Finito il cordoglio, ricomincia l’odissea per i 47 da “spartire”

Tra il “profondo dolore” del presidente Sergio Mattarella e i “porti chiusi” del ministro Matteo Salvini, c’è il futuro del premier Giuseppe Conte: “Sono crimini contro l’umanità: quando avrò smesso questo mio mandato, mi dedicherò da avvocato a perseguire e assicurare alla Corte internazionale i trafficanti di uomini”. Nel frattempo bisognerà assicurare un porto sicuro ai 47 migranti salvati dalla nave della Ong Sea Watch.

Il 19 gennaio è il giorno in cui il Mediterraneo rivela il suo ennesimo crudele bilancio: 170 vittime in poche ore. Ma è anche il giorno in cui 47 persone possono gioire per essere scampate a un naufragio grazie all’intervento della Sea Watch. Una realtà che si ribalta nelle parole che il ministro Salvini immediatamente pronuncia su Facebook: “Una riflessione”, esordisce, “tornano in mare davanti alla Libia le navi delle Ong, gli scafisti ricominciano i loro sporchi traffici, le persone tornano a morire. Ma il ‘cattivo’ sono io. Mah…”. Se i 47 sopravvissuti alle onde devono ringraziare la cattiveria della Ong, che s’è precipitata a salvarli, il “buon” Salvini ribadisce il suo pensiero: “Sarà un caso che da tre giorni la nave di una ong olandese, con equipaggio tedesco, gira davanti alla costa libica e gli scafisti tornano a far partire barconi sgonfi che poi affondano, e si contano i morti?”. Come dire: è colpa della Ong se 170 persone sono morte annegate, perché se la Sea Watch non fosse stata lì, non sarebbero neanche partite. Di certo, anche con la più fervida fantasia, è difficile immaginare che sarebbero rimaste nei lager libici a sopportare le violenze documentate dall’Onu nei suoi rapporti.

Il dato certo, però, è che Salvini rimarca la sua linea politica: “Una nave della ong ha salvato altri migranti? Vada a Berlino e faccia il giro lungo passando da Rotterdam, facendoli scendere ad Amburgo. O se olandese vada a Rotterdam, se francese a Marsiglia. Questo è rispetto delle regole”. È l’antipasto dello scenario che si affaccia nelle prossime ore: quale Stato autorizzerà lo sbarco di queste 47 persone?

Il 9 gennaio scorso, 49 migranti soccorsi sempre dalla Sea Watch, sono sbarcati a Malta dopo ben 19 giorni di calvario. Quanti ne saranno necessari questa volta? Impossibile dirlo.

“Oggi – fa sapere la Ong – abbiamo a bordo 47 persone, che avrebbero potuto essere vittime di un naufragio, se non fossimo intervenuti in tempo”, Lo stallo è già iniziato nella prima fase dei soccorsi: “Nonostante Sea-Watch sia in contatto con le autorità, non abbiamo ancora ricevuto istruzioni di alcun tipo, né vi è stata l’assunzione di responsabilità sul caso da parte di alcun centro di coordinamento. Abbiamo contattato Libia, Italia, Malta, Olanda (Stato di bandiera della Sea-Watch3). Per ora la sola risposta arriva da Roma, con riferimento a una competenza delle autorità libiche, con le quali, nonostante i tentativi anche telefonici, non é stato possibile coordinarsi”.

E quest’ultima frase è la chiave del prossimo empasse. Il secondo in meno di un mese. Il soccorso è avvenuto in acque libiche e senza alcun coordinamento con la guardia costiera nordafricana. Il che significa: nessuno Stato è obbligato a fornire un porto sicuro. Spettava – in base alle norme – alla Libia. Ora si dovrà agire non sulla base delle leggi del mare, ma su quella della politica, e ogni Stato prenderà le sue decisioni.

