Lobby Usa, siti cattolici e clero: tutte le spine di papa Bergoglio

Il denaro, il malefico denaro spaventa la Chiesa di papa Francesco. Quello che alimenta – sussurrano dal Vaticano – le associazioni cattoliche americane, i presunti gruppi di studio, le posticce riflessioni sul Vangelo: un coacervo di clero e laici che vuole rovesciare il pontificato e avvicinare il prossimo Conclave, per usare il pensiero del cardinale Walter Kasper.

Critici e teologi si mescolano e tratteggiano il profilo di un pontefice eretico, che ignora la dottrina, che svilisce l’intera Chiesa. E allora Francesco è subissato di lettere, manifesti, appelli che, a volte, coinvolgono o riguardano alti prelati. Il cardinale Raymond Leo Burke, per esempio, è assurto a riferimento degli antagonisti di Francesco e del complesso universo cattolico degli Stati Uniti.

I consiglieri di Jorge Mario Bergoglio preparano con estrema prudenza la riunione di febbraio tra i vescovi del mondo contro la pedofilia: c’è la paura che possa diventare uno strumentale processo a Francesco. Il Sinodo su famiglia e divorziati (2015) e l’esortazione apostolica Amoris Laetitia (2016) hanno scatenato le prime e dure critiche a Francesco. Il tema dei migranti ha lacerato non soltanto il rapporto tra il pontificato e le politiche dominanti (dagli Usa all’Italia), ma anche la Chiesa: “Non sapete quanti sacerdoti sono d’accordo con Salvini e distanti dal Papa”, chiosano dal Vaticano.

 

CHI CRITICA IL PONTEFICE

Raymond L. Burke

Cardinale

Capofila dei “Dubia”, vicino a Steve Bannon (ex Trump)

 

Walter Brandmüller

Cardinale

Ha più volte criticato le scelte di Francesco

 

Gerhard Ludwig Müller

Cardinale

Fu rimosso dal vertice della Dottrina per la fede

 

Edwin O’Brien

Cardinale

Conservatore in buoni rapporti con Donald Trump

 

Robert Sarah

Cardinale

Conservatore, per molti futuro pontefice

 

Francis Arinze

Cardinale

Conservatore, tra i capi della Chiesa africana

 

Wilfrid Fox Napier

Cardinale

Non accetta le aperture ai divorziati risposati

 

Carlo Maria Viganò

Vescovo (Nunzio)

Ha scritto un dossier sul Papa e chiesto le dimissioni

 

Jan Pawel Lenga

Vescovo

Fa parte del “trio kazako” schierato contro il Papa

 

Tomasz Peta

Vescovo

Polacco, arcivesvoco di Astana in Kazakistan

 

Athanasius Schneider

Vescovo

Ausiliare di Peta ad Astana in Kazakistan

 

Luigi Negri

Vescovo

È sul versante opposto al pontificato di Francesco

Grillo: “Minenna alla Consob è garanzia per tutti i cittadini”

E alla fine parlò Beppe Grillo. “L’Elevato garante vuole esprimere un parere su garanzia cittadini per nomina Consob: senza dubbio Marcello Minenna” ha twittato ieri il fondatore del M5S, spingendo così ufficialmente per il candidato dei Cinque Stelle. Una mossa irrituale e di fatto inopportuna, visto che il presidente dell’autorità che vigila sulla Borsa e sul mercato immobiliare è formalmente nominato dal presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio. E l’uscita di Grillo rischia di irrigidire ulteriormente il Quirinale, dove già sono perplessi sul nome di Minenna, proprio perché è percepito come troppo vicino al Movimento (l’economista è stato anche per qualche settimana assessore al Bilancio e alle Partecipate nella giunta di Virginia Raggi a Roma). Ma sulla sua figura è arrivato giorni fa anche il via libera di Matteo Salvini, e Luigi Di Maio può quindi insistere sul suo nome (senza entusiasmo, dicono dal Movimento). E il senatore del M5S, Elio Lannutti, intimo amico di Grillo, avverte: “Sfido chi si oppone a portare al Cdm di mercoledì questa nomina, nell’interesse esclusivo dell’Italia”. Tradotto, tra due giorni serve la delibera da inviare al Colle.

