto la causa alla Corte di giustizia europea contro Bruxelles che le chiedeva di pagare 250 milioni pari ai benefici fiscali “illegali” ottenuti dal Granducato. L’escamotage fiscale, evidentemente, paga.

L’escamotage per fare incetta di “interinali”

Una “strategia abusiva” che arreca danni ai “concorrenti di logistica per e-commerce” accrescendo “il divario tra il potere di Amazon e quello della concorrenza”. Non c’è solo la multa da 1 miliardo e 128 milioni di euro dell’Antitrust a preoccupare Amazon in Italia. L’abuso di posizione dominante, come messo nero su bianco dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, viene perseguito anche con una serie di scappatoie sui contratti utilizzati per gestire la forza lavoro. Il “modello Amazon”, che oggi viene copiato dalle principali multinazionali logistiche come FedEx o Dhl, si basa sul fatto che oltre la metà dei lavoratori siano assunti in somministrazione attraverso le Agenzie del lavoro, aggirando i limiti di legge e dei contratti nazionali, per far fronte a temporanei incrementi sui volumi di merce come in occasione di Black Friday, Cyber Monday o Prime Day – eventi e prassi speciali finite nel mirino dell’Antitrust.

L’esempio più eclatante è quello di Castel San Giovanni (Piacenza), dal 2011 il primo maxi-hub di Amazon Italia Logistica srl. Il colosso impiegava nel polo logistico 1670 unità assunte a tempo indeterminato nel 2017 e ben 1702 lavoratori in somministrazione. Siamo ben oltre il limite del Contratto collettivo nazionale (Ccnl) del Terziario dell’epoca che impone che la somma di tempi determinati diretti e interinali non possa superare il 28% dell’organico a tempo indeterminato totale impiegato. Amazon aggira questa soglia con un escamotage normativo: sugli oltre 1702 operai interinali 1218 sono appartenenti alla categoria dei lavoratori cosiddetti “svantaggiati” o “molto svantaggiati” che non vengono conteggiati in questo computo. Idem nel 2016: 1072 operai a tempo indeterminato e 1608 lavoratori somministrati di cui 1481 “svantaggiati”.

I numeri emergono da un contenzioso fra la multinazionale fondata da Jeff Bezos e un lavoratore immigrato iscritto al Si Cobas di Piacenza dopo la notifica di un verbale di accertamento da parte dell’Ispettorato del Lavoro. Chi sono allora questi soggetti “svantaggiati” a cui Amazon offre la possibilità di un reinserimento in società e nel mondo del lavoro? La definizione, figlia del Regolamento 651/2014 della Commissione europea recepito dal ministero del Lavoro nel 2017, è molto vasta. È “svantaggiato” chi non ha un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi (inclusi i liberi professionisti sotto certe soglie di reddito), i giovani fra i 15-24 anni, chi non possiede un diploma di scuola media superiore o ha completato gli studi da meno di due anni senza avere ancora ottenuto il primo impiego regolarmente retribuito. Ancora: gli over 50; gli adulti che vivono soli ma con una o più persone a carico; le donne occupate in settori dove il tasso di disparità uomo-donna supera il 25% rispetto alla media del proprio Stato oppure chi appartiene a una minoranza etnica e ha la necessità di migliorare la propria formazione linguistica e/o professionale per aumentare le prospettive di accesso a un’occupazione stabile. È invece “molto svantaggiato” che è privo di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi.

L’operaio di origine senegalese che ha portato in causa Amazon era in forza all’agenzia Gi Group e ha prestato servizio più volte negli anni per la società del gruppo che si occupa della gestione di depositi dove vengono ricevuti, stoccati, impacchettati e spediti gli articoli acquistati sul sito di Amazon. Chiedeva la regolarizzazione del proprio rapporto di lavoro. Nell’estate 2021 la multinazionale ha conciliato la causa davanti alla Corte d’Appello di Milano e da allora non ha mai pagato quanto dovuto. Tanto che nelle scorse settimane si è vista recapitare in sede un ufficiale giudiziario per reclamare le somme come avviene nei confronti di aziende moribonde sotto pignoramento, caso più unico che raro per una delle principali corporation al mondo per fatturati e capitalizzazione di mercato.