“Meglio morti che in Libia”. La strage continua in mare

I sommersi e i salvati. Le onde calme sono un cimitero buio. A fare da lapide due piccole zattere gialle, deserte, mentre un gelido silenzio ha già preso il posto delle urla di chi – ben 117 persone – è morto annegato. “C’è qualcuno?” domanda Giuseppe Borello, inviato di Carta Bianca, mentre con i volontari della Sea Watch 3 si avvicina alle zattere. Non gli risponde nessuno. Poche ore prima è stato un elicottero della Marina Militare a salvare il salvabile. L’immensa miseria di 3 vite su 120. Le due scialuppe di salvataggio vengono lanciate da un aereo della Marina Militare che operano per l’operazione Mare Sicuro”.

Il velivolo nota il gommone. Lancia in mare le Coastal e allerta la base. Un elicottero giunge sul posto il prima possibile. Ma comunque troppo tardi. Non sono riuscite ad afferrarle nove donne. Una era incinta. Non hanno accolto un neonato di appena due mesi. E con loro tutti gli altri migranti. Si salvano solo in tre. Il gommone ha iniziato a imbarcare acqua dopo dieci ore dalla partenza. I tre superstiti – un ventiduenne del Gambia e due ragazzi del Sudan – hanno raccontato l’inferno: compagni di viaggio che si gettavano in mare, che non riuscivano a tenersi all’imbarcazione, annegavano tra le onde. “Hanno raccontato le sevizie e gli abusi subìti e hanno detto: “Meglio morti che in Libia”, spiega Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale dei migranti. “Venivano da Nigeria, Gambia, Costa D’Avorio – continua – c’erano anche una quarantina di sudanesi”. Scappavano dalle sevizie libiche e dai loro paesi di origine. Il sogno di un futuro migliore è naufragato tra le acque internazionali, in quella che dovrebbe essere la Sar libica, dove, quando i soccorsi funzionano, i migranti perferiscono lanciarsi tra le onde, pur di non tornare nei lager nordafricani. È lì che fino a qualche tempo fa navigavano le navi della Ong. “C’è nessuno?”, chiede più volte, Borrelli, prima di arrendersi al silenzio e rimettersi in viaggio con i volontari della Sea Watch. Dai sommersi ai salvati, in questo Mediterraneo improvvisamente tornato a un traffico intenso, il passo è breve. La Sea Watch incrocia un’imbarcazione alla deriva e soccorre 47 persone. Ed è un sollievo sentire le loro voci piene di gioia per la salvezza ottenuta: è gente partita alle 3 della notte da Zuhara, al buio, per sfuggire alla guardia costiera libica. Ha navigato finché ha potuto, finché il motore ha retto e qualcuno non li ha soccorsi. Se non ci fosse stata la Sea Watch conteremmo altri 47 morti. Le loro storie sono quelle di sempre.

Le stesse tragedie di ogni migrante che transita in Libia: violenze, estorsioni, ricatti ai familiari. Prigionie che variano tra i 6 e i 9 mesi. Così si passa dalla morte alla vita e dalla vita alla morte navigando nel Mediterraneo.

I volontari della Sea Watch ci avevano provato, a salvare i 117 sommersi, di poche ore prima. “Oggi, Moonbird ha sentito la comunicazione di un caso di pericolo (…) Una nave mercantile è vicina ma non aiuta”, recita un tweet di venerdì scorso della Ong che accusa: “Si sono rifiutati di fornirci informazioni sul caso, informandoci solo che MRCC Tripoli sarebbe stata responsabile. Abbiamo chiamato anche lì – nessuno parlava EN / FR / IT, nemmeno l’arabo”. Immediata la risposta della Guardia Costiera, che spiega di aver comunicato alla Ong “che la loro disponibilità sarebbe stata offerta alla Guardia Costiera libica, quale Autorità coordinatrice dell’evento”. “Se non avessimo ascoltato questo messaggio via radio, probabilmente non avremmo sentito parlare di questa strage”, aggiunge Kim Heaton-Heather, capo Missione di Sea-Watch. 117 sommersi e 43 salvati. E un altro fatto certo: “Abbiamo avuto 68 soccorsi due giorni fa, poi questo naufragio con 120 partiti giovedì sera, poi 47 soccorsi da Sea Watch – continua Flavio Di Giacomo dell’Oim – O è più facile partire dalla Libi,a per qualche motivo, o la guardia costiera libica è completamente assente. È evidente che in questo momento in Libia ci sono problemi. Un numero così alto di sbarchi, i coso poco tempo, non li vedevamo da tanto”. Inoltre, secondo l’Unhcr, che cita notizie diffuse da Ong, ci sarebbe stata un’altra tragedia di migranti, nel Mare di Alboràn. I morti, in questo caso, sarebbero 53. Solo un uomo si è salvato, dopo aver trascorso un giorno intero in balia delle onde.

