L’Authority delle comunicazioni boccia il progetto di separazione volontaria della rete Telecom in una società ad hoc, presentato nel marzo dello scorso anno dalla compagnia allora guidata dal manager israeliano Amos Genish. Così come si legge nel documento di 454 pagine pubblicato sul sito dell’Agcom per avviare la procedura di consultazione pubblica che durerà 45 giorni e che era già in parte stata anticipata con un comunicato lo scorso dicembre. Secondo il garante lo scorporo della rete non cambia la posizione di Tim che rimane un soggetto con una significativa forza di mercato sia per quanto riguarda la tipologia merceologica sia in relazione al livello di mercato. In sostanza, l’Agcom è arrivata alle stesse conclusioni del 2013, quando il processo di scorporo della rete era stato accantonato. L’Autorità ritiene che il progetto di separazione di Tim non abbia impatti sulla definizione del mercato rilevante – merceologica e geografica – dei servizi di accesso all’ingrosso di alta qualità in postazione fissa, e sulla relativa determinazione del significativo potere di mercato.
Intanto sullo sfondo rimane la guerra tra Vivendi ed Elliott su Tim.
Provaci ancora, Ocse: i numeri negativi della grande elusione
Gli economisti anglosassoni lo chiamano transfer pricing system, letteralmente “sistema di prezzi di trasferimento” e serve ad accantonare molti profitti esentasse se sei una multinazionale. È il metodo, del tutto legale, con cui i giganti mondiali del commercio digitale riescono a sottrarre al fisco ingenti quantità di ricavi spostandoli nei paradisi fiscali. Le multinazionali fissano prezzi delle transazioni tra le loro filiali notevolmente diversi da quelli che applicherebbero a soggetti terzi, per garantirsi che i ricavi siano tassati in Paesi in cui le aliquote fiscali sono inferiori e non dove la loro attività economica e la creazione di valore avvengono realmente. In questo modo concentrano enormi capitali in una manciata di Paesi off-shore grazie a una potente industria di intermediari: banche, consulenti e legali, aggirando norme antidumping e sul segreto bancario.
L’ultimo rapporto dell’Icrict, la Commissione indipendente per la riforma della tassazione internazionale delle grandi corporation, cita alcuni esempi di elusione fiscale sul piano planetario. Facebook ha pagato solo 7,4 milioni di sterline di imposte societarie nel Regno Unito nel 2017, nonostante ricavi per 1,3 miliardi nel Paese e profitti prima delle tasse del 50%. Anche Amazon regola i debiti con il fisco con qualche spicciolo: nel 2016 ha pagato solo 16,5 milioni di euro di tasse sui ricavi europei per 21,6 miliardi di euro, attraverso il Lussemburgo. Google ha trasferito 19,9 miliardi di euro tramite una società di copertura olandese alle Bermuda nel 2017, come parte di un accordo che le consente di ridurre la sua tassa sulle imposte estere, come risulta alla Camera di commercio olandese. Vodafone, la prima grande multinazionale a pubblicare volontariamente i dati, Paese per Paese, dei suoi rendiconti finanziari per il 2016/2017, mostra che quasi il 40% dei suoi profitti sono assegnati a paradisi fiscali, con 1,4 miliardi di euro dichiarati in Lussemburgo, dove la società fornisce servizi e finanziamenti all’interno del gruppo ed è soggetta a un’aliquota fiscale pari allo 0,3%. Dal 2015, spiegano ancora all’Icrict, si è registrato un notevole aumento delle società che utilizzano l’Irlanda come una giurisdizione no-tax o a bassa tassazione per la proprietà intellettuale (IP) e il reddito derivante da essa, con un aumento quasi del 1000% tra il 2014 e il 2017.