E-commerce, Ne reste rà solo uno: Amazon

Un sistema verticale e chiuso, che parte dal commercio elettronico per allargarsi all’inventario, al magazzino, allo smistamento e distribuzione pacchi: i servizi collaterali di Amazon, ma soprattutto la loro accessibilità condizionata, imbrigliano venditori e clienti perché, mentre concedono grossi vantaggi in termini di tempo ed efficienza, di fatto monopolizzano l’intero settore e impediscono la concorrenza. L’Antitrust italiana ha così comminato una multa da 1 miliardo e 128 milioni al gigante dell’e-commerce Amazon (nel dettaglio, ad Amazon Europe Core, Amazon Services Europe, Amazon Italia Services e Amazon Italia Logistica) per abuso di posizione dominante, concludendo che “la posizione detenuta da Amazon sul mercato italiano dell’offerta di servizi di intermediazione su marketplace è difficilmente contendibile non soltanto da parte dei concorrenti attuali, ma anche da parte di nuovi operatori che entrassero sul mercato”.

Il loop è difficile da interrompere: Amazon gode di “effetti di rete”, ovvero dell’aumento di importanza e valore all’aumentare inarrestabile del numero di consumatori e venditori che usano la piattaforma; della riconoscibilità del marchio e dei programmi di fidelizzazione (con annessi vantaggi) per i consumatori, come Prime che in Italia ha più di 7 milioni di abbonati. Elementi che sono barriere all’ingresso che ormai solo Amazon può eliminare o attenuare.

La costruzione di questo sistema si è evoluta nel tempo e non ha risentito dell’aumento delle tariffe imposto ai venditori terzi, consapevoli di non poter fare a meno del marketplace, cioè del sito Amazon.it. Sviluppo verticale, per Amazon, significa il controllo autonomo di quasi tutte le fasi dell’e-commerce “business to consumer” (B2C). Dall’azienda a casa del consumatore, insomma, perché il colosso è sia venditore di prodotti suoi che vetrina per venditori terzi ma gestisce anche i servizi di logistica (la Fba). Una struttura costruita nel tempo, servizio aggiuntivo dopo servizio aggiuntivo. Un venditore che all’inizio poteva usare la piattaforma solo come “affaccio”, pagando magari una commessa su questa operazione, col tempo si è visto proporre altri servizi Amazon, dall’assistenza clienti al magazzino al punto di smistamento (negli ultimi anni in Italia ne sono nati diversi). E poi impacchettamento, spedizione, reso, possibilità di far parte della comunità “Prime” con ricadute positive sulla preferenza dei clienti e la visibilità dei prodotti sulla piattaforma rispetto agli altri “non Prime”. Di fatto il sistema, che nella forma lascia sempre spazio all’indipendenza dei venditori, liberi di usare i propri magazzini o servizi di spedizione, finisce per favorire le vendite di chi si affida mani e piedi, vetrina e distribuzione, al colosso. Tenendo sempre bene a mente che Amazon vende anche prodotti di Amazon.

I numeri sono chiari. Nel 2019 il colosso ha macinato il 75% dei ricavi e-commerce dall’offerta di servizi di intermediazione ai venditori. Nello stesso anno, oltre il 70% delle loro vendite totali su marketplace in Italia è avvenuta su Amazon. La logistica ha un ruolo chiave perché l’azienda, secondo l’Antitrust, ha vincolato l’etichetta Prime al suo servizio integrato di logistica (Fba). Sempre i numeri forniscono l’entità di questo problema: se nel 2012 un abbonato Prime (a cui sono garantite spedizioni gratuite rapidissime con un abbonamento annuale) spendeva in un anno circa un terzo in più di uno non-Prime, nel 2019 la sua spesa media annua è arrivata a oltre 500 euro, più del doppio di quella dei non abbonati. Oltre il 70% di questa spesa riguarda prodotti con l’etichetta Prime. “Inoltre – spiega l’Antitrust – ai venditori terzi che usano Fba non viene applicato lo stringente sistema di misurazione delle performance cui Amazon sottopone i venditori non-Fba e il cui mancato superamento può portare anche alla sospensione dell’account del venditore”. Neanche l’aver da poco introdotto un programma Prime gestito dal venditore senza dover usare la logistica dell’azienda è bastato, “visto il ruolo pervasivo che Amazon continua a svolgere nell’intermediazione tra venditori e operatori di logistica, definendo tariffe e condizioni di consegna”. Al punto che la percentuale di ordini dei venditori terzi gestita con Fba è passata da meno del 30% a 2016 a più dell’80% a fine 2019.

