“Fate presto, congeliamo”, ma i soccorsi tardano ore

“Fate presto, tra un po’ non riuscirò più a parlare perché sto congelando”. L’Sos disperato arriva ad Alarm Phone – il call center che raccoglie le chiamate di soccorso dei migranti – intorno a mezzogiorno, ma ci vogliono più di dieci ore per trarre in salvo cento persone in balia del mare, del freddo, del panico, di un natante in avaria che imbarca acqua. È questo l’epilogo di una lunga giornata di diplomazia in cui si è proceduto con molta calma, forse troppa: solo a tarda sera – come annuncia un tweet del ministro Toninelli – “la nave Sierra Leone, sotto coordinamento libico, sta iniziando a prendere a bordo i migranti: andranno a Tripoli”, che fino ad allora aveva latitato.

L’allarme, infatti, è partito in mattinata; mentre il barcone è in difficoltà a 60 miglia al largo di Misurata, Alarm Phone telefona alla sala operativa di Roma: “Ci hanno detto di chiamare Malta. Poi abbiamo scritto a Roma, Malta e Libia chiedendo di chi fosse il coordinamento”. Roma e Malta rispondono di contattare la Guardia costiera libica. “Ma da Tripoli non abbiamo avuto risposta: le email sono tornate indietro e i telefoni suonano a vuoto”.

Il rimpallo delle responsabilità e delle competenze va avanti per tutto il giorno, come se la priorità non fosse salvare cento persone dalla morte nel Mediterraneo, l’ennesima, dopo le 170 vittime inghiottite dai flutti nei giorni scorsi. Sul naufragio di venerdì, in cui sono morte 117 persone su 120, due procure – quella militare di Roma e quella ordinaria di Agrigento – stanno indagando su ritardi e omissioni.

Ieri la prima a muoversi è la Sea Watch 3, dell’omonima Ong, che peraltro ospita a bordo i 47 naufraghi salvati sabato: “Siamo a 15 ore di distanza. Non possiamo coprire da soli il Mediterraneo”. Malta, intanto, risponde ad Alarm Phone, ma senza intervenire. Tripoli non pervenuta. E l’Italia? “I trafficanti di esseri umani hanno riapprofittato di questo weekend di mare calmo”, fa sapere Palazzo Chigi con una nota. “Siamo in continuo contatto con la Guardia costiera libica perché metta in sicurezza i migranti a bordo”. È un paradosso: la Guardia costiera libica esiste solo grazie ai mezzi forniti dal governo italiano. Il loro compito è rispondere ai soccorsi. Invece ieri è toccato direttamente al premier Conte sollecitarli, attivando persino i servizi segreti.

Le notizie si rincorrono e un uomo dalla barca si dispera: “Non ho bisogno di comparire sulle notizie, ho bisogno di essere salvato”. Nelle stesse ore fonti maltesi danno la guardia costiera libica al “lavoro su tre eventi Sar”; un aereo, forse spagnolo, starebbe sorvolando la zona; il meteo pare in peggioramento, e via così, di forse in forse, di condizionale in condizionale. L’unico ad avere certezze, e a esprimersi sempre all’indicativo, è il vicepremier Matteo Salvini: “Mi sento colpevole? No, meno persone partono, meno persone muoiono, più persone partono, più persone muoiono”.

Intanto Human Rights Watch denuncia la situazione “da incubo” nei centri di detenzione libici, spronando l’Italia e l’Unione europea – le cui politiche “hanno contribuito a creare un ciclo di estremo abuso nei confronti dei migranti” in Libia – ad “assumersi le proprie responsabilità, condizionando le modalità di cooperazione”. Sono solo alcuni degli appunti dell’ultimo report Inferno senza uscita.

Ma mi faccia il piacere

Il garantista. “Storia di un asse invisibile, e indicibile, che avvicina le idee della Lega e del Pd. L’alta velocità, le grandi opere, le trivelle, i termovalorizzatori, le politiche per le imprese, il garantismo” (rag. Claudio Cerasa, Il Foglio, 14.1). In effetti, uno più garantista di Salvini è difficile trovarlo.

L’adescatore. “Salvini venga in Parlamento e voti la Tav con noi” (Paolo Gentiloni, deputato Pd, La Stampa, 14.1). Ma non era un fascista razzista populista sovranista?

Che schivo. “Io non sopporto la spettacolarizzazione. Chiederei agli inquirenti, agli avvocati, ai magistrati, di fare tutto nel massimo riserbo e nel massimo silenzio… Non bisogna mai esibire un catturato. Se devi portare via uno, lo porti via di nascosto, la notte” (Matteo Salvini, segretario Lega Nord. Panorama, 4.2.2015). Cioè, in pratica, Salvini non sopporta Salvini.

