Shutdown, Trump vuole il muro ma apre ai “dreamers”

Nel giorno in cui riparte a Washington la marcia delle donne, Donald Trump, il magnate presidente, che oggi compie due anni alla Casa Bianca, fa un tentativo di sbloccare le crisi che tengono gli Usa in una morsa. C’è la crisi umanitaria e di sicurezza, che Trump vede al confine con il Messico e per la quale vuole costruire un muro lungo tutta la frontiera, e c’è lo shutdown, cioè la serrata dell’Amministrazione federale, che va avanti da quasi un mese – quattro settimane – e che non ha precedenti nella storia dell’Unione. Gli agenti del Secret Service, ad esempio, non prendono lo stipendio e l’ex presidente George W. Bush compra pizza per tutti.

Nonostante le minacce, Trump non pare pronto a proclamare lo stato d’emergenza, che gli darebbe la possibilità di finanziare la costruzione del muro prelevando i soldi da altri capitoli di spesa. C’è, piuttosto, aria di baratto: il presidente lancia un’esca ai democratici che in maggioranza alla Camera lo tengono in scacco sui soldi per il muro.

Loro accettano di stanziare i fondi per erigere la barriera, 5,7 miliardi di euro, e lui appoggia misure a tutela dei ‘dreamers’, cioè quei milioni di immigrati entrati nell’Unione bambini, coi loro genitori, e che hanno studiato e sono cresciuti negli Stati Uniti, e pure di quanti hanno un status di protezione temporaneo. È un segnale di apertura: impossibile, però, prevedere se basterà a sbloccare lo stallo e quanto tempo ci vorrà; potrebbe, però, bastare a riaprire il dialogo tra Casa Bianca e Congresso. Sul fronte Russiagate il procuratore Mueller inviso a Trump contesta la ricostruzione di BuzzFeed, secondo cui Michael Cohen, l’ex avvocato del tycoon, avrebbe confermato allo stesso Mueller che il presidente gli ordinò di mentire al Congresso sui negoziati per una Trump Tower a Mosca.

Venezuela anno zero: Maduro il socialista che volle farsi Re

Il secondo mandato del presidente Nicolas Maduro, iniziato lo scorso 10 gennaio, vede l’erede di Chávez sempre più isolato a livello locale e internazionale, ma deciso a rimanere al potere fino alla scadenza naturale nel 2025.

Per la prima volta nella storia del Venezuela democratico, il presidente ha giurato davanti ai giudici del Tribunale supremo elettorale (Tsj) anziché davanti all’Assemblea Nazionale, ovvero il Parlamento, perché questa è presieduta dall’opposizione che si rifiuta di considerarlo il legittimo capo dello Stato e ha dato il via a un processo per la sua destituzione e la formazione di un governo provvisorio, in attesa di nuove elezioni.

A capo di questo eventuale esecutivo ad interim verrebbe messo l’attuale presidente dell’Assemblea, il giovane Juan Guaidó. Il leader dell’opposizione, dopo aver citato un articolo della Costituzione venezuelana che prevede il trasferimento del potere al presidente dell’Assemblea nazionale nel caso in cui la presidenza sia vacante, domenica scorsa è stato arrestato da alcuni funzionari del Sebin (il servizio d’intelligence) nonostante l’immunità di cui gode essendo un deputato. Per evitare nuove manifestazioni a suo favore da parte della popolazione indignata da questo ennesimo atto dispotico, il ministro della Comunicazione e Informazione, Jorge Gomez, è corso ai ripari dichiarando “che l’arresto è stato irregolare ed è avvenuto senza l’approvazione dei vertici del governo”. Dopo il rilascio Guaidò ha commentato: “Se i funzionari hanno deciso di loro iniziativa, vuol dire che Maduro non controlla più le forze armate”. Si tratta però di un auspicio, più che di un dato di fatto: il Sebin da ottobre è stato infatti spostato sotto l’autorità dell’esecutivo, cioè di Maduro, che sembra ancora in grado di controllare le forze dell’ordine.

Guaidò dopo essersi auto-proclamato presidente ad interim ha indetto una manifestazione generale per il 23 gennaio. In realtà il Parlamento di Caracas non è ancora riuscito ad acquisire la forza politica per imporsi sul caudillo sostenuto, secondo molti analisti, anche dai cartelli del narcotraffico. Tre anni fa, due nipoti di Maduro, muniti di passaporto diplomatico, furono arrestati ad Haiti con un carico di cocaina.

In ambito internazionale, Maduro oggi non ha più contro solo gli Stati Uniti ma anche Luis Almagro, segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, che ha definito Guaidó “presidente ad interim”.

