Al volante della Mustang 50 anni dopo Steve McQueen

San Francisco, 1968. Il tenente Frank Bullitt rimane coinvolto in un lungo e adrenalinico inseguimento: è al volante di una Ford Mustang GT390 Fastback verde e la sta spremendo al massimo per acciuffare un sicario alla guida di una Dodge Charger R/T. I cinefili alla lettura hanno già capito: si parla di una delle scene più celebri di Bullit, film diretto da Peter Yates e con protagonista il leggendario Steve McQueen.

Dopo l’arrivo della pellicola al cinema, la Mustang utilizzata per le riprese scomparse per decenni. Tuttavia, Ford l’ha recentemente ritrovata, restaurata ed esposta al Salone di Detroit 2018. E per celebrare il rinvenimento e i 50 anni di Bullitt, ha lanciato un’edizione speciale omonima della sua muscle-car. In Italia ne arriveranno solo 68 unità, ciascuna con prezzi a partire da 57.400 euro.

Così, in onore dei tempi che furono, la Bullitt viene proposta in tinta “Dark Highland Green” (come nel film), con cerchi in lega neri a cinque razze da 19” che ricordano le originali ruote da corsa Torq Thrust. Fra le dotazioni di serie una nuova mascherina frontale, loghi identificativi e freni Brembo ad alte prestazioni con pinze rosse. Moderno, invece, il quadro strumenti digitale da 12”.

All’interno i sedili sono avvolgenti e rivestiti in pelle, ma la componentistica secondaria è di aspetto migliorabile. In compenso la dotazione di sicurezza prevede frenata automatica di emergenza e cruise control adattivo. Ma il pezzo forte, è nel cofano: si tratta del V8 aspirato da 5 litri, capace di 460 Cv di potenza e 529 Nm di coppia motrice, che “respira” mediante condotti d’aspirazione specifici e “canta” attrraverso un portentoso impianto di scarico sportivo dalla sonorità regolabile. Il cambio? Un tradizionale manuale a 6 marce, con trazione posteriore e differenziale autobloccante: anacronismo da collezione per chi vuole vivere il sogno americano alle nostre latitudini.

Alla guida è subito chiaro un concetto: il V8 non si batte. La sua erogazione è “cremosa”, regolare e, dai 5 mila giri/min diventa schiacciante: sembra quasi che il motore possa fuggire dal cofano da un momento all’altro. Ottimo il manuale a 6 marce – fa la doppietta automatica in scalata – dotato di innesti secchi e precisi. La dinamica di guida, poi, è una piacevole sorpresa: nonostante la stazza (è lunga 4,8 metri e pesa 17 quintali), la Bullit ha una tenuta di strada elevata, uno sterzo abbastanza pronto e una buona motricità. E andando a spasso con calma, si viaggia in maniera comoda e confortevole. Ciò non toglie che questa Mustang fa diventare il benzinaio un amico di famiglia.

Matera resti così com’è: la modernità la rovinerebbe

La posta in gioco è davvero alta. E non certo per la retorica che si porta dietro la “capitale europea della cultura”: un carrozzone che bisognerebbe, anzi, avere il coraggio di ridiscutere profondamente. No: la posta in gioco è Matera stessa. Ciò che rappresenta: perché Matera, da quando è comparsa all’orizzonte della cultura italiana (dopo il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, 1945), è stata un antidoto all’opinione dominante, a ciò che era successo alle nostre città, ad un rapporto malato con il passato e con il paesaggio.

Matera è, come per incanto, il mondo al contrario: nel 1703 l’abate Giovan Battista Pacichelli la descriveva “di aspetto curiosissimo, situata in tre valli profonde nelle quali, con artificio e su la pietra nativa e asciutta, seggono le chiese sovra le case, e quelle pendono sotto a queste, confondendo i vivi e i morti la stanza. I lumi notturni la fan parere un cielo disceso, e stellato”. I vivi insieme con i morti, il cielo al posto della terra (la povertà come forza, la comunione con la terra come progetto).

Un messaggio universale, come dimostra la bella esposizione fotografica in cui Carlos Solito mette efficacemente in parallelo Matera e Petra, in Giordania: un discorso per immagini sul legame tra pietre e popolo. Mentre l’opulenza artistica di Firenze o Venezia hanno portato al patrimonio artistico come bene di consumo per i turisti, modello che ha finito con inghiottirle e distruggerle, Matera potrebbe imporre il modello opposto. Non diventare mainstream, ma cambiare il mainstream.