Servizi sociali. “Meno male che le donne mi hanno stretto la mano e non l’uccello… Una volta me ne facevo sei a notte, ora a 82 anni mi addormento dopo la terza…” (Silvio Berlusconi, presidente FI, in campagna elettorale a Cagliari, 20.1). La prima gli cambia il pannolone, la seconda gli leva la dentiera e la terza gli dà il Tavor.

La volpe e l’uva. “Io sono sempre lusingata dall’attenzione che mi riserva il direttore Marco Travaglio. Tuttavia, questa volta mi sembra che l’ossessione fattoquotidianista per le gesta della Chirico, amica di Matteo Renzi (argh), di Maria Elena Boschi (doppio argh), di Francesco Bonifazi (triplo argh), di Matteo Salvini (beh, questo è troppo!) abbia superato il limite… Siete imbarazzanti” (Annalisa Chirico, Facebook, 17.1). Che si tratti della stessa Annalisa Chirico che un mese fa implorava, invano, una giornalista fattoquotidianista di intervistarla sul Fatto?

Lo tsunami/1. “Mi pare che con il mio ‘Manifesto per la costruzione di una lista unitaria delle forze politiche e civiche europeiste’ per le europee di maggio ci stia il Pd, innanzitutto, e per una volta unito e compatto. E poi il manifesto è rivolto a +Europa di Emma Bonino e ‘Italia in comune’ del sindaco Federico Pizzarotti, ma soprattutto agli italiani” (Carlo Calenda, Pd, ex ministro Sviluppo Economico, Repubblica, 19.1). Come minimo bisognerà transennare i seggi.

Lo tsunami/2. “Azzurri ed ‘effetto Cavaliere’. Attesa per i nuovi sondaggi. L’annuncio della candidatura di Berlusconi sposterà i numeri” (il Giornale, 20.1). Noi, per dire, siamo già tutti un fremito.

Lo Statista. “Statista in assenza di alternative, alla fine può apparire migliore di quel che era” (Repubblica, 18.1). Uahahahahahah.

Libera stampa. “Tasse sullo yacht, la Finanza contro De Benedetti” (Repubblica, taglio basso a pagina 18, 19.1). Meno male che la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate contestano imposte non pagate per 120 milioni di euro su uno yacht domiciliato in un paradiso fiscale e mai dichiarato al fisco a Carlo De Benedetti, presidente del gruppo Gedi (Repubblica-Espresso-Stampa), e non al padre di Di Maio o di Di Battista: sennò Repubblica uscirebbe in edizione straordinaria per un mese.

Colpa di Virginia. “Le ‘prodezze’ della Raggi. Roma capitale anche degli indigenti. Un residente su due vive con meno di 15 mila euro l’anno e 150 mila anziani sono disperati” (Libero, 16.1). Li deruba personalmente la Raggi tutte le notti, uno per uno.

Prenditori. “Processi lenti, gli imprenditori bocciano la Spazzacorrotti. Il 61%, secondo un sondaggio Swg, è contro la norma” (Corriere della sera, 15.1). Paura eh?

La patacca della settimana. “Ecco il piano B per la Tav: risparmi da 1,5 miliardi. Minori costi con il ridimensionamento della stazione Susa e spalmando e spese” (Messaggero, 14.1). “La spinta per la ‘mini Tav’ anche dagli esperti di Toninelli” (Corriere della sera, 16.1). “Anche Toninelli ora apre alla Tav low cost” (Il Messaggero, 17.1). “La Lega accelera sulla Tav. Ipotesi ‘Torino-Lione light’ per contenere i costi” (il Giornale, 17.1). Piano B, mini, low cost, light, come fosse antani con scappellamento a destra.

Il titolo della settimana. “L’azzardo di Berlusconi dopo il calo di Lega e M5S: ‘Correrò per le europee’” (La Stampa, 18.1). Col girello.

Uno, nessuno, centomila Bucci: una vita spericolata tra palco e realtà

Non si è risparmiato, non si è disintossicato, non si è rifatto una reputazione, una verginità, un lifting: Flavio Bucci è una rockstar – della recitazione ma soprattutto della vita –, una delle ultime forse, in tempi di rehab, depurazioni, liposuzioni, conversioni al salutismo, al veganismo, alla santità.

Santo non è, non ha mai voluto neppure sembrarlo: Bucci – 72 a maggio – i suoi anni li porta tutti, con fatica, con il bastone, con le borse sotto gli occhi, con la voce rotta da sigarette e altri vizi, con autoironia. E pensare che ero partito così bene… si intitola, infatti, il suo mémoire per palcoscenico, scritto a quattro mani con Marco Mattolini, che ne cura anche la regia, in replica al Teatro Belli di Roma fino a oggi pomeriggio e poi in tournée (Norcia, Enna, Lamezia Terme, Melfi…).