L’ecosistema è talmente superiore ai competitor che l’alternativa non viene contemplata neanche quando aumentano i costi. L’Antitrust ha anche commissionato una ricerca indipendente e ha chiesto ai retailer come si comporterebbero a fronte di un aumento del 5-10% delle commissioni complessive sull’intermediazione su marketplace. Un terzo dei rispondenti, dal quale proviene il 63% dei ricavi del gestore della piattaforma, continuerebbe a vendere sul marketplace nonostante l’incremento di prezzo. Infatti su Amazon, rileva sempre l’Antitrust, “la tariffa di stoccaggio e quella di spedizione sono aumentate considerevolmente negli ultimi anni” senza alcun riverbero negativo. Anzi. Secondo i venditori le tariffe che si pagano per la permanenza del prodotto sugli scaffali di Amazon sono addirittura maggiori di quelle di altri servizi simili. Al punto che chi vende di più paga di meno perché si riduce una sorta di “tassa di permanenza” degli oggetti in magazzino. Poiché l’azienda non permette al venditore di collegare il proprio shop Amazon con altri sistemi e servizi esterni complementari, i retailer restano sulla piattaforma per non pagare due volte.

Un altro aspetto rilevante riguarda la preponderanza di Amazon nel sistema delle spedizioni. Nel 2019, il volume di pacchi gestiti attraverso la logistica del colosso è stato pari al 60-70% del totale dell’e-commerce in Italia. Nel 2016 questa percentuale era intorno al 20-30%. Il paradosso è che, secondo l’Autorità garante delle comunicazioni, Amazon rappresenta il primo e, di gran lunga, il maggiore cliente sia per i corrieri che effettuano prevalentemente consegne e-commerce (ad esempio Poste Italiane), sia per i vettori che effettuano consegne B2C (dall’azienda al consumatore) e B2B (da azienda ad azienda) come Ups, Dhl, gruppo Fedex-Tnt. Nel B2C la quota di mercato del gigante valeva il 4% nel 2016, il 20% nel 2018, il 36% l’anno scorso. Agcom stima che salirà al 51% a fine anno e al 66% nel 2022. Di questo passo, resterà l’unico operatore del settore.

Oltre alla sanzione, l’Antitrust ha imposto ad Amazon di concedere pari condizioni ai venditori terzi ed evitare di negoziare per loro conto le tariffe con i suoi concorrenti nella logistica. Misure che saranno controllate. Dal canto suo, il gigante ha annunciato ricorso e ricordato che “più della metà delle vendite annuali su Amazon in Italia sono generate da 18mila piccole e medie imprese: il loro successo è al centro del nostro modello”.

“Il governo ignora chi soffre, lo sciopero non è lesa maestà”

Anche i moderati, nel loro piccolo, s’incazzano? Sorride Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della Uil che ha deciso di promuovere insieme alla Cgil il primo sciopero generale dell’era Draghi per giovedì 16 dicembre.

Ora ci ha messo lo zampino anche l’Authority chiedendovi di spostare la data. Un altro bastone fra le ruote?

Questo lo lascio dire a lei. Noi presenteremo le nostre controdeduzioni e confermiamo la data: il 16 si sciopera.

Non si può dire che godiate di buona stampa. “Che errore proclamare questo sciopero generale”, vi ha rimproverati il Corriere, seguito a ruota dagli altri giornali. Stupore, fastidio, imbarazzo, sono le parole più gentili con cui venite apostrofati dai partiti filogovernativi. Che vi è preso, Bombardieri? La Uil non era, per l’appunto, un sindacato moderato?

