I numeri dicono altro: quasi tutti gli sbarcati partono da altri Stati

Le statistiche sugli sbarchi smentiscono la teoria di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. I due grillini hanno collegato le migrazioni dall’Africa al regime monetario basato sul Franco Cfa (la vecchia valuta coloniale, ancora usata in 14 stati del continente). Ma i numeri del ministero dell’Interno mostrano che solo una minima parte degli sbarchi del 2018 proviene da Paesi che adottano il Franco Cfa. I 23.370 migranti provengono principalmente da Tunisia, Eritrea, Iraq, Sudan e Pakistan, che con il Franco Cfa non hanno alcun legame. Dei Paesi che usano quella valuta, solo Costa d’Avorio (5%) e Mali (4%) hanno un impatto sugli sbarchi, mentre gli altri 12 Stati sono raggruppati alla voce “altre nazionalità” (tutte insieme valgono solo il 20%).

L’Onu e il seggio per l’Ue nel Consiglio di Sicurezza: quanti tentativi falliti

Un seggio permanente per l’Unione europea nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu: gli europeisti più convinti, i federalisti nel solco di Spinelli ne parlano dagli albori dell’integrazione; e, nel 1993, quando nacque l’Unione europea, qualcuno s’illuse che la speranza potesse diventare progetto. Utopia, almeno finché non ci sarà una politica estera comune europea: a deciderla, devono essere i governi; le Istituzioni non ne hanno il potere.

Del resto, l’architettura dell’Onu prevede che i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, dotati di diritto di veto, siano le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, che – non a caso – sono pure le potenze nucleari ‘legittime’: Stati Uniti, Russia – ex Urss -, Cina, Gran Bretagna e Francia. L’Europa è già sovra-rappresentata: non si tratterebbe di aggiungere uno strapuntino, ma di sovrapporre il seggio europeo a quello francese – ora che la Gran Bretagna se ne va -. Tentativi di riforma del Consiglio di Sicurezza si sono susseguiti, specie dagli Anni 90, e sono tutti abortiti: Giappone, Germania, Italia e ‘medie potenze’ come India, Pakistan, Brasile e altri, non avevano l’obiettivo di penetrare nel Gotha del diritto di veto, ma di rendere più frequente la loro rotazione fra i membri non permanenti. Non se n’è mai fatto nulla. E la stagione dei sovranismi non è la più favorevole a modificare la governance mondiale: il rischio è che chi ha già il potere se ne prenda di più. Altro che maggiore condivisione.

Il centrosinistra vince le suppletive a Cagliari, ma votano solo in 39mila

Dopo la vittoria alle suppletive il centrosinistra torna a sperare in Sardegna in vista delle Regionali del 24 febbraio, anche se l’affluenza è stata bassissima: appena 39mila votanti (il 15,56% degli aventi diritto) si sono recati alle urne per scegliere il sostituto del deputato “velista” Andrea Mura, il grillino travolto dalle polemiche e costretto alle dimissioni ad agosto per le sue assenze da Montecitorio.

A trascinare la vittoria di Andrea Frailis, candidato della coalizione Pd, Leu e Campo Progressista è stata la tradizionale “fedeltà” dell’elettorato militante di sinistra, in grado di garantire uno zoccolo duro di voti ad ogni tornata elettorale, mentre il voto di centro-destra e M5S, più fluttuante, non ha risposto al richiamo dell’urna in quella che deve essere sembrata ai più una partita secondaria rispetto a quella per il governatore che si giocherà di qui ad un mese.

Frailis, noto giornalista della tv locale sarda, ha conquistato il seggio con oltre il 40% delle preferenze, pari a 15.581 voti, con un netto vantaggio su tutti gli altri candidati a partire dal pentastellato Luca Caschili, arrivato secondo col 28,92% dei voti, nonostante il tour elettorale nell’isola di Di Maio e Toninelli. Anche Silvio Berlusconi era stato a Cagliari nei giorni scorsi per sponsorizzare la candidatura della forzista Daniela Noli, arrivata terza con il 27,80%.