Accompagnano il primattore nella sua “scorribanda” un’attrice e una danzatrice, Almerica Schiavo e Alessandra Puglielli, co-interpreti di frammenti di spettacoli passati, da Shakespeare a Pirandello, di serie tv come Ligabue e di film come Il Marchese del Grillo. Bucci debutta al cinema nel 1973 ne La proprietà non è più un furto di Petri, ma i suoi ruoli d’elezione sono “i pazzi, i fuori di testa”, un po’ come si sente lui, che della recitazione ha fatto una “terapia” e della voce un manifesto, doppiando star come Gérard Depardieu e John Travolta.

Per il ritorno a teatro, dopo un lungo silenzio e difficoltà fisiche ed economiche, Bucci ha scelto un luogo del cuore: il Belli. Era il 1972, e il “chi è di scena” chiamava sul palco, oltre al fondatore Antonio Salines, il giovane Flavio, immortalato da un cinegiornale mentre spolvera le poltrone prima della recita, peraltro interrotta da una squadraccia neofascista.

Genio e sregolatezza – che lui imputa al mancinismo –, Bucci è “figlio del popolo”, di migranti molisano-pugliesi a Torino: studia prima al Classico, poi all’Alberghiero più parentesi tragicomica del servizio militare, durante il quale tenta di fratturarsi un dito per prendere le ferie, ma rimedia solo una dolorosa lussazione. E niente ferie. Lo zibaldone scenico procede di gaffe in gaffe, di assurdità in assurdità: dalla cena parigina con Delon e una giovanissima amante a Jannacci che pasteggia solo a vodka, dalle letture di poesie davanti al Papa a Ferreri che tratta sul compenso. E poi, donne, droghe, scherzi in palcoscenico, la fama, la fame, l’ossessione per il cibo: “Appena finisco ’sto cazzo di spettacolo vado a mangiare.”

Ha avuto molte vite Bucci, non solo per averle recitate: è un “sopravvissuto, un miracolato”, affaticato dall’età e dai vizi, ma non abbastanza da prendersi sul serio, e infatti scherza col suggeritore in cuffia, che non sente; gioca col copione davanti, che stenta a leggere; ammicca alle compagne di scena, cui sta dietro a fatica. Ingiudicabile, lo spettacolo è un “happening” strampalato, dadaista, surrealista, non fosse che è tutto vero: per condividere tanta parte di sé, persino malandata, ci vuole audacia, non salute. Quanto al successo, è stato pagato caro: ben poco resta, a parte un pubblico affettuoso e commosso. Ma ci sarà pur qualcosa che le manca del successo, signor Bucci… “Sì, l’insuccesso”.

Il serial killer contro la ministra: uccide e amputa i genitori violenti

Il Male peggiore. Le violenze sui bimbi, tra le mura di casa. Colpa di mamme tossiche o puttane oppure silenti complici del marito psicopatico. La terza vittima dell’Uomo delle Castagne ha venticinque anni. Jessie Kvium, ragazza madre. La figlioletta Olivia è denutrita e solitaria e senza papà, scappato. Jessie è alcolizzata e corre da un’avventura all’altra.

Il 16 ottobre accompagna Olivia a lezione danza e poi segue un uomo sposato nel garage sotto la palestra del corso. “Lui prova ad allontanarla, ma lei lo tiene stretto e ben presto gliel’ha tirato fuori e l’ha preso in bocca, e adesso la sua resistenza si trasforma in gemiti soffocati”.

È l’ultima fellatio di Jessie. Poche ore dopo, benché sotto sorveglianza, l’Uomo delle Castagne la scova, le sega le due mani e un piede e appende il cadavere a un ramo. In bocca, la povera ragazza, ha un omino fatto con le castagne. Il souvenir del serial killer.

Copenaghen ai giorni nostri, in autunno, a ottobre. Rosa Hartung è il ministro degli Affari sociali. Un anno prima, la figlia dodicenne Kristine è stata rapita. L’esito ufficiale dell’inchiesta è atroce: la bambina è stata stuprata e fatta a pezzi da un pedofilo che ha confessato il delitto. L’uomo viene processato e rinchiuso in una fortezza psichiatrica. Dopo una lunga pausa, Rosa torna in Parlamento e al governo e l’Uomo delle Castagne inizia a mietere le sue vittime. La prima è Laura, mamma di un bimbo autistico. Poi Anne, che ha due figlie che finiscono sovente all’ospedale. Poi ancora la citata Jessie. L’assassino le stordisce con una mazza chiodata, dritta in un occhio, quindi procede alle amputazioni.

Le tre donne ammazzate non si conoscono tra di loro, ma hanno in comune un elemento decisivo: sono state segnalate per maltrattamenti ai figli. Il sistema danese è noto: prevede una rigida vigilanza sulle violenze domestiche e il ministro Hartung ha concesso anche le segnalazioni anonime. Valanghe di mail, spesso menzognere e piene d’odio, che si riversano sugli uffici comunali del Paese. Non solo. L’Uomo delle Castagne viene chiamato così dai media perché lascia l’omino sul luogo delitto. E sulle castagne del macabro souvenir la Scientifica fa una scoperta clamorosa: le impronte di Kristine, la figlia del ministro. Nonostante la confessione del killer pedofilo, il corpo non è mai stato ritrovato. La bambina è viva? Esiste un collegamento?

