“I cittadini sono sconcertati dalle lobby giudici-politici”

Sebastiano Ardita, già procuratore aggiunto a Catania, oggi è consigliere di Autonomia e Indipendenza, la corrente del Csm che rappresenta al Consiglio insieme a Piercamillo Davigo.

La vostra corrente ha approvato un comunicato critico sulla cena dell’associazione Fino a prova contraria. C’erano una volta magistrati accusati di fare un braccio di ferro continuo contro la politica, ora vanno a braccetto con ex indagati alle cene. Che succede?

Non bisogna generalizzare, né demonizzare chi ha partecipato a quello che era comunque un evento pubblico. E aggiungo che peggio sono le cene private. Ma dobbiamo approfittare della maggiore capacità di emersione di questi fenomeni per fare chiarezza una volta per tutte. Il problema è che l’accordo tra poteri – politico-economico e giudiziario – sconcerta i cittadini. Se la élite rappresentativa di una democrazia rinuncia alla funzione di controllo reciproco, finisce per indurre nel popolo sentimenti di rivalsa. Questa reazione – per molti versi legittima – viene definita con disprezzo populismo. Può anche essere considerato un male in sé, ma è certamente la spia di un male ancora più grave.

C’è quindi il rischio che i cittadini si sentano esclusi da una sorta di casta composta da politici, boiardi e grandi imprenditori, una specie di lobby delle classi agiate che non vogliono indagati imputati e condannati tra di loro all’insegna del garantismo?

Nell’ottica dell’accordo tra poteri, che abbiamo criticato, è questo il messaggio che dobbiamo evitare.

C’è una fase nuova di corteggiamento tra questa sorta di lobby e settori importanti di politica e magistratura?

Diciamo che il potere ha una sua forza di attrazione, ma i magistrati hanno un ordinamento che ne garantisce autonomia indipendenza e dignità: possono resistere ad ogni tipo di seduzione. Chi non resiste può andare a fare altro. Naturalmente mi riferisco solo ai rapporti che incidono sulla integrità della funzione giudiziaria, altra cosa è il confronto culturale. Anche io ho partecipato a convegni dove dal palco si parlava di argomenti tecnici e in questo non vedo nulla di male.

C’è un clima culturale che mette in minoranza i pm che indagano sui potenti? Tanti applaudono se non si indaga, si archivia, si proscioglie o si assolve un imprenditore. Il pm può chiedersi: ma chi me lo fa fare di andare contro il potere con un’inchiesta delicata se poi rischio l’isolamento, la gogna e magari un procedimento al Csm?

Non siamo ancora a questo per fortuna. Anche se molti sarebbero contenti che non si indaghi, il Csm esiste per dare forza e sostegno a chi svolge il proprio dovere anche quando va contro i potenti. Non voglio parlare del passato, ma in questo Csm credo che sarà così.

Negli ultimi mesi sono emerse tante inchieste nei confronti di magistrati. L’ultima in Calabria, ma in passato sono stati coinvolti magistrati da Roma alla Sicilia. Che succede?

Guardando il bicchiere mezzo pieno, i magistrati non coprono, ma anzi reprimono rigorosamente le condotte dei loro colleghi. Se si inverte l’ottica, fa impressione leggere di comportamenti tenuti da chi svolge funzioni giudiziarie che sono degni della delinquenza comune. Mi riferisco ai fatti accertati giudiziariamente e su cui anche il Csm ha operato le sua valutazioni.

C’è un calo di tensione morale nella magistratura?

Credo e spero che non sia così, per le ragioni che ho espresso. Il calo morale può riguardare singoli individui, ma la categoria mostra di avere gli anticorpi e risponde. Sono i colleghi stessi che ci chiedono rigore nei confronti di certe indecenze, mentre chiedono comprensione per i possibili errori derivanti dal superlavoro. Comunque non è mai sbagliato l’invito a tenere elevata la tensione.

Il caso Montante coinvolge politici e magistrati, il caso Amara coinvolge politici e magistrati. L’ultimo caso che riguarda alcuni imprenditori, tra cui l’ex socio di Tiziano Renzi, Luigi Dagostino, coinvolge magistrati che andavano a incontrare politici. Il Csm che sta facendo? Dalle cronache sembra che abbia dedicato più energie a processare il pm Henry John Woodcock che i magistrati vicini a questi giri politici.

