Verso la Giornata della Memoria c’è chi sdogana temi nazifascisti

Il genovese Ettore Siegrist, dirigente Ansaldo molto attivo nella Resistenza, fu arrestato nel gennaio del ‘44 e trasferito pochi giorni dopo al lager di Dachau. Vi arrivò il 19 gennaio del 1944 e vi rimase sino alla liberazione del campo, il 29 aprile del 1945. Appena tornato, capì che aveva il dovere di raccontare la terribile esperienza. Temeva che il tempo e l’indifferenza avrebbero dissipato ogni ricordo. Così scelse un titolo emblematico: Dachau: dimenticare sarebbe una colpa. Il monito era diretto innanzitutto ai grandi editori che gli avevano rifiutato il testo, “senza averlo mai letto”. Fu l’Ansaldo stessa, con lungimiranza, a provvedere, incaricando gli stabilimenti grafici Federico Reale di Sampierdarena di stampare.

È una vicenda emblematica, caro Enrico: domenica ricorre il Giorno della Memoria, ogni anno che passa, purtroppo, la memoria dell’Olocausto e delle nefandezze nazifasciste tende a sfumare. Un rischio evidente fin da subito: tanto che Feltrinelli stampò, nel 1956, il polemico Perché gli altri dimenticano di Bruno Piazza. L’anno prima, Primo Levi aveva scritto: “È triste e significativo dover constatare che l’argomento dei campi di sterminio, lungi dall’essere diventato storia, si avvia alla più completa dimenticanza (…): dei lager oggi è indelicato parlarne”.

Nel 1983, intervistato per una ricerca sugli ex deportati piemontesi, Levi disse che la rimozione non era tollerabile: “Se mancherà la nostra testimonianza, in un futuro non lontano le gesta della bestialità nazista, per la loro stessa enormità, potranno essere relegate tra le leggende. Parlare, quindi, bisogna”. La memoria deve sempre essere sollecitata, lottando contro l’oblìo. E contro certi “sdoganamenti” politici. Altrimenti capita di scoprire ambigui e subdoli “ritorni” burocratici. Come la parola “razza”, inserita nel software dei macchinari per la modulistica sanitaria di alcuni ospedali lombardi, tra le generalità che identificano il paziente. Cronaca di giovedì scorso…

Bluff Pipita: quando conta, lui sparisce

Quella pippa del Pipita. Ora che Gonzalo Higuain, il 32enne ombroso centravanti argentino che in Italia ha giocato prima nel Napoli, poi nella Juventus e infine (poco) nel Milan, se ne sta andando destinazione Londra (Chelsea), ci sembra giusto ribadire quel che di lui abbiamo sempre pensato e scritto: visto che ormai, per tutti, è un “rinnegato”, non si offenderà nessuno, specie nel suscettibile mondo Juve. Se ne va un campione a metà: un campione che in tutte le occasioni importanti della sua carriera se l’è sempre fatta sotto, un campione incapace di reggere la tensione delle sfide di alto livello, un campione di gol segnati a carrettate al Frosinone e al Sassuolo, un campione, insomma, per modo di dire.

Higuain (scuola River) gioca in Europa da 13 stagioni: ne ha trascorse 7 al Real Madrid, 3 al Napoli, 2 alla Juventus e una (quella in corso) al Milan. Al Real, che da quando lui se n’è andato ha vinto 4 Champions, è riuscito alla lunga a farsi soppiantare da Benzema come partner di Cr7 in attacco; alla Juventus, che lo acquistò dal Napoli per 94 milioni, ha dato lo stesso apporto di un Matri o di un Vucinic e a dispetto del tesoro speso è stato sbolognato al Milan per far posto al più anziano, ma campione vero, Cr7; in quanto alla sua triste mezza stagione in rossonero, è cronaca di ieri.