La prima ipotesi è dunque la vendetta. Qualcuno sta facendo il giustiziere per colpire i genitori violenti lasciati impuniti dalle falle e dalla superficialità del sistema. E il suo obiettivo principale è Rosa Hartung. A indagare è una coppia di poliziotti della Omicidi, male assortita. Lei è Naia Thulin, talentuosa ma che vuole mollare la squadra per passare all’unità per i crimini informatici. Lui è Mark Hess, tipico profilo maledetto degli investigatori scandinavi: si è “perso” per una tragedia familiare ed è diventato un detective randagio del- l’Europol, in giro per il vecchio continente. È stato rimandato in Danimarca per punizione e gli tocca un periodo nella Centrale da cui pensava di essere fuggito per sempre. I due non si prendono, diffidano l’uno dell’altra epperò si convincono che l’Uomo delle Castagne sia la chiave del mistero di Kristine Hartung. Un filo unico tiene insieme il rapimento dell’anno precedente e gli omicidi del serial killer. I vertici della polizia negano ma l’assassino non si ferma alle tre donne.

L’uomo delle castagne è appunto il titolo dell’esordio di Søren Sveistrup, l’autore della serie tv The Killing nonché sceneggiatore dell’Uomo di Neve di Jo Nesbø. Per Rizzoli è il thriller dell’anno e sarà in libreria dal 22 gennaio. Le premesse per sfondare in classifica ci sono tutte: atmosfere cupe se non nere, arti mozzati, ritmo serrato, colpi di scena geniali. Senza dimenticare l’ambientazione scandinava che è sempre una garanzia.

Sveistrup è un maniaco dei dettagli e la scrittura non deraglia mai dal centro del mistero. Nessuna parte superflua, nonostante le quasi seicento pagine. Il prologo è superbo, trent’anni prima dei fatti, sull’isola di Møn. Una fattoria nel bosco, un classico delle favole horror. Marius è un poliziotto prossimo alla pensione e deve avvisare il proprietario della fattoria: le sue bestie sono andate oltre i confini. Marius non tornerà più a casa. Nella casa scopre i cadaveri di una donna e due ragazzi. Poi scende in cantina e trova una bimba ancora viva. E c’è anche il fratellino con un’ascia. Due gemelli, in affido. Nella cantina ci sono alcuni scaffali di legno: sopra decine e decine di uomini, donne e animali fatti con le castagne. Chi sono quei due gemelli?

Per lo scrittore la morte violenta è un dato biografico. A ventun anni, sull’isola di Thurø, una mattina non trovò più la mamma a casa. Divorziata, si era suicidata. Così per anni sarà lui, Søren, a badare e provvedere alle due sorelle più piccole di lui. Quando poi andrà via a Copenaghen, sull’isola ci tornerà una sola volta. E sarà solo allora che si accorgerà dell’enorme castagno davanti alla casa. Quel castagno destinato a trasfigurarsi nell’Uomo delle Castagne.

“Ho fatto piangere Brosio, Ibra mi voleva menare. E non voterei mai Trump”

“In questo lavoro in particolare, nella vita in generale ci sono momenti in cui hai bisogno di aggrapparti a oggetti o persone per ritrovare fiducia in te stesso, quando il tuo ego va nutrito in superficie e sorridi beota allo specchio. Così un giorno ho acquistato una cabriolet con sotto il cofano un numero di cavalli imbarazzante, una roba da vero cretino, e me ne rendevo conto: quando tornavo al paese la parcheggiavo lontano per evitare gli sguardi degli altri, in particolare gli amici del bar. Non li avrei retti, i loro giudizi mi avrebbero trapassato. Dopo pochi giorni sono andato a sbattere, non proprio distrutta, ma ho deciso di non ripararla. Abbandonata dal carrozziere. E all’improvviso è come se mi fossi svegliato da una sbornia: ero e sono momentaneamente guarito. Ora non guido quasi mai”.

Frank Matano per molti versi è ciò che uno non si aspetta, è un incrocio bislacco di contraddizioni apparenti. Sorride e riflette. Sorride ancora, e all’improvviso allontana la riflessione magari con una (presunta) provocazione; poi ammette sottovoce di amare la filosofia, anzi di averla scoperta troppo tardi, allo stesso tempo rivendica soddisfatto la paternità di alcuni dei suoi primi scherzi pubblicati online, milioni di visualizzazioni, con lui mentre si avvicinava alle persone e le “aggredisce” con peti rumorosi e ripetuti.

Lui nasce da Youtube. È considerato un mito della Rete. Un antesignano. Ha capito prima di altri il nuovo linguaggio e ne ha sfruttato le potenzialità; poi è arrivata la televisione (è stato una iena di Italia 1), ancora Internet, il cinema, fino a diventare uno dei giudici di Italia’s Got Talent trasmesso su Sky e Tv8.