Sul caso Woodcock mi sono già espresso e questo mi è già costato qualche astensione nelle pratiche del nuovo Csm. Ribadisco che non vale la pena di guardare al passato. Siamo qui da tre mesi, abbiamo iniziato a dare risposte.

C’è stata una giusta indignazione per il video su Battisti, ma nessuna per altri innocenti sbattuti sulle tv spesso con la complicità degli inquirenti. La politica mette su facebook pubblicamente i video della cattura che un tempo gli investigatori giravano ai giornali e alle tv, in segreto. Sembra quasi una gara tra il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario e quello web-politico. Lei si indigna?

Io non sono indignato per Battisti, più di quanto non potrei esserlo per un comune cittadino. I media – è inutile negarlo – stravolgono molti equilibri e possono rappresentare uno di quei condizionamenti ai quali i magistrati devono resistere nell’esercizio delle loro funzioni. La politica senza i media non esisterebbe. La giustizia, in una democrazia normale, fermo restando il controllo del quarto potere, potrebbe fare a meno della vetrina mediatica.

Tiziano all’ex operaio: “Via, faccia di merda”

L’insulto è servito: “Ci vediamo in tribunale! Faccia di merda. Ma stai zitto, faccia di merda”. Così Tiziano Renzi ha aggredito Evans Omuigui, accompagnato a Rignano sull’Arno delle Iene a chiedere conto di un credito di quasi 90mila euro. La scena è andata in onda ieri sera alle Iene, che da tempo incalzano babbo Renzi sui debiti di una sua ex azienda, l’Arturo srl, condannata dal Tribunale di Genova a risarcire Omuigui per licenziamento inefficace. Ma Tiziano, incontrando la iena e l’ex dipendente, si è non poco alterato. Nella stessa puntata, Le Iene hanno anche indagato sui rapporti tra il premeir Giuseppe Conte e il professor Guido Alpa, il suo maestro (i due hanno sempre detto di non essere soci in affari). Per verificare la versione del presidente, le Iene hanno chiesto un accesso agli atti all’Autorità della privacy, che nel 2001 usufruì della difesa di Conte e Alpa. Il premier ha assicurato che l’ente emise due fatture separate, senza però poterlo dimostrare. Per questo Le Iene hanno domandato all’Autorità, prima però che Guido Alpa si opponesse alla richiesta “in ragione del diritto e della riservatezza”. Il caso è finito dunque al Tar, che dovrebbe dare una risposta definitiva sulla questione entro il mese di marzo.

Crescita, anche Zingaretti è senza idee

Era già arduo capire perché Nicola Zingaretti volesse fare il segretario del Pd, visto che considera il partito un handicap tale da nasconderne il nome nel listone unico anti-populista proposto da Carlo Calenda per le europee. Ma dopo aver letto il suo manifesto economico pubblicato ieri sul Corriere della Sera l’ambizione del governatore del Lazio è ancora più incomprensibile: perché scegliere un nuovo segretario che vuole applicare la solita ricetta di politica economica (peraltro inapplicabile)?

Zingaretti battezza il suo approccio “economia giusta”, citazione forse inconsapevole del testamento intellettuale di Edmondo Berselli. Il grande giornalista, già malato, scrisse quel libro per Einaudi nel 2010 per mettere in guardia da un futuro in cui le promesse della crescita non sarebbero state mantenute e nel quale bisognava prepararsi a essere più poveri, privilegiando la redistribuzione sulla creazione di Pil.

Nell’“economia giusta” di Zingaretti, invece, ci sono slogan usurati come “coniugare la crescita con l’equità sociale” o “connettere il tema della crescita con la qualità del lavoro”. Segue l’inevitabile lista della spesa: visto che Lega e Cinque Stelle hanno vinto le elezioni con un programma da circa 100 miliardi di promesse (non tutte mantenute, a cominciare dalla flat tax), Zingaretti non può essere da meno. Per i giovani 18 miliardi, non si capisce per cosa e a chi, mettendo “al centro l’università”. Poi un punto di Pil di investimenti aggiuntivi, altri 18 miliardi. Già così siamo a 36 miliardi, ma poteva mancare la promessa più ripetuta dai partiti italiani negli ultimi 25 anni? Ovviamente no, e quindi c’è anche la riduzione del cuneo fiscale, ma solo per i contratti a tempo indeterminato.

