Ariete: evita l’esibizionismo social. Vergine sull’orlo di una relazione finita

ARIETE – “Ho deciso di non stare sui social. Sarà che una vita sotto i riflettori mi ha reso prezioso il poco privato che resta”, confessa Maurizio Costanzo (Mondadori). Stai lontano da Il tritolo e le rose, ovvero l’esibizionismo online, se vuoi ritrovare lucidità ed equilibrio sul lavoro.

 

TORO – “Il mondo di una donna è così pieno di sottotesti che tutti gli altri personaggi occorrono solo per raccontare ciò che sta succedendo nel suo cervello”: Chi è Eleni Haifa? Non lo sa lei, non Paul Mason (Castelvecchi), non tu, ma chi se ne frega. Concentrati su chi sei, cosa vuoi, dove vai eccetera: sei un po’ perso.

 

GEMELLI – Esistono Le cause innocenti (Garzanti)? Per Matteo Cerami sì: “Avevano scelto di restare soli. Non avevano altro compito oltre l’Arte, che in loro ha sempre prevalso sulla vita”. Epperò che palle. Scegliti amici migliori per la tua prossima fuga dalla città.

 

CANCRO – “Ora non puoi fare niente per lui, ma un giorno lo vendicherai”: anche tu, come Giaime Alonge (Fandango), provi Il sentimento del ferro, o meglio il risentimento. Lascia perdere, l’odio costa fegato e fatica, e lui non merita né l’uno né l’altra.

 

LEONE – In una delle avventure di Lucy Maud Montgomery (Gallucci), Anna dai capelli rossi esclama: “Sono emozionata, forse ancora non ho realizzato cosa è successo. Non capisco”. Ma basta: smettila di intellettualizzare sempre tutto. Non c’è niente da capire; c’è solo da godere: di un buon piatto di pastasciutta.

 

VERGINE – Luce rubata al giorno e saggezza alla follia: “Quando lo salutai sul vialetto, ricordo che mi sentivo strano, sull’orlo di qualcosa”. Fidati delle tue sensazioni e di Emanuele Altissimo (Bompiani): sei sull’orlo di una relazione – professionale – che sta per finire.

 

BILANCIA – Pecunia non olet (Chiarelettere), ricorda Alessandro Da Rold parlando di loschi figuri: “Non sono mai stati né prossimi né simili. Si rispettavano a vicenda perché entrambi, essendo intelligenti, sapevano riconoscere l’intelligenza altrui”. Rispetta il socio in affari, o ti farà le scarpe molto prima del previsto.

 

SCORPIONE – Wilbur Smith racconta La guerra dei Courtney (HarperCollins): “Che genere di uomo sarei se ti voltassi le spalle?”. Attenzione perché è una finta, una strategia del nemico per tenerti buono e impedire la tua vendetta, peraltro meritata (per lui).

 

SAGITTARIO – In Leica format (La nave di Teseo) Daša Drndic appunta: “La poesia ci ha colpito: ho pianto in croato!”. Che significhi nessuno lo sa, a parte te, che sei pieno di commozione per un amore che sta per tornare.

 

CAPRICORNO – I sogni calpestati di Sébastien Spitzer (Ponte alle Grazie) parla di Magda Goebbels: “I sogni si sgretolano quando diventano appassionanti. Quando ci catturano, ci ghermiscono, senza preavviso”. Stranamente i tuoi piedi per terra stanno per prendere il volo, ma occhio a non farti abbindolare da fatue promesse del cuore. Quale cuore?

 

ACQUARIO – Studiando La percezione della sicurezza nella società contemporanea (Armando) Simone Ricci parte da una domanda semplice: “Perché è importante riparare le finestre rotte?”. Perché poi piove dentro casa, così come nella tua precaria famiglia allargata.

 

PESCI – Ti incalza l’Addicted Paolo Roversi (Pde): “Ognuno ha un segreto da nascondere. E tu?”. Per risolvere i tuoi problemi di dipendenza – affettiva et al. – devi prima rispondere a questa domanda, ma evita, come tuo solito, di confidare la risposta all’amica geniale.