La situazione tragica dei venezuelani costretti a fuggire a centinaia di migliaia soprattutto negli Stati limitrofi per la scarsità di cibo e medicine, oltreché per l’inflazione monstre e la disoccupazione, ha costretto molti Paesi a prendere le distanze da Maduro. Canada, Colombia, Brasile, Perù, Argentina, Honduras, Guyana, Costa Rica, Guatemala, Panama, Paraguay, Santa Lucia, che costituiscono il gruppo di Lima, hanno definito il governo del presidente “dittatoriale e oppressivo” e hanno disertato la cerimonia di insediamento. Maduro ha risposto per le rime definendo il nuovo presidente brasiliano Bolsonaro un “Hitler dei nostri giorni” e ha accusato la Colombia di aver ordito con gli Stati Uniti un golpe contro di lui. Bogotà, da parte sua, ha svelato di aver avviato un’indagine su ipotetiche trame per assassinare il presidente Ivan Duque, che potrebbero coinvolgere tre venezuelani, arrestati negli scorsi giorni.

Non sorprende che al fianco di Maduro sia rimasta la Russia di Putin, e uno dei suoi più forti sostenitori è il presidente turco Erdogan a cui Maduro ha concesso di sfruttare in esclusiva i giacimenti di oro, coltan e diamanti venezuelani, lasciandogli il 45% dei profitti.

A oggi nessuno è in grado di prevedere se il braccio di ferro tra Maduro e Guaidò porterà a una guerra civile o a una uscita di scena del presidente.

Intanto, ci si interroga sulla sorte dei quasi 200 mila emigrati italiani nel Paese bolivariano e dei circa due milioni di italiani oriundi. Migliaia stanno tentando di tornare in Italia, ma le domande inviate ai consolati non ottengono risposta. Per loro l’unica nota positiva è che se hanno bisogno di medicine, d’ora in poi potranno riceverle dall’Italia: il consolato generale d’Italia a Caracas è responsabile operativo del progetto “Programa de donación de medicamentos para ciudadanos italianos en Venezuela”.

Mail Box

 

Qualche idea per Di Battista in vista delle elezioni europee

Alessandro Di Battista, reduce da due campagne, quella per referendum del 2016 e quella per le ultime elezioni politiche, cercherà il tris alle prossime Europee in qualità di “frontman” del Movimento 5 Stelle. Per riuscirci dovrà concentrarsi su due priorità. La prima è comunicare bene le cose buone fatte finora dal governo, piccole o grandi che siano, in condizioni difficili, tra un alleato spesso riluttante e i mille ostacoli dell’establishment nostrano e non solo. L’altra consiste nello spiegare con precisione ai delusi e agli incerti le pericolose convergenze fra Lega e Partito democratico, ma anche Forza italia seppure più defilata, sul Tav e sulla giustizia. Una forte affermazione del M5S è stata decisiva il 4 marzo 2018 per evitare il “Renzusconi”. Il 26 maggio 2019 serve un altro buon risultato per scongiurare la sua versione 2.0, il ritorno di Salvini con Berlusconi.

Antonio Maldera

 

Il “Manifesto di Ventotene”: la bussola degli antisovranisti

Il manifesto di Calenda “Siamo europei” è una buona notizia. Contro il revival delle destre in tutta Europa e il gruppo di Visegrad che inocula ogni giorno sovranismo anticoagulante nel gracile organismo europeo, c’è poco da fare gli schizzinosi. Ben venga l’antibiotico, in mancanza di anticorpi, ma se non si cambia l’Europa puntando alla giustizia sociale, tutta questa iniziativa sarà inutile. Bene combattere il dumping fiscale ma occorre anche tassare la speculazione finanziaria. Va pensata una seria tutela dell’ambiente e non ultimo un piano di sviluppo per i paesi africani. “La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà”, così finiva il Manifesto di Ventotene. Così, deve iniziare la ricostituzione di una vera Europa unita.

Massimo Marnetto

 

Condividiamo le risorse con i tanti affamati in fuga

L’Occidente deve e dovrà fare i conti con milioni di esseri umani disperati, affamati, con sempre maggiori aspettative che li condurranno comprensibilmente alla ricerca di un futuro migliore. Ormai si tratta di fare di necessità virtù. Accogliendo chi davvero ha bisogno, sostenendo i popoli a sviluppare vita, lavoro e democrazia fra le proprie radici. Dovremmo sforzarci di trattenere le nuove generazioni invece di vederle cercare fortuna fuori dall’Italia, e imparare a gestire le eventuali risorse naturali. L’umanità non può più accettare che sullo stesso pianeta sopravvivano esseri umani ridotti a scheletri deturpati dalla mancanza di cibo. Se non si fa qualcosa i valori, le ideologie, i buoni sentimenti e la solidarietà rimangono vuoti di senso.