Higuain, parlandone da campione, è un bluff. Con l’Argentina, dal 2014 al 2016 ha giocato e perso tre finali di importanza assoluta, sempre divorandosi un gol clamoroso a tu per tu col portiere, fosse Neuer (Germania, mondiale) o Bravo (Cile, Coppa America, due volte), guadagnandosi così l’appellativo di “Sciagurato Egidio delle pampas”. Per dare l’idea di quanto goffo, tremebondo e inadeguato sia apparso Gonzalo nelle tre sfide galattiche sopra citate, basti dire che è andato a ruba, nel mondo, un gioco per smartphone, “Pipita On Fire”, la cui missione è aiutare Higuain a segnare un gol in una finale (lo si può pure aiutare alimentandolo con del cibo: persino la sua stazza di campione con la pancia rimanda più alle sfide dei tornei del bar che ai palcoscenici delle finali mondiali). Un disastro con l’Argentina (3 finali, 3 sconfitte e zero gol), un disastro anche con la Juventus, con cui il Pipita ha giocato 3 finali senza mai fare un gol, giocando da zombie nella più importante, quella di Champions persa col Real Madrid a Cardiff (1-4), facendo pena a Doha nella Supercoppa persa contro il Milan dei lillipuziani di Montella e passando inosservato anche nella finale (l’unica vinta, 2-0 alla Lazio) di Coppa Italia.

Se la fa talmente sotto, Higuain, quando in ballo c’è qualcosa di appena più importante di un match col Frosinone, che se col Milan incontra la sua ex Juve si fa parare un rigore decisivo (ne ha sbagliati a tonnellate, in carriera) e conscio dalla sua inadeguatezza, schiacciato dalla colpa, “sbrocca” e si scatena in una protesta isterica, da saloon, che lascia allibiti tutti, pubblico, avversari, compagni.

In Champions, dove gioca dal 2007, ha segnato 23 gol: meno di centrocampisti come Gerrard, Scholes, Fabregas, alla ridicola media di 0,30 a partita, umiliato, oltre che da Cr7 (122) e Messi (106), da chiunque: da Benzema (59) a Lewandowski (53), da Shevchenko (59) a Inzaghi (50), persino da Morientes, Makaay, Papin, Simone, Pizarro. E ci fermiamo qui.

Università, la guerra civile del Nord contro il Sud

La ricetta adottata nel sistema universitario e della ricerca negli ultimi venti anni si fonda sull’idea che le risorse siano poche e non debbano essere sprecate. Dunque che i virtuosi siano premiati e chi virtuoso non è sia punito ricevendo meno finanziamenti. Ma una politica ispirata a questo principio, che ritroviamo applicata anche nell’ultima Legge di Bilancio, aumenta le disuguaglianze tra il Nord e il Sud del Paese, deprimendo la crescita culturale e le prospettive di gran parte delle nuove generazioni.

Il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti ha annunciato che le assunzioni tornano a crescere nelle Università così che gli atenei “virtuosi” potranno andare oltre il normale turn over. Tuttavia le misure del governo non comportano una crescita dell’organico, piuttosto un travaso di docenti da un ateneo all’altro. C’è una ripartizione delle risorse che segue la direttrice Sud-Nord: è come se l’equivalente di 280 ricercatori dovesse abbandonare gli atenei meridionali per essere trasferiti nelle più ricche università settentrionali. Vogliamo premiare i virtuosi, si dirà: ma cosa significa “virtuoso”? Il governo Monti stabilì che i pensionamenti in un ateneo A possano essere rimpiazzati da assunzioni in un ateneo B, se B ha un bilancio più solido (più virtuoso) di A. Così ora le università milanesi incamerano l’equivalente di 168 ricercatori in aggiunta al rimpiazzo dei propri pensionamenti: organico sottratto agli atenei del Centro-Sud. Un ateneo per diventare più virtuoso deve semplicemente aumentare le tasse universitarie, senza curarsi del tetto massimo previsto dalla legge e sulla cui violazione nessuno vigila.

L’aggettivo “virtuoso” serve dunque per giustificare una politica ispirata dall’effetto san Matteo, il processo per cui le risorse sono ripartite fra i diversi attori in proporzione a quanto già hanno: “I ricchi si arricchiscono sempre più, i poveri s’impoveriscono sempre più”. Secondo gli ideatori, questa maniera di distribuire le risorse avvantaggerebbe, per un effetto di sgocciolamento dall’alto verso il basso, l’intera società. Nel caso dell’istruzione superiore, molti governi considerano obiettivo principale della loro politica, che giustifica l’accentramento delle risorse, quello di avere università nel top delle classifiche mondiali degli atenei. Bisognerebbe invece considerare che tra le dieci regioni europee con i valori più bassi di laureati (fascia di età tra 30/34 anni, dati 2014) ci sono la Sardegna, la Sicilia, la Campania e la Basilicata e che gli studenti iscritti nel mezzogiorno sono crollati rispetto a quello del nord Italia (-18,7% contro un -3,9% nel centro Nord tra il 2006 e il 2015).