Se invece questo 2019 ce la restituisse “normalizzata” (gentrificata, globalizzata, macdonaldizzata…) sarebbe una sconfitta terribile. Viceversa, è possibile che Matera ci apra gli occhi: cioè che permetta al resto di Italia di capire cos’è, la cultura. Qualcosa che non ha a che fare col circo degli eventi, ma con la coltivazione della nostra umanità. Con il pieno sviluppo della persona umana, per dirla con la Costituzione. È su questo metro che bisognerà misurare i frutti dell’anno che si apre: non con i numeri al botteghino, ma con il contributo alla ri-umanizzazione del Paese.

Ero a Matera nel 2013, alla festa per la presentazione del Progetto. Ricordo una rappresentazione teatrale in cui un gruppo di veri braccianti immigrati, tutti africani, parlava e agiva come gli avi dei materani: rendendo così evidente che “loro” fanno oggi lo stesso lavoro e hanno gli stessi, pochissimi, diritti di “noi” ieri. Loro siamo noi. Se Matera sarà capace di ricordare all’Italia verità come questa, sarà una vera capitale della cultura.

Quando uscì il Cristo si è fermato a Eboli, la questione di Matera scoppiò nei palazzi della capitale politica: “Posso attestare che per un pezzo – scrisse Carlo Ludovico Ragghianti – a Montecitorio non si parlò d’altro che del libro di Levi: argomento, si badi, anche agli effetti politici più vivo e produttivo di altri apparentemente più intrinseci. Penso che sarebbe del resto un bel segno di avanzamento una discussione parlamentare fondata sul messaggio umano di un libro di poesia o di un’opera d’arte”.

Certo, sarebbe ingenuo pensare che Matera 2019 faccia capire – che so – a un Bonafede perché un omicida detenuto non cessa di essere persona e da persona vada trattato. O a un Salvini perché l’eventuale referendum sul Tav dovrebbe esser votato in Val di Susa o non in tutta Italia: per non fare che due esempi che hanno a che fare con l’idea di umanità, e con quella di comunità territoriale.

Forse Matera 2019 non avrà questo potere: ma questo è il dibattito che dovrebbe suscitare. La parte migliore della città e i responsabili del Progetto sono perfettamente consapevoli del rischio e delle possibilità. L’ansia e i timori del sindaco (Raffaele De Ruggieri, che alla fine degli anni cinquanta fondò la mitica associazione La Scaletta e fu il primo materano che tornò a comprar casa nei Sassi) sono fondati, e sono quelli di tutti noi. Ma la via migliore per vincere la partita è giocare all’attacco, facendo della diversità una strategia, dei limiti (di infrastrutture, trasporti, modernità) una forza.

Come ha ben scritto Nicola Lagioia su Repubblica, l’obiettivo è fare di Matera un luogo capace di elaborare una visione diversa: non uno dei mille empori di consumo culturale, ma un centro di produzione originale. Dove si pensi un altro modo di vivere ed abitare. Insomma, un processo che faccia assomigliare la modernità a Matera, e non il contrario. Per dirla con Agostino Riitano (coautore del Progetto e tra i responsabili della sua attuazione), lo scopo è “creare un sistema culturale che, anche dopo l’evento, possa continuare a prosperare, con un bagaglio di strumenti, relazioni e linguaggi che rendano il Sud uno dei territori più attraenti per produzione culturale e l’innovazione sociale europea”.

Per questo non ci si è limitati a comprare eventi sul mercato internazionale, come si fa di solito in questi casi, ma si è affidato metà del cartellone a imprese culturali lucane: e non gettando loro addosso finanziamenti a pioggia, ma costruendo insieme i progetti, e commisurando i fondi. Per evitare che all’allegra alluvione di quattrini segua il deserto, come quasi sempre finisce in questi casi.

Come vincere la scommessa? “Il solo modo – ha scritto ancora Levi – sarebbe di trovare quella parola che, suscitando forze nuove, buttasse all’aria la scacchiera e trasformasse il gioco in una cosa viva. Sarebbe stata detta, questa parola”. Noi lo speriamo.

Nuto, il partigiano scrittore sempre dalla parte dei vinti

“Ho sempre lavorato solo sulla memoria, prima sulla mia, poi ho dato la parola agli altri, a quelli che non avevano gli strumenti per dire e raccontarsi.” Così Nuto Revelli, nel luglio del 1999, dalla quiete di un albergo di Verduno, nelle Langhe, in occasione del suo ottantesimo compleanno riassumeva il senso della sua esistenza.

Lui amava rammentare di avere avuto dieci vite. Era sopravvissuto alle steppe della Russia, alla guerra dei poveri soldati italiani mandati a morire da Mussolini con le scarpe di cartone nella neve; una guerra a cui aveva preso parte da ufficiale della divisione Tridentina. Con il ricordo degli alpini caduti sul Don, spesso uccisi dagli stessi alleati tedeschi, e con il desiderio bruciante di vendicarli, non aveva esitato nel settembre del 1943 a salire sulle montagne della sua Cuneo, per combattere i nazifascisti, con le prime bande partigiane.