Ma la parata dei big nazionali non ha sortito l’effetto sperato davanti alla “resilienza” di un elettorato infastidito anche dal mancato accorpamento fra elezioni suppletive e regionali, che avrebbe consentito un risparmio di 2 milioni di euro.

Quali scenari si apriranno di qui a un mese è difficile a dirsi: l’astensione record non autorizza facili trasposizioni. Analizzando i dati in retrospettiva però appare evidente la débacle di centro-destra e M5S che in poco più di un anno dalle Politiche del 4 marzo crollano nel collegio di Cagliari perdendo rispettivamente il 79 e l’82% dei voti: la coalizione di centro-destra passa da 51.318 a 10.707 voti, il M5S da 60.442 ad appena 11.139 in meno di un anno.

Pure il centro-sinistra scende rispetto alle politiche, ma in modo più contenuto, con un calo di consensi di “appena” il 57,2%. È presto per parlare di un’inversione di tendenza, ma dopo mesi di inseguimento la coalizione di Massimo Zedda inizia a credere davvero nella rimonta contro la corazzata sardo-leghista guidata da Christian Solinas.

Il colonialismo monetario di Parigi

La polemica antifrancese di Di Maio e Di Battista è una vecchia storia. Il dibattito sul neocolonialismo alla parigina parte negli anni Sessanta. Dc e Pci furono sempre ostili. Le sinistre europee ne fecero una loro battaglia così come i liberisti anglosassoni contrari al monopolio del mercato protetto franco-africano. Nella sinistra francese la questione fu molto lacerante, tra chi teneva alla grandeur e chi contestava. Gli ultimi a usare il tema sono state le estreme (sinistre e destre) occidentali: per ragioni opposte sovranisti e no-global non vedono di buon occhio la vecchia “françafrique”.

In Africa francofona la moneta comune, il franco CFA (acronimo da Colonie Francesi d’Africa a Comunità Finanziaria Africana), comprende 14 Paesi, in due zone. Fu istituito dopo la decolonizzazione degli anni Sessanta. Nella Guerra fredda gli Usa non potevano permettere libertà di scelta ai nuovi Stati africani. Così alla Francia fu affidata la “sua” parte di continente da tenere legata all’Occidente. Il Franco Cfa era uno strumento di tale politica, ma ci fu bisogno anche di invio di truppe, colpi di Stato e intrighi vari. Provarono a ribellarsi in molti. Il più noto è Thomas Sankara del Burkina Faso. Ma aveva iniziato il guineano Sekou Touré che nel 1958 si schierò con Mosca. I regimi burkinabé e guineano finirono in dittature. Ci furono anche polemiche economiche: senza una propria moneta – alcuni obiettavano – non si poteva svalutare, favorendo così le importazioni da Paesi senza Cfa, come la Nigeria o il Ghana.

La massa monetaria del Cfa è controllata da Parigi ed è costata e costa molto ai francesi. Ogni volta che c’è deficit, il bilancio nazionale francese copre le spese pazze dei “suoi” leader africani. Con l’euro le cose sono più controllate.

Chi ci ha guadagnato davvero con il franco Cfa è stata la parte del settore privato francese che investe in Africa (ha potuto eliminare i concorrenti europei). Fino al ’94 non fu possibile nessun aggiustamento, proprio per la contrarietà delle leadership africane che si erano costruite una fortuna sul franco ma che difendevano anche il monopolio sulle materie prime conquistato con una moneta stabile legata al franco francese. Dopo la morte del più influente tra loro, l’ivoriano Houphouet-Boigny, Parigi impose la svalutazione del 50%, l’unica finora. Fu un compromesso tra ministeri, Esteri (sostenitori della vecchia politica) e Finanze (stufi di pagare). Da Mitterrand a Chirac le cose non sono cambiate ma la volontà francese di difendere la propria “zona” a suon di milioni di euro è diminuita. Gli scandali (valigette di Cfa che facevano la spola tra Africa e Parigi per finanziare campagne elettorali o i diamanti di Giscard…) e la conoscenza che i leader africani avevano maturato degli intrighi politici francesi, alla fine hanno messo in luce un effetto boomerang: era l’Africa a influire sui processi politici parigini e non più il contrario.