Sui social c’è la mania del “dieci anni fa ero…”

Rispetto ad allora sono molto più sereno: prima avevo paurissima di questo mestiere, mi ponevo mille dubbi, oggi meno; resta un fondamentale “però”: non ci si può mai definire certi di se stessi. E per salvarmi cerco di aggrapparmi all’entusiasmo.

Fondamentale.

Serve a non abituarmi alla vita attuale.

Quando si riguarda?

Sono molto meno stupido di allora, penso maggiormente all’azione e alla conseguenza, capisco la responsabilità, non espongo troppo il mio lato coglione.

Si sente coglione.

Lo siamo un po’ tutti, poi dipende da quello che si trasmette. E scherzare è pericoloso: con una battuta si può esprimere per sbaglio quello in cui non si crede.

Soluzione.

Imparare a conoscere i limiti e mantenere i confini della contestualizzazione del pensiero.

Mentre un tempo.

Andavo a ruota, acceleratore al massimo, non pensavo al dopo; per fortuna non ho mai causato veri danni. Negli Stati Uniti c’è un detto perfetto: “Già hai fatto la cosa che ti rovinerebbe”.

La sua qual è?

Non si può dire.

C’è.

Ognuno ne ha alcune, ma deve celarle, farne tesoro, capire.

Alcuni suoi scherzi sono dei peti in pubblico.

Toccano una parte primordiale di noi, la comicità fisica non ha tempo, non tramonterà mai e funziona in tutto il mondo; mentre la maggior parte della comicità è racchiusa nel suo contesto culturale.

Esempio.

Alberto Sordi in Giappone non fa ridere; Chaplin sì.

Ugo Tognazzi?

Molto italiano, come Massimo Troisi.

Li conosce così bene?

Tognazzi non benissimo, ho visto pochi film e da piccolo; mentre Troisi è imprescindibile per chi vuole intraprendere questa carriera: emette una luce così forte da obbligarti a imitarlo.

Contagioso.

Ho visto i suoi film, e per salvaguardare la mia autenticità, mi sono promesso di evitarlo in futuro.

Il suo mito.

Jim Carrey: da bambino impazzivo per lui, poi a 14 anni ho scoperto gli stand-up americani (il cabaret dove l’artista resta in piedi) e da allora sono fissato, ogni sera cerco qualcosa.

Si ritiene un comico?

Ho l’ossessione di far ridere.

Anche a scuola?

Sono sempre stato molto estroverso.

Tre anni fa si è definito timido.

La peggior timidezza è quando sei estroverso, perché all’improvviso arriva il momento in cui vuoi stare in disparte, e tutti si domandano se stai male.

Per alcuni anni è vissuto negli Stati Uniti.

I genitori di mia madre erano emigranti: un’estate decidono di tornare al loro paese, Carinola, insieme alla figlia; quando mio padre ha scoperto l’arrivo di questa ragazza straniera, ha deciso di rimorchiarla. Alla fine si sono sposati.

E come si è trovato negli States?

Indossavo la maschera dell’italiano, e ciò ha giocato a mio favore, ero quasi esotico, tutti mi chiamavano Totti per via del mio nome.

In Italia, invece.

Ero ’O americano.

E il mito del paese.

No, mi trattavano solo da bravo paesano.

Mai stato bullizzato?

Eccome, in particolare alle medie: ero il più piccolo.

E…

Un po’ soffrivo e mi illudevo fosse la normalità: da noi utilizzare le mani è quasi un’esperienza antropologica, la fisicità è vissuta diversamente.

Subiva.

Non avevo il fisico, le prendevo e basta; circa una volta al mese erano ceffoni in testa e pedalare.

Un tagliando.

Più o meno.

A casa si lamentava?

No, non capivo. Ero proprio convinto fosse una questione comune, non un problema che mi riguardava nello specifico.

Pure Ibrahimovic l’ha minacciata…

(Lo ha perseguitato con domande imbarazzanti e l’ex milanista non ha reagito benissimo) Aveva ragione, gli ho rotto le palle.

Alla fine del video le ha detto “portami tua sorella”.

Sarei stato contento, mia sorella non lo so, diciamo che avrei approvato l’unione.

Vanessa Incontrada si definisce gelosa perché le ha rubato Bisio.

Claudio è magnetico, è bello stare con lui: è uno dei pochi in grado di ascoltare chi ha di fronte, e senza fingere.

Le sta insegnando a gestire la fama?

Non esistono consigli pratici o formule magiche, si può solo osservare e cercare di capire, e accade in tutti i momenti vissuti insieme, con lui perennemente in fase zen.

E quando i ragazzi domandano consigli a lei?

Ogni frase è inutile, l’unica risposta giusta è “provaci” e soprattutto bisogna essere perseveranti e sistematici, pubblicare e ancora pubblicare nonostante l’assenza di risposte. Funziona l’affezione.