Nel 2012 il G20 ha invitato l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) a riformare il sistema internazionale di tassazione delle società attraverso l’iniziativa Base Erosion and Profit Shifting (Beps). Un pacchetto di riforme è stato presentato nel 2015 ed è stato aperto solo in seguito ai paesi non appartenenti al G20, comprese le economie in via di sviluppo. Beps ha portato a soluzioni utili ma non è riuscito a risolvere il problema principale: le società hanno ancora il permesso di spostare i loro profitti ovunque vogliono. Per esempio, secondo l’attuale normativa italiana, i componenti del reddito dalle transazioni infragruppo sono valutati in base al valore normale di mercato dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti. Tra tre giorni, il 23 gennaio a Parigi, l’Ocse presenterà ai Paesi in via di sviluppo i preamboli di quello che sarà il piano “Beps 2.0”, guardando alle sfide poste dalla digitalizzazione dell’economia. Secondo una ricerca pubblicata nel 2018 da Oxfam, quattro società farmaceutiche – Abbott, Johnson & Johnson, Merck & Co e Pfizer – priverebbero i Paesi in via di sviluppo di oltre 100 milioni di dollari ogni anno attraverso tecniche di elusione fiscale. L’appuntamento di Parigi sarà un’opportunità per chiedere all’Ocse di allontanarsi dal sistema dei prezzi di trasferimento. La mancanza di consenso finora su come tassare le multinazionali digitali ha portato numerosi paesi ad attuare (India, Italia, Spagna e Francia) o promettere di attuare (Regno Unito) sistemi impositivi su base unilaterale.
Gli economisti della Commissione proporranno ai governi che le multinazionali siano tassate come imprese singole che operano attraverso i confini internazionali, in base a fattori oggettivi quali vendite, occupazione, risorse (e anche numero di utenti digitali) dell’azienda in ciascun paese, piuttosto che dove colloca le sue diverse funzioni. “La lotta all’evasione e l’elusione fiscale sono particolarmente importanti per i Paesi in via di sviluppo – ci dice il Nobel Joseph Stiglitz, professore alla Columbia University e commissario Icrict – ma il grande problema è: chi è responsabile del processo di ripensamento della struttura fiscale globale? Ci sono stati vari tentativi di dire che dovrebbero essere le Nazioni Unite piuttosto che l’Ocse, purtroppo hanno messo la volpe a capo del pollaio”.
“Case a 1 euro”: dopo il servizio della Cnn i telefoni del Comune in tilt
Oltre 40 mila email con richieste di informazioni in poche ore; il centralino del Comune intasato dalle telefonate da tutto il mondo, in particolare dagli Usa; un gruppo di arabi pronti ad acquistare in blocco tutte le case. È bastato un servizio della Cnn su Sambuca di Sicilia, il paese della Valle del Belice Borgo più bello d’Italia nel 2016, per fare scoppiare la “febbre” delle case in vendita a 1 euro. Iniziativa lanciata dal Comune per impedire lo spopolamento. Il servizio di Cnn Travel dal titolo Italian town of Sambuca in Sicily sells homes for a dollar, ha scatenato una caccia all’acquisto di case, tanto che il sindaco ha dovuto creare una task force.
Vittime Georgofili a Salvini: “Dimentichi Messina Denaro”
L’Associazione Tra I Familiari delle Vittime di Via dei Georgofili, dopo l’annuncio della “caccia al latitante” del governo, ha scritto a Matteo Salvini. Ecco il testo della lettera aperta: “Illustrissimo Signor Ministro dell’Interno, le agenzie scrivono che sul Suo tavolo c’è un elenco di 30 terroristi eversivi da arrestare e che questo Governo lo farà. Sarebbero 27 terroristi “rossi” e 3 terroristi “neri”. Sono 31 Signor Ministro i latitanti terroristi eversivi da arrestare. Matteo Messina Denaro è un terrorista eversivo rosso/nero ed è latitante da 25 anni. Se il Suo è il Ministero del cambiamento che tutti aspettiamo da quella tragica notte del 27 Maggio 1993, dobbiamo capirlo con un messaggio forte e chiaro. Non serve che Lei indossi alcuna divisa, la divisa per tentare di arrestare Matteo Messina Denaro la indossano tutte le forze dell’ordine, che ogni giorno lavorano per dare giustizia a chi ha patito torti inauditi in questo Paese, basta un abito classico. Basta un Ministro dell’Interno che voglia la mafia sconfitta e aggiunga un nome all’elenco dei terroristi eversivi da catturare giusto quello di: Matteo Messina Denaro”.