La maggioranza della pubblica opinione francese non ha mai amato la Françafrique, men che meno le Ong o le chiese. L’ha solo sopportata fino a che le leadership della Quinta repubblica hanno avuto la forza di imporla. Con Sarkozy, Hollande e Macron le cose sono cambiate: con la fine della Guerra fredda e la globalizzazione, l’interesse francese è scemato. Restano in piedi solo reliquie dell’interesse privato franco-africano, alcune morenti altre ancora forti ma pronte a disinvestire all’occorrenza.

“È il Renzi francese”: l’assalto concordato al nemico perfetto

L’avversario è e rimarrà lui, Macron. Perché in campagna elettorale serve un nemico esterno che raffiguri l’establishment, e questo è un comandamento per ogni partito populista. E poi perché agli occhi dei Cinque Stelle “lui è il Renzi francese, quello che doveva fare il rottamatore e invece non ha cambiato nulla” come sostiene un big. Così ecco l’assalto ai “colonialisti francesi”, teorizzato nelle riunioni interne dal redivivo Alessandro Di Battista, ascoltatissimo.

Ma il M5S ha anche un’altra urgenza, spiegare che la linea sull’immigrazione non è la stessa di Matteo Salvini. Per recuperare a sinistra, e per apparire meno pericoloso in Europa. E una traccia della rotta si è vista anche nel Di Battista di domenica scorsa a Che tempo che fa. A disagio, quando gli è stato chiesto di spiegare la ricetta dei 5Stelle per fermare la strage nel Mediterraneo, anche perché non voleva attaccare frontalmente Salvini. Però alla fine l’ha detto, l’ex deputato: “Non risolvi il problema con i porti chiusi”. Frase ripetuta ieri (“i flussi non li fermi con i muri”), poco notata rispetto alla requisitoria contro Macron: “quello che ha firmato un manifesto dei progressisti con Renzi solo pochi mesi fa” ricordano. Quindi accostabile anche al nemico italiano. Per questo lo mordono alla gola anche Salvini e Fratelli d’Italia, terza gamba mancata del governo. Con un paradosso rumoroso ieri sera, visto che Di Battista e Giorgia Meloni negli stessi minuti e su canali diversi mostravano come lo sterco del Diavolo una banconota del franco Cfa, adottato da 14 Paesi africani. “Ma noi ne parliamo da mesi, in ottobre avevamo fatto anche un flashmob su questo” rivendicano da FdI. Però dal M5S insisteranno ugualmente contro la Francia, dopo che Di Battista è arrivato a invocare la revoca a Parigi del seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Anche perché c’è sempre il calcolo fatto più volte nelle riunioni interne, sulla possibilità che Macron possa essere il perno di alleanze oblique in Europa per tagliare fuori il Movimento, che invece vuole fare l’ago della bilancia a Bruxelles. Trattando (poi) anche con i moderati. E in quest’ottica si inserisce l’idea di Di Maio di candidare come capilista alle Europee esterni. Per pescare voti al centro, certo. Ma anche darsi un’immagine di partito aperto e trasversale, utile anche oltre confine. Però poi si torna al nodo: non schiacciarsi sul Salvini dei porti sbarrati. Insistendo invece sul proprio totem, la condivisione del problema immigrazione a livello europeo, con migranti ripartiti per quote tra i vari Paesi “in modo automatico e permanente”. Per questo ieri ai piani alti hanno accolto con sollievo le parole del presidente della Camera Roberto Fico, il cuore di sinistra del M5S, che ha ripreso la linea da programma dei 5Stelle: “O l’Europa decide di fare una politica estera comune nel Mediterraneo oppure è destinata a fallire”. Ed è stato quasi un ricompattarsi, da parte dell’ortodosso che con Di Maio si sente di continuo. Anche se le distanze restano, e infatti ha ricordato che “l’accoglienza è un valore fondamentale”.