Quanto ha impiegato per emergere?

Un paio di anni.

Durante i quali?

Ho provato a studiare lingue, ma non ho dato neanche un esame: in teoria volevo insegnare inglese in Italia o italiano negli Stati Uniti.

I suoi genitori?

Preoccupati, mi vedevano tutto il giorno al computer, ma in realtà studiavo il meccanismo di Youtube: 10 anni fa era incomprensibile ai più. Però mi supportavano, e ridevano dei miei filmati.

Un vantaggio grazie ai suoi anni negli Stati Uniti.

Questo è vero, quando siamo tornati a vivere in Italia avevo già capito meccanismi sconosciuti da noi, mentre erano palesi oltreoceano.

Allora lavorava?

A Carinola non era necessario, lì campi con niente: mangiavo e dormivo a casa, e quando uscivo, al massimo spendevo tre euro.

Da Carinola all’Italia.

È il potenziale di Internet, l’ho sfruttato.

Però la consacrazione è arrivata anche per lei grazie alla televisione.

È una questione di limite mentale delle persone: la tv mi ha legittimato, ma guadagnavo più con la Rete che da inviato delle Iene.

Le telecamere la angosciavano?

Tantissimo, soprattutto per la pressione dei colleghi: dietro sentivo un perenne “ma chi cazzo è questo”, e non stavo a mio agio, dentro di me pensavo “forse hanno ragione”.

A 30 anni è lei a valutare in un talent.

Nella prima stagione ero in crisi. In testa mi ronzava un “chi sono io per giudicare loro”, ed è difficile sedersi dietro quella scrivania se poi sei invaso da certi pensieri.

Oggi?

Sono sicuro di saper riconoscere un talento.

Si esibiscono concorrenti veramente capaci?

Alcuni sì, Italian’s è una buona vetrina, molti aspiranti poi trovano ingaggi e serate.

È astemio?

Non ci penso proprio.

I suoi genitori sanno tutto di lei?

Non ci penso proprio.

Lei si definisce fragile?

Rispetto alla popolarità, sì. Di persona no.


Nel mondo dello spettacolo c’è una depressione comune.

Non più solo tra le presunte star, è generale: con i social tutti hanno la necessità del consenso, i like sono un piccolo metro di cos’è la popolarità, di quali sono i meccanismi, basta solo moltiplicarli e il risultato è ottenuto.

Riceve proposte oscene?

Su Internet sono arrivate a offrirmi le mutande sporche o le foto dei piedi. Non ho risposto.

Tentazioni?

Pratico la masturbazione.

Cioè?

Se qualcosa mi eccita oltremodo e non posso, allora allevio la tensione.

Acquista i giornali?

Di carta? No.

Telegiornali?

Quasi mai, mi informo su Internet e seguo i profili di chi mi interessa.

Tipo?

Enrico Mentana o Selvaggia Lucarelli.

Cosa vede in tv?

I quiz.

Cinema?

Tanto, mentre le serie tv mi hanno un po’ stancato, forse perché le ho viste tutte.

Il suo scherzo a Paolo Brosio è storico.

(Lo ha chiamato fingendosi papa Francesco: l’ex giornalista è scoppiato in una crisi di pianto) Mi sono un po’ pentito, ci è rimasto troppo male.

Però lei rideva.

Per smorzare il disagio, non mi aspettavo una reazione del genere, per questo lo abbiamo interrotto prima del previsto.

C’è differenza tra destra e sinistra?

Sì. E in questa fase il mondo si è spostato molto a destra.

E l’effetto conseguente?

C’è meno dialogo tra chi la pensa diversamente.

Lei cosa vota?

Non rispondo: non ho voglia di farmi incapsulare in un titolo o in una frase sola.

Preferisce più Che Guevara o John Wayne?

Non mi piace la domanda… tutti e due. (Ci pensa) Mettiamola così, non apprezzo Trump.

Prima soddisfazione economica.

Poter saldare il mutuo di casa dei miei genitori: ci siamo trovati davanti a quel foglio e siamo scoppiati a piangere.

Il lusso per lei.

Non avere reali obblighi, non dover riproporre una quotidianità ripetuta. Amo i periodi liberi, durante i quali gestisco il tempo a seconda della necessità momentanea.

Traduciamo.

Restare sveglio senza orario, giocare ai videogames, vedere un film, leggere di filosofia, e soprattutto avere la possibilità di dedicare attenzione e tempo agli affetti. Non chiudermi in quelle tipiche frasi da uomo arrivato “scusa sono molto impegnato”.

Legge di filosofia.

Sì, mi piace tantissimo.

Lei è un uomo?

Non ci penso proprio. Voglio avere trent’anni.