Qualcuno salvi il progetto di Pupi Avati: raccontare Dante tramite il Boccaccio

L’unico trattamento è il Trattatello. La più ghiotta delle sceneggiature – sia essa canovaccio per un film, sia per una destinazione tivù – è quella del Trattatello in laude di Dante Alighieri. È la scrittura – composta tra il 1351 e il 1366 – su cui Giovanni Boccaccio riversa la propria devozione verso il poeta che rende universale l’Italia. Ed è la partitura su cui oggi, Pupi Avati, già regista di due pellicole d’ambientazione medievale (Magnificat 1993 e I cavalieri che fecero l’impresa del 2001) realizza un progetto semplice e spettacolare: la vita del creatore della Divina Commedia raccontata attraverso l’autore del Decameron che del primo non fu solo un devoto ammiratore, bensì un geniale editor.

Dobbiamo al Certaldese, infatti, la titolazione delle tre cantiche – “Divina Commedia” – e sempre a lui, si deve il recupero, nella casa di uno dei tre figli di Dante, degli ultimi tredici canti del Paradiso dati per dispersi. Ed è sempre Boccaccio nel 1350, ventinove anni dopo la morte di Dante a Ravenna, a bussare – per conto della città di Firenze – alla porta del convento dov’è ritirata in preghiera suor Beatrice, la figlia dell’Alighieri, per consegnarle dieci fiorini d’oro di risarcimento da parte della città ingrata sempre verso il suo grandioso figlio.

Se sappiamo che si chiama Portinari l’altra Beatrice, infine – ovvero la celestiale guida del Paradiso, amata dal Poeta – è merito di Boccaccio il cui entusiasmo lo induce a cercare, incontrare e interrogare gli amici e i sodali di Dante e ricavarne così una puntigliosa narrazione viva e romanzesca che è già un film di suo per tutti noi italiani dimentichi di così travolgente grandezza.

Eppure, forse, è lettera morta questo progetto di Avati datato 2001. Il maestro è un bibliofilo e un cultore di dantistica tra i più ferrati. Il suo vanto d’erudizione – ben più che gli sterminati David e i Nastri – sono il Premio Le Goff e il riconoscimento dell’Istituto superiore di studi medievali Cecco d’Ascoli.

Fosse solo per perdersi nei raccoglitori delle schede bibliografiche del suo studio, in ogni cartoncino di quella biblioteca c’è il baluginare di una scena, un fotogramma, un dialogo da cui far svolgere un racconto che è l’autobiografia di tutti noi, un film perfino sfacciatamente pedagogico da cui imparare l’abicì dell’universale poetico ma che purtroppo – vista la scarsa considerazione che l’Italia ha di se stessa, raccontandosi solo per tramite della Dottoressa Giò – non troverà modo, verso e destino.

Faccio torto a Pupi, e volutamente lo faccio, nel raccontare l’arenarsi di questo suo progetto. Non è mai una gratificazione il non aver fatto “in luogo dell’aver fatto” ma ne parlo e violo la riservatezza affinché qualcuno – per esempio Ernesto Galli della Loggia, tra i più attenti nel dibattito pubblico – si accenda di curiosità su questo incidente d’indifferenza.

In un’Italia dove pure tutti abbiamo imparato a familiarizzare con l’Odissea attraverso un grande sceneggiato tivù, come pure con la grande e potente letteratura russa, fa specie.

Il presepio più bello del mondo è a Napoli (ed è poco visitato)

Posso parlare ancora del Natale napoletano? Tutti sanno che l’aspetto principale della festa è costituito dal Presepio, anche se oggi, fuor di Napoli, quest’istituzione è ricordata soprattutto per la commedia di De Filippo Natale in casa Cupiello. Ma il Presepio napoletano ha caratteristiche tali da farne un unicum. Il più bello del mondo si trova nel Museo della Certosa di San Martino (altri, alcuni preziosissimi, sono allocati in case private. Un tempo averne uno era un orgoglio patrizio e granborghese).

Questo museo è, per fortuna di chi ama tornarci, pochissimo frequentato; per disgrazia, invece, buona parte ne è chiusa per carenza di personale; la stessa chiesa, una delle più fastose del mondo ancorché di piccole dimensioni, si può scorgere solo dall’ingresso, così che le cappelle, diverse l’una dall’altra con arte somma e ornate di sculture della scuola berniniana, sono pressoché invisibili. Ma il Presepio “Cuciniello” è contemplabile.