Per completare la lista di luoghi comuni economici, ecco anche “un poderoso piano di agevolazioni per l’accesso al credito”, non solo per le imprese, “ma anche per le persone, per il finanziamento delle idee”. Traduzione empirica: aiuti alle imprese sul costo del lavoro e aiuto indiretto alle banche, che intascano i rendimenti sul credito a soggetti a rischio mentre lo Stato si fa carico di eventuali perdite.

Inutile chiedersi da dove arrivano le risorse: la risposta è in perfetta continuità con quella politica da cui Zingaretti vorrebbe distinguersi, cioè “lotta all’evasione” e “tagli agli sprechi”, ma guai a specificare se questo significa per caso abbassare le soglie di non punibilità fiscale (fissate altissime proprio dai governi Pd, per assicurarsi che nessun evasore finisca in carcere) o fare dolorose riduzioni di spesa pubblica (i 10 miliardi del bonus degli 80 euro renziani sono uno spreco da eliminare?).

Se andate a riprendere i discorsi di Matteo Renzi tra 2012 e 2013, potrete esercitarvi nel gioco “trova le differenze”. Ma soprattutto, in cosa questo programma è diverso da quello degli altri sfidanti per la segreteria del Pd? C’è un solo punto su cui loro potrebbero essere in disaccordo? O Zingaretti interpreta in modo perfettamente unitario lo spirito del Pd, o ha scritto soltanto banalità prive di contenuto politico.

Più precari assunti: da Nord-Est parte il ritorno del posto fisso

Arriva dal Veneto un nuovo piccolo segnale incoraggiante per il mercato del lavoro. Nella Regione simbolo del “ricco Nord-Est”, tra ottobre e dicembre 2018 c’è stato un importante aumento delle stabilizzazioni di contratti a termine. Vale a dire che è cresciuto, rispetto ai trimestri precedenti, il numero di lavoratori precari che hanno ottenuto un posto fisso. Considerando che la stretta sui rapporti a scadenza voluta dal ministro Luigi Di Maio è stata approvata a luglio, convertita in legge ad agosto ed entrata pienamente in vigore il primo novembre, è probabile che le nuove norme contenute nel decreto Dignità abbiano aiutato nella creazione di occupazione più tutelata.

A dirlo è Veneto Lavoro, un osservatorio molto attento alle dinamiche del mercato nel territorio. I dati, va detto, sono parziali e vanno commentati con cautela. Quello più interessante rilevato nell’ultimo trimestre dell’anno appena passato riguarda le trasformazioni dei rapporti a tempo determinato in rapporti stabili. Cioè esattamente quello che il decreto Dignità si proponeva di incentivare, rendendo più difficile l’utilizzo dei contratti a termine. Tra ottobre e dicembre le stabilizzazioni in Veneto sono state oltre 20 mila. Non poche, considerando le 14 mila tra gennaio e marzo, le 11.600 tra aprile e giugno e le 14.500 tra luglio e settembre. Nell’ultimo quarto di 2018, insomma, le imprese venete hanno aumentato le trasformazioni di tempi determinati in stabili, probabilmente con l’aiuto del decreto Dignità, ma hanno anche tirato il freno sulle nuove assunzioni, sia a tempo indeterminato (passate da 39 mila a 34 mila) sia a tempo determinato (da 187 mila a 143 mila).

La riduzione della nuova occupazione è un effetto del rallentamento dell’economia che si registra a livello nazionale in tutta la seconda parte del 2018. I numeri negativi del Prodotto interno lordo, insomma, hanno portato una diminuzione del totale dei posti di lavoro. Il Veneto non è stato esente e questo, come detto, emerge dallo stesso report. Tra gennaio e giugno, nella Regione ci sono state 470 mila assunzioni di lavoratori dipendenti. Tra luglio e dicembre, invece, gli ingressi si sono fermati a 403 mila. Alla fine dell’anno, l’aumento dei posti di lavoro rispetto al 2017 è di 25 mila posti: somma data dal notevole incremento del primo semestre e dai cattivi numeri del secondo, durante il quale l’occupazione è diminuita di parecchio.