Il problema è che se in una situazione di sottosviluppo si usano degli indicatori come l’ammontare delle tasse universitarie per distribuire le risorse si fa una scelta politica in linea con l’effetto San Matteo. Per questa ragione nell’ultimo decennio l’università italiana è stata ridimensionata in modo selettivo: più al Sud che al Nord e poiché si partiva già da una situazione sottodimensionata, l’impatto al Sud compromette le prospettive di interi territori.

Anche questo governo sta perseguendo la politica di accentrare nel Nord Italia le risorse finanziarie e intellettuali per sorreggere uno sviluppo che trova sempre più difficoltà a innovare. In realtà la formazione universitaria è considerata, dal mondo produttivo e dalla politica, servire a ben poco nel mercato del lavoro del nostro Paese. Abbiamo il più basso tasso di laureati nella fascia d’età tra 24 e 35 anni eppure i laureati non trovano un lavoro al livello del loro grado di istruzione. C’è un’ignobile e persistente campagna di stampa secondo cui i giovani laureati non trovano lavoro perché sono “mammoni” e non vogliono andare lontano da casa o fare lavori faticosi, ma questo avviene perché non c’è sufficiente richiesta di persone con alto tasso di istruzione dato che le imprese che producono beni di alta tecnologia sono poche e piccole e sono scomparsi i traini delle grande imprese statali.

È così in atto un’emigrazione intellettuale di decine di migliaia di laureati all’anno da quasi un decennio, che in prospettiva causerà danni sistemici all’infrastruttura intellettuale del Paese. Per contrastare questo fatto nella Legge di Bilancio 2019 è prevista un’agevolazione che consiste in uno sgravio contributivo fino a 8.000 euro, per un massimo di 12 mesi, e per le imprese che assumeranno “giovani eccellenze” cioè giovani laureati con 110 e lode o dottori di ricerca: tuttavia anche una misura del genere non potrà che consolidare e amplificare le disuguaglianze già presenti, invece che contrastarle.

Nessuno sperava che questo governo avrebbe aumentato la spesa in ricerca sviluppo al 3% com’era stato fantasticato dal trattato di Lisbona del 2000, o recuperato quel 30% di produzione industriale persa dalla fine degli anni 90 ad oggi, ma era possibile fare qualcosa per dare ossigeno al sistema universitario nazionale e soprattutto alle sue componenti più deboli, i precari e gli studenti specialmente quelli del meridione. Per rilanciare l’università e la ricerca c’è bisogno di una rivoluzione culturale che metta al centro dell’azione politica uno sviluppo economico che punti all’innovazione piuttosto che al taglio del costo del lavoro. E ci vorrebbe anche il miracolo che tutte le diverse parti del mondo universitario maturassero questa consapevolezza.

Bibi Netanyahu e l’oscura battaglia giocata con i social

Quando la scorsa settimana il premier Benjamin Netanyahu ha annunciato tramite i social media che avrebbe rilasciato una dichiarazione in tv in prima serata, che poteva essere visualizzata tramite il suo profilo Facebook, ha stabilito un record. Quasi 4,5 milioni di persone l’hanno seguito in tv e oltre 150 mila via Facebook. Un successo annunciato. Perché fra le sue molte abilità non c’è dubbio che Netanyahu abbia anche quella di saper gestire la comunicazione come pochi. È un navigante di lungo corso su Internet, nei primi anni 90 fu uno dei primi politici a creare un sito web.

I guai giudiziari che sta affrontando – quattro diverse accuse per frode, corruzione e fondi neri – lo hanno spinto a diminuire le sue già rare apparizioni in tv. Netanyahu ha smesso di parlare al pubblico israeliano tramite i media tradizionali. Invece pubblica dozzine di post al giorno sui social media, tra cui visualizzazioni e tweet, e l’alto tasso di risposta dei suoi seguaci influenza gli algoritmi di Twitter, Instagram e Facebook, aiutandolo così ad attrarre nuovi follower.