Michele Cuciniello, morto nel 1889, architetto, ebbe vita avventurosa. Esulò a Parigi in quanto patriota, e quando tornò nella natia Napoli continuò un’attività di drammaturgo popolare che aveva iniziata nella capitale francese. Ma raccolse per tutta la vita i cosiddetti “pastori”, come metaforicamente si chiamano i personaggi dei Presepî. Nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento la voga di queste Sacre Rappresentazioni scultoree fu tale da far nascere una vera e alta forma d’arte della terracotta e stoffa preziosa, illustrata da scultori come il Sammartino e il Bottiglieri. Cuciniello collezionò il meglio che si trovava sul mercato, e il meglio della sua collezione venne da lui allestito nel 1879: è nello stato in che lo volle il grande mecenate.

Il Presepio nasce dalla rappresentazione della Natività, arte antica quanto la religione cristiana. Ma Napoli – parlo della Napoli storica, ché quella attuale è un indefinibile melting pot – cristiana non è mai stata: al massimo cattolica, giacché il cattolicesimo ha avuto il genio di sussumere quel paganesimo che storicamente aveva sconfitto. Così la Natività napoletana diviene altro dalla evangelica, sebbene una corona di angeli, che anche il Cuciniello ha scenograficamente disposta a benedire il suo Presepio, canti il Gloria in excelsis Deo. La canta al triumvirato sacro, il Bambinello, la Madonna, San Giuseppe, relegato nelle rovine d’un tempio pagano (la sconfitta degli “dèi falsi e bugiardi”) che, piccolo piccolo, quasi non si scorge nella ricchezza della scena circostante.

Il corteo dei Re Magi, con l’esercito, i servi, i nani, i buffoni, le scimmie, i cani e i leopardi al guinzaglio, e l’intera orchestra, ha un rilievo infinitamente maggiore. E poi ci sono le botteghe: la macelleria, i venditori ambulanti di pesce, carne cotta, frutta, verdura, la zingara che dice la ventura, i contadini vestiti a festa. E la Taverna: al di fuori della quale sono esposte le carni, i salumi, che si consumeranno. Il tempio del Cibo, ossia l’esorcismo verso la Morte. Il Bambinello viene a patire per redimere una Natura che d’esser redenta non ha nessuna voglia. Ecco il Presepio napoletano.

Ufficio di collocamento “X Factor”. Chi esce dal talent si dà allo spot

Tanto ’pe campà, meglio darsi alla pubblicità: l’ufficio collocamento X Factor non garantirà magari a tutti una carriera nel mondo della musica, ma nel marketing sì. Le ultime braccia, e volti e voci, rubate alla cultura e regalate alla réclame sono quelle di Elena Piacenti e Lorenzo Sutto (frontman dei Red Bricks Foundation), ex protagonisti della dodicesima edizione del talent e ora testimonial, rispettivamente, di una compagnia telefonica e di un’azienda della moda.

Grazie alla sua versione “per ukulele” di Io che amo solo te di Sergio Endrigo, la prima è passata da far piangere Asia Argento a far sorridere i telefonisti; grazie al suo indubbio charme, il secondo è passato, non inosservato. Punto. Sul palco del talent spiccava per la sua avvenenza, sul manifesto pubblicitario spicca per la sua avvenenza: ai posteri l’ardua sentenza sul suo talento canterino.

Sia Piacenti sia Sutto sono stati eliminati dalla competizione (ai Bootcamp e ai Live), ma una volta usciti dalla porta – e dallo schermo – sono subito rientrati dalla finestra, ripescati nel vasto mare del commercio: X Factor funziona benissimo come navigator di un centro per l’impiego. Di necessità virtù: se con la musica non si mangia, con gli spot sì, ché poi sempre di riflettori, di fama e di fame si tratta. E infatti alle lusinghe dei consigli per gli acquisti hanno ceduto anche artisti noti e affermati, o comunque attivi e produttivi: i Maneskin, ad esempio, hanno monetizzato il loro acerbo successo prestandosi alla campagna televisiva di una nota compagnia telefonica, sempre la stessa succitata, ancheggiando a favor di telecamera insieme con Federica Pellegrini, il ballerino Sven Otten e altri ragazzini sbarazzini. Il set era Piazza Navona, trasformata per l’occasione in una garrula piscina: anche la città ha dovuto adeguarsi al dress code smart casual, o giù di lì.