Però va bene anche così al M5S. Da dove in settimana torneranno a inveire contro Bruxelles sull’onda di un rapporto realizzato dalla società di consulenza Milieu su mandato del Parlamento europeo, secondo cui la Ue spende 49 miliardi all’anno per (non) gestire l’immigrazione, mentre almeno 22 miliardi potrebbero essere risparmiati con nuove politiche. Così ecco l’eurodeputata del M5S Laura Ferrara, che al Fatto dice: “Vanno create vie legali di accesso alla Ue, con piattaforme europee di transito nei Paesi terzi considerati sicuri, così da identificare i richiedenti asilo e rilasciare visti umanitari”.

Poi però c’è il presente. Con il M5S che spesso suona le stesse note del Salvini dei muri. E che continua a picchiare sulle Ong. Difficile spiegare la differenza con il Carroccio, anche all’estero. E non stupisce quanto racconta una fonte di peso: “Governare con Salvini complica anche la costruzione del nostro gruppo in Europa. I Verdi francesi ce lo hanno detto più volte: ‘Se non foste alleati con la Lega, potremmo sederci attorno a un tavolo”. Invece niente. Così bisognerà insistere sulle differenze con Salvini. E allora ecco il sottosegretario Mattia Fantinati, dimaiano doc: “Siamo al governo assieme in Italia ma siamo forze diverse, noi puntiamo a una vera alternativa anche in Europa”.

Macron reagisce a Di Maio: l’imbarazzo della Farnesina

ICinque Stelle ribaltano l’agenda politica con un paio di colpi mediatici: la questione libica – i barconi, le tragedie, i migranti – diventa la questione francese. Il vicepremier Luigi Di Maio riprende il discorso di Alessandro Di Battista (domenica su Rai1) sul comportamento colonialista di Parigi e apre un nuovo fronte di scontro: “Quelli che vogliono sbarcare glieli portiamo a Marsiglia, chiederò all’Unione europea sanzioni contro quei Paesi che colonizzano l’Africa. Si parla solo degli effetti, dei morti in mare, ma l’Europa ignora quello che la Francia fa in Africa. Il franco delle colonie finanzia parte del debito di Parigi”.

I francesi reagiscono all’istante: Christian Masset, l’ambasciatore di Francia a Roma, spedisce una lettera di protesta al ministero degli Esteri; Teresa Castaldo, la rappresentante italiana a Parigi, viene convocata da Nathalie Loiseau, ministra agli Affari europei; il ministro Enzo Moavero Milanesi, a Bruxelles per degli appuntamenti istituzionali, incontra Jean-Yves Le Drian, il collega transalpino. “Parole ostili, inaccettabili”, è la sintesi dei francesi, supportati dal connazionale Pierre Moscovici, commissario europeo all’economia, che definisce Di Maio “un irresponsabile”.

Il duello verbale, però, è soltanto il preludio a una vendetta di Parigi. Tra documenti riservati e telefonate complicate, al ministero degli Esteri, esausti, riflettono: “Che vuole commentare? Benvenuti in campagna elettorale, per la gioia di chi lavora a destabilizzare l’Europa. Non sappiamo cosa dire al signor Masset. Adesso i francesi avranno un motivo in più per non sostenere le nostre posizioni sui tavoli internazionali”. Con equilibrismo diplomatico, la Farnesina ha sempre assecondato la strategia del governo di Giuseppe Conte sui migranti: l’indifferenza europea, l’esigenza di cambiare le regole, la necessità di condividere gli sbarchi. Quando il ministro Matteo Salvini celebra la chiusura dei porti, con diversa evidenza mediatica, c’è la Farnesina che avvia i contatti con i vicini europei, inclusa la Francia. Stavolta è diverso. Nessuno ha informato la diplomazia italiana, nessuno ha allertato le istituzioni, il ministro Moavero, Palazzo Chigi: la durata del silenzio misura lo spessore dell’imbarazzo. “Questo è un grosso risultato per la propaganda politica e un pessimo segnale per gli interessi italiani. Vanno calcolate le conseguenze di ciò che si dichiara”, aggiungono fonti diplomatiche.