I “diavoli” pedofili erano finti, le tragedie sono vere

“Poi c’era il prete… nel senso di dire che lui faceva la messa, però dedicata al diavolo… allora è andato a prendere l’ostia, è venuto lì al cimitero e ci ha detto ‘Gesù non esiste’… Poi ci ha parlato del diavolo, che la notte ti viene a prendere… Lui ci metteva sulla tomba e ci faceva fare delle cose come ballare, fare dei gesti… Noi avevamo anche dei gatti e noi li uccidevamo. Mio padre il sangue dei gatti ce lo faceva bere a noi. Poi a certi bambini gli aprivano qua e veniva fuori tutto il sangue, si vedevano delle sacche. Dopo ce li facevano uccidere. Io ne ho dovuti uccidere cinque…”.

Il racconto è quello di un bambino. Un bambino vero, che è sottoposto a un vero interrogatorio. Sono veri gli assistenti sociali e i pm che l’hanno ascoltato tante volte. È vero che la sua atroce testimonianza, come quella di tanti altri bambini, ha portato in galera molte persone. Genitori, preti, amici, nonni. Che 16 bambini sono stati allontanati per sempre dalle loro famiglie. Che qualcuno, in questa storia, è morto suicida, che qualcuno è morto di dolore. Quello che non è vero è ciò che il bambino racconta. Non ci sono mai stati calici da cui bere sangue di gatto, bambini giustiziati, preti satanisti, padri pedofili.

Quello che è vero è che queste testimonianze, tra il 1997 e il 1998, hanno dato vita a uno dei fatti di cronaca e a una serie di errori giudiziari tra i più osceni e incredibili della storia di questo Paese: la vicenda dei diavoli della Bassa Modenese. Una vicenda torbida di cui si sapeva poco e si ricordava poco, finché la tigna investigativa dei giornalisti Pablo Trincia e Alessia Rafanelli non ha riaperto il caso stravolgendo convinzioni impolverate, cercando i protagonisti, sbobinando 80 ore di interrogatori, leggendo carte processuali, calpestando campi e cimiteri della Bassa. Il tutto è finito nel podcast Veleno di Repubblica scaricato da centinaia di migliaia di persone che ha dato voce e coraggio ai protagonisti di una storia ingiusta, una storia che ora – dopo 20 anni – pretende giustizia.

I fatti. Nel 1997, in un paesino di poche migliaia di abitanti, Massa Finalese, un bambino di tre anni viene allontanato dalla sua famiglia naturale, i Galliera. Gli assistenti sociali lo affidano prima a un istituto e poi a un’altra famiglia, anche se il bambino, ogni tanto, trascorre dei fine settimana con i veri genitori, suo fratello Igor e la sorella Barbara. Questo fino al 23 febbraio 1997, l’ultimo giorno in cui il piccolo, che ormai ha sette anni, vedrà la sua famiglia naturale. Perché? Perché ha cominciato a raccontare prima alla maestra, poi agli assistenti sociali che suo padre, sua madre, suo fratello abusano di lui. I genitori vengono arrestati.