La moda del reclutamento musicisti iniziò nel 2012: la prima – sempre ex concorrente di X Factor – a prestare corpo e voce alla pubblicità fu Chiara Galiazzo, vincitrice della sesta edizione. Qualche mese dopo la si ritrovava ancora in video, con il “suo” tormentone Over the Rainbow, come testimonial di una nota compagnia telefonica (che ve lo dico a fare…), evidentemente molto sensibile alle sorti degli artisti; altro che la Bacchelli.

Sempre in quella edizione concorrevano anche Le Donatella, al secolo le gemelle Giulia e Silvia Provvedi, che, nell’estate del 2013, si esibirono con Juan Magán nel brano Mal de amores, colonna sonora dello spot di un gelato famoso, famoso soprattutto per aver lanciato Stefano Accorsi.

Alle due musiciste non andò altrettanto bene, né nella pubblicità né nel cinema, ma trovarono comunque il modo di farsi notare nelle cronache rosa, posando per riviste patinate e partecipando a show televisivi come L’isola dei famosi e il Grande fratello vip. Ma questa è un’altra storia, e soprattutto tutt’altra musica.

A Sanremo Di Capri pare Baudeleire

Arieccoci. Comincia la quarantesima edizione di Sanremo e con Manolita non stiamo nella pelle, o meglio io, lei subisce il mio entusiasmo. Perché a me di Sanremo piace tutto, dalle acconciature ai mille fiori che adornano il palco, per non parlare dell’orchestra che quest’anno è tornata, forse grazie al conduttore, Johnny Dorelli, l’uomo dalla voce orchestra, per natura portatore sano di orchestre. Tranne che per lui, Manolita ha una critica per tutto, tutto la irrita. L’altra sera se l’è presa con i parolieri: “Ma lo sai che c’è qualcuno che pensa che i parolieri siano dei poeti? Allora i poeti veri chi sono? Dante sarebbe un grande paroliere: nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura yeah yeah yeah”. E si mette ad analizzare le parole di alcune canzoni col piglio di una filologa romanza: le si alza il sopracciglio sinistro, le orecchie indietreggiano e mi fa anche un po’ paura. “Vattene amore, mio barbaro invasore…”. Sorride, le piace, dice che le ricorda Gozzano. Oddio, forse ha cambiato idea. “La nevicata del ‘56, Roma era tutta candida, tutta pulita e lucida”. Forse è per la voce di Mia Martini, forse perché è un capolavoro, Manolita esulta, salta sul divano, e applaude convinta. Sanremo l’ha conquistata. E giù paragoni audaci, i Pooh diventano novelli poeti cavallereschi, Toto Cotugno assurge ad allori danteschi, Christian è l’ultimo degli Stilnovisti, Peppino di Capri nasconde l’anima di un Baudelaire, i Ricchi e Poveri avrebbero un posto fisso alla corte di Lorenzo il Magnifico. Forse s’è lasciata prendere la mano, quello che è certo è che Sanremo l’ha plagiata e contagiata. Più di tutti è impazzita per Mietta e Minghi, piange. “In Trottolino amoroso ci sento Pascoli. Per non parlare di Dudu dadadà: “Non senti che odora di Futurismo? Vedrai, la canteranno i posteri”.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Anche nell’Impero c’era il problema dei tifosi violenti

Tessalonica, 390 d.C. Un auriga assai popolare aveva tentato di sedurre un giovane servitore di Butheric, magister militum per Illyricum, massima carica militare e preposta all’ordine pubblico. Denunziato in base alla legge contro la prostituzione maschile, l’auriga fu arrestato per ordine di Butheric. La decisione scatenò l’ira dei tifosi che, vistasi rifiutata la scarcerazione alla vigilia di un importante evento sportivo all’ippodromo, si abbandonarono a disordini poi sfociati in una rivolta popolare in cui perse la vita il magister militum Butheric. L’immediata reazione dell’imperatore Teodosio I fu una feroce rappresaglia culminata in un eccidio, noto come “strage” o “massacro” di Tessalonica. Bilancio: 7.000 morti.