Africa vuol dire soprattutto Libia. E proprio la Libia è storicamente un terreno di contrasto tra Roma a Parigi: la conferenza di pace, organizzata a Palermo, è servita a legittimare un ruolo per l’Italia. Appena una settimana fa, nonostante la tensione tra i Cinque Stelle e il presidente Macron sul movimento dei Gilet gialli, il premier Giuseppe Conte è stato in visita in Niger e Ciad per una missione autonoma, ma “preparata” anche con Parigi. Il putiferio diplomatico non ha influenzato Di Maio, che non ha ritrattato una sillaba.

Le opposizioni pretendono la convocazione in Parlamento di Moavero. Il ministro è costretto a esibirsi da funambolo: non può sconfessare un pezzo di governo né acuire la crisi con Parigi. È palese, però, la distanza tra Moavero e i Cinque Stelle. Questi episodi sono destinati a ripetersi con l’avvicinarsi delle elezioni europee di maggio. Così l’Italia si sdoppia in politica estera.

Sovranisti per forza

Uno fa di tutto per non diventare sovranista, poi legge che il Fondo monetario internazionale accusa l’Italia nientemeno che di “frenare l’economia mondiale”: e solo oggi, all’improvviso, tutto d’un botto. Prima no, anzi, eravamo l’ombelico del mondo, la locomotiva della galassia, il capofila dell’universo e non ce n’eravamo mai accorti. Poi il 4 marzo, per la prima volta nella loro storia, gli italiani hanno sbagliato a votare, e zac! Ora qualunque disastro accada sull’orbe terracqueo è colpa nostra. Se, puta caso, la pizza di fango del Camerun perde potere d’acquisto, c’è lo zampino dell’Italia. Spiace per le sorti degli aborigeni australiani, delle zingare del deserto, dei lama tibetani, delle balinesi nei giorni di festa e delle cavigliere del Kathakali: se se la passano male, sanno a chi dire grazie. Ai soliti italiani.

Uno fa di tutto per non diventare sovranista, poi scopre che il governo Macron ha convocato l’ambasciatrice italiana per le “dichiarazioni ostili e immotivate” di Di Maio e Di Battista sul neocolonialismo francese. Che è un po’ come se il governo egiziano convocasse l’ambasciatore italiano per la nostra scarsa collaborazione sul delitto Regeni. Cioè: il governo francese nasconde da quarant’anni decine di terroristi, assassini e tagliagole italiani aiutandoli a sottrarsi alla nostra giustizia e spacciandoli per perseguitati politici; il governo francese manda la sua Gendarmerie a sconfinare oltre la frontiera italiana per riportare migliaia di migranti che non ha intenzione di accogliere e poi accusa l’Italia di non essere abbastanza accogliente; il presidente francese Emmanuel Macron paragona i vincitori delle elezioni italiane a “una lebbra che cresce un po’ ovunque in Europa” e dava dei “bugiardi” ai nostri governanti che parlano di crisi migratoria, mentre ordina migliaia di respingimenti di migranti a Ventimiglia e tiene ben chiusi i porti francesi; la ministra francese Nathalie Loiseau intima al nostro governo di “fare pulizia in casa propria”, mentre il commissario francese dell’Ue Moscovici chiama i nostri governanti “piccoli Mussolini”; il portavoce del partito di Macron definisce “vomitevole la linea del governo italiano sui migranti”; il governo francese, dopo aver destabilizzato la Libia con la guerra del 2011, continua a soffiare sul fuoco sostenendo il noto galantuomo Haftar; e ora chi convoca chi? Ma per favore.

Uno fa di tutto per non diventare sovranista, poi trova su La Stampa un’articolessa di Bernard-Henri Lévy che racconta la prossima tournée teatrale di Bernard-Henri Lévy.