Ogni giorno Netanyahu trasmette messaggi a milioni di follower su Facebook, Twitter, Instagram, YouTube e Telegram tramite dozzine di account, alcuni dei quali sono gestiti con fondi statali e altri tramite finanziamenti privati da fondi meno trasparenti. I suoi post hanno migliaia di condivisioni, decine di migliaia di “Mi piace” e uno dei più alti tassi di risposta degli utenti per qualsiasi politico, certamente in Israele.

È cosa nota che molti influencer hanno un gran numero di follower falsi, buona parte dei quali provenienti da Brasile e India. In effetti, uno sguardo ravvicinato alle pagine personali di Netanyahu, lascia qualche dubbio. Un numero significativo proviene dall’estero. Il dottor Anat Ben-David della Open University afferma che, al contrario di altri politici israeliani, le pagine di Netanyahu hanno il maggior numero di commenti da utenti che rispondono solo alla sua pagina e anche il maggior numero di commenti da utenti che commentano solo una volta. Il 43% dei suoi fan è all’estero, il 33% vive in Israele, il 47% ha meno di 21 anni.

La “macchina da guerra” on line di Bibi ha tre diverse branche. Gli account del partito, finanziati dal Likud; le pagine del primo ministro, finanziate dall’ufficio del premier; e quelle personali gestite dai suoi guru da dove proviene il maggior numero di follower. La pagina Facebook di Netanyahu (lanciata nel 2010) ha oggi 2,3 milioni di follower. Primo ministro e Likud non rivelano, perché la legge lo consente, i costi di gestione e da dove provengono i finanziamenti.

Netanyahu è una delle personalità più popolari in Israele, i suoi account hanno circa 5 milioni di follower. Al contrario del presidente Donald Trump, che scrive personalmente i suoi tweet, Netanyahu non possiede nemmeno uno smartphone per timore dello spionaggio. Piuttosto, deve il suo successo nei social media ai suoi giovani consiglieri, tutti ex militari dell’Unità del portavoce dell’IDF, le Forze di difesa israeliane. Sono giovani, molto giovani. In tre non arrivano a 80 anni. Dopo il “drammatico annuncio” in tv i guru privati di Netanyahu hanno lanciato una campagna Instagram rivolta ad adolescenti e giovani. Un tentativo di promuovere il messaggio di Netanyahu che una tangente senza soldi non è una tangente. Una risposta, apparente, alle gravi accuse di corruzione contro cui Bibi sta combattendo in questi mesi. La manovra sui social media era abilmente progettata per indirizzare la conversazione lontano dalle accuse e per smussare le critiche a Netanyahu. Sembra aver avuto l’effetto voluto.

Ramallah, palestinesi fuori dalla polveriera

Mentre si sale in auto lungo l’affollata arteria che da El Bireh conduce a Ramallah, la “capitale de facto” dei palestinesi, si vedono già svettare palazzoni e diversi grattacieli in vetrocemento che scintillano alla luce del tiepido sole invernale. La città ha cambiato completamente volto negli ultimi venti anni, quando Yasser Arafat la scelse come residenza dopo gli accordi di Oslo, era un centro agricolo con un importante mercato ortofrutticolo. Oggi somiglia sempre più alle città arabe del Golfo, architetture ardite, condomini, villette col tetto a pagoda che sono il tratto distintivo dei “nuovi ricchi”, gli emergenti della società palestinese un tempo legata solo alla terra e oggi è invece spinta soprattutto da manager, web designer, architetti, ingegneri. L’economia della Cisgiordania è cresciuta in questi ultimi tre anni al ritmo del 3,5% e certamente, come spiega l’ultimo Rapporto della Banca Mondiale, con la prospettiva di una pace potrebbe raggiungere persino il 6-7%. Un mondo molto distante da Gaza, dove invece la situazione è drammatica, il reddito pro capite nella Striscia (1.000 dollari) è meno della metà della Cisgiordania.