Il bambino racconta altre cose orribili. Dice che mamma e papà lo vendevano a un’amica, Rosa, che assieme a suo marito lo costringeva a picchiarla con un bastone e un attizzatoio, che poi scattavano delle polaroid. Arrestati anche loro. Ma è solo l’inizio. Il bimbo aggiunge che anche due sue amichette subiscono abusi con la complicità delle famiglie. Entrambe vengono visitate da una ginecologa della clinica Mangiagalli di Milano, Cristina Maggioni, che conferma i sospetti. Vengono allontanate dai genitori che finiscono prima in carcere e poi ai domiciliari. La mamma di una delle due, Francesca, non regge il trauma e si butta dal quinto piano dopo aver telefonato all’altra famiglia finita in carcere con lei per dire: “Vi ho voluto tanto bene, mi dispiace”. Il bambino coinvolge anche il prete, don Giorgio Govoni. Dice che lui fa le messe nere nei cimiteri. Che sfilano tutti insieme di notte – prete, genitori, bambini – per andare a invocare Satana. Il prete, uno buono, uno che aiutava i poveri, morirà di infarto nel maggio del 2000 nello studio del suo avvocato, dopo che il pm aveva chiesto una condanna di 14 anni.

Altri bambini faranno i nomi di amichetti, nonni, cugini, genitori. Venti persone finiranno in carcere, sedici bambini verranno allontanati dai genitori. Qualcuno morirà di infarto dopo la sentenza, qualcuno si ammalerà di tumore in galera. I racconti dei bimbi sono terrificanti: sangue di gatto dato da bere ai piccoli, neonati giustiziati da bambini nei cimiteri, stupri collettivi, i genitori travestiti chi da tigre, chi da pantera, chi da vampiro, bimbi rinchiusi nelle bare, costretti a picchiarsi tra di loro. Il peggiore film horror che possiate immaginare. Già, film. Perché nella realtà nessuno troverà mai il cadavere di neonato, nonostante sia stato perfino dragato un fiume. Nessun bambino andrà mai a scuola con un livido. Non troveranno mai tracce di messe sataniche, nessuna perquisizione a casa degli imputati restituirà anche una sola prova di filmati, violenze, foto, rituali. Per sfilare travestiti da tigri e vampiri, in un paese di 4.000 abitanti con gatti e neonati, senza essere mai stati notati da nessuno, non sarebbero bastate neppure le nebbie modenesi.

Ci vorranno 17 anni di processi per arrivare a molte assoluzioni. Alcuni invece sono stati condannati anche in cassazione, qualcuno nel frattempo è morto. C’è chi ai tempi è scappato in Francia per la paura che gli togliessero pure il figlio che stava per nascere. Tutti si sono sempre dichiarati innocenti. Nessuno ha mai più avuto indietro i propri figli.

Quello su cui si è sempre fondata l’accusa, oltre alle visite mediche, è la testimonianza dei bambini. Ed è su questo che il lavoro di Trincia e della Rafanelli si sofferma. Gli audio delle testimonianze dei bambini alla psicologa dei servizi sociali dell’epoca Valeria Donati sono sconcertanti. C’è il bambino che non ha voglia di confessare chissà quali atrocità e gli viene detto che se non parla “il mare si allontana”, ovvero andrà al mare a divertirsi chissà quando. Ci sono poi le testimonianze di alcuni di questi ragazzini, rintracciati dai giornalisti, che oggi sono adulti e che si dicono certi di essere stati indotti a inventarsi tutto. C’è la psicologa in questione, che viene contattata e non risponde alle domande, minacciando di denunciare i giornalisti per molestie. Sulla psicologa, ai tempi 29enne, si addensano i principali dubbi dell’inchiesta: all’epoca era responsabile del Centro aiuti per il bambino, giudicata inesperta da alcuni giudici e artefice di una suggestione collettiva, di una folle caccia alle streghe da alcuni dei genitori e figli coinvolti. Dubbi che durante i vari processi hanno riguardato pure l’operato della dottoressa Maggioni, colei che verificava gli abusi. Durante un dibattimento alcuni colleghi le fecero notare che in una delle foto da lei esibite per dimostrare la lacerazione dell’imene per via dello stupro di una delle vittime, l’imene era assolutamente visibile. La Maggioni replicò che l’imene può riformarsi con l’arrivo del mestruo.