Twitter: @A_Ferrucci

Il principe Filippo (97 anni), ancora alla guida dopo l’incidente d’auto

A due giorni dall’incidente stradale in cui è stato coinvolto, il 97enne principe Filippo torna ancora a guidare. Sun e Daily Mail immortalano l’anziano consorte della regina Elisabetta alla guida di una nuova Land Rover, senza indossare la cintura di sicurezza. Giovedì pomeriggio, il principe di Edimburgo è rimasto illeso in un incidente con un’altra auto mentre usciva dalla tenuta di Sandringham per immettersi in una strada trafficata. La polizia ha aperto un’indagine sull’incidente. Alcuni penalisti affermano che la vicenda potrebbe chiudersi se Filippo restituisse la patente. Ma il principe non sembra di questo avviso.

Sindaci giurano: “Polonia sarà democratica”

Pawel è morto e Danzica lo ricorda. Con un mare di rose bianche, un coro tutto in nero, 20 sacerdoti in viola e una bandiera rossa, con due croci e una corona. È il drappo simbolo della città sul Baltico, che ora avvolge la memoria del sindaco assassinato e tutti i cittadini accorsi a salutarlo per l’ultima volta.

Fiumi di persone: è la processione ieri di lutto dei migliaia di cittadini in tutte le strade intorno alla basilica di Santa Maria. Nella chiesa di mattoni, – una delle più grandi del mondo, 3.500 posti e file per riuscire ad entrare sin dall’alba –, del sindaco rimangono le ceneri in un’urna posta sull’altare. Due scout, una ragazza a sinistra, un ragazzo a destra, vegliano. In prima fila in chiesa il presidente polacco Andrey Duda, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il premier Mateusz Morawiecki. Accanto all’eroe di Solidarnozc, l’ex presidente Lech Walesa, c’è il presidente del Pis, partito ‘Legge e Giustizia’, Jaroslaw Kazynsky, prima suo amico e alleato politico, poi suo nemico acerrimo. A cascata tra i banchi scuri ci sono i primi cittadini delle città polacche, arrivati sul Baltico per l’ultimo saluto.

La bara di Adamowicz, che venerdì è stata trasportata in auto per tutta Danzica, prima della cremazione, era circondata dal silenzio di migliaia di cittadini che ai microfoni delle telecamere hanno detto piangendo: “Dobbiamo essere orgogliosi e ricordare la sua solidarnosc”.

Adamowicz è morto ma continua a sorridere nelle foto che sono state affisse nella sua città. I teleschermi per trasmettere “il funerale più importante della storia di Danzica”, come ha scritto Gazeta Wyborcza, sono stati montati dalla Capitale fino a Poznan. A Varsavia le persone si sono riunite in piazza del Castello, dove il sindaco Adamowicz è stato dichiarato cittadino onorario. Fino alla sua morte, per la sua posizione a favore della migrazione, secondo la propaganda governativa era invece il “traditore della patria” che voleva permettere “l’accesso dei terroristi islamici nel Paese”. Nella Polonia divisa, per un giorno, una morte unisce. Gli arresti della polizia dopo l’omicidio del sindaco sul palco del concerto sono stati decine, effettuati in seguito a minacce telefoniche. Una squadra di 105 giudici è stata istituita per investigare i crimini d’odio. L’accusa del lutto polacco è verso l’odio che sta guidando il destino del Paese, vero colpevole della fine del sindaco.

Aleksandr Hall, accademico amico di Adamowicz, ha detto: “La morte di Pawel cambierà le persone in modo permanente, si sono rese conto di cosa possono fare le parole”. Il sindaco di Sopot, Jarek Karnowski: “Noi, i sindaci delle città polacche, promettiamo di costruire una Polonia che sarà democratica ed europea, proprio come la tua Danzica”.

“Liberté, égalité, flashball”. I Gilet gialli contestano ancora governo e polizia

“Liberté, égalité, flashball”, hanno scritto ieri alcuni Gilet gialli sui loro manifesti rivisitando il motto della République e il disegno della Marianne di Shepard Fairey (lo stesso del famoso poster “Hope” di Obama) che troneggia nell’ufficio di Macron all’Eliseo. Ma la Marianne dei Gilet ha un occhio tumefatto. Per il decimo sabato consecutivo la protesta è tornata a Parigi. Il tempo passa, ma anche se meno numerosi rispetto a due mesi fa, i Gilet restano mobilitati: 84.000 presenze, come sabato scorso. In alcuni casi, anzi, come a Tolosa, dove sono state contate 10.000 persone, il movimento cresce. Erano 7.000 nella Capitale. Il “grande dibattito nazionale” lanciato da Macron per frenare la protesta per ora non basta.