A Ramallah il “Millenium” è certamente l’hotel più lussuoso con i suoi ristoranti, chef internazionali e sale meeting grandi come campi di calcio. Nel parcheggio luccicano delle Bmw, Mercedes, persino una Porsche Panamera. La sera del sabato nella discoteca dell’hotel non c’è posto nemmeno per uno spillo, con il telefonino in una mano e un drink nell’altra, tutta la “jeunesse doree” palestinese si dimena al ritmo di Rihanna. In città è un fiorire di pub e ristoranti sempre affollati. Il segnale più evidente che il denaro sta circolando, che l’economia privata sta crescendo a fianco di quella sostenuta dai donatori internazionali che si assottiglia ogni anno. Questa è la Cisgiordania, un vero vespaio. Quasi tre milioni di palestinesi, pigiati nelle città e nei campi profughi, le brigate dei soldati israeliani che vanno e vengono, 400 mila coloni ebrei che sono venuti per rivendicare una terra che dicono è stata loro assegnata dalla storia e da dio.

A dieci chilometri da Ramallah sorge dopo 9 anni di lavori, Rawabi, la New Town nota come la città da “un miliardo di dollari” che promette di ospitare presto 40.000 residenti. Ricca di caffè e negozi di lusso, Rawabi ospita scuole, palestre, centro congressi, uno spettacolare anfiteatro romano da 15 mila posti e persino un campo di calcio. Ma anche ristoranti, complessi per uffici, spazi sociali, farmacie, moschee e chiese. Cofinanziata dal miliardario palestinese Bashar Al Masri e da un Fondo edilizio del Qatar, è una joint venture da 1,4 miliardi di dollari. Rawabi è il progetto più ambizioso nei Territori palestinesi ed è il grande datore di lavoro del settore edilizio. Trasuda l’ambizione e l’opulenza del Golfo, sono 5.000 appartamenti costruiti per la classe media, la nuova realtà che si affaccia nella società palestinese. Un appartamento di tre stanze costa tra i 95.000 e i 125.000 dollari – con un mutuo al 4,95% – molto meno caro che a Ramallah dove i prezzi sono folli e certamente ben al di sopra di quelli che molti palestinesi possono permettersi. La buona notizia è che Rawabi offre una visione ottimista del futuro ai palestinesi. Incoraggia l’espandersi di una classe medio-alta, la spinge a sperare in quello che potrebbe diventare uno Stato palestinese attraente e competitivo. Coltivare questo tessuto socio-economico è della massima importanza per qualunque pace duratura, una classe media è fondamentale per garantire, stabilità, democrazia e crescita in tutti i Paesi in via di sviluppo.

L’inaugurazione del grande “Q Center”, il più grande shopping mail della Cisgiordania, è il maggiore tratto distintivo di un’utopia borghese in stile occidentale. Borse delle grandi griffe internazionali, marchi blasonati e costosi del fashion. I negozi di abbigliamento riforniti con veri jeans americani, non le solite contraffazioni che si trovano nei bazar di Ramallah. “Vivremo come persone normali, in attesa della normalità”, ha detto Al Masri durante l’inaugurazione. Attorno a molti palazzi fervono ancora lavori di costruzione, camion e betoniere vanno e vengono, solo tre quartieri sono finiti. Ma i dati forniti dall’ufficio di Al Masri parlano di oltre 3.000 abitanti negli appartamenti finora venduti.

Amjad Qasr e sua moglie Huda sono una giovane coppia di architetti con un bambino piccolo. Si sono trasferiti qui da Ramallah dove i prezzi degli appartamenti sono ancora più alti. Di Rawabi apprezzano la modernità , la sicurezza e l’ordine. Credono nel loro investimento e sperano nello sviluppo dell’area.

Ma è necessaria un nuova nuova strategia per spingere l’economia verso il cambiamento. La Banca Mondiale nel suo ultimo rapporto sostiene che serva una nuova visione dell’economia palestinese in grado di poter raggiungere una crescita del 7% annuo.

Pur riconoscendo l’importanza fondamentale di una soluzione politica, la relazione sostiene che delle misure a medio termine possono creare nuove aree di attività economica, attrarre investimenti privati, generare posti di lavoro e migliorare significativamente gli standard di vita. “Senza un vero cambiamento nelle politiche”, spiega Marina Wes, direttore per Cisgiordania e Gaza della Banca Mondiale, “la crescita difficilmente supererà il 3% annuo, meno del ritmo di crescita della popolazione”. Il rapporto utilizza un modello economico per un periodo di 10 anni per stimare l’impatto sull’economia palestinese se fossero rimossi vincoli e ostacoli dovuti all’occupazione militare israeliana nei commerci, nell’import e nell’export dai Territori palestinesi.