Costantinopoli, 532 d.C. Nell’ippodromo, ormai sede non solo di eventi sportivi ma anche di partecipazione politica, esplodeva la virulenta rivolta di Nika tra il partito degli Azzurri e quello Verdi. Il palazzo imperiale fu scosso pericolosamente e Giustiniano riuscì a domarla solo grazie alla prontezza di spirito di Teodora e alla dura repressione condotta dal suo più valente generale Belisario. Bilancio: circa 30.000 morti.

Niente di nuovo dunque, se non nelle proporzioni, rispetto a ciò che accade oggi negli stadi. Né sorprende che il ferreo intreccio tra stadi, tifoserie e politica dall’antichità sia giunto ininterrotto sino a noi. Gli imperatori non sospendevano le manifestazioni sportive, ma di certo usavano una “mano molto pesante”. Bene ha fatto perciò il ministro della paura a non sospendere le partite, ma la sua mano non dovrebbe usarla per stringerne con leggerezza altre fuori dalla legalità.

Nella civile Germania l’antimafia la fanno solo gli italiani espatriati

Scusate se insisto. Ma li dovreste vedere questi italiani all’estero. Già una volta, raccontandoli, Il Fatto innescò la pubblica denuncia contro la catena di ristoranti spagnoli La mafia se sienta alla mesa, fino allo storico divieto di usare il marchio “mafia” nel commercio in territorio europeo. Purtroppo non è finita. Mentre vincono in Europa concorsi internazionali, e vi portano idee di impresa, o vi ottengono borse di dottorato o Erasmus, i nostri connazionali devono portare una croce tutta loro.

Risate sulla mafia, pregiudizi sulla mafia. Per fortuna hanno anche maturato un sano Italian pride. Sanno che il loro paese sta affrontando come nessuno al mondo la sfida con la criminalità mafiosa, e che per farlo ha pagato prezzi altissimi. Sono stati formati nella scuola ad assumersi nuove responsabilità civili.

Non tutti hanno scelto di farlo, ma chi ha creduto di poterci riuscire con una parola, uno scontrino fiscale, un rifiuto, una professione ben svolta, una denuncia, una stretta di mano, va per il mondo a testa alta.

Perciò vengono a testa alta anche in Germania. Nella nazione che mette tutti in riga sui conti pubblici e ogni tanto dedica all’Italia copertine con spaghetti e mafia. Ecco, li ho ascoltati a lungo, questi connazionali, in quello che è da molti considerato il cuore storico della Germania, la Sassonia. Lipsia e Dresda. E Halle, appena fuori.

Tutto largamente infiltrato dalla ‘ndrangheta calabrese. Sempre lei, certo, e non dimentichiamolo mai, se non vogliamo soccombere. Gli italiani hanno antenne sensibili. E non si divertono affatto quando nei ristoranti tedeschi trovano i menù alla San Luca, o alla Cosa Nostra. Per gli altri è folklore o al massimo cattivo gusto. Ma per loro è offesa intollerabile. Lo aveva già spiegato l’ex ambasciatore Pietro Benassi davanti a un catering dalle voci insultanti.

Maria Giuliana è venuta come lettrice di italiano alle università di Halle e Lipsia per il ministero. È siciliana, e ha affinato l’istinto negli anni della mattanza palermitana. Con due colleghi ha aperto gli occhi ai tedeschi. Risultato ottimo. Finite di colpo le cene di dipartimento davanti ai menù mafiosi. Molti ammettono di avere smesso di frequentare i ristoranti italiani grazie agli italiani. “Ho capito quello che prima non mi convinceva”.

Già, c’è sempre bisogno di italiani. È appena giunta notizia dell’ennesima operazione condotta contro narcotrafficanti calabresi dalle procure di Reggio e Caltanissetta. A Mannheim. Tutti si chiedono perché mai debbano venire i poliziotti dall’Italia a indagare e arrestare i narcotrafficanti in Germania e perché non lo faccia di sua iniziativa la polizia tedesca.