Dopo la Liberazione, l’ex ufficiale delle penne nere in Russia, il comandante partigiano di Giustizia e Libertà, aveva continuato la Resistenza e l’affermazione dei suoi valori raccogliendo le testimonianze e i racconti degli umiliati e degli offesi, dei senza storia, degli uomini e delle donne delle valli cuneesi scarnificate dalla guerra, dalla fame, dall’emigrazione, dal boom economico che spopolò le montagne e le colline. Erano i vinti, insomma, della guerra e del dopoguerra. Quei vinti che hanno popolato tutti i suoi libri, pubblicati da Einaudi: da La guerra dei poveri a Mai tardi, L’ultimo fronte, Il mondo dei vinti, L’anello forte, Il prete giusto.

Nuto Revelli è morto a Cuneo il 5 febbraio del 2004. E a Cuneo era nato il 21 luglio del 1919, cento anni fa. Le iniziative per il centenario, che saranno promosse attraverso il comitato presieduto dal professore Gastone Cottino e la Fondazione Nuto Revelli di Cuneo, non si limitano però soltanto a ricordare Nuto. Si collegano invece a due suoi grandi amici: Primo Levi, del quale a sua volta ricorre il centenario della nascita (il 31 luglio del 1919) e Mario Rigoni Stern (nato nel 1921 e scomparso nel 2008).

È un legame stretto “quello dei tre amici – spiegano il sociologo Marco Revelli, figlio di Nuto, e la saggista Antonella Tarpino, curatrice di una raccolta di inediti revelliani (Il popolo che manca) – che è cementato dal comune odio per il fascismo, dal bisogno di raccontare per una sorta di dovere morale verso chi non ritornò dall’orrore dei lager nazisti e dalla guerra, e dall’amore per la montagna”.

In una poesia dedicata proprio a Mario e a Nuto, Primo Levi descrive splendidamente il loro legame indistruttibile, l’amicizia nata tra chi non si fece pietrificare dalla Medusa del nazifascsmo, della guerra fascista, dei campi di sterminio: “Ho due fratelli con molta vita alle spalle / nati all’ombra delle montagne. / Hanno imparato l’indignazione / nella neve di un Paese lontano, / e hanno scritto libri non inutili. / Come me hanno tollerato, la vista / di Medusa, che non li ha impietriti. / Non si sono lasciati impietrire / dalla lenta nevicata dei giorni”.

Le manifestazioni in memoria di Nuto e dei “tre amici – dice Marco Revelli – avranno come epicentro Cuneo, la città da cui mio padre non si allontanò mai, con estensioni a Torino, la città di Levi, e Asiago, la città di Rigoni Stern”. Per quest’anno, ma anche fino al 2021, anno del centenario della nascita di Mario Rigoni Stern, sono in programma mostre, dibattiti, ristampe dei libri di Nuto con nuove introduzioni, probabilmente un album di testi e di immagini sui “tre amici”, e convegni.

Uno di questi ultimi, a Cuneo, avrà al centro, prosegue il figlio di Nuto, “ciò che innervò le esistenze di mio padre, di Primo Levi e di Mario Rigoni Stern, i tre che non si fecero pietrificare dalla Gorgone: dunque la guerra fascista e il riscatto con la guerra di Liberazione, il dovere di raccontare, e la montagna, a cominciare da quella del Mondo dei vinti e delle donne dell’Anello forte, le vittime delle guerre, la prima e la seconda, e del dopoguerra: i vinti sacrificati al dio sviluppo”.

Per loro, dopo la fine della guerra, Nuto Revelli aveva cominciato a scrivere. “All’inizio – disse in un’intervista – sentii il bisogno di gridare la mia verità sulla guerra, sulla Russia, perché pochissimi conoscevano gli elementi di quella storia. Dopo ho voluto parlare degli altri, dei soldati italiani che erano stati prigionieri in Russia, dell’esodo immenso dalle zone povere delle montagne, in quegli anni di industrializzazione caotica, di contadini che conobbero le buste paga dell’industria”.

Rimuovere la memoria, ripeteva Nuto, “vuol dire cadere nell’ignoranza totale. Capisco che i giovani d’oggi, per loro fortuna, non possono contare sulle esperienze che abbiamo avuto noi. Ma se si vuol capire, gli strumenti ci sono. Altrimenti, questi ragazzi ripartiranno da zero: ripetendo esperienze che noi abbiamo già vissuto”.

Nel 1999, per i suoi ottant’anni, l’Università di Torino gli conferì la laurea honoris causa. Nel discorso che pronunciò, Revelli volle ritornare ancora sul binomio indissolubile memoria-libertà.