In effetti è una reazione impressionante. Vedo una stampa tutta schierata a dispensare giudizi anziché prendersi la briga di raccontare la sofferenza sociale. Sono colpito da tanta acredine. Noi esercitiamo un diritto costituzionale. Diamo voce a una parte del Paese che chiede aiuto. Ci fan passare per sovversivi, io e il mio amico Maurizio Landini. Par quasi che ci siamo macchiati di lesa maestà. Abbiamo proclamato 8 ore di sciopero, mica un mese; una protesta che i lavoratori pagheranno di tasca loro. Semmai questi cultori del pensiero unico dovrebbero ringraziarci.

Ringraziarvi, e perché mai? Dicono che è inopportuno scioperare nel mezzo della pandemia, sotto Natale, alla vigilia del voto per il Quirinale…

Abbiamo escluso dallo sciopero sanità e servizi essenziali. Terremo cinque diverse manifestazioni per fare in modo di rispettare i protocolli anti-Covid. Dovrebbero ringraziarci per come esprimiamo dissenso rispetto a una manovra iniqua che, pur di sedare le ansie elettorali dei partiti, trascura i bisogni delle fasce più deboli della popolazione. Dovrebbero ringraziarci perché solo il sindacato è in grado di incanalare democraticamente il disagio di cinque milioni di poveri, un numero spaventoso e in crescita, scongiurando reazioni pericolose. Tutti i giorni incontriamo persone in lacrime, ridotte alla disperazione e abbandonate a se stesse.

Come spiega l’ostilità di cui siete oggetto?

È un segno di debolezza. Ma davanti a queste reazioni scomposte mi rafforzo nella necessità di andare controcorrente. Quasi mi verrebbe da dire che lo sciopero ha già ottenuto il suo scopo: criticare un governo incapace di riformare il sistema fiscale. Di fatto viene assecondata una deriva prolungata, favorevole ai redditi d’impresa a scapito dei salari. Ma lo sa che la tassazione dei redditi d’impresa si è dimezzata? Nel 1995 l’aliquota era del 53%, dal 2018 è del 27%. Mentre la pressione sui lavoratori è aumentata.

Draghi ha cercato di venirvi incontro con un provvedimento redistributivo: il contributo di solidarietà a carico dei redditi sopra i 75 mila euro per pagare il caro bollette dei più bisognosi. Sono stati i ministri della destra a porre il veto.

Certo è un episodio simbolico, anche se si trattava di soli 250 milioni di gettito: ai benestanti non si è osato chiedere neanche un sacrificio temporaneo di poche centinaia di euro. Ma la rottura si era già consumata. Noi chiedevamo interventi sostanziali per le categorie che hanno sofferto di più, fino a 26-27 mila euro di reddito. Niente da fare. Così come si è rinunciato al varo di provvedimenti efficaci contro l’evasione fiscale. Ha notato che i giornali, tanto impegnati a criticare il nostro sciopero generale, se ne disinteressano completamente? Per non parlare del decreto di contrasto alle delocalizzazioni, promesso ma sparito dall’orizzonte.

La bocciatura di quel minimo contributo di solidarietà sugli alti redditi conferma che in Italia è da temerari proporre politiche di redistribuzione della ricchezza.

Già, si leva subito, a sproposito, una canea contro lo spauracchio della patrimoniale. La primavera scorsa noi della Uil avanzammo la proposta, tipicamente keynesiana, di una Excess profit tax. Ovvero di un prelievo temporaneo, badi bene, non su tutti gli utili d’impresa, ma solo sulla quota di vantaggi competitivi goduti da aziende prosperate grazie alla pandemia: farmaceutiche, servizi, logistica. Lo si è fatto negli Usa, mica in Unione Sovietica. Ma in Italia questo resta un argomento tabù.

L’altro grande tabù che state violando è quello del conflitto sociale. Ricorda Draghi all’assemblea di Confindustria? Sostenne che la crescita italiana fu arrestata negli anni Settanta dalla “totale distruzione delle relazioni industriali”.

E invece è vero il contrario. Il conflitto sociale non solo è fisiologico, in democrazia. Ma diviene fattore di progresso se gestito con responsabilità. Invece demonizzarlo, come se lo sciopero generale fosse un atto eversivo, ottiene l’effetto opposto.