Gimmi Marini

 

La colpevole smemoratezza degli intellettuali italiani

Non pochi intellettuali straparlano nei confronti di Silvio Berlusconi, diventando “cattivi maestri” senza neanche rendersene conto. Quando Scalfari aveva aperto le danze da Floris, per un momento avevo creduto che non fosse lucido. Invece in seguito abbiamo visto che in tanti la pensano come lui. A volte mi viene il sospetto che rifiutino a priori tutti quei fenomeni dei quali non sono un po’ protagonisti. Il loro ruolo non dovrebbe essere quello di aprire le menti a nuove idee, nuove prospettive? Invece polemizzano contro ciò che non gli piace. Loro per primi dovrebbero ricordare ciò che B. ha fatto alla cultura e ai principi morali di questo paese. Ora che B. si candida alle europee, Veronesi dovrebbe avere il coraggio e la coerenza di firmare il suo “patto col diavolo”.

Enza Ferraro

 

Matera, Capitale della cultura ma irraggiungibile col treno

Si sono aperte ieri le celebrazioni di Matera come Capitale europea della Cultura di quest’anno. È la prima città del Sud scelta per questo onore. Ma una vera celebrazione sarebbe quella di dotarla finalmente di un treno, perché è inaccettabile che una città capoluogo di Provincia non abbia ancora un collegamento ferroviario. Mentre al Nord c’è chi manifesta in piazza perché vengano spesi 20 miliardi per risparmiare manciate di minuti nel trasporto delle merci a Lione, quando c’è già una linea ferroviaria in parte in disuso, chi pensa alle città isolate del Mezzogiorno? Alle isole, ai comuni siciliani o sardi con collegamenti “paleolitici”? Ci sono ancora ferrovie a binario unico. Se vogliono davvero onorare Matera, aprirla al turismo internazionale per il suo patrimonio culturale e risollevare la sua economia, dotarla di un treno è il minimo che uno Stato civile possa fare.

Viviana Vivarelli

 

I NOSTRI ERRORI

Nella rubrica “Ciak si gira” pubblicata venerdì, la sceneggiatura dell’imminente film su Caravaggio, diretto da Michele Placido, è stata attribuita per un refuso a un altro autore, ma è stata invece scritta da Sandro Petraglia e Fidel Signorile. Ci scusiamo con gli interessati e con i lettori.

F. C.

 

Ieri abbiamo erroneamente attribuito la lettera “Parlare di Tav è ormai inutile” a Massimo Marnetto, mentre la provocazione era firmata da G. C.. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

Zingaretti: “Prima le persone”. Sì, ma prima ancora i disabili

 

“Prima le persone”.

Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio e candidato segretario alle primarie del Pd

 

Innanzitutto, i più sinceri complimenti a Nicola Zingaretti perché “prima le persone” è uno slogan bello ed efficace, così come assai apprezzabile è il suo impegno a correggere gli “errori” del passato Pd, per ricostruire con il Paese reale un’“empatia” (cito dall’intervista rilasciata a Giovanni Floris martedì scorso).