Dopo la pubblicazione dell’inchiesta sono accadute molte cose. Le famiglie coinvolte chiedono la riapertura del processo e i giusti risarcimenti. Tanti genitori si sono ritrovati e abbracciati, un gruppo di sopravvissuti che è finito in un inferno, l’unico vero in tutta questa vicenda. C’è anche chi ha rivisto la figlia, dopo uno strappo lungo vent’anni, ma c’è chi i figli non li rivedrà mai più. Perché quei figli sono ormai lontani, perché hanno paura, perché vogliono dimenticare. Perché magari vorrebbero rivedere la mamma, ma la mamma è volata giù dal quinto piano per non dover sopravvivere all’orrore di una storia che deve ancora chiudersi.

Morì a 20 mesi il 23 dicembre, arrestati genitori rom

Hanno prima dichiarato che la loro figlioletta di appena 20 mesi era morta nell’incendio che aveva distrutto il loro furgone, poi hanno cambiato versione dicendo che qualcuno l’aveva rapita per chiedere loro un riscatto e aveva appiccato il rogo. Ma in realtà, almeno secondo la Polizia e la Dda di Cagliari, la piccola Esperanza Lara Seferovic, nata a Cagliari da genitori rom, sarebbe stata uccisa proprio dai genitori, Slavko Seferovic e la moglie Dragana Ahmetovic, entrambi di 28 anni, sono stati fermati per omicidio aggravato, occultamento di cadavere, simulazione di reato e incendio doloso. A inchiodarli ci sono le indagini condotte dalla Squadra Mobile di Cagliari, coordinata dal dirigente Marco Basile, che hanno ricostruito quanto accaduto la sera del 23 dicembre scorso al villaggio dei Pescatori, a Giorgino, periferia di Cagliari. Ma non solo. Ci sono anche le intercettazioni telefoniche e ambientali nelle quali i genitori vengono sentiti chiaramente parlare di delitto. “L’ho impiccata… così non piange e non fa (cioè così non soffre, ndr)”, dice Slavko alla moglie. Lo si legge nelle 68 pagine del fermo eseguito dagli uomini della sezione reati contro la persona della Mobile, diretta da Davide Carboni.

Sabato nero sotto il Duomo, corteo di Forza Nuova e marcia “anticomunista” di La Russa