Parlando delle storie raccolte e narrate nel Mondo dei vinti e nell’Anello forte, affermò di avere voluto “dare voce a chi era costretto, ancora una volta, a subire le scelte sbagliate degli ‘altri’. Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della ‘generazione del littorio’. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta”.

Un tempo era il paese di musica e bel canto

La fiction di Rai Uno “La compagnia del Cigno” ha per alcuni il merito di portare a milioni di telespettatori un mondo in Italia poco noto: quello della musica sinfonica e dei conservatorii. Secondo altri, però, ha anche il demerito di raccontare questo universo in maniera assai distorta.
In effetti, la figura del maestro “terribile”, quello che continuamente interrompe, insulta, punisce, elimina è piuttosto grottesca. Già a cominciare da come ne è rappresentata la gestualità.

Quando l’attore protagonista “dirige” i giovani strumentisti, non ha alcun dialogo con loro, con le braccia, con le mani, con lo sguardo (sempre truce), con la fronte. Non li orienta, non li sollecita, non li frena. Con lo sguardo fisso, alza e abbassa braccia e mani in modo monocorde e poi… s’infuria. I ragazzi sono bravi, piacevoli, i loro caratteri ben sbozzati, ma la Musica dov’è, se non in loro?

Gli allievi sono tanti nei Conservatori ma soprattutto non imparano sin da piccoli a suonare insieme, o entrano tardi e non si esercitano mai coi compagni. Per rimediare a questa lacuna fondamentale nacque anni fa la Scuola di Fiesole, voluta dal grande Piero Farulli, viola del Quartetto Italiano. Essa continua a sfornare strumentisti pronti per entrare nella propria Orchestra Giovanile Italiana, nelle (poche) nostre orchestre e per spargersi per il mondo. Purtroppo Conservatori e Istituti equiparati si sono moltiplicati in modo clientelare: creati, o promossi da Licei Musicali a Conservatori, dove c’era un potente della politica. E si vede, si sente.

Inoltre hanno molto contato le mode. Anni fa ricordo che al Conservatorio di Frosinone c’erano quattro cattedre di pianoforte e una, a stento, di violino. Tutti Benedetti Michelangeli, Pollini o Richter.

Ma se va maluccio per la formazione degli strumentisti, va peggio, spesso, per la didattica vocale, per la formazione dei giovani cantanti. “Nei Conservatori – recita un detto – si entra con la voce e se ne esce senza”. E non è troppo pessimistico.

Nel 2001 ero nel CdA della Rai e decidemmo unanimemente, presidente Roberto Zaccaria, di varare la seconda (e purtroppo ultima) edizione del Concorso Maria Callas. Il compianto Bruno Cagli, grande anche come “vociologo”, vagliò con varie giurie ben 1000 voci in 5 centri di ascolto portandone 100 alle semifinali di Busseto. Dove arrivarono tre bassi dal Mariinskij e sbaragliarono il campo: vincitore quell’Ildar Adbrazakov che sei mesi dopo era protagonista del “Turco” alla Scala inaugurata quest’anno con Attila. Eppure eravamo il Paese della Musica e del Bel Canto.

Pochi sbocchi, meno fondi e vecchi edifici: conservatorio in crisi

L’alta formazione musicale italiana attende da tempo interventi migliorativi che, a onor del vero, non sono mai giunti. L’ultima riforma partorita, la celebre legge 508 del 1999 che solo negli ultimi anni ha trovato effettiva applicazione, trasformando i conservatorii in università, ha peggiorato le cose, soprattutto da un punto di vista didattico. Se infatti il vecchio ordinamento consentiva a un giovane musicista di diplomarsi anche prima della maggiore età, oggi laurearsi entro i ventitré anni è divenuta impresa assai ardua.

E non è una buona notizia, almeno per due motivi: la musica è materia che è bene coltivare fin dalla più tenera età, e bloccare un musicista nella fase della formazione fino, almeno, ai ventitré anni equivale a limitarne la carriera concertistica.

Non solo: la nuova riforma ha inoltre fatto sì che il monte ore dedicato a materie meno utili per la crescita musicale e performativa di un musicista andasse a pareggiare, o in taluni casi a superare, quello della didattica specifico sullo strumento. È così che oggi uno studente di canto, contrabbasso, clarinetto o qualsiasi altro strumento, si trova, in molti casi, a dover dedicare molte più ore di corso a materie come inglese o storia della musica (discipline peraltro già ampiamente affrontate nel corso dei cinque anni di liceo musicale, preparatori all’ingresso negli attuali conservatori) che al proprio strumento: “Il numero delle ore delle prassi vocali e strumentali – afferma il Maestro Francesco Pollice, direttore del conservatorio Fausto Torrefranca di Vibo Valentia e vicepresidente del Cidim (il Comitato nazionale italiano musica) – dovrebbe essere adeguato alle esigenze dei risultati performativi, ma attualmente non è così”.