Il Sisde, Casimirri e il quarto uomo del covo Br
Pubblichiamo un estratto del libro di Sergio Flamigni, “Il quarto uomo del delitto Moro”, Kaos edizioni, del novembre scorso.
Pochi giorni dopo la delazione di Moretti, e mentre la Digos sta arrivando a individuare Germano Maccari, il Sisde all’improvviso manda in Nicaragua due funzionari, Carlo Parolisi e Mario Fabbri, per incontrare a Managua l’ex terrorista Alessio Casimirri, condannato a vari ergastoli per la strage di via Fani e per altri delitti brigatisti ma da sempre latitante. Figlio di una cittadina vaticana e del funzionario della Santa sede Luciano Casimirri (dirigente della Sala stampa vaticana durante i tre papati di Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI), ex militante di Potere operaio, nelle Br dal 1976-77 fino al 1980, Alessio Casimirri è stato uno dei killer della strage di via Fani, ma non ha mai scontato un solo giorno di carcere grazie a un espatrio agevolato e a una perenne latitanza protetti da varie intelligence. (…) Lo scopo ufficiale della missione del Sisde è di “tentare di ottenere [da Casimirri] informazioni sia con riferimento alla vicenda Moro che con riferimento alla situazione attuale dell’area eversiva [sic! nda]”. Ma forte è il sospetto che Casimirri sia da sempre un informatore degli apparati, e che in realtà il vero scopo della missione del Servizio civile a Managua riguardi l’identità del “quarto uomo”. Il successivo 8 settembre la Questura trasmette alla magistratura la nota che il Sisde “ha qui fatto pervenire” (…). La nota del Servizio del Viminale contiene il sunto dei colloqui a Managua con Casimirri (senza però menzionare il terrorista latitante), e il testo conferma la versione dei fatti morucciana (…)
Al punto 4, la nota del Sisde si occupa del “quarto uomo”, della vera identità dell’enigmatico “Altobelli”, per sostenere che si tratterebbe di Giovanni Morbioli (ex militante di Potere operaio). (…) Dunque (…) il Sisde, previo incontro riservato con il superlatitante Casimirri, conferma la prigionia di Moro sempre e solo in via Montalcini, conferma l’avvenuta distruzione delle registrazioni degli “interrogatori”; conferma la presenza in via Fani della Algranati, fa il nome inedito di Etro come complice logistico nella preparazione del sequestro, e indica il “quarto uomo” in Morbioli. Lo studioso dei servizi segreti Giuseppe De Lutiis (…) ipotizzerà che il viaggio del Sisde in Nicaragua dell’agosto 1993 “non fosse visto a più alto livello come realmente inteso a ottenere la espulsione di Casimirri e il suo rientro in Italia, ma solo ad acquisire qualche informazione e forse a tranquillizzare il terrorista, se non a depistare la magistratura romana sull’identità del quarto uomo di via Montalcini (…). Nel marzo del- l’anno dopo, sentiti dall’Autorità giudiziaria, i due funzionari del Sisde attribuiranno a se stessi la responsabilità dell’erronea indicazione.
Caccia (a ostacoli) ai 14 latitanti fuggiti in Francia
Dopo la cattura di Battisti, ora si punta tutto sulla Francia e sui 14 ex terroristi che lì hanno trovato riparo da anni ormai. L’obiettivo del governo è dichiarato. Per questo il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha annunciato di voler incontrare a breve il presidente francese Emmanuel Macron. L’ordine del Viminale è accelerare su altre posizioni ritenute perseguibili. Salvini ha fatto sapere ieri che “sul suo tavolo” c’è una lista di 30 ex terroristi sparsi in tutto il mondo e già condannati in Italia per fatti legati agli anni della lotta armata nel nostro Paese. Primi della lista dunque i 14 presenti sul suolo transalpino, dove grazie alla cosiddetta “dottrina Mitterrand” ma anche alla rifiuto dei giudici francesi di riconoscere le condanne pronunciate in contumacia in Italia, hanno trovato un ventennale rifugio. L’arresto di Battisti ha dato fuoco alle polveri. La conferma arriva anche da fonti dell’intelligence che in questo momento si concentra su posizioni meno note dal punto di vista mediatico. Sono al lavoro anche i tecnici del ministero della Giustizia.