Primai neofascisti di Forza Nuova, poi Fratelli d’Italia e i nostalgici del vecchio Movimento Sociale guidati dall’ex ministro Ignazio La Russa. Tutti in corteo ma in luoghi differenti. Da un parte quelli che “casa e lavoro prima agli italiani”. Dall’altra la “marcia anticomunista” in ricordo di Jan Palach, il giovane che si diede fuoco in piazza San Venceslao a Praga in segno di protesta contro l’invasione dei carri armati sovietici. Quello di ieri a Milano è stato un vero sabato nero. Senza contare l’antipasto di venerdì a Sesto San Giovanni con il convegno di Casa Pound, 500 militanti ospitati nelle sale dello Spazio Arte con il benestare del sindaco Roberto Di Stefano. Quasi un sacrilegio nella ex Stalingrado d’Italia. Si è parlato di Europa. Tra le righe: neofascismo militante. L’onda nera rimonta nella Milano di Matteo Salvini che a casa CasaPound strizza più che un occhio, indossando spesso giacchette con il marchio di un’azienda molto vicina al movimento di estrema destra. Tutto avviene sotto al Duomo dove a febbraio arriverà Marie Le Pen, anima del Fronte nazionale, per un convegno sovranista. E così, ieri, in duecento sono partiti da via Pagano e sono arrivati all’Arco della pace. In testa Roberto Fiore leader di Forza nuova. Corteo non autorizzato ma sbloccato dalla Questura in zona cesarini. Canti, fumogeni e l’ormai noto repertorio di frasi: “Forza Nuova, orgoglio nazionale”. E ancora: “Europa cristiana, mai musulmani”. Fino al culmine di Roberto Fiore: “Il populismo è servito a sollevare alcune questioni, ora si deve fare la rivoluzione: blocco dell’immigrazione, espulsioni di migliaia di immigrati illegali, eliminazione dalle scuole di politiche gender, progay e rimarcare il diritto alla vita sin dal concepimento”. In corso Vittorio Emanuele e in piazza San Babila alle parole di Fiore fanno eco quelle di La Russa: “A 50 anni di distanza dal sacrificio di Jan Palach il comunismo non c’è più mentre le nostre idee ci sono ancora”. Non manca l’assessore regionale alla Sicurezza Riccardo De Corato. Parole, le sue, contro i militanti del Pd “che hanno difeso i crimini del comunismo”. Bandiere e cori anche qua, per “la marcia anticomunista”. Sabato nero e brutti presagi a Milano.

Bort, addio a mezzo secolo di “Ultime Parole Famose” sulla “Settimana Enigmistica”

Per oltre 50 anni l’appuntamento con Mario Bortolato, in arte “Bort”, è stato sempre nello stesso posto: in basso a destra a pagina 41 de La settimana Enigmistica, dove compariva con “Le ultime parole famose;”. Il vignettista, che ha fatto sorridere generazioni di lettori è morto la notte scorsa ad Alessandria all’età di 92 anni. “Bort’” ha disegnato l’ultima vignetta della rubrica nel 2013, ma la redazione de La Settimana Enigmistica aveva un tale magazzino che la pubblicazione dei suoi disegni è continuata fino al 1° gennaio 2017. Oltre a quelle popolari vignette, “Bort” ha disegnato anche per Grazia, Gioia, Candido e Domenica del Corriere ed è stato autore televisivo per Drive In e L’altra domenica di Renzo Arbore. Ha creato il personaggio di Teo, un adolescente protagonista di strisce umoristiche pubblicate negli anni Settanta su Il Monello, che trattavano soprattutto di piccole storie di vita quotidiana e di dinamiche familiari. Attaccata la matita al chiodo nel 2013, “Bort” (nato nel 1926 in provincia di Verona) ha disegnato le ultime vignette per la sua città adottiva, Alessandria, nel 2017, partecipando alla mobilitazione artistica #saveBorsalino per salvare la storica fabbrica di cappelli.

Tunisino morto dopo il fermo, Salvini dalla parte della polizia: “Voleva cappuccino e brioche?”

Continuano le indagini della Procura di Firenze sulla morte di Arafet Araoui, il 31enne tunisino morto giovedì sera dopo un fermo della polizia a Empoli. Ieri la squadra mobile di Firenze e la pm titolare dell’inchiesta Christine von Borries, hanno proseguito nel sentire tutti coloro che sono intervenuti giovedì, quando il giovane ha dato in escandescenza dopo che il titolare di un money transfer gli aveva contestato una banconota falsa. In tutto tra venerdì e sabato sono stati sentite circa 15 persone, tra cui i quattro poliziotti di Empoli che lo hanno raggiunto nel bagno del locale, gli hanno messo le manette ai polsi prima di legargli i piedi per immobilizzarlo. È stato a quel punto che Araoi avrebbe avuto un arresto cardiocircolatorio fatale ma solo l’autopsia di lunedì potrà dare le prime risposte. Nel frattempo i quattro poliziotti che sono stati sentiti nell’ufficio del pm avrebbero dato tutti la stessa versione: l’uomo era stato bloccato solo per neutralizzarne i movimenti. Ieri, poi, sono state anche visionate le prime immagini delle telecamere di sicurezza del negozio e non sarebbero emerse condotte scorrette da parte degli uomini in divisa.