C’è poi un aspetto solo in apparenza meno rilevante: il nuovo sistema, basato come qualsiasi altro indirizzo universitario sull’accumulo dei crediti formativi, ha burocratizzato e reso molto più asettico un percorso di studi, quello musicale, di natura molto diversa rispetto agli altri.

Interessante è poi il dato relativo al numero complessivo delle cattedre degli attuali conservatori: secondo gli ultimi dati disponibili (biennio 2016/2017) sono circa 7.000 unità. Un numero che cozza con quello, certamente inferiore, dei musicisti attualmente impiegati nelle orchestre finanziate pubblicamente.

Altro tasto dolente è quello relativo all’esiguità degli sbocchi professionali a cui va incontro un musicista italiano appena laureato: a fronte di Paesi come la Germania, dove le orchestre finanziate pubblicamente sono ben 118, in Italia, tra Ico (Istituzioni Concertistico Orchestrali) e complessi strumentali di vario tipo (tra cui quelli giovanili), sono appena 31.

È questo uno dei motivi per cui soltanto il 53 per cento dei diplomati (o laureati, che dir si voglia) trova oggi un impiego, laddove la scuola – assorbendone il 30 per cento – rappresenta ancora il principale datore di lavoro di queste persone.

In altre parole, si potrebbe dire che in Italia la musica viene molto più insegnata che suonata, la qual cosa certo bene non fa alla qualità stessa dell’insegnamento, che avrebbe bisogno di continua prassi.

Riguardo ai docenti c’è poi un ulteriore questione: “Il vero problema è il reclutamento, – fa notare il Maestro Francesco Pollice – come si individuano i docenti se li si può selezionare solo attraversoi curricula, basandosi sui titoli?”.

E all’esiguo numero di orchestre presenti sul suolo nazionale va ad aggiungersi il frequente rischio di azzeramento dei fondi disponibili: recente è infatti la notizia del mancato finanziamento ministeriale, per un ammontare di 200.000 euro, all’Ogi (l’Orchestra Giovanile Italiana di Fiesole), che fa il paio con il taglio da 80.000 euro all’Estate Musicale Frentana di Lanciano, circostanza che ha portato alle dimissioni del suo direttore artistico, il Maestro Donato Renzetti.

Ma ai guai d’ordine amministrativo e normativo vanno a sommarsi anche alcune considerazioni di tipo strutturale: gli edifici all’interno dei quali hanno sede i nostri conservatorii sono oltremodo vecchi e per nulla consoni ai più odierni standard formativi d’ambito musicale, che prevedrebbero insonorizzazioni e apparecchiature al momento inesistenti nella maggioranza dei nostri istituti. E menomale che la chiamano “alta formazione”.

Vendo, compro e recensisco: il suq online dei bonus cultura

È il gran bazar virtuale dei bonus cultura. O meglio, lo era, dato che su Facebook è stato appena chiuso. Ma non ci vuol certo l’intuito di Sherlock Holmes per capire che un sistema così organizzato ci metterà poco per rinascere da qualche altra parte. Soprattutto perché a muoverlo sono loro, i diciottenni – generazione smart, nativi digitali e tutto il resto – che da qualche anno godono dei 500 euro del bonus cultura, un omaggio inventato dal governo Renzi, replicato da Gentiloni e adesso confermato in manovra dai gialloverdi.

Di anno in anno i nuovi beneficiari si ritrovano nei gruppi su Facebook per capirci qualcosa in più, per aiutarsi con l’iscrizione al servizio digitale e per darsi qualche consiglio su come spendere il generoso bonus destinato a libri, film, musica e musei. Ma anche, se non soprattutto, per intavolare trattative degne di Wall Street. “Vendo buono”. “Compro bonus al 50 per cento”. “Vendo 300 euro di sconto”. E così mille altri messaggi. Tutti di ragazzi che hanno messo in piedi un commercio al di fuori del gruppo “ufficiale” del bonus 18 app, che da tempo ha deciso di bannare (ovvero bandire) i mercanti. Il cui nuovo tempio era diventata appunto una community parallela, in cui gli amministratori lasciavano libera – meglio: sollecitavano – l’etica protestante e lo spirito del capitalismo dei neo-maggiorenni. Che non si sono fatti certo pregare.

Funzionava (e funzionerà presto altrove) così: chi ha un bonus (intero o rimanente, 300, 200 o 100 euro) può scrivere un messaggio in bacheca, come se ne vedono tutti i giorni: “Vendo il mio bonus da 250 euro, pagamento Paypal/in contanti su Roma.” O su Milano, Bologna, dove capita. A quel punto gli interessati si fanno avanti, magari pubblicamente con un like o con un commento (per far intendere a tutti che il bonus è “prenotato”) e poi in privato, dove si definiscono i dettagli dell’affare. Stessa storia, non meno frequente, per chi mette annunci per acquistare: “Mi serve bonus da 300 euro”. Ed ecco che chi non ha denti per approfittare del proprio pane si fa avanti, offrendo le credenziali per accedere al bonus personale in cambio di soldi.