Poiché siamo convinti che quando dice “prima” Zingaretti pensi soprattutto alle persone socialmente più deboli e a coloro che sono stati duramente colpiti dalla vita, ci permettiamo di dargli un piccolo suggerimento. Una domenica, si ritagli un paio d’ore, sottraendole se può ai tanti impegni e forse anche a un meritato riposo, si rechi alla Fondazione Santa Lucia (via Ardeatina 354, in auto senza intoppi si raggiunge facilmente da ogni parte di Roma) e assista a una partita della “Giovani e Tenaci Asd”, la squadra giovanile di basket in carrozzina che partecipa al campionato nazionale under 20 con altre formazioni di tutta Italia. Guardi presidente, chi scrive ha vissuto pochi giorni fa questa esperienza e osservando quelle ragazze e quei ragazzi correre sul parquet muovendo le ruote con la sola forza delle braccia, senza mollare mai un pallone, e le famiglie che fanno un tifo indiavolato, e gli allenatori che li incitano – e gli specialisti che li seguono cercando di farli sentire atleti, esattamente come i loro coetanei che corrono sulle proprie gambe, provando ad accrescere la loro autostima, sviluppando fiducia in se stessi e nel prossimo –, chi scrive dicevo ha imparato, le assicuro, sul basket in carrozzina, e sulla vita, qualcosa che con le parole non riesce a esprimere. Se le capita si faccia raccontare la storia di uno scricciolo di nome Sara, agilissima sulla sua carrozzina nel districarsi dalle marcature e con un sicuro futuro da pivot. O di quel ragazzo venuto da Haiti, sopravvissuto a tutto ma proprio a tutto, adottato da una famiglia italiana (che non conosco ma il cui slogan sarà di sicuro: prima gli altri). Lui che Carlo Di Giusto, Ct anche della Nazionale paralimpica di pallacanestro incontrò per caso in autogrill ripiegato su se stesso e che ora è uno dei punti forza della squadra. Mentre scrivo mi rendo conto della cattiva figura che probabilmente starò facendo ai suoi occhi. Non sono certamente io che devo spiegare al presidente della Regione Lazio che cosa è la Fondazione Santa Lucia, quale sia la sua storia, di quale prestigio goda, da quale affetto sia circondata dei tantissimi che hanno conosciuto la competenza e l’umanità di chi vi opera. Così come, del resto, le sarà sicuramente nota la difficile condizione economica in cui versa. Argomento su cui non aggiungo una sillaba avendoci con una sua cortese lettera già rassicurato in passato. Alla vigilia, se non ricordo male, delle ultime elezioni regionali. E se lei avesse già avuto modo di conoscere questa straordinaria squadra, di applaudire questi indomiti ragazzi, e le loro splendide famiglie, e i loro fantastici allenatori, le chiedo scusa in anticipo. Suggerendole (è un vizio) una piccola variazione al bel messaggio della sua campagna per le primarie del Pd. Prima le persone. Ma prima ancora i disabili.

Il Dio della festa sta dalla parte degli sposi e aiuta i poveri d’amore

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno vino”. E Gesù le rispose: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora”. Sua madre disse ai servitori: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”.

Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: “Riempite d’acqua le anfore”; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: “Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto”. Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora”.

Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui (Giovanni 2,1-11).

Sua madre disse ai servitori: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. La nascita di Gesù, l’adorazione dei Magi che lo riconoscono salvatore di tutte le genti, il battesimo presso il fiume Giordano sono eventi che esprimono il compimento definitivo dell’oggi annunciato dai profeti. Giovanni, con la narrazione del miracolo di Cana, attesta l’inizio dei segni con i quali Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

Nel piccolo villaggio di Cana (significa “fondare”) in Galilea, il Redentore è venuto a ristabilire, ricreare le nozze vere tra Dio e l’umanità, il Dio della festa, che sta dalla parte della gioia degli sposi, che soccorre i poveri di amore e i poveri di pane. Anche l’espressione il terzo giorno rimanda ad altri riferimenti importanti che collegano passato e futuro. Essi ricordano la teofanìa nella quale Mosè ricevette le Tavole della Legge. Viviamo anche l’anticipo del terzo giorno, quello della Risurrezione. A Pasqua, nella sua ora, Gesù donerà il vino nuovo e migliore che basta fino alla fine, nel dono del suo stesso sangue versato per tutti.

Colui che dirigeva il banchetto… non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servi che avevano preso l’acqua. Il santo papa Giovanni XXIII riteneva una predilezione di Gesù verso la famiglia l’aver compiuto il primo miracolo per essa!

L’evangelista Giovanni inquieta spesso il lettore ponendo la domanda “da dove?” (póthen) riferita a Gesù. Infatti di Lui non sappiamo da dove viene né verso dove va (Gv 3,8; 8,14). Bisogna conoscere il mistero della Persona di Gesù per accoglierne la rivelazione: viene da Dio e riporta l’umanità verso il Creatore, il Padre dell’uomo redento.

La Samaritana quasi ironizza sull’origine misteriosa della fonte: Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? (Gv 4,11). Lo stesso Filippo domanderà a Gesù: dove potremo comprare il pane perché… abbiano da mangiare? (Gv 6,5). Non si tratta solo della genealogia di Gesù, ma di indagare, scoprire, attirare l’attenzione sull’origine divina del Suo mistero, da cui scaturiscono il perdono dei peccati, la grazia e il dono di una vita piena e per sempre. A Cana c’era la madre di Gesù, che ritroveremo dritta ai piedi della croce (Gv 19,25-27).

È la Madre di Dio ad accorgersi per prima di ciò che manca alla felicità degli sposi, di farsi interprete delle esigenze impellenti dell’umanità di sempre: Non hanno più vino. Il Signore Risorto ha voluto presso di sé Sua Madre. Ci sveli Lei il da dove del Figlio suo, teneramente ci porti al Signore Gesù, ci induca a fare qualsiasi cosa Egli ci comanda.

* Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Sul caso Etruria, la classe dirigente sta andando in tilt

La nuova ondata di crisi bancarie, come le precedenti, sta mandando in tilt la classe dirigente. Governo, Parlamento, banchieri e organi di vigilanza sono incapaci di elaborare una strategia. Si limitano, come dicono i maghi della finanza, a kick the can, a dare calci alla lattina, cioè a rinviare il problema. Quando una banca salta può essere salvata dallo Stato, soluzione che tutti in Italia prediligono, o lasciata fallire come un’azienda qualsiasi in nome del mercato, secondo le rigide norme europee. Da dieci anni l’Italia è a un bivio, trasformato in una rotonda attorno a cui danzano personaggetti pensosi solo della loro prossima nomina o elezione. Lorsignori, anteponendo il proprio destino personale a quello della collettività che sono pagati per tutelare, indulgono in faide e piccole furberie, pronti a morire prima di assumersi una responsabilità. They badogliate, come hanno imparato a dire gli inglesi per irridere l’inclinazione truffaldina di una classe dirigente educata a considerare Pietro Badoglio un maestro e Giorgio Ambrosoli un coglione. In realtà, i coglioni, quelli che calciano la lattina in salita e si chiedono come mai torni indietro. Adesso gli sta rotolando addosso la grana di Banca Etruria.

La Procura di Arezzo sta indagando per abuso d’ufficio i commissari Riccardo Sora e Antonio Pironti, scelti dal governatore Ignazio Visco. A novembre 2015 Etruria aveva in pancia sofferenze (crediti inesigibili) per 2,2 miliardi nominali, svalutati del 63,7 per cento a 792 milioni: si contava di recuperare 36,3 euro ogni 100 prestati. Il 17 novembre (occhio alla data) Sora e Pironti annunciano di aver venduto 302 milioni di sofferenze lorde al Credito Fondiario a un prezzo “allineato al valore di carico dei crediti”. O mentono o, immediatamente prima dell’operazione, hanno svalutato i crediti dal 36,3 al 16,3 per cento, visto che il prezzo fu di 49 milioni. Fatto sta che il giorno dopo Bankitalia e governo si erano già precipitati a riferire alla Commissione europea quel prezzo come rappresentativo del valore effettivo di tutte le sofferenze. Domenica 22 novembre, quattro giorni dopo, scattò la risoluzione per Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti. Le sofferenze lorde delle quattro banche, 8,5 miliardi, furono svalutate al 17,6 per cento, cioè a un miliardo e mezzo. Se fossero state tenute al livello fissato non dalla banda Bassotti ma dagli stessi Sora e Pironti (36,3 per cento), il loro valore sarebbe stato doppio, 3 miliardi. Alle quattro banche fu così aggiunta in modo arbitrario una perdita di 1,5 miliardi, solo per chiudere nel triangolo Roma-Bruxelles-Francoforte la bizantina diatriba teologica su “aiuti di Stato” e leggi del mercato.

Da un paio d’anni la Procura di Arezzo, con la calma tipica dei magistrati italiani quando la materia scotta, valuta se quella svendita di sofferenze fu un reato. Un esercizio inutile. Chi stabilirà se fu giusto il prezzo di quelle sofferenze? Naturalmente la Banca d’Italia. Il Consiglio di Stato – alfa e omega del diritto, della legge, della giustizia e del potere – ha già più volte conferito “ampia discrezionalità valutativa” alla Banca d’Italia, escludendo “ogni sindacato giurisdizionale sulle valutazioni di merito compiute”. La Banca d’Italia è al di sopra della legge. E l’indagato Sora lo sa bene. Già come commissario della Cassa di Rimini fu indagato per aver ricomprato ad alcuni soci le azioni ormai senza mercato. Lo archiviarono obbedendo a una lettera di manleva in cui Visco insegnava ai magistrati il confine tra lecito e illecito. Anche per Etruria la Banca d’Italia sarà giudice dei suoi commissari e darà un altro calcio alla lattina. Intanto a Roma fanno solo finta di preoccuparsi e le banche continuano a saltare.

Twitter@giorgiomeletti

Cosa (non) sappiamo di chi ci governa

Piccoli borghi conservano tenacemente truci tradizioni. Per esempio Capalbio, la località nota per il mare e la presunta mondanità, mantiene vivo, nella sua selvatica Maremma, il culto del brigante Tiburzi. Spietato e audace, era noto per i suoi delitti e la sua capacità di sfuggire alla cattura. Dopo decenni, il brigante è stato sorpreso da un tradimento e abbattuto a fucilate. Grande notizia anche per il governo Giolitti. Ma c’era un problema: mancava la fotografia dell’evento. Nessuno si è perso d’animo. Lo hanno fotografato da morto facendo in modo che sembrasse vivo, debitamente fiancheggiato da chi lo aveva catturato. La foto gira ancora in Maremma.