In sintesi, che cosa è successo in Veneto nel 2018? Nei primi sei mesi i posti di lavoro sono aumentati, sia stabili sia a scadenza. Nella restante parte dell’anno, invece, sono diminuiti per effetto delle cattive performance dell’economia. Ma nello stesso tempo, molti lavoratori che prima erano precari hanno avuto un contratto permanente. L’aumento delle stabilizzazioni, va ricordato, era iniziata (in tutta Italia e anche in Veneto) già a gennaio. I motivi sono due: il primo è che nell’ultimo triennio le imprese avevano assunto tantissimi lavoratori a termine. Secondo le norme precedenti al decreto Dignità, il limite massimo per usare addetti precari era 36 mesi. Quindi molti di questi, non più rinnovabili, a partire da gennaio sono stati assunti a tempo indeterminato. Il secondo è l’incentivo per chi prende stabilmente un giovane con meno di 35 anni.

Il decreto Dignità, almeno in Veneto, sembra aver accelerato la tendenza nella fase finale del 2018. Con le norme introdotte a novembre dal governo giallo-verde è più difficile assumere precari: il limite è di 24 mesi, i rinnovi possibili sono quattro e non più cinque e richiedono la causale (necessaria anche per tutti i contratti superiori a 12 mesi). I primi risultati si sono intravisti nei dati Istat nazionali di novembre 2018, che segnalano un mercato del lavoro fermo rispetto al mese precedente, ma nel quale la somma zero è data dall’aumento dei lavoratori stabili (più 15 mila) e dalla riduzione dei precari (meno 22 mila). Il report di Veneto Lavoro conferma gli effetti del decreto. È ancora presto però per festeggiare, le aspettative iniziali erano ben più ambiziose, ma i risultati veri andranno valutati in periodi più lunghi.

Confessa Alessandri, ex amante del marito

Ha confessato Chiara Alessandri: è lei l’assassina di Stefania Crotti, la 42enne di Gorlago, moglie del suo ex amante Stefano Del Bello, trovata morta e carbonizzata venerdì nelle campagne bresciane. La vittima è stata attirata in una trappola con una scusa, poi massacrata con un martello e una pinza e data alle fiamme forse per nascondere le impronte digitali. Alessadri è ora nel carcere di Brescia con l’accusa di omicidio e distruzione di cadavere, cosa che nega così come la premeditazione del delitto.

Diciottenne ligure trovato morto a Parigi

Una tragedia inspiegabile, almeno stando ai pochi dati certi: Alessio Vinci, diciottenne di Ventimiglia, è stato trovato morto in un cantiere di Parigi, probabilmente precipitato da una gru alta 45 metri. Oscure le cause del decesso – la prima ipotesi al vaglio degli inquirenti italiani e francesi è il suicidio –, ma oscure anche le motivazioni che hanno spinto il giovane ad andare in Francia, lasciando Torino, dove viveva con il nonno e studiava brillantemente alla facoltà di Ingegneria aerospaziale.

Scambio di missili tra Israele e Siria

Tra Israele e Siria la situazione si aggrava con scambio di colpi a distanza. Damasco ha annunciato di aver fatto fallire un attacco israeliano nel sud della Siria. E, a distanza di poche ore, il sistema antimissili di Israele, l’Iron Dome, ha intercettato un razzo terra-terra lanciato contro le Alture del Golan. Ieri mattina le difese aeree siriane – secondo Damasco – hanno ” affrontato un’aggressione israeliana nel sud”. I missili lanciati da aerei israeliani e intercettati erano diretti “verso Damasco”.

Il leader M5S sui tutor: ne assumeremo 10 mila

Mentre Confindustria attacca di nuovo il governo sulla manovra, lanciando l’allarme sul rischio recessione e invocando un grande piano di apertura dei cantieri delle grandi opere per contrastare il ciclo economico che si sta facendo negativo, il vicepremier Luigi Di Maio annuncia che i “navigator”, ossia i tutor che aiuteranno chi percepisce il reddito di cittadinanza a trovare un’occupazione, potranno contare in futuro su un lavoro stabile. “Assumeremo 10 mila navigator”, da detto.