Siccome tocca fare tutto a lui, ora deve “fermare il populismo”. Con le nude mani. “Il mio – spiega il noto paraguru – è il contributo di uno scrittore alla nuova resistenza europea che deve organizzarsi senza tardare”. Mi raccomando, non prendete impegni: si parte il 5 marzo da Milano e si prosegue in “venti tappe in Europa prima del voto”, “con La Stampa media partner”. “Perché far partire da Milano una campagna contro l’avanzata del populismo?”, domanda Henri Lévy a Henri Lévy. Che, cortesemente, si risponde: “Perché è proprio lì, a Milano, che tutto è cominciato”. Con Mussolini? Con Craxi? No, con B. Ha impiegato appena 25 anni per accorgersene, meglio tardi che mai: “È dagli studi berlusconiani che sono uscite tutte quelle facce clonate, labbra arroganti, silicone e dentifricio, gel per i capelli e sorrisi da rappresentante, che sono diventate il marchio di fabbrica delle ‘democrature’ europee”. In effetti, dalle ragazze del Drive In a Orbán il passo è breve: una lettura così profonda che ci fa rivalutare persino il Biscione. Anche perché il primo Paese europeo dove B. riuscì a esportare le sue tette e i suoi culi siliconati fu proprio la Francia, grazie a Mitterrand che spalancò le porte a La Cinq quando l’ex trotzkista e maoista BHL gli suonava la trombetta. L’avvocato di B. era tal Sarkozy, poi asceso all’Eliseo fra i perepé di BHL.

Ma su questi e altri dettagli il paraguru sorvola, impegnato com’è a spiegare agli italiani quel che non capisce dell’Italia. Si pensava che si sarebbe preso una pausa, dopo la cattura di Battisti, il pluriassassino latitante che lui spacciava per uno “scrittore arrabbiato e imprigionato” e paragonava a Dreyfus. Invece coglie l’occasione per scagliarsi con chi l’ha finalmente assicurato alle patrie galere: “un dottore con credenziali false (Conte), un gradasso affetto da un’insana megalomania (Salvini) e un Pulcinella più pusillanime che capace (Di Maio)”, senza dimenticare la Raggi, che si porta su tutto e “consegna Roma alle erbacce e alla prevaricazione in proporzioni mai viste dai tempi di Catone il Censore” (viva Mafia Capitale!). Insomma: una “riedizione post-moderna del fascismo” agli “ordini di Mosca” e coi soldi degli “amici di Bannon”. In attesa che questo coiffeur pour dames esibisca, sul giornale che combatte le fake news (altrui), uno straccio di prova sulla falsa laurea di Conte, sui cablo di Mosca e sui dollari di Bannon, apprendiamo che gli manca tanto Renzi: ah quelle “sagge decisioni prese in passato, in un anno (febbraio 2014-dicembre 2016, ndr), dal vulcanico Matteo Renzi: diminuzione delle tasse (mai vista, ndr)… modernizzazione della giustizia (ma quando mai, ndr), fine degli sprechi delle Regioni (ma de che, ndr) …”! Che nostalgia! Purtroppo gli elettori non hanno apprezzato. Cose che càpitano, quando fai votare il popolo al posto di BHL. Il quale ora è molto “arrabbiato” e marcia su Milano “per via di Stendhal”, ma anche degli altrettanto incolpevoli “Dario Fo (che votava 5Stelle, ndr), Leopardi, Verdi, Brecht e i suoi Quattro Soldi”. Che poi erano tre, ma dev’essere l’inflazione.

Un antidoto alla rimozione: la Shoah spiegata in 34 pagine

L’esperimento, anche dal punto di vista letterario, è importante e riuscito: Piccola Autobiografia di mio padre, di Daniel Vogelmann (Giuntina editore), è un libro molto piccolo che racconta una tragedia molto grande. Racconta la Shoah in 34 pagine, attraverso un frammento dell’esperienza delle leggi, della fuga, della cattura, della deportazione, della morte di donna e bambina, del ritorno dell’uomo strappato da tutto e restituito per caso alla vita.