Fin qui, al di là del mezzo tecnologico, nulla di molto nuovo rispetto alle inchieste di un paio d’anni fa, che già avevano evidenziato una certa dinamicità di questi bonus, al centro di contrabbandi in mezz’Italia. Ora però c’è lo step successivo. In questi gruppi privati i giovani hanno potuto metter su un meccanismo talmente collaudato da stare in piedi su un sistema di recensioni, di feedback. Una specie di TripAdvisor del bonus dove, grazie alle referenze di venditori e acquirenti passati, i membri della comunità acquistano attendibilità e potranno più facilmente concludere affari in futuro.

È lo stesso principio di BlaBlaCar, AirBnb o qualsiasi altra app che si basi sulla fiducia interpersonale: quando si chiude una trattativa, si corre sul gruppo a “recensire” il contraente: “Appena conclusa vendita con Andrea. 400 euro di bonus pagati al 50 per cento in contanti”. Significa che i due ragazzi si sono visti e lo scrivente ha appena ricevuto 200 euro cash per trasferire i suoi 400 virtuali ad Andrea. Andrea ringrazia per la recensione e ricambia. Finisce lì, però poi quando qualcuno troverà mai un’offerta di uno dei due giovani sul gruppo potrà scrivere il loro nome nella barra di ricerca e compariranno tutte le recensioni a loro carico. E se qualcuno viene segnalato come negativo, gli amministratori verificano che cosa non è andato bene e prendono provvedimenti: “Segnalo Alberto come poco affidabile. Ho ceduto il mio bonus ma non ho ricevuto i soldi”. Risposta: “Avevamo già provveduto a eliminarlo dal gruppo, non so come abbia fatto a iscriversi di nuovo”. O ancora: “Mario (ma c’è anche il cognome, nda): Truffa! Ci andrò a far visita di persona, vediamo se gli passa la voglia di comprarsi il mangiare rubando agli altri”.

Già, perché non manca chi se ne approfitta. D’altra parte il giro economico attorno al bonus non è niente male. Botte di 2/300 euro, in una fase della vita in cui di soldi – in genere – se ne vedono pochi e si può approfittare del buono per far cassa, comprare per sé o sopperire ai dolorosi esborsi dei regali per i diciottesimi compleanni degli amici.

Come sempre, anche qui domanda e offerta si incrociano. Gli stessi dati forniti dal ministero della Cultura, riferiti ai primi due anni di erogazione del bonus, evidenziano come gran parte degli utenti non utilizzi – o non abbia neanche richiesto – il gentile omaggio. Nel 2017 le richieste sono state 351.522, pari al 61 per cento degli aventi diritto (circa 575mila). Numeri molto simili a quelli del 2018, che hanno portato il governo Conte a stanziare, per il 2019, 50 milioni di euro in meno per il bonus – da 290 a circa 240 – non perché siano stati ridotto l’importo per il singolo utente, ma perché è probabile che, ancora una volta, una grossa fetta dei ragazzi (la platea potenziale è di mezzo milione di persone) non lo richieda. Sempre che, a questo punto, anche i disinteressati non vogliano darsi da fare nel mercato online dei buoni.

Esca dalle logiche ottocentesche e torni alla stagione riformista

Non voglio schierarmi con nessuno dei due candidati, perché è giusto che il congresso della Cgil scelga il suo segretario senza interferenze di un rappresentante della Cisl. Ho un’amicizia personale con Maurizio Landini e stimo molto Vincenzo Colla, ma a prescindere da questo mi auguro che il sindacato torni a ispirarsi alla tradizione dei segretari riformisti, quella segnata dai Bruno Trentin e dai Luciano Lama.

Negli ultimi anni la Cgil ha avuto posizioni quasi reazionarie di fronte ai cambiamenti del mondo del lavoro, sarebbe ora che rientrasse in campo con una modernizzazione. Dico “reazionarie” perché ho l’impressione che sia rimasta prigioniera di idee ottocentesche, senza riuscire a vedere il futuro del lavoro e senza neanche conoscere le condizioni delle persone oggi. È stata piuttosto una Cgil molto vicina al “populismo sindacale”, che io considero come l’ostetrica del populismo politico. Quando si dice che tutti i problemi del mondo del lavoro sono figli dell’Unione europea e della globalizzazione si alleva una certa parte politica, le si fa da trampolino. E così è stato.