Il boom degli sbarchi dalla Libia: pressioni sull’Italia per ottenere più mezzi e soldi

“Le Ong tornano in mare davanti alla Libia, i trafficanti tornano ai loro sporchi traffici, le persone tornano a morire. Meno partenze, meno vittime”. Il mantra del ministro Matteo Salvini, anche in queste tragiche ore, resta lo stesso. Il punto è che, proprio in queste ore, è il concetto “meno partenze” che traballa. E la presenza delle Ong nel Mediterraneo – peraltro soltanto una: la Sea Watch – non ha alcun peso. La politica estera italiana – Salvini lo sa, ma non lo dice – invece sì.

Il Fatto ieri l’aveva anticipato: il 20 gennaio sarà un giorno di nuove partenze. Non è stato difficile: abbiamo chiesto ai migranti salvati dalla Sea Watch 3, attraverso l’inviato di Carta Bianca Giuseppe Borrello, cosa stia accadendo sulle coste libiche. La risposta: “Dal 20 sarà il D – Day”. E infatti almeno cento persone sono partite. L’Italia ha in Libia – in pianta stabile – almeno 10 funzionari dell’Aise: immaginiamo che lo sapessero anche loro. Il territorio è presidiato: è in corso una missione del nostro esercito. Non solo. Abbiamo fornito ai libici 6 motovedette, implementato una sala operativa e consentito che ottenessero il controllo dei soccorsi in mare. Ma a quanto pare, per Salvini, queste partenze sonno una sorpresa e dipendono dalla Sea Watch. L’assunto è offensivo, più che dell’intelligenza, della nostra intelligence.

I dati Onu dimostrano che al 16 gennaio, rispetto allo stesso periodo del 2018, si registra il raddoppio degli sbarchi: passiamo da 2.365 a 4.216. A questi ultimi vanno aggiunti i 320 migranti partiti nelle ultime 72 ore – oltre la metà dei quali, ben 170 – sono morti annegati per l’assenza di soccorsi. Un centinaio, mentre scriviamo, navigano alla deriva ed è proprio la Sea Watch che sta tentando di raggiungerli per il soccorso. . E quindi: piuttosto che additare l’Ong, meglio concentrarsi su altri dettagli.

L’Aise – già con il vecchio governo – ha investito tantissimo nel “dossier Libia” che l’ex direttore Alberto Manenti aveva affidato – dandogli carta bianca – al suo vice Gianni Caravelli. L’intelligence ha messo in campo uomini – 10 in pianta stabile –e soldi. E le partenze sono drasticamente diminuite. Piccolo effetto collaterale: sempre più migranti restano rinchiusi nei lager libici. Abbiamo creato un tappo.

“È noto – dice al Fatto una fonte qualificata sotto anonimato – che la nostra intelligence negli ultimi due anni abbia cercato, e poi trovato, il modo di ‘ungere’ le fazioni libiche per fermare le partenze. Nessuno l’ammetterà mai, né i pagamenti avvengono con fattura, ma è così”. Ora però gli equilibri sono cambiati. Non per un cambio di strategia. Sono cambiati gli uomini al comando.

Due mesi fa Manenti è stato sostituito dal generale della Gdf Luciano Carta. Il dossier Libia – per quanto ci risulta – resta sotto la super visione di Cavarelli. Un mese fa è cambiato l’ambasciatore a Tripoli: Giuseppe Buccino ha sostituito Giuseppe Perrone. “Il gioco è lo stesso”, conclude la nostra fonte, “ma al tavolo c’è gente nuova. E i libici rilanciano la posta. Che può risolversi in un fuoco di paglia”. Il “fuoco” sono le partenze di queste ore. Se sarà di paglia lo vedremo. I libici aspettano mezzi e soldi: l’Ue non ha ancora mantenuto le promesse, molti progetti sono finanziati, sì, ma restano al palo. Il tanto declamato presidio nel Fezzan – regione libica al confine con il Niger – è un miraggio: doveva servire a controllare il flusso da Sud ma serve a poco o niente. La conferenza di Palermo, che doveva servire a risolvere la crisi libica, non ha prodotto risultati.