Il profitto economico e sociale sarebbe immenso, traducendosi in un tasso di crescita annuale del 6% in Cisgiordania e addirittura l’8% a Gaza. Con la conseguente creazione di 50 mila posti di lavoro in Cisgiordania e 60 mila nella Striscia. In questa prospettiva la creazione e la crescita dei posti di lavoro saranno guidati dal settore privato. Come a Rawabi che è attualmente il maggior centro di occupazione in Cisgiordania.

Fondi immobiliari, nel risparmio gestito è gara a chi fa perdere di più

Il risparmio gestito è una ignobile gara, dove vince chi fa perdere più soldi ai propri malcapitati clienti. E i fondi immobiliari sono fra i meglio piazzati per arrivare primi. Per i risparmiatori sono stati un bagno di sangue e non si finisce mai di scoprirne disastri e magagne. È recente il commissariamento da parte della Banca d’Italia per “gravi violazioni normative e irregolarità nell’amministrazione” di Sorgente, società di gestione del risparmio (sgr) specializzata appunto in tali fondi. Dal canto suo Poste ha fatto una figuraccia col fondo Obelisco, il cui valore si è praticamente azzerato. Anche fondi partiti dopo il calo dei prezzi degli immobili, come Opportunità Italia di Torre sgr, hanno saputo distruggere ricchezza. Piazzato nel 2013 da Unicredit a 2.500 euro, enunciando il 5% annuo come obiettivo di rendimento (una vanteria con valenza solo pubblicitaria), è riuscito a fare perdere il 60%, inabissandosi fin sotto 1.000 euro. E qua ci fermiamo, unicamente per motivi di spazio.

Fin dall’inizio qualunque persona esperta di risparmio gestito capiva che i fondi immobiliari erano da evitare nella maniera più assoluta. Come al solito però i giornalisti economici si sono guardati bene dall’informarne i lettori. Già sono facili le malversazioni nei fondi mobiliari con titoli quotati, figuriamoci qui con acquisti e vendite senza nessuna trasparenza, al di fuori da ogni controllo da parte dei clienti del fondo. Infatti, appena quotati, i fondi immobiliari vengono scambiati regolarmente molto sotto le valutazioni ufficiali, perché il mercato dà per scontato che siano taroccate.

Sarebbe però un errore credere che tutte queste siano storie brutte, ma che riguardano il passato, come è il caso ad esempio dei diamanti. È vero che oggigiorno anche il più imbroglione fra i sedicenti consulenti finanziari avrebbe difficoltà a rifilare ai suoi clienti un fondo immobiliare.

Ma essi continuano a essere onnipresenti nelle casse previdenziali dei lavoratori autonomi (Enasarco, Enpam, Enpap, Inarcassa ecc.). Milioni di italiani, solo perché iscritti a un ente previdenziale, si ritrovano con fondi immobiliari sul groppone senza averlo scelto, senza poterlo impedire e magari senza neppure sospettarlo. Ma ne hanno in pancia anche fondi pensione. Tutto ciò avviene nel rispetto della normativa, che è stata emanata proprio per favorire un sistematico deficit di trasparenza nella previdenza, integrativa e obbligatoria.

 

Contratti scaduti, medici in sciopero

La lotta per la dignità della professione medica è una lotta per tutti. “Per mantenere il nostro sistema sanitario equo, solidale e universale servono nuove assunzioni e vanno rispettati i diritti dei lavoratori, che altrimenti fuggiranno verso il privato”: Carlo Palermo, segretario nazionale di Anaao, il più grande sindacato medico italiano, supplica il governo di prendere di petto la crisi del comparto prima che sia troppo tardi. Il 17 gennaio centinaia di camici bianchi con un sit-in sotto il palazzo del ministero della Pubblica amministrazione hanno chiesto di abrogare il comma 687 della manovra che blocca i tavoli contrattuali. E venerdì 25 ci sarà un altro sciopero nazionale. Centocinquantamila medici hanno un contratto scaduto da dieci anni. Di questi, 80mila hanno gli scatti di carriera bloccati. La proposta di Anaao è quella di usare la Ria (retribuzione individuale di anzianità), che con la legge 122/2010 non è più stata trasferita nei fondi accessori destinati agli avanzamenti professionali e per tamponare i disagi: “Con questi soldi si possono pagare gli straordinari, incrementare le indennità notturne e festive, e ristabilire gli scatti di carriera”.