Come vedete, l’episodio è identico all’evento di Ciampino, con qualche ritocco. Un ministro vestito da poliziotto e un ministro vestito da guardia carceraria si sono recati prontamente sul posto per farsi fotografare e filmare accanto a un latitante con cui, dato anche il loro breve periodo al governo, non avevano mai avuto niente a che fare, uno che è stato catturato e mandato in Italia da governi stranieri, con la definizione un po’ pesante di “regalino”.

In entrambi gli eventi, i soli che si sono comportati con dignità, a parte le loro gravissime colpe, sono i due catturati. Ma né l’uno né l’altro sono sfuggiti a una offesa: Tiburzi appare legato, da morto, come se fosse ancora pericoloso; Battisti è stato accolto dalla frase che ormai è storia: “E adesso va a marcire in prigione”. Lo statista che l’ha detta ha azzerato due secoli di civiltà giuridica italiana.

Diciamo la verità. Noi non sappiamo chi sono le persone che ci governano. Il ministro dell’Interno sembra non intravedere la portata e il livello del suo compito, e ha adottato, per ritagliare la sua figura nella storia, una dimensione molto piccola. Risponde come un condomino incattivito. Purtroppo il suo potere è grande. Ed è grande il silenzio dell’opposizione che non c’è. Purtroppo i suoi dispetti sono cattiverie disumane come lasciare in mezzo al mare in tempesta, in notti di gelo, decine di emigranti senza colpa che cercavano solo un porto sicuro.

Quando, durante la trasmissione Otto e mezzo si è visto il ministro Bonafede esultante per avere sfilato davanti a un prigioniero, si è capito che il ministro della Giustizia non ha alcuna idea della importanza, del peso di quel ministero, e dunque del ruolo (prudenza, saggezza, cautela, rispetto) di quell’incarico. Rideva, rideva, Bonafede nella sua trasmissione dopo Ciampino, e teneva testa alle gravi obiezioni dei presenti, come si fa di fronte a un dissenso sul costume di carnevale, non sulla divisa carceraria indossata con lieta incapacità di capire che cosa è e chi è ministro della Giustizia.

Prendete l’immagine dei due che vanno a Strasburgo, in pulmino cinematografico (vedi inquadratura e dislocazione della camera) e discutono di fronte a noi spettatori forse per mostrare “la trasparenza”, Di Maio e Di Battista ci vengono presentati come gli amici di una vita, ma ciascuno parla da solo e nessuno dei due ha un guizzo, un istante, di quel tipo di umore non tetro che è tipico di quella età, anche solo un riferimento a qualcosa che non sia distruttivo.

Di Maio invece ci informa subito, dal set del pulmino, che vanno a Strasburgo per cancellare Strasburgo. È uno spreco, Strasburgo. Per essere sicuro di registrare l’umore del gruppo, Di Maio definisce la seconda Capitale d’Europa “una marchetta francese”, del tutto ignaro, come chi ha fatto studi modesti, di storia e ragioni. E benché il filmino duri abbastanza, non c’è un istante in cui uno dei due sorrida o allenti la muscolatura facciale volta al vendicativo, sempre sul punto di dire “adesso ve la facciamo vedere noi”.

Di Battista poi, seduto lì in prima fila a un passo dagli spettatori, mentre sta andando dentro l’Europa, non potrebbe raccontarci una cosa, una, di ciò che ha visto nel mondo, mentre lo girava?

Qui tutti vogliono sapere come governano, questi del cambiamento, e anche dopo la pubblicazione dei due famosi editti, sulla povertà e sulle età pensionabile nessuno sembra sapere o capire. La povertà (che cosa sia, chi se la porta addosso e come si cura) resta un mistero.

Prendete Grillo a Oxford. Va a un congresso di maghi (maghi di conversazione e di dibattito) e non ha un suo trucco. Niente conigli, non una battuta. Non poteva prepararsi un foglietto, sapendo che non tutti lo prendono sul serio come in Italia?

La domanda resta: ma chi sono questi? Perché sono sempre di cattivo umore? E che cosa vogliono davvero, a parte il contratto, che vincola l’uno all’altro ma non a noi?