I libici devono passare all’incasso e ogni barcone in mare è un innesco di crisi per l’Italia e per l’Europa. Lo sanno bene i trafficanti, che auspicano di essere “unti” maggiormente, come chi aspetta lo sblocco di fondi e progetti. Il tappo è saltato. E la gente muore. A meno che la Sea Watch non arrivi a salvarla.

Dibba in tivù straccia il franco africano: “Macron colonialista”

A muso duro contro la Francia. Questa volta non per rivendicare la necessità di un’accoglienza comune, ma per indicare le responsabilità delle migliaia di partenze dalle coste libiche verso l’Europa. Così ieri il Movimento 5 Stelle ha alzato il tiro contro Parigi, rinfacciando alla Francia quel colonialismo che ancora oggi, come un rigurgito della dominazione politica dei secoli scorsi, permette di avere il controllo sulle economie dei paesi centro-africani. Il traino perfetto per quella parte di campagna elettorale che sarà portata avanti da Alessandro Di Battista, da poco tornato dal Sud America.

Ieri l’ex parlamentare, ospite a Che tempo che fa su Rai Uno, ha persino mostrato in studio una finta banconota del Franco, stracciandola in diretta: “Se non affrontiamo il tema della sovranità monetaria in Africa, noi non ne usciamo. La Francia stampa la moneta usata in 14 Paesi sub-sahariani, i quali per mantenere il tasso fisso con l’Euro versano soldi su un conto gestito da Parigi, con cui pagano una percentuale del debito e attraverso cui la Francia gestisce la sovranità di questi Paesi, impedendo loro la legittima indipendenza”.

Inutile quindi parlare di salvataggi in mare e soluzioni a breve termine: “Fino a quando non si romperanno queste manette possiamo parlare per ore di porti aperti o chiusi, ma la gente continuerà a scappare”. Di Battista vede come necessario uno “scontro diplomatico” con la Francia, ribaltando uno dei più noti slogan leghisti: “Non si tratta di aiutarli a casa loro, si tratta dei francesi che devono tornare a casa loro”. Concetti simili a quelli che Di Battista aveva espresso due settimane fa, ospite a Accordi e Disaccordi, quando aveva accusato Emmanuel Macron “di fare la morale mentre controlla il debito africano”.

È su questo terreno dunque che il Movimento 5 Stelle prova adesso a togliere alla Lega il monopolio del dibattito attorno all’immigrazione, spostando il bersaglio dai migranti a chi ne causa la partenza: la colpa dell’emergenza, sostengono i grillini, non è degli italiani ed è giusto forzare la mano con l’Europa, ma le morti in mare e i continui sbarchi sono comunque conseguenza di uno sfruttamento di cui sono vittime gli africani.

Il concetto, in questi termini, non sta a cuore soltanto all’ala terzomondista del Movimento, quella rappresentata da Di Battista, ma anche al profilo governista di Di Maio. Il vicepremier, ieri in visita a Avezzano, a L’Aquila, già nel pomeriggio aveva dettato la linea: “Se la Francia non avesse le colonie africane, che sta impoverendo, sarebbe la quindicesima forza economica internazionale, invece è tra le prime grazie a quello che combina in Africa”.

Lo sfruttamento di quei territori, secondo Di Maio, è il presupposto per le continue partenze: “Se oggi la gente parte dall’Africa è perché ci sono Paesi, come la Francia, che continuano ad avere delle colonie di fatto in Africa, imponendo il franco in quei territori e finanziandosi il debito pubblico”.

Ma il posizionamento del Movimento è figlio di un pensiero anti-coloniale non certo nuovo nel panorama politico, come dimostrano alcune reazioni alle parole di ieri dei 5 Stelle. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ha infatti rivendicato come la lotta allo sfruttamento francese sia un’antica battaglia della destra sociale: “Finalmente anche la sinistra si accorge che alla base dell’immigrazione ci sono il neocolonialismo francese in Africa e l’usura fatta con la moneta coloniale. Lo denunciamo da mesi in totale solitudine”. Il concetto era stato in effetti condiviso ieri non solo dal Movimento 5 Stelle, ma anche da Stefano Fassina (ex LeU, ora Patria e Costituzione): “Quando chiederemo ai governi europei di fermare le politiche neocoloniali, perseguite spietatamente come fa la Francia?” Domanda retorica a cui adesso il Movimento promette di dare una risposta.