Mutui, resta a secco il fondo di garanzia sulla prima casa

Ha le ore contate il fondo per i mutui prima casa che negli ultimi mesi ha registrato un boom di domande – circa 5mila al mese – da parte degli under 35 titolari di un rapporto di lavoro atipico e dei nuclei familiari monogenitoriali con figli minori, vale a dire i più svantaggiati agli occhi del sistema bancario, perché non hanno le garanzie reddituali e patrimoniali indispensabili per strappare un finanziamento per l’acquisto della casa. Il plafond del fondo si sta esaurendo e, allo stato attuale, non sono state stanziate altre risorse né dalla legge di Bilancio né risultano presentati degli emendamenti al decreto Semplificazioni che arriverà in Aula nei prossimi giorni. Così, senza ulteriori iniezioni di liquidità, la garanzia statale che aiuta chi ha difficoltà ad accedere a un mutuo rischia di chiudere i battenti da qui a fine febbraio. “Ma di fatto – spiega Luigi Gabriele di Adiconsum – le banche hanno già smesso di erogare i mutui a chi ne fa richiesta”. I tempi necessari per istituire la pratica, infatti, non consentirebbero ai richiedenti di ottenere le risorse che nel frattempo potrebbero essere terminate. Per continuare a far funzionare il fondo servirebbe “una somma compresa fra i 150 e i 200 milioni di euro”, calcola Gabriele. Che spiega: “Sarebbe veramente una disfatta, perché questa misura funziona bene e negli ultimi anni ha permesso a migliaia di giovani di accedere al credito”.

Il meccanismo del fondo prevede il rilascio di garanzie a copertura del 50% della quota capitale per mutui ipotecari fino a 250.000 euro erogati per l’acquisto degli immobili adibiti a prima casa di qualsiasi metratura, purché non di lusso, da parte di giovani coppie in cui almeno uno dei due non abbia superato i 35 anni, dei single (anche separati o divorziati) con figli minori e dei giovani under 35 titolari di un contratto di lavoro atipico. È poi la stessa banca a fare domanda alla Consap (la società del Tesoro che si occupa della gestione del fondo) che entro 20 giorni comunica l’ammissione alla garanzia. L’istituto di credito ha poi 90 giorni per perfezionare il mutuo e decidere se erogarlo.

Un po’ di storia per capirne di più. È stata la legge di Stabilità 2014 a istituire presso il ministero dell’Economia, il Fondo di garanzia per la prima casa affidandone la gestione alla Consap. La misura è partita con una dotazione di 200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016 e prevede la concessione di garanzie statali per chi richiede un mutuo contando sulla garanzia statale. La misura era già stata istituita nel febbraio 2011 dal governo Berlusconi (e poi foraggiata da Monti e Letta), ma in pratica è rimasta sepolta per anni nei cassetti delle filiali: su 50 milioni di euro stanziati dal 2011 al 2013, ne è stato erogato appena un milione. Più che un fiasco, si dovrebbe parlare di una guerra vinta dal settore bancario. Quando i giovani si presentavano agli sportelli, le banche – che avrebbero dovuto concedere un mutuo a tassi agevolati nettamente inferiori a quelli allora in vigore – facevano infatti orecchie da mercante sponsorizzando solo i proprio prodotti.

Del resto non c’era l’obbligo per gli istituti di credito né di aderire all’iniziativa né di concedere il mutuo nel caso una coppia ne facesse richiesta. Dal 2015, invece, quando è diventato operativo il nuovo Fondo tutto è cambiato, perché anche se le condizioni sul tasso di interesse sono diventate peggiorative per i mutuatari (è stato eliminato lo sconto), questo ha permesso alle banche di non rimetterci più e di cominciare ad accordare il mutuo agli under 35 che si sono presentati sempre più numerosi allo sportello ottenendo la garanzia statale nel caso di mancato pagamento delle rate. In base agli ultimi dati forniti dal gestore Consap, al 31 dicembre 2018 risultano pervenute 121.580 domande, di cui 105.646 sono state accolte. Di queste ultime 78.740 hanno dato luogo all’erogazione di mutui per circa 8 miliardi di euro con una garanzia del fondo di circa 4 miliardi di euro. Con una crescita costante di 30 domande di accesso al giorno, arrivate attraverso 175 banche aderenti.