Riecco Michetti: “Fondo il partito degli educati. Mi vedo ministro”

“La gentilezza è la figlia maggiore del rispetto e dell’educazione, come si dice. E sono sicuro che c’è spazio per un partito che dice buongiorno a tutti, amici e avversari. Che sorride al mattino”. “Enrì, vuoi fare politica?” “Mi piacerebbe che ci fosse spazio per il partito degli educati. Mi ci vedrei bene. E la politica mi appassiona, vedrai che nell’anno nuovo qualche sorpresa ci sarà. La gente dà fiducia a chi è capace di risolvere problemi. E io so risolvere problemi, ho le competenze. Mi conoscono di qua e di là. Non è mai successo che qualcuno abbia avuto da ridire su di me. Nemmeno Giorgia che nei miei riguardi è stata veramente unica: voglio che vai al Comune e governi bene. Scegli tu da solo. Questo mi disse”.

Rieccolo, è proprio lui, Enrico Michetti. Il mister Wolf che Giorgia Meloni annunciò per la salvezza di Roma, candidato al Campidoglio ma trombato con un “laconico” risultato, come egli spiegò, e già perduto nella nebbia (del resto anche i suoi manifesti erano stati predittivi: “Michetti chi?”). Il professore, l’avvocato, il tribuno radiofonico, o anche il signor Nulla, che in soli cinquanta giorni di campagna elettorale è divenuto l’imperatore del luogo comune, irrompe nel bar gelateria da Toni, quartiere di Monteverde, alle 8:30 precise. È il luogo amico, l’angolo delle confidenze e degli incontri casalinghi, la sosta obbligata sulla via del lavoro. Si accomoda al tavolo, e come il geometra con le piantine catastali da rielaborare, illustra, disponendo sul tavolo un plico esagerato di cartelline (tutte a titoletti) al tizio in apparenza piuttosto sconsolato, le sue mosse future. Intanto caffè e cornetto.

“Ho sempre rifiutato i toni volgari. Nessuno che mi conosce immagina che io possa dire volgarità, offese”. “Chi ti conosce sa che sei uomo d’altri tempi”. “Nooo, non è che essere gentile è una qualità di cui vergognarsi. Essere gentile è uno stile di vita. E poi, scusami: competente. So di quel che parlo, e lo so non perché lo dica io ma perché è la mia storia professionale a rendere verità a quel che dico. Nel Lazio non c’è un solo Comune che non abbia chiesto la mia consulenza per districarsi nella foresta delle leggi, nelle difficoltà di fare appalti, nelle determine dirigenziali. I sindaci sono nelle mani dei burocrati. Io li affranco da questa schiavitù”.

“Sei nel campo degli enti locali da trent’anni”. “Ho contato 880 sindaci di centrosinistra che hanno chiesto un aiuto a me”. “Ammazza!”. “Più tutto il resto. Nessuno che possa dirsi insoddisfatto del mio lavoro. Con me Roma avrebbe svoltato”. “Non ti hanno capito”.

“Guarda, l’unica difficoltà mia è stata di aver accettato una corsa a perdifiato. Avrei avuto bisogno di un anno, non di due mesi”. “Enrì, altre quattro settimane e avresti vinto, te lo dice il sottoscritto”. “Ti credo. Avrei non solo vinto, ma capito subito cosa fare di questa città. Gli altri non sanno niente”. “Niente”.

“Sai chi mi ha stupito? La Raggi. L’ho incontrata. È una tosta e in questi anni ha studiato e si vede. Adesso aveva il Campidoglio in mano”. “Dei tre candidati preferivi la Raggi? L’hai incontrata?”. “L’ho incontrata e ti dico che sa tutto, è padrona di ogni iter burocratico. Mi ha fatto vedere il lavoro per l’Expo. Eccellente”. “L’hanno buttata fuori”. “Acclamata quando non sapeva far nulla e giubilata quando invece aveva imparato tutto. È un altro paradosso, caro mio”.