Sono in fibrillazione, i nuovi italiani. Mi scrive Maddalena Fingerle, dottoranda a Monaco, di sentirsi a disagio per non avere gettato tutto all’aria quando l’hanno invitata a un gioco di società, cena con delitto, e ha scoperto che era delitto di mafia.

Non si dà pace: “Forse ho sbagliato, forse avrei dovuto alzarmi, fare o dire qualcosa, ma non l’ho fatto e mi sento come se avessi fatto un torto a chi non se lo meritava”. E allora ne ha scritto, e si batterà perché nel suo ambiente non succeda più.

Si divertono tanto da queste parti con la mafia. Censura e pagine oscurate sui libri antimafia (“È la legge”), ma menù e ristoranti liberi di fare coi simboli apologia del delitto.

Per questo gli italiani reagiscono. Tra loro anche Gabriele Fantoni di Eine Welt, associazione di commercio equo e solidale in contatto con Libera, che vende i prodotti dei beni confiscati all’ università di Lipsia, dove con l’appoggio dell’Istituto di cultura italiana di Berlino è stato appena organizzato un dibattito sull’espansione della ‘ndrangheta in Germania. In inglese, perché non sia una cosa solo di italiani. Tempo fa, sempre Maria Giuliana ha ospitato una mostra fotografica su donna e mafia, Contro. Vite di donne in Sicilia.

La ciliegina arriva però alla fine. A Lipsia sono stati cancellati tutti i voli diretti da e per l’Italia. Tranne una rotta. Per Roma, la capitale? O Milano, la città degli affari? Nient’affatto, Reggio Calabria. “Andata e ritorno in giornata, ha capito? Giusto per andare giù, fare riunioni e prendere ordini”. Ha dell’incredibile, ma nella potente Germania la lotta alla mafia sembra patrimonio esclusivo degli italiani. È un nuovo made in Italy. Siamone orgogliosi.

A volte l’amicizia si logora “Succede come con certi amori: dopo un po’ finisce”

Cara Selvaggia, una cosa di cui secondo me non si parla abbastanza è la fine delle amicizie che si chiudono per le stesse ragioni per cui si chiudono certe storie d’amore: la stanchezza. Le strade che a un certo punto non si incontrano più. Evoluzioni diverse, esigenze diverse, vite diverse. Sono stata la migliore amica di V. per 21 anni. Ci siamo conosciute all’università, abbiamo condiviso appartamento, vacanze, aperitivi, lacrime, perfino un paio di uomini. Lei è diventata architetto, viaggia, cambia ancora uomini come mutande. È una donna di successo. Bella. Ricca. Ammirata. Io mi sono sposata presto, ho lasciato quasi subito una promettente carriera di designer, ho fatto due figli, ora sto aprendo una palestra di yoga con mia cognata. Con V. in questi anni ci siamo sempre viste, lei è stata mia testimone al matrimonio e madrina al battesimo delle mie figlie, abbiamo condiviso gioie e dolori, qualche weekend al mare. L’ho accompagnata ad abortire che aveva quasi 40 anni. Era rimasta incinta di un uomo molto serio, molto innamorato, molto illuso di avere un futuro con lei. Ma V. non ha mai fatto programmi a lungo termine con gli uomini e di quel figlio non ha voluto sapere. È allora che è successo qualcosa anche alla nostra amicizia. L’ho guardata, per la prima volta, mentre usciva da quella clinica privata (ero al parcheggio ad aspettarla) con occhi diversi. Quella che si avvicinava alla mia macchina era una donna molto bella, ma molto diversa dalla mia compagna d’università. Di ritocco in ritocco somigliava ormai a una Nina Moric più elegante ma ugualmente artificiale. Era al telefono, chiacchierava ridendo. Aveva appena abortito, sembrava una passeggera che si sta imbarcando per New York. Non so cosa mi sia scattato – forse lo covavo da tempo – ma credo che si tratti di quel qualcosa che succede dopo tanti anni insieme a un uomo che nel frattempo è cambiato o sei cambiata tu e ti accorgi che l’amore è finito. V. per me ormai era una cosa troppo lontana da me. Il suo cinismo, la sua paura dei legami, il suo amore per l’effimero ormai mi infastidivano. Io sono sciatta, ho da 16 anni lo stesso uomo, non lavoro, non viaggio per sentirmi rampante, odio il botox. Non gliel’ho detto ma dal giorno dopo ho iniziato a rispondere con pigrizia ai suoi messaggi, a inventare scuse quando dovevamo vederci, a sparire per lunghi periodi. Dopo un po’ ha capito. Non mi ha mai chiesto nulla ma ha smesso di cercarmi. Non ci sentiamo da un anno, ogni tanto mi manca, guardo le sue foto su Fb per vedere cosa fa ma sento che la nostra storia di amicizia era finita. Non avevamo più nulla da dirci. Certi amori si esauriscono. E pure certe amicizie.