Nei prossimi giorni sarà un consulente della Procura a visionarle tutte. “Il ragazzo non aveva patologie e quindi sorgono dubbi sulle cause della sua morte” dice l’avvocato della famiglia Giovanni Conticelli. La morte di Araoui, che ricorda in parte quella di Riccardo Magherini a Firenze nel 2014, ha provocato lo scontro tra le “vittime dello Stato”, il capo della Polizia Gabrielli e il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Ieri mattina il legale della famiglia Cucchi Fabio Anselmo ha detto che “per lo Stato i morti sono danni collaterali tollerabili”, Gabrielli gli ha risposto parlando di “farneticazioni inutili” del “tribuno di turno”. Sulla vicenda, ancora una volta, è intervenuto anche Salvini: “Se i poliziotti non possono usare le manette per fermare un violento, ditemi cosa dovrebbero fare, rispondere con cappuccio e brioche?” ha detto ieri indossando una felpa della Polizia.

Concorsi truccati all’Università: Medicina nella bufera

Quattordici indagati e altrettante richieste di interdizione per aver alterato i concorsi universitari. Una nuova inchiesta della Procura di Firenze fa tremare due istituzioni cittadine: la facoltà di Medicina dell’Università e l’ospedale di Careggi. Dopo l’inchiesta che nel settembre 2017 aveva spazzato via una parte del dipartimento di Diritto tributario dell’ateneo fiorentino, ancora una volta sotto i riflettori della Procura di Firenze sono finiti i concorsi universitari per professori e ricercatori.

Finora le indagini coordinate dal pm Tommaso Coletta hanno portato alla richiesta di interdizione per 14 persone che sono anche indagate a vario titolo per abuso d’ufficio e turbata libertà del procedimento di scelta. Tra gli indagati ci sono professori che operano al Policlinico di Careggi e membri esterni delle commissioni che avrebbero fatto vincere o perdere i candidati alle cattedre di Medicina.

L’inchiesta è durata un anno ed è partita da un esposto presentato in Procura dal professore associato di Otorinolaringoiatria Oreste Gallo. Come nel 2017 era stato il ricercatore di Diritto tributario Philip Laroma a denunciare del mondo dei concorsi universitari fiorentini, così ora Gallo ha fatto saltare il “sistema” del suo settore scientifico, prima presentando un ricorso al Tar, per chiedere l’annullamento di un concorso e poi, dopo aver denunciato con più lettere le presunte illegittimità al rettore Luigi Dei – che non risulta indagato – depositando tutto il materiale in Procura. La vicenda inizia due anni fa quando l’Università di Firenze inserisce nel documento di programmazione 2016/2018 l’impegno di indire un bando di concorso a professore ordinario nel settore della Otorinolaringoiatria, dove opera Gallo che, nel frattempo è diventato direttore anche della seconda relativa Struttura Operativa Dipartimentale (Sod) di Careggi. Dopo un anno, però, questa organizzazione viene superata con la nascita del reparto di Audiologia che da semplice Sod diventa complessa, con annesso bando di concorso per dirigente medico quinquennale. È questo documento, l’atto in grado di depotenziare la struttura di cui Gallo è dirigente: il nuovo reparto, infatti, è a guida aziendale e quindi è impossibile affidarlo a un docente universitario.

Nel frattempo, il concorso con cui l’Università di Firenze dovrebbe “chiamare” un nuovo docente ordinario per Otorinolaringoiatria rimane lettera morta. È a quel punto che Gallo fa ricorso al Tar per fermare il nuovo concorso: “il settore risultava privo di professori ordinari dal 2009 – si legge nel documento – erano in forza unicamente 2 professori associati e 2 ricercatori, con conseguente assenza di piramidalità”. Nell’atto firmato dai legali Giovanni Gallo e Luigi Vuolo, viene contestata la programmazione aziendale che a loro dire sarebbe “illegittima”. Su questi documenti si sono concentrati in questi mesi i magistrati fiorentini e gli uomini della Guardia di Finanza che hanno utilizzato le intercettazioni per captare il metodo di selezione dei docenti. Gli indagati saranno sentiti dal gip di Firenze entro la prima settimana di febbraio.