Alitalia, nuova ipotesi d’ingresso (40%): Delta con Air France-Klm

La compagnia americana Delta Air Lines sarebbe disponibile a entrare nel capitale di Alitalia insieme al gruppo Air France-Klm con una quota del 40%, una riduzione degli aerei e del lungo-raggio e, come conseguenza, da 2 a 3mila esuberi. Secondo Il Sole 24 Ore è questa l’ipotesi di piano per Alitalia emersa dagli incontri che i vertici di Fs, alla ricerca di un partner industriale, hanno avuto con la compagnia Usa ad Atlanta. Ma i sindacati hanno lanciano l’allarme sugli esuberi, mentre per il vicepremier Luigi Di Maio “è prematuro parlarne”. Il progetto che sta prendendo forma nella fitta serie di colloqui intorno alla compagnia aerea commissariata, e che dovrebbe essere messo nero su bianco da Fs entro il 31 gennaio, vedrebbe la disponibilità da parte di Delta Airlines a entrare nel capitale di Alitalia insieme a Air France-Klm con una quota del 20% ciascuna nella newco Alitalia con il progetto che vedrebbe poi Ferrovie dello Stato con una quota non superiore al 25-30%, il Tesoro con un 15% frutto della conversione in equity di parte del prestito ponte e il restante 15% in mano ad altre società pubbliche. Anche se quelle emerse (Eni, Leonardo, Poste e Cdp) hanno già smentito.

A rischio gli operai “traditi” da De Benedetti

Cinquanta anni fa ci fu la “rivolta”. Era il 9 aprile 1969, le fabbriche chiudevano e i lavoratori scendevano in piazza. La polizia iniziò la carica. Morirono due persone, un giovane di 19 anni e un’insegnante. Battipaglia (Salerno), polo industriale che ha goduto del boom economico degli anni 50 e 60 prima di veder trasformare le sue industrie in centri commerciali e terreni agricoli, ieri mattina è scesa di nuovo in quella piazza dove mezzo secolo fa si respirava il clima di tensione che avrebbe terrorizzato l’Italia.

Stavolta la protesta è pacifica, anche se a chiudere è di nuovo una fabbrica: la Treofan, che produce da oltre 30 anni polipropilene biorientato per l’etichettatura dei prodotti alimentari di grandi colossi come Coca Cola e Heineken e che lo scorso 26 dicembre ha ricevuto a sorpresa la visita del vicepremier Luigi Di Maio. Una manifestazione organizzata da tutte le sigle sindacali, dove inevitabilmente non sono mancate passerelle politiche e proclami di impegni e promesse contro i licenziamenti annunciati dalla multinazionale indiana Jindal, che dallo scorso ottobre ha acquistato lo stabilimento e l’intero gruppo europeo. La parola chiave, che ha unito rappresentanti della maggioranza e dell’opposizione, è “speculazione finanziaria”. Anche Piero De Luca, deputato dem e figlio del governatore della Campania Vincenzo, si è associato al coro anti Jindal puntando il dito contro gli indiani. Semplice sparare a zero contro la nuova società. Meno facile è pronunciare il nome di chi ha venduto la fabbrica a chi adesso vuole andar via. I lavoratori sono gli unici a non aver paura di tirare in ballo Carlo De Benedetti, proprietario del gruppo Espresso e antagonista di Berlusconi nella vicenda Mondadori. De Benedetti compra le azioni del gruppo Treofan nel dicembre 2016 con la M&C, una finanziaria (di cui è presidente onorario) controllata da Per spa (a sua volta controllata dall’Ingegnere) e da una off-shore lussemburghese. Prima acquisisce il 42% dell’azienda tedesca, mettendola a bilancio per 41 milioni e poi si compra il restante del capitale per altri 46 milioni, diventando proprietario di quattro stabilimenti: Battipaglia, Terni, Neukirchen (Germania) e Zacapu (Messico).

L’acquisto si perfeziona a febbraio 2017 grazie all’apertura di un credito bancario. Quello stesso anno la M&C registra una perdita di 19,4 milioni, che il gruppo Treofan coprirà con 10 milioni di ricavi prima di deliberare un nuovo aumento di capitale per realizzare una nuova linea di produzione nello stabilimento messicano. I bilanci del gruppo Treofan, però, già nel biennio 2016-2017 registrano debiti per 226 milioni. Eppure la M&C non rinuncia all’investimento. La finanziaria di De Benedetti comincia a spacchettare la Holding nel 2018. A marzo dello scorso anno si sbarazza del sito messicano (Treofan Americas) per 223 milioni con l’obiettivo, dice, di potenziare il polo europeo.

Ma l’obiettivo non viene centrato, tanto che nell’ottobre scorso decide di liberarsi anche di Treofan Europa, cedendola agli indiani della Jindal per mezzo milione. Con la prima operazione salda il fido con la Deutsche Bank, ma non riesce a coprire tutti i debiti. Con la seconda copre a malapena il debito con la Banca Popolare di Sondrio. Intanto, nell’ultima relazione di bilancio prevede bonus straordinari a figure apicali della M&C, mentre gli indiani avviano i licenziamenti e 78 lavoratori sperano nell’incontro al Mise del 24 gennaio. Confidando stavolta nella presenza al tavolo di Di Maio.