Il libro è breve perché l’uomo sopravvissuto non racconta e non racconterà nulla. A noi giunge la voce del figlio nato dopo lo strappo. Il padre, vissuto dopo la morte, deciso a non esserne il narratore, non aggiunge quasi nulla, e ci sono poche cose che il figlio riesce a ricomporre come “la vita, prima”.

In quel poco c’è rivelazione e conoscenza di ciò che è stato: attesa, timore, ansia, sospetto, speranza sbagliata, paura e, all’improvviso, il confronto irreversibile con il volto vicinissimo del carnefice, che non ha nulla da dire e nulla da risparmiare. La Shoah è questo, La morte generata come pensiero religioso e politico che deve realizzarsi comunque senza che neppure l’assassino voglia una ragione per uccidere, a parte l’identificazione dei milioni che devono essere sterminati.

Questo libro, di poche pagine, ti dice tutto in modo pacato e perentorio perchè nulla può essere omesso, anche se basta un accenno, e tutto è già stato detto anche se non è possibile spiegarlo. Resta un incubo, e l’incubo può essere usato nei due sensi: sapere oppure negare.

La forza del negare sta nell’insensatezza, tanto crudele quanto folle, dell’incubo che non si spiega se non come esplosione del potere nelle mani di persone accecate dal furore del decidere su vita e morte degli altri, persone che sanno come trovare una lista indiscutibile di colpevoli.

Sanno anche di poter contare su immenso silenzio durante e dopo, che rende facile come una malattia il bene organizzato sterminio, e trasforma il “dopo” in sobria e saltuaria partecipazione al dolore, anche con un pò di fastidio.

Ma sempre di ebrei dobbiamo parlare? Il libro di Vogelmann non vi intrattiene a lungo. Solo 34 pagine. C’è tutto.

Facce di casta

Bocciati

Altro che sulle punte
Lorella Cuccarini ha rilasciato un’intervista a tutto tondo che può fungere da guida comportamentale nei vari ambiti dell’agire umano: ha spiegato perchè il sovranismo sia l’unica strada possibile per sfuggire al pensiero unico della Finanza, ha dato una ripassata a papa Francesco su come debba comportarsi un buon cattolico e ha illustrato alle donne entro quale perimetro sarebbe più auspicabile che si muovessero. Sull’ultimo punto, “se ci sono più uomini ai vertici è perché sono più predisposti”, il commento definitivo è quello lasciato da un utente su Twitter: “Ecco brava, però adesso basta interviste che è sconveniente che una donna le rilasci senza il marito o il fratello che la controlli”.

4

Promossi

Uomini con la “u” maiuscola
Nello schiamazzo ignorante e feroce che ha accompagnato l’arresto di Cesare Battisti, si è distinta la voce di Alberto Torregiani, il figlio del gioielliere ucciso dal terrorista durante una rapina nel 1979: “Non trasformiamolo in un orco. Ho sentito che qualcuno si è lamentato che non scendesse dall’aereo in manette. Arriva in un aeroporto militare come Ciampino, circondato da 12 persone, vogliamo mettergli anche le catene ai piedi? Mi sembra esagerato. Mi aspetto che venga trattato con tutti i diritti e il rispetto che deve avere un detenuto”. Durante quella rapina Alberto venne colpito alle spalle e da allora vive in sedia a rotelle: la pallottola gli ha colpito la colonna vertebrale ma non gli ha nemmeno scalfito l’umanità.

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Molto rumore per Cesare
Pur considerando un’ottima notizia il rientro in patria di Cesare Battisti, ci siamo interrogati in molti se il clamore politico creato attorno alla questione, con tanto di parata di ministri ad attenderlo all’aeroporto, fosse opportuno. A scioglierci il dubbio c’ha pensato Guido Crosetto: “La Stato nella sua rappresentazione più alta, presidenti della Repubblica, Camere o membri del governo, nella mia logica antica e desueta si muove per accogliere personalità o servitori dello Stato o vittime italiane. Se si smuove per un delinquente, la ratio non è istituzionale”. E quale sia la ratio è abbastanza chiaro a tutti.