Lucia

 

Cara Lucia,sei certa che V., ad un tratto, sia diventata qualcosa a cui non ti sentivi di somigliare e non qualcosa a cui ti sarebbe piaciuto somigliare? Perché vedi, in quello che racconti, si percepisce un retrogusto giudicante e vagamente invidioso di cui forse non ti sei resa conto. Sembri dire “io sono quella seria, quella che non abortirebbe, che non bada all’apparenza, lei è quella arrivista, vanesia e spietata”. V. lavora, è indipendente, ama piacere e piacersi, non si riproduce per un qualche cliché che la vuole per forza madre a 40 anni. Anche tu, per lei, eri un modello di donna distante dalla sua indole e della sue ambizioni. Ma evidentemente la vostra amicizia andava oltre e non giudicava. Le andavi bene così, mamma, sciatta, abitudinaria come ti dipingi. Così diversa da lei. Pensaci su. E domandati se era di lei, che ti sentivi stanca. O di te.

 

Una thailandese di 30 anni? Ora lo so: meglio mia moglie

Torno forse un po’ in ritardo sulla questione dello scrittore francese che le cinquantenni non le vorrebbe neppure se somigliassero alla Bellucci e preferisce le ventenni magari con gli occhi a mandorla. Le racconto una storia che potrebbe allietarle la giornata. Mia moglie è mia moglie da 47 anni. Oggi ho 67 anni io e 66 lei, siamo una coppia felice, abbiamo due nipoti, abbiamo ancora le nostre fiammate sotto alla coperta di lana pesante che non cambiamo da quando ci siamo sposati. Io e mia moglie però ci siamo lasciati per ben tre anni. Io a 50 anni con due figli già grandi ho conosciuto una donna thailandese di 29 che mi ha fatto perdere la testa, oltre che una casa in campagna e un’automobile. Era la barista accanto alla mia agenzia immobiliare e di caffè in caffè ero completamente impazzito per lei. Mia moglie se ne accorse perché iniziai a tornare tardi per il lavoro e a fissare il mio piatto di pasta con aria sognante, la sera, mentre lei mi parlava dei figli e dei lavori da fare in cantina. Poi mi trovò un bigliettino di M. nel cassetto dell’agenzia e andai via di casa inseguito da parolacce che non pensavo neppure che mia moglie conoscesse. I tre anni con M., esaurito il diletto sessuale che per la verità ogni tanto rimpiango ancora, sono stati una noia mortale. M. parlava di cose che non mi interessavano, aveva amici che non potevo conoscere, mi presentava parenti che mi guardavano male, cucinava cose con troppi anacardi, troppa salsa di tamarindo, troppi gamberetti essiccati. È davvero terribile questa cucina thailandese, mi creda. Ho chiesto scusa a mia moglie in tutte le lingue del mondo (tranne che in thailandese, mi sembra scontato). Dopo tre anni mi ha ripreso e da quel momento non ho mai più avuto voglia di giovinezza. Mi tengo le sue abitudini, le sue piazzate per un calzino fuori posto, i suoi capelli bianchi.

Giuseppe

 

E soprattutto, le sue lasagne, mi sembra di capire.

 

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Da Minetti sexy-suora a don Sturzo: lo strano cristianesimo di Silvio B.

Che magnifico Paese il nostro. E così in questo novello anno del Signore 2019, secondo dell’era populista, accade pure che Silvio Berlusconi si presenti alle masse come l’erede di don Luigi Sturzo, che proprio cent’anni fa scrisse il suo Appello ai liberi e forti, manifesto imperituro del popolarismo dc.