Fiumicino ancorata ai Benetton. Cacciarli costerebbe 10 miliardi

Il governo avrebbe sbattuto contro un muro se 4 anni fa avesse deciso di revocare la concessione di Fiumicino alla società Aeroporti di Roma (AdR) dei Benetton ritenendola responsabile dell’incendio che il 7 maggio 2015 si era mangiato un pezzo di aeroporto a causa della discutibile manutenzione degli impianti. Allora come oggi per sloggiare i Benetton dallo scalo anche nel caso si macchino di “grave inadempimento”, lo Stato deve pagare una specie di penale elevatissima, almeno 10 miliardi di euro. Deve sborsare, cioè, il valore netto annuale dei ricavi moltiplicato per il numero di anni che restano al termine della concessione. Siccome quest’ultima scade nel giugno del 2044, mentre è di circa 400 milioni di euro l’anno l’Ebit (cioè il reddito ricavato dalla gestione del bene pubblico), il conto è semplice.

Ad Aeroporti di Roma è stato regalato di fatto lo stesso superbenefit confezionato per Autostrade per l’Italia (Aspi) sempre dei Benetton, a cui lo Stato per la revoca della concessione dovrebbe pagare circa 20 miliardi di euro nonostante il crollo del ponte di Genova. Ad Aspi il regalo fu dato nel 2007, pieno governo di centrosinistra, sotto forma di Convenzione unica poi blindata l’anno successivo addirittura con una legge apposita approvata dalla maggioranza guidata da Silvio Berlusconi. Nel caso di AdR il gentile omaggio è stato recapitato 5 anni più tardi, il 21 dicembre 2012, con un Atto unico costituito dalla Convenzione più un Contratto di programma in deroga, calibrato sulle esigenze del concessionario e approvato quando capo del governo era il tecnico Mario Monti.

L’idea del contratto in deroga, per la verità, risale a 3 anni prima e fu suggerita alla politica addirittura dal presidente di Aeroporti di Roma, Fabrizio Palenzona, il quale di recente ha pubblicamente rivendicato l’operazione. La manovra fu infilata quasi di soppiatto in un testo in cui all’apparenza si trattava di altro: “Provvedimenti anticrisi nonché proroga dei termini e della partecipazione italiana alle missioni internazionali”. Centrosinistra, centrodestra e tecnici si sono quindi passati la staffetta nel corso degli anni come fossero un’unica squadra per tirare la volata agli interessi dei Benetton. I contratti di Autostrade per l’Italia e Fiumicino nelle parti riguardanti la revoca, la risoluzione o la decadenza delle concessioni sono insomma sbilanciati a favore dei Benetton. Se il concessionario, infatti, può incassare il massimo possibile previsto dalla durata della concessione sia nel caso si comporti in modo esemplare sia nel caso opposto, la gestione efficiente del bene pubblico dipende unicamente dal buon cuore del concessionario. E il buon cuore negli affari non è un buon consigliere.

Con l’approvazione dell’Atto unico del 2012 il business aeroportuale dei Benetton è schizzato alle stelle, diventando non florido, ma floridissimo. Grazie al regalo offerto dal tecnico Monti le tariffe pagate per ogni singolo biglietto aereo sia dai passeggeri in partenza sia da quelli in arrivo sono aumentate in un colpo di circa 12 euro. In 6 anni, dal 2012 al 2017, i risultati operativi degli Aeroporti di Roma sono migliorati di tre volte, da 134 milioni di euro del 2012 a 401 nel 2017. Il risultato totale del periodo è di poco meno di 1 miliardo e 700 milioni di euro mentre i dividendi distribuiti agli azionisti sono stati 720 milioni.

Grazie agli incrementi tariffari, i Benetton hanno incassato molto più di quanto nello stesso periodo abbiano investito per i miglioramenti strutturali dell’aeroporto (1 miliardo e 100 milioni di euro circa). Detto in altro modo: gli aumenti imposti ai passeggeri hanno finanziato gli investimenti per Fiumicino consentendo ai Benetton di non utilizzare i “capitali di mercato del gestore” nonostante fosse previsto dal contratto con lo Stato. Nel frattempo, mentre Adr scoppiava di salute, è precipitata la situazione di Alitalia che di Fiumicino è il maggiore cliente. Negli ultimi 6 anni la compagnia aerea ha subito un risultato negativo di circa 1 miliardo e 800 milioni, quasi uguale al risultato positivo incamerato dai Benetton.