Ho grande rispetto per la Cgil, ma su questo aspetto deve imporsi un rinnovamento. Essere sindacato significa promuovere giustizia insieme e lo si fa solo tenendo connesse l’emergenza e la prospettiva: da una parte bisogna concentrarsi sulla risoluzione delle crisi aziendali, dall’altra, però, serve anche immaginarsi tutele nuove per il domani. Pensare che rimangano le stesse del 900 è sicuramente confortevole per i sindacalisti, perché così non si dovranno mettere davanti a un foglio bianco a pensare nuovi criteri, ma di certo non è adatto a come sta cambiando il mondo del lavoro.

Con Maurizio e una linea unitaria torneremo a riempire le piazze

Al congresso sostengo Maurizio Landini, ma spero che questa fase si chiuda con un quadro unitario, un gruppo dirigente condiviso che, dopo la corsa, sappia lavorare a un progetto comune.

Abbiamo un’occasione unica, perché nella mia esperienza congressuale non ricordo altre circostanze in cui ci sia stato un documento condiviso dal 98 per cento degli scritti, come in questo caso. Il problema, dopo la scelta del segretario, sarà dare visibilità a questo documento anche fuori dal sindacato. E in questo la capacità comunicativa di Ladini potrebbe aiutarci. Maurizio, poi, oltre a un buon rapporto con gli iscritti, ha dalla sua solide relazioni con la rappresentanza sociale: associazioni, organizzazioni non governative, movimenti civici.

Con i problemi enormi che ha questo Paese – dalle disuguaglianze alla mancanza di diritti – e con le politiche inefficaci di questi anni, credo checi siano le condizioni per tornare a quella stagione del sindacato identificata con le grandi lotte e i milioni di persone in piazza. Questo deve essere l’obiettivo del nuovo segretario. Sarà fondamentale andare in quella direzione tutti insieme, in un momento in cui l’intermediazione è in crisi e il sindacato non gode di grande simpatia: dobbiamo far capire che in una democrazia i corpi intermedi sono fondamentali. Ma non solo per i lavoratori, che noi tuteliamo, ma anche per le imprese e per i governi. Chi non li valorizza commette un grave errore: la contrapposizione tra le parti sociali, dal Dopoguerra in avanti, ha sempre portato momenti di rottura, ma che poi hanno consentito un’innovazione, un passo in avanti.

Il congresso più difficile di una Cgil spaccata

Lo scontro è sordo, sotto traccia. Ma c’è e segna in profondità il passaggio più delicato. Che potrebbe vedere o meno, venerdì prossimo, Maurizio Landini alla guida del più grande sindacato italiano, la Cgil. La sua elezione sarebbe una novità rilevante, se non altro in termini di immagine. La sconfitta sarebbe una novità ancora più grande, perché si porterebbe dietro l’intero gruppo dirigente.

Lo scontro interno.Le cronache della vigilia, il congresso inizia domani, parlano di una frattura netta tra l’ex segretario Fiom e l’ex segretario dell’Emilia Romagna, Vincenzo Colla, che si oppone alla proposta avanzata dal segretario generale uscente, Susanna Camusso. Gli uomini del primo vantano una maggioranza dei delegati al congresso che oscilla tra il 57 e il 62%, il secondo è convinto di avere un vantaggio di circa 50 delegati su 868. Nel panorama della sinistra politica e sociale, dunque, anche la Cgil si presenta con una crisi interna e una spaccatura inedita. Mai si era rischiato di veder concludere un congresso sindacale con due platee così contrapposte. La Cgil è stata smpre plurale, ma anche quando ci sono stati conflitti aspri, la mediazione interna al gruppo dirigente li ha gestiti. Come è accaduto con la successione a Bruno Trentin nel 1994 quando una consultazione tra i dirigenti fece emergere il nome di Sergio Cofferati contro quello di Alfiero Grandi.

Il conflitto, del resto, riguarda solo il gruppo dirigente perché nelle 46.788 assemblee di base il tema della futura segreteria non è mai stato discusso. Anzi, entrambi gli sfidanti hanno votato a maggioranza bulgara lo stesso documento che ha ottenuto il 98% circa dei voti con il 2% alla piccola opposizione di “Riconquistiamo tutto” rappresentato da Eliana Como. Un problema evidente di trasparenza della discussione.

Le regole interne alla Cgil sono poi ancora quelle della sinistra tradizionale: una volta decideva tutto il Comitato centrale, ora deciderà tutto una Assemblea generale di circa 200 membri che verrà eletta al Congresso di Bari – giovedì prossimo – e che avrà la parola decisiva sul segretario. Quell’Assemblea potrebbe però essere eletta da due liste contrapposte guidate da Landini e Colla, dando rappresentazione plastica alla divisione. A meno di un accordo in extremis, magari sulla composizione della futura segreteria o di incarichi organizzativi.