L’evento venerdì scorso sul più istituzionale dei quotidiani: il Corriere della Sera, che ha pubblicato una lunga lettera dell’ex Cavaliere pregiudicato in cui don Sturzo è strumentalizzato per giustificare la candidatura di B. alle prossime Europee, se non altro per evitare a Forza Italia la somma onta di scendere sotto le due cifre. Un Berlusconi frondista rispetto a Salvini e quindi ridotto a un Fini qualunque, come ha notato Pietrangelo Buttafuoco sabato sul Fatto.

Ma a colpire è soprattutto l’ampio svolgimento dello sturzismo, dove non mancano pacchiani errori come quello di fare del fondatore del Partito popolare una sorta di Thatcher ante litteram, un precursore della deregulation. Chissà chi è, stavolta, il poco attento ghost-writer berlusconiano, ignaro pure che don Sturzo era contro il liberalismo estremo che propugna lo Stato minimo. Il rinnovato cristianesimo di B. però deve fare i conti con le infinite ombre del personaggio, santo e peccatore.

Valga per tutti la memorabile rivelazione di una ragazza del Bunga Bunga, la marocchina Imane Fadil, che descrisse così una performance di Nicole Minetti, indi premiata con un seggio nel consiglio regionale della Lombardia: “Nicole era bellissima vestita da suora. Salì sul palco, quello ormai famoso con il palo da lap dance. Fece un balletto e lo spogliarello. Un bellissimo spettacolo, davvero. Rimasta nuda il presidente le si è avvicinato, ha preso la croce di legno che tiene al collo e ha detto ‘Dio santo ti benedica’; poi le ha appoggiato il crocifisso sulla testa, tra le gambe e sui seni”.

Al netto del giudizio morale in base all’etica cristiana – e senza dimenticare l’ipocrisia farisea della destra cattolica capace di seguire l’odio di Salvini e la satiriasi di Berlusconi – bisognerebbe capire da dove origina, nella psiche di B., la blasfemia del crocifisso tra le tette e la relativa benedizione.

Il baciamano a Salvini fa schifo, ma bisogna capirne le ragioni

Povera Napoli crocefissa per una immagine. Il baciamano di Afragola. Sia chiaro, quel gesto fa schifo. Tra la piccola folla che omaggia Matteo Salvini in visita alla città delle 8 bombe di camorra in 22 giorni, c’è un uomo che si inchina, afferra la mano del ministro e la bacia. Come si fa con un santo protettore, al quale chiedere grazia e benevolenza. Una scena che umilia soprattutto chi riceve il bacio. Salvini, uomo del popolo, che mangia come il popolo, parla come il popolo, pensa come il popolo, soprattutto quando il popolo si fa plebe, ridotto alla stregua di un Antonio Gava.

Don Antonio, anche lui, un tempo al Viminale, porgeva l’augusta mano con il mignolo ornato da un “ciciniello”, un anello che Gava portava al dito mignolo, per farselo baciare. Il baciamano salviniano ha innescato il fiorire di una serie di luoghi comuni su Napoli e sul Sud. I soliti meridionali sempre pronti ad omaggiare il potere. Fortunatamente a spazzare via questi sociologismi un tanto al chilo ha provveduto Fanpage, sito di informazione con sede a Napoli ma di rilevanza nazionale. Hanno intervistato il “baciatore”. È un povero Cristo che ha lavorato una vita nei cantieri in nero. Strappa la vita vendendo calzini e vive in uno dei quartieri più degradati di Afragola. “È stato un gesto di affetto – ha detto – perché Salvini ci ha promesso il reddito di cittadinanza. Ci fa mangiare”. Ecco, chi scrive, ed è noto, pensa tutto il male possibile di questo governo. E pensa anche che il reddito di cittadinanza, così come è stato approvato, sia molto al di sotto delle promesse in campagna elettorale. Non produrrà lavoro (questo serve al Sud), è una norma propagandistica. Ma chi lo disprezza, chi, come esponenti del Pd, ironizza e chiede addirittura referendum abrogativi, non ha capito la disperazione che avvolge vaste aree del Meridione. Continuate a ridere e fare battutine sui social, ma non vi meravigliate se la gente continuerà a disprezzarvi.