Commissariato anche il coro della Cappella Sistina

Papa Francesco ha commissariato il Coro della Cappella Sistina. Il pontefice con il Motu Proprio sulla Cappella Musicale Pontificia ha deciso di dare un nuovo assetto alla struttura, al di là delle contingenze. Ma nella decisione del Papa, che affida la responsabilità del Coro al Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, mons. Guido Marini, e l’amministrazione economica della stessa Cappella, a mons. Guido Pozzo, non si può non leggere anche una decisione di cambio di passo rispetto all’attuale gestione.

Lo stesso Bergoglio alcuni mesi fa aveva infatti autorizzato un’indagine sugli aspetti economico-amministrativi dello storico Coro che accompagna le celebrazioni liturgiche del Papa. In quell’occasione si era anche parlato di una possibile indagine della magistratura nei confronti del direttore amministrativo Michelangelo Nardella e del direttore del Coro, monsignor Massimo Palombella, per una vicenda legata a questioni finanziarie. Indagine sulla quale però non ci sono più stati aggiornamenti da parte del Vaticano.

“Le dimissioni forzate non sarebbero valide”

Quando parla di complotto contro Papa Francesco, cardinale Walter Kasper, a cosa si riferisce di preciso?

Devo rivedere la traduzione del mio testo in tedesco, non posso dire se la traduzione sia completamente corretta. Comunque, parlo di gruppi che pubblicamente sono critici verso Papa Francesco.

Chi vuole oggi la fine di questo pontificato e perché?

La risposta si trova in Internet, sui siti cattolici in italiano, tedesco, inglese…

Cosa accade in Curia in momenti di così alta tensione: circolano dossier?

Sono un cardinale emerito, non ho accesso a questi dossier. Sono ritornato a fare teologia.

Sostiene che il tema degli abusi sessuali sia diventato un modo per screditare Francesco e non per risolvere l’annosa e gravissima piaga.

Non dico che lo scandalo degli abusi sessuali sia solo uno strumento contro Papa Francesco. Anzi, essi sono per me veramente uno scandalo e un crimine e si deve fare tutto il possibile per sradicarli e per fare chiarezza. Dico solo che alcuni sfruttano questo scandalo per nuocere al Papa. Altri invece lo strumentalizzano per la loro agenda contro il celibato. Questo lo chiamo un abuso dell’abuso.

Ha sempre supportato Francesco e le sue opere di riforma, ha mai discusso col Pontefice del complotto?

È vero che sono al fianco del Papa, però ci sono rarissimi incontri personali. Non uso il termine complotto, non ne ho parlato con lui.

Francesco potrebbe mai dimettersi?

Secondo le regole del diritto canonico e per le condizioni lì stabilite, un Papa può dimettersi. Questa è una sua scelta del tutto personale e libera, in realtà finora rarissima. Una dimissione forzata sarebbe invalida. Per me vale: Habemus Papam e ne sono contento. Pertanto, non ho avuto modo di riflettere e di discutere una tale eventualità inverosimile.

Le dimissioni di Joseph Ratzinger furono spontanee?

Conosco Benedetto XVI da 55 anni. So che ha riflettuto e pregato a lungo, molto tempo prima della comunicazione della rinuncia al ministero Petrino. Ha dichiarato, e lo prendo sul serio, che lo ha fatto in piena libertà e a causa delle ragioni che ha spiegato nella sua dichiarazione davanti ai cardinali. Era una decisione umile, generosa e coraggiosa, che merita ogni rispetto.