L’avversario.La scelta di opporsi alla proposta Landini coagula umori e tendenze diverse. C’è chi non si è dimenticato gli scontri interni, ad esempio sul caso Fiat, e le accuse che l’ex segretario Fiom lanciava all’allora gruppo dirigente. A ricordare la portata di queste divergenze è stato il segretario della categoria Tessili e Chimici, la Filtcem, Emilio Miceli. C’è poi una impostazione sindacale più pragmatica, interpretata da Colla, orientata al “governo dei processi”, a un rapporto anche conflittuale con le imprese, ma finalizzato ad accordarsi per gestire processi di innovazione o anche di sostegno a opere come il Tav. Prevale poi la preoccupazione di salvaguardare la Cgil dai rischi di una gestione “movimentista”, come la Fiom è sempre stata, espressione che, nel linguaggio di oggi, può far rima con “populista”. C’è, insomma, un gruppo dirigente che vuole evitare quel salto nel buio che Landini, ai suoi occhi, rappresenta. E poi c’è, tesi sostenuta nei piani alti di Corso d’Italia, il nodo della politica.

La Cgil che si oppone a Landini lo fa anche perché si sente, pur rivendicando un’autonomia sindacale e sociale, parte di una certa sinistra. “Sogno un partito prograssista” dice spesso Colla, da intendersi come interlocutore politico e parlamentare. E però questa posizione viene vista dagli avvesari come un mettersi a disposizione di un nuovo Pd, de-renzizzato. È l’accusa, sia pure tra le righe, che viene rivolta, ad esempio, a Ivan Pedretti, segretario dello Spi, il sindacato dei Pensionati, la principale categoria che si oppone a Landini e che rappresenta il 48% degli iscritti (anche se, per una convenzione interna, conta solo il 25% negli organismi confederali). Landini, da questo punto di vista, non garantisce l’ancoraggio giusto, è uno che ama sempre il nuovo nelle varie forme in cui si presenta, dicono i suoi detrattori: la sinistra di Sel, ma anche il M5S o, ricordano i più maliziosi, nel punto di più aspro conflitto con Camusso, un rapporto anche con Matteo Renzi.

La strana coppia. La candidatura Landini, invece, nasce nel corso di una fase nuova del sindacato. Innanzitutto, proprio lo scontro con il Pd renziano e la difesa dell’articolo 18 quando per la prima volta la Cgil ha scioperato contro il governo “amico”. La scelta di costruire uno “statuto dei lavori” raccogliendo le firme e creando un profilo indipendente rispetto alla sinistra politica ha consentito così, alla “strana coppia” Landini-Camusso, di chiudere una contrapposizione storica. Sembrano lontani i tempi in cui, nella Fiom di Claudio Sabattini, Camusso faceva parte della corrente socialista che animava i “riformisti” contro i massimalisti guidati dall’ex leader torinese e rappresentati nel tempo da figure come Fausto Bertinotti, Gianni Rinaldini fino allo stesso Landini. Quella storia si chiude e la Cgil oggi si presenta come un “animale nuovo” in cui la segreteria Landini potrebbe rendere visibile a tutti una novità che è già avvenuta nella vita interna. Non a caso tra le idee che circolano in queste ore c’è anche l’ipotesi di un incarico di rilievo alla stessa Camusso.

Resta la crisi. Ma in ogni caso non sarà una passeggiata, perché la crisi del sindacato è notevole. Non avere più la sponda della concertazione significa dover conquistare risultati con le lotte e gli scioperi. Due beni rari nel conflitto sociale del nostro tempo. La Cgil, come gli altri sindacati, poi, nonostante slanci generosi e lotte indubbie, ha perso gran parte della sua presa nel mondo del lavoro, è chiaramente un sindacato di funzionari, vive di strumenti per nulla conflittuali, come gli enti bilaterali o le strutture di servizio come i Caf e i Patronati.

Landini è stato individuato anche per l’appeal mediatico e il carisma popolare. Requisiti che fanno dire ai suoi oppositori che la Cgil rischia di affidarsi “all’uomo solo al comando”.

Ma nella Cgil gira anche un altro detto: “Un segretario di categoria è un Papa, un segretario confederale è un cardinale”. Se il primo fa un po’ come vuole, il secondo deve confrontarsi con il gruppo dirigente. E sarà probabilmente così anche per Landini che, non a caso, confermerà l’intera segreteria uscente scelta da Camusso. Ma, soprattutto, se eletto, dovrà misurarsi con la prova del confronto-scontro con il governo. E con i suoi elettori, molti dei quali hanno la tessera Cgil oppure hanno guardato a lui come a un riferimento possibile. Lo scontro se ci sarà – finora non c’è stato – non sarà indolore e potrebbe innescare una dinamica nuova. Ma questa è un’altra storia. Per ora occorre vedere come andrà a finire il congresso.