Certo, la questione non è così semplice. Sui 14 italiani in Francia molte sono le differenze dal punto di vista della posizione giudiziaria. Su tutti, allo stato, pende una richiesta di estradizione da parte del nostro governo. Richiesta che pur respinta negli anni è stata poi reiterata sulla base di nuove note informative.
Della lista fa parte certamente Narciso Manenti, ex membro di Guerriglia proletaria, che nel 1979 a Bergamo uccise il carabiniere Giuseppe Gurrieri. Pochi giorni fa, dopo l’arresto di Battisti, si è saputo che la Procura di Bergamo il 17 maggio 2017 ha firmato una nuova richiesta di cattura. Allo stato la Francia non ha risposto. Sul caso è tornata a lavorare l’Interpol che ha chiesto i nuovi atti depositati. Manenti oggi fa l’elettricista a domicilio è vive a Châlette-sur-Loing nella valle della Loira. Un segnale chiaro quello del governo italiano, ma non di facile attuazione. Il mandato di cattura europeo è sì oggi uno strumento di grande efficacia nell’area Schengen ma in Francia, come anche in Italia, non è applicabile per fatti precedenti al 2004. Un ostacolo non di poco conto visto che stiamo parlando di casi tutti molto datati. Vi sono poi posizioni che risultano già prescritte. E sono, ad esempio, quelle di Simonetta Giorgieri, già condannata per il sequestro Moro e latitante in Francia dal 1980, poi associata alle recenti indagini delle nuove Br-Pcc. E anche quella di Carla Vendetti.
Diversa la questione per Marina Petrella, brigatista coinvolta nel sequestro Moro. La sua estradizione fu bloccata dall’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, per motivi di salute. Se questi motivi dovessero venir meno, ma sarà difficile, potrebbe essere estradata. Della prescrizione a breve beneficerà anche Giorgio Pietrostefani, tra i fondatori di Lotta continua e condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario dell’ufficio politico della QQuestura milanese, Luigi Calabresi (17 maggio 1972). Posizione pressoché simile per l’ex Br Enzo Calvitti, condannato per il tentato omicidio di un funzionario di polizia e per Maurizio Di Marzio, anche lui ex Br, condannato a 15 anni per una serie di attentati.
Partita differente quella che riguarda Alvaro Lojacono, 63 anni, killer delle Br, condannato all’ergastolo per la strage di via Fani ma anche a 16 anni per l’omicidio dell’estremista di destra Mikis Mantakas nel 1975 a Roma. Oggi Lojacono è cittadino svizzero e ha preso il cognome della madre, Baragiola. La Svizzera non estrada i suoi cittadini e nemmeno i residenti permanenti. Nei giorni scorsi, intervistato da un quotidiano elvetico, si è detto pronto a scontare l’ergastolo in Svizzera. L’Italia così potrebbe chiedere già la prossima settimana di processarlo. C’è però un problema: Lojacono ha già scontato 17 anni. Se condannato dovrebbe scontare appena 3 anni, visto che in Svizzera non è prevista una detenzione superiore ai 20 anni.
Ci sono poi i latitanti in stile Battisti, quelli cioè che hanno scelto il Sudamerica. Alessio Casimirri, ergastolo per il sequestro Moro, non è estradabile essendo a tutti gli effetti cittadino nicaraguense. Qui si è sposato e oggi gestisce due ristoranti a Managua. Poi ci sono le posizioni che la nostra polizia tratta come veri latitanti. Ovvero, si sa il nome ma non la localizzazione. È il caso di Oscar Tagliaferri, ex Prima linea, condannato per omicidio e associazione sovversiva fuggito in Perù e del quale si sono perse le tracce. C’è, infine, l’altra metà della luna, ovvero i terroristi di destra, come l’ex Nar Vittorio Spadavecchia, condannato per banda armata e rifugiato a Londra. Nessun omicidio contestato e anche per questo il governo italiano non ha reiterato la richiesta di estradizione (già negata due anni fa), visto che il reato è ormai sulla strada della prescrizione. Insomma, se la battaglia su Battisti è stata un successo, proseguire la guerra non è facile.