“Vuoi entrare in politica?” “Ci sta. Ci sta che da tecnico…. ma ci sta anche che chissà. Ogni mattina mi ferma per strada un sacco di gente, nessuno che abbia una parola scortese. La gentilezza è una qualità, lo stile è una qualità. Quando quelli mi volevano far dire dei comunisti, dei cosacchi a San Pietro, chi pensava che io dicessi loro porcherie, beh l’ho stoppato: da me non avrete una sola parola scortese”. “Regolare”. “L’avversario si affronta mica si insulta?”. “Regolare”. “Mi ci vedi che rispondo in modo sgarbato?”.

“Loro però ti hanno insultato”. “Non ho risposto sapendo che questo mio atteggiamento sarebbe potuto essere frainteso”. “Vabbè”. “Guarda che Giorgia Meloni non mi ha detto di andare al Comune e mettere i suoi amici. M’ha detto: vai e governa bene. Se governi bene Roma poi vinceremo le Politiche”. “Però dopo è stata titubante”. “Io non mi lamento. In meno di due mesi ho fatto ciò che si poteva fare. Il centrodestra a Roma è più debole di quel che si pensa. Da un po’ che sta sul 30 per cento e non si muove da lì”.

“Ti attaccavano anche gli amici”. “E i giornalisti li hai visti come mi hanno dipinto? Ma tutti rispondono a un padrone. Io sono fuori dalle lobby dei costruttori, da quelli che contano sempre e fanno scrivere cose”.

“Che vuoi fa’?”. “M’hanno detto che parlavo di Cesare, se so’ messi a ride per Augusto. Pensa alle buche e non all’imperatore. Ma scusa? Siamo a Roma, e questa città è stata la Capitale del mondo intero. Possibile che un riferimento alla storia sia sbagliato? È la culla del diritto, il Diritto romano è un esame fondamentale ancora oggi a Giurisprudenza. Pensa solo agli acquedotti che hanno costruito. Pensa a quanti furono costruiti, a che mirabile operazione di ingegneria idraulica. Sbagliavo a dirlo?”.

“Ma ti candidi?”. “A me la politica appassiona e se intravedo il varco io mi ci incammino”. “Ma fai un partito?”. “Costruire un movimento che cambia il modo di porsi, che mette al primo posto l’educazione e la competenza secondo te sarebbe visto con sufficienza? Io ci vedo un futuro”. “Anche da tecnico in un ministero dopo le elezioni”. “Da tecnico. Tutta la mia vita l’ho vissuta da tecnico. Non sai quanta gente mi ringrazia e mi rispetta”. “Ci facciamo una spremuta?”. “Sì, falla portare”.

Convegno nucleare Verdi: “Inopportuna presenza governo”

Che al convegno del 15 dicembre Il nucleare decisivo per la transizione energetica, organizzato a Roma dall’Associazione italiana nucleare, partecipino esponenti di governo, il co-portavoce nazionale di Europa Verde, Angelo Bonelli, lo considera “inopportuno e preoccupante, per di più se pensiamo che tra pochi giorni la Commissione europea deciderà definitivamente sulla tassonomia verde Ue e che il parere dei governi europei sarà determinante se inserire il nucleare e il gas come energie verdi”. Per Bonelli, “stiamo assistendo, in Europa e in Italia, a un vero e proprio assalto dell’industria nucleare mondiale per verniciare di verde un’energia pericolosissima e costosissima. Una lobby che – spiega – non ha ancora risolto il problema della gestione delle scorie radioattive, che vuole mettere mano agli imponenti finanziamenti del piano verde Ue, sottraendoli alle rinnovabili, per sostenere il nucleare come quello francese, fortemente indebitato, che vive solo con i finanziamenti dello Stato”. Bonelli spiega di non mettere in discussione la libertà di opinione, di confronto e discussione “ma che il ministro agli Affari europei Vincenzo Amendola e la sottosegretaria al ministero della transizione ecologica Vannia Gava partecipino a un convegno a senso unico, che presenta il nucleare come energia verde, lancia un segnale preoccupante che delegittima un percorso democratico che, nel 2011, aveva bocciato per la seconda volta il ricorso al nucleare con un referendum”.