Ad accedere al fondo sono stati principalmente (il 58%) giovani coppie e persone al di sotto dei 35 anni di età, ovvero quelle categorie di persone che hanno maggiori difficoltà ad accendere un mutuo proprio a causa della mancanza di garanzie dovuta spesso al tipo di contratto di lavoro e a una generalizzata situazione di precarietà. La crescita del numero delle richieste – che dopo l’avvio in sordina superano ormai le 250 unità al giorno, di cui il 70% delle domande pervenute e delle erogazioni concesse sono relative agli ultimi sei mesi del 2018 – conferma la maggior popolarità del fondo e l’importanza nel rapporto tra consumatori e banche. E fino a oggi lo Stato non ci ha rimesso: solo per 14 finanziamenti erogati è scattata la garanzia statale che ha dovuto coprire circa un milione di euro di rate non pagate.

Il “divino” Elon inizia a licenziare i dipendenti

Difficile costringere un sognatore a fare i conti con la realtà. Ancora più complicato, quando si chiama Elon Musk e in testa ha viaggi su Marte, tunnel sotterranei ad alta velocità, lanciafiamme o auto elettriche che invadono il mondo. O quando magari fuma uno spinello in diretta oppure rilascia dichiarazioni improvvide che gli costano, oltre a svariati milioni di dollari, pure la poltrona di presidente dell’azienda che ha creato.

Eppure c’è qualcosa che, alla fine, lo ha destato: il mercato. La sua Tesla, dopo anni di perdite che i recenti e parziali segni positivi sui conti non hanno cancellato, è nella fase di passaggio da uno status di splendido isolamento a quello di confronto con la concorrenza. Il lusso a elettroni (per non parlare di quello tradizionale) oggi ha alternative più che valide, dai marchi tedeschi alla Jaguar, e l’assedio alla roccaforte californiana è ormai partito. Costretto a lambiccarsi il cervello per rendere competitivi i suoi prodotti, il Divino non ha pensato di meglio che usare la ricetta dell’acqua calda: licenziare. Darà il benservito a oltre 3.000 dipendenti, circa il 7% della forza-lavoro, già avvisati con una mail che ovviamente è diventata di pubblico dominio, in cui ammette di “vedere una strada molto difficile davanti” e di “non avere scelta”. L’obiettivo è quello di abbassare il prezzo dell’ultima arrivata, la Model 3, per favorirne la diffusione su più mercati. Francamente, da un guru come lui ci aspettavamo soluzioni più raffinate.

Ibrido e sport utility? Con la nuova Rav 4 si può

Venticinque anni di servizio, 9 milioni di esemplari venduti nel mondo di cui due in Europa (e 215 mila in Italia), un futuro diesel free perché legato a doppio filo alla tecnologia ibrida, che ormai è arrivata a pesare quasi la metà dei modelli immatricolati nel 2018 dal gruppo Toyota nel vecchio continente (480 mila auto su oltre un milione). La quinta generazione della Rav4, che nel 1994 fece da pioniere ai moderni suv, si presenta al mercato forte della capacità di adattarsi negli anni alle esigenze della sua clientela. L’utilizzo della piattaforma TNGA GA-K ha permesso di abbassare il baricentro, irrigidire il telaio e allungare il passo, che tradotto significa aumentare il piacere di guida e creare più spazio all’interno per passeggeri e bagagli. Perché non bisogna dimenticare che quest’auto si inserisce nella gamma Toyota tra il maxi Land Cruiser e la stilosa C-HR, e tra i target principali ci sono anche le famiglie. Magari quelle “avventurose”, che non contente del comfort stradale si vanno a cercare qualche percorso off-road nel fine settimana: per loro, accanto alla versione con due ruote motrici, c’è anche quella integrale AWD-i, garantita da un’unità elettrica sull’asse posteriore che può accogliere fino all’80% della coppia motrice. L’altro pezzo del powertrain ibrido è all’anteriore: si tratta di un 2.5 benzina, che insieme al “collega” a batteria sviluppa una potenza complessiva di 222 cavalli (218, nella versione 2WD). Una chicca? Lo specchietto retrovisore diventa un touch screen su cui una telecamera proietta le immagini posteriori: comodo, quando si ha l’auto stracarica.

Prezzi a partire da 29.950 euro.