Sea Watch, Salvini fa pace con Baglioni: “Ci siamo sentiti”
Pace fatta tra il ministro dell’Interno Matteo Salvini e Claudio Baglioni, presentatore del Festival di Sanremo che nei giorni scorsi si era schierato pubblicamente contro le politiche del Capitano. Nelle scorse ore i due, stando al racconto in diretta Facebook di Salvini postato ieri, si sono chiariti via telefono: “Ci siamo sentiti al telefono, ho tanto tempo da impegnare per il lavoro che non posso perderlo facendo polemica con Tizio e con Caio. Spero che il Festival di Sanremo sia un bel festival della musica, della canzone, della cultura, dell’arte italiana”. Nessun ulteriore strascico dunque. Baglioni, a inizio settimana, aveva commentato il caso della Sea Watch criticando in maniera dura il ministro: “Se non fosse una situazione drammatica ci sarebbe da ridere, non si può pensare di risolvere la situazione di milioni di persone in movimento e in situazioni di disagio evitando lo sbarco di 40 persone”. Da li la risposta ironica di Salvini, che su Twitter aveva replicato: “Canta che ti passa, lascia che di sicurezza, immigrazione e terrorismo si occupi chi ha il diritto e il dovere di farlo”.
Don Luigi Ciotti: “I morti pesino sulla coscienza di tutti”
Nessuno si senta assolto: “Proviamo un immenso dolore per queste morti innocenti. Sono morti che devono pesare sulle coscienze di tutti”. Così, don Luigi Ciotti, presidente di Libera e Gruppo Abele, prova a scuotere l’opinione pubblica dopo i due naufragi che hanno provocato la morte di 170 migranti. “Basta ai venditori di illusioni – ha aggiunto Ciotti -, basta a chi fa propaganda su queste tragedie, basta a chi cerca scorciatoie con leggi che negano i diritti, alimentano illegalità e disperazione”, insiste, con un evidente riferimento al decreto Sicurezza voluto da Matteo Salvini. “Le migrazioni non vanno sottovalutate ma governate in modo intelligente. Ma se non si arresta il modo di pensare oggi prevalente gli effetti saranno devastanti. Ancora più devastanti di quelli che già vediamo intorno a noi. Non ci sentiamo comodamente dalla parte giusta – conclude il sacerdote- La parte giusta non è un luogo dove stare ma piuttosto un orizzonte da raggiungere insieme. Nella chiarezza e nel rispetto delle persone. Non mostrando i muscoli e accanendosi contro le fragilità e la disperazione delle persone”.
Meno sbarchi ma più vittime in percentuale
“Meno partenze, meno vittime in mare”. È questo l’assunto imperante quando si parla di immigrazione irregolare dalle coste nordafricane. Ed è sempre triste ragionare di morti solo sulla base di cifre. Nei primi 20 giorni dell’anno – dati Oim e Unhcr aggiornati con le cifre delle ultime ore – abbiamo avuto 2706 sbarchi e 184 vittime: il 6,7 per cento dei migranti in viaggio è annegato. E allora: è vero o falso che a un minor numero di partenze corrisponde un minor numero di vittime? È necessario fare una premessa. È quasi impossibile spiegare un fenomeno complesso come l’immigrazione irregolare utilizzando soltanto le cifre. Il numero dei morti in mare è soltanto un indice del fenomeno. Andrebbero calcolate anche le vittime del passaggio fino alla costa libica. Cifre impossibili da ottenere. Si può partire dai dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) degli sbarchi sulle coste europee e dei morti durante la traversata. Tenendo presente però che anche questo elemento – poiché non conosciamo il numero esatto di quanti s’imbarcano – è parziale e approssimativo.