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C’erano una volta le vere Élite
“Le élite odierne non sono vere élite, non riescono a guidare nulla. Non sono ai posti di comando dello Stato né dell’economia. Si tratta di gruppi sociali o aggregazioni culturali eteroclite, spaventate e indebolite da cambiamenti di cui nessuno, in questo momento, è capace di misurare la portata. Se vuole, queste battaglie somigliano molto a quelle fra gang in un film come Gangs of New York di Scorsese”. Nel dibattito dominante di questi tempi, ovvero la distanza tra popolo ed élite, s’inserisce il punto di vista tutt’altro che scontato del filosofo Emanuele Coccia, che spariglia le carte sull’intera questione: se le élite occidentali sono non solo inutili, ma anche invise alla collettività, è perché non sono gruppi illuminati in grado di guidare gli altri ma residui passivi di quello che furono un tempo. Forse si potrebbe partire da qui.

8

La settimana incom

 

Bocciati

Ripeness is all Cose che si vedono al Tg1. In una canzone dell’ultimo album – titolo: “Per le strade una canzone” – Eros Ramazzotti duetta con quello di Despacito, Luis Fonsi. L’album pubblicato in 100 Paesi del mondo, ha debuttato al primo posto della classifica dei più venduti, è già disco di platino. La maturità (artistica) non è tutto (con molte scuse a Shakespeare e a Pavese per la citazione).

Keira vs Kate
Questione di K: Keira Knightley ha lanciato una dura critica post partum a Kate Middleton . “È impossibile apparire così perfette dopo appena 7 ore dal parto”. La Knightley ha scritto un capitolo del saggio “Feminists Dont’s Wear Pink (and Other Lies)”, di Scarlett Curtis in cui ha raccontato come lei si sentiva davvero quando nel 2015 è nata sua figlia: “Il corpo si spezza, il seno gocciola e gli ormoni sembrano impazziti”. Un’immagine molto splatter, decisamente diversa da quella di Kate che, solo poche ore dopo il parto, si era mostrata ai fotografi inglesi in forma smagliante. Ma, obiettiamo noi, forse la duchessa ha avuto un parto diverso. E poi dai, anche un po’ meno violenza.

Nc

Hugh&Ernest
Hugh Grant si è dimenticato la borsa nell’auto: il mattino dopo il finestrino dell’auto era rotto e la borsa scomparsa. L’attore, dopo aver fatto denuncia, ha deciso di lanciare un appello ai ladri. “Nell’improbabile ipotesi che qualcuno conosca coloro che hanno spaccato la mia auto stanotte e rubato la borsa per favore convinceteli a restituirmi il copione. Sono molte settimane di appunti e idee. Magari anche le tessere sanitarie dei miei bambini”. Speriamo abbia più fortuna di Hemnigway, la cui moglie smarrì un manoscritto alla stazione di Parigi.

Promossi

Divo Claudio
Quest’anno Baglioni ha portato una ventata di vera novità all’Ariston: 24 canzoni, molto variamente assortite. Davvero per tutti i gusti, in una panoramica che abbraccia diversi generi e generazioni. È sembrato più sciolto, più ironico, più a suo agio. Si è perfino censurato da solo quando si è accorto di parlare di sé in terza persona. Sarà una bella edizione del Festival, forse davvero nuova (al netto dell’imperdonabile trio di tenorini del Volo).

Is in the air?
Secondo New weekly sta nascendo l’amore tra Brad Pitt e Julia Roberts. I due sono amici da tempo ma siccome pare siano entrambi single… “Si parlano e si scrivono costantemente, e non solo per parlare di questioni professionali: è risaputo che lei si confidi con lui riguardo tensioni o problemi personali, viceversa è stata di grande aiuto a lui durante la sua terribile battaglia giudiziaria per il divorzio dalla Jolie”. La stessa fonte ha aggiunto che i due attori sarebbero uniti da “un’innegabile chimica e da un legame molto potente”. E niente, a Hollywood non ascoltano gli 883.