Il presidente ha animato già due dibattiti-fiume, in Normandia e in Occitania, ogni volta davanti a 600 sindaci. Ma molti primi cittadini sono scettici sulla loro utilità, mentre i francesi restano critici nei confronti della gestione della crisi da parte del governo. Un sondaggio Odoxa ha anche mostrato che il 70% di loro ritiene che Macron “incarna male” l’autorità dello Stato. Ancora una volta i cortei sono iniziati nella calma per poi degenerare in alcuni punti, col buio, a Parigi, Lione, Bordeaux, Rennes. Sulla scia di una polemica che dura da alcuni giorni, i Gilet tra place d’Italie e Le Invalides hanno denunciato le violenze di cui sono vittime e soprattutto il flashball (il LBD, che sta per “lanceur de balles de défense”), il fucile a proiettili di gomma usato dai poliziotti per disperdere la folla, un’arma anti-casseurs, non letale, ma che sta facendo molti feriti, talvolta gravi, tra i Gilet. Su un tricolore hanno scritto: “Poliziotti, non sparate!”. Il ministero dell’Interno parla di circa 1.700 colpiti tra i dimostranti da novembre, senza precisare di più sul tipo di ferite. Fonti di stampa parlano di almeno 90 feriti gravi per flashball, di cui 14 avrebbero perso un occhio. Ma se il governo continua a difenderne l’uso, Jacques Toubon, difensore dei diritti, ha chiesto di vietarlo, mentre a Bourg-en-Bresse ieri i poliziotti erano muniti di GoPro per dimostrare il corretto utilizzo dell’arma

Burkina, il governo cade sul rapimento della coppia

Il governo del Burkina Faso sì è dimesso in blocco senza fornire alcuna spiegazione. L’ha annunciato sul suo sito ufficiale il primo ministro Paul Kaba Thiéba che, peraltro, ha assicurato il presidente della Repubblica, Roch Marc Christian Kaboré, resterà in carica per gli affari correnti.

Il disimpegno di Thiéba, il cui governo era stato formato nel gennaio 2016 ma che aveva subìto un rimpasto nel 2017, non è giunto del tutto inaspettato. Da alcuni mesi nell’ex colonia francese la situazione si sta deteriorando. Una fonte diplomatica, sentita al telefono dal Fatto Quotidiano, ha raccontato: “Sono mesi che abbiamo ‘rifugiati’ che arrivano in Mali e vengono dal Burkina. Non è mai stato ben chiarito da cosa realmente fuggano. Dai jihadisti o dalle operazioni delle forze internazionali? Probabilmente più dalle seconde che non dai primi. L’affinità culturale tra ‘società civile’, come ci piace chiamarla, e ‘jihadisti’ è in effetti ben superiore a quella che si riscontra tra la stessa ‘società civile’ e le forze dell’ordine nazionali (o internazionali)”.

Proprio per contrastare il terrorismo islamico che minaccia la giovane democrazia nata dopo la caduta di Blaise Campaore, il dittatore che ha governato dal 1987 al 2014, il Burkina Faso, assieme a Mauritania, Mali, Niger e Ciad, fa parte dell’alleanza sub regionale G5 Sahel costituita nel febbraio 2014 ma ancora, dopo 4 anni, non del tutto operativa. Nel novembre scorso, assieme a Costa d’Avorio e Ghana, truppe del Burkina hanno lanciato l’operazione congiunta Koudanlgou nelle aree meridionali e occidentali del Paese. Una precedente campagna nel maggio scorso aveva visto coinvolti reparti oltre che del Burkina anche di Togo, Benin e Ghana.

Ma nel Paese ci sono anche i legionari francesi dell’Operazione Barkhane – poco più di 2000 uomini, il cui quartier generale è in Ciad – e i ranger americani della Special Operation Command Africa – 2000 militari circa – il cui quartier generale è però a Stoccarda.

“Ormai quella fascia leggermente a sud del Sahara che va dall’oceano Atlantico e arriva fino al Sudan è infestato da bande di terroristi legati ad al Qaeda, cui si aggiungono accozzaglie di banditi e sbandati di ogni genere – continua il nostro interlocutore –. Anzi molte gang agiscono talvolta come semplici criminali, talaltra indossano i panni religiosi ancorché estremisti. In questo crogiuolo di indefinibili interessi diversi probabilmente è nata la decisione del governo di dimettersi”.

Forti pressioni sono state esercitate da chi ha accusato l’esecutivo di essere intervenuto con scarsa energia per risolvere il caso del 30enne italiano Luca Tacchetto e della 34enne canadese Edith Blais, scomparsi prima di Natale mentre, provenienti dall’Europa e dopo essere passati per Mauritania e Mali, stavano viaggiando verso il Togo. Ieri la Procura di Roma ha aperto un procedimento per sequestro di persona a scopo di terrorismo. Di loro si sono perdute le tracce da poco più di un mese anche se ieri un portavoce di Ottawa ha fatto sapere che Edith è viva (niente invece dalla Farnesina). Luca, di professione architetto, è figlio dell’ex sindaco di Vigonza, Nunzio Tacchetto: per la famiglia il ragazzo sarebbe stato rapito “per fini politici o economici”. Un paio di giorni fa, in Burkina è stato trovato morto un altro canadese che era stato rapito in precedenza.