Nel 2016, quando non esisteva il codice di condotta per le Ong e le loro imbarcazioni ancora sorvegliavano il Mediterraneo e la Libia non era autorizzata a coordinare i soccorsi, si contavano 362.753 sbarchi sulle coste europee. Il numero dei morti in mare era di 5.096 persone. Nel 2017 – ad agosto parte l’operazione Minniti – il bilancio è di 3.139 vittime su 172.301 persone sbarcate. I morti in mare sono quindi 1.957 in meno. Lo scorso anno i migranti sbarcati scendono ulteriormente – sono 138.882 – e cala ulteriormente il numero delle vittime: 2.275. Meno della metà rispetto al 2016. Se guardiamo il fenomeno in termini percentuali, però, la probabilità di morire in mare è invece aumentata. Nel 2016 è dell’1,4 per cento, nel 2016 del 1,8, nel 2018 dell’1,6. In altre parole diminuiscono i morti ma cresce la possibilità di morire. Nei primi 20 giorni del 2019 la media è schizzata dall’1,6 al 6,7 per cento.
“Li hanno lasciati morire. Noi ci abbiamo messo 7 ore e domani ci attende un D-day”
Mi sono imbarcato sulla SeaWatch3 il 3 gennaio scorso, nel bel mezzo di un braccio di ferro tra le diplomazie europee per l’accoglienza dei 32 migranti allora a bordo. “Non siamo dei pesci, perché ci lasciano in mare?”, chiedevano. Anche se sono un giornalista che è qui per documentare, a bordo siamo pochi e tutti devono fare tutto, così mi sono ritrovato nella squadra dei salvataggi.
Ero sul primo gommone veloce della Sea Watch che ieri ha soccorso i migranti in mezzo al mare. Erano alla deriva, su un gommone col motore che non andava più: la punta dell’imbarcazione era inclinata. Era evidente che nel giro di poche ore si sarebbe sgonfiata. La barca era stracolma. Quando ci siamo avvicinati gli abbiamo gridato “Siamo europei!”. Era per fargli capire che non eravamo libici. Loro non vogliono essere salvati dai libici. Piuttosto si lanciano in mare rischiando di annegare. Poi è cominciato il salvataggio: 47 persone per lo più dal Sudan, Guinea, Senegal, Gambia Nigeria. Tanti minori.
Tutta un’altra scena rispetto alla notte prima, quando siamo arrivati sul luogo del naufragio in cui hanno perso la vita in 117. Avevamo ricevuto una comunicazione che ci segnalava un avvistamento aereo della nostra Marina di gommoni semiaffondati con persone in mare: erano state lanciate zattere di primo soccorso, invitando ad accorrere le navi in zona. Abbiamo cercato di capire chi li soccorresse. Ma né da Roma né dalla Libia c’era risposta. Dopo 7-8 ore di navigazione con la SeaWatch3 in piena notte abbiamo cercato disperatamente persone da salvare. Ma non restava che un cimitero.
Ho parlato con dei ragazzi senegalesi, soprattutto. La prima cosa che ti dicono è grazie per averci salvato. Sono partiti da Zuwara tra le 3 e le 4 di mattina, per non essere intercettati hanno navigato finché il motore gli ha retto. Raccontano che i libici gli dicevano di stare tranquilli perché il Mediterraneo si può attraversare in tre ore, perché è un mare piccolissimo: gli dicono che i gommoni sono sicurissimi. Costo del viaggio: fino a 5.000 dinari, mille euro circa. In Libia, a Sabrah, molti di loro sono stati rapiti, costretti a chiedere soldi alle famiglie. Li facevano inginocchiare e telefonare a casa, tutto col viva voce così che le famiglie potessero sentire i colpi di kalashnikov che sparavano. Nei campi libici sono stati in media sei mesi. Raccontano che i trafficanti sono pronti per lanciare altri gommoni: i migranti che ho intervistato dicono che è pieno di persone che aspettano il mare calmo per poter intraprendere il viaggio. E sulla Sea Watch siamo in allerta. Viste le condizioni meteo, si prevede un “D-Day”, uno sbarco con mezzi di fortuna tra domani e dopodomani.
Quando partivano dalla costa libica, si vedevano in lontananza delle luci. Erano quelle di una piattaforma petroliferi, ma i trafficanti si prendevano gioco di loro dicendo: “Quella è l’Europa”.
* inviato di “Carta Bianca”