Le madamine Sì Tav marciano su Genova

“Fin che la barca va lasciala andare, fin che la barca va tu non remare”. A dispetto della canzonetta resa famosa da Orietta Berti, le madamine torinesi del Sì Tav hanno deciso di remare oltre i confini del sacro fiume Po e di puntare su Genova. Così, oggi a mezzogiorno, dovrebbero prendere parte alla manifestazione del comitato “Sì, Genova vuole sviluppo”, che ha l’obiettivo – rammenta Il Secolo XIX – di “mobilitare i genovesi a favore dello sviluppo, del lavoro e di una connessione con l’Europa cui non possiamo rinunciare”. Neanche le madamine subalpine vogliono rinunciare a sviluppare il loro ingombro mediatico, consolidando il brand di figuranti del cosiddetto partito del Pil. Sebbene “la missione pro Tav” non sia conclusa, come ha scritto La Stampa, le madamine in arancione hanno altri grilli per la testa. Una di loro, madama Patrizia Ghiazza, lo ha chiarito una volta per tutte: “Quando avremo segnato il punto a favore della Tav, certo non ci vediamo tornare nel tinello di casa, se mai ci siamo state”. Niente “tinello marron”, dunque, per citare Paolo Conte. Ma invece Genova per noi. Con il sospetto, ha notato il giornale online ElecTo Mag. Liberi di pensare, che la calata di alcune pasionarie del Tav nella città ligure, tra le quali si annovera Giovanna Giordano Peretti, già sostenitrice della candidatura a sindaco di Piero Fassino, sia uno degli escamotage del Pd che pure a Genova “deve nascondersi dietro a sigle civiche per potersi riprendere la piazza”. Nelle associazioni genovesi votatesi allo sviluppo e alle sorti “magnifiche e progressive”, ma forse non troppo progressiste, d’altronde non mancano gli orfani e i nostalgici delle giunte regionali e comunali di centrosinistra. Uno dei promotori dei madamini genovesi è Andrea Acquarone, che si dice studioso di crescita, di decrescita e di post-crescita. Uno che, di recente, ha scritto testualmente sul sito LiguriTutti: “Pensate a cosa stavate facendo dieci, anche undici anni fa, quando usciva il primo testo divulgativo sui modelli alternativi di economia (Breve trattato sulla decrescita serena, Latouche)”. Già. Che cosa facevamo? Acquarone lo sa: “Io ero lì, ma non a leggere la divulgazione: a elaborare la teoria. Ero già lì, nonostante avessi allora 24 anni, e non so quanti siano usciti dopo di me – che sono stato senza dubbio il primo – dall’Università di Genova, facoltà di Economia, con una tesi magistrale sui contesti di post-crescita”.

Lo studioso e pioniere della crescita-decrescita-post crescita è pure il teorizzatore dell’alleanza con le madamine della Mole. “Siamo entrati in contatto con le madamine di Torino – ha ricordato l’Acquarone – le quali ci hanno cercato in quanto colleghi di società civile nell’organizzare mobilitazioni cittadine. Secondo un’interpretazione diffusa, condivisa ad esempio da Repubblica, la piazza di Torino del 10 novembre è stata la prima grande manifestazione di opposizione all’attuale governo”. Pertanto, racconta sempre il filosofo della post crescita, “lo scorso 14 dicembre il gruppo promotore di ‘Riprendiamoci Genova’ assieme alle madamine, scese a posta (sic, ndr) da Torino, ha annunciato una nuova mobilitazione da tenersi a Genova il 20 gennaio”. Fin che la barca va, allora, lasciala andare, e lascia che siano le madamine a remare.

“La Lega mi darà il reddito”. Il baciamano “scippa” il M5S

Segnatevi questo nome: Francesco Chianese, venditore ambulante di calzini ed ex carpentiere in nero. È la prova vivente che la Lega si sta impossessando dei cavalli di battaglia del M5S ed è pronta a mangiarsela in un solo boccone anche al Sud. Chianese è l’uomo che l’altroieri ad Afragola ha baciato le mani al ministro dell’Interno Matteo Salvini in visita istituzionale nel Napoletano per affrontare la recrudescenza del racket.

Lo hanno rintracciato nel rione Salicelle, l’inferno dei poveri (e dei boss) di Afragola, uno dei quartieri più degradati dell’area nord di Napoli. Chianese, un signore di mezza età dall’italiano incerto e con le tasche vuote, davanti ai microfoni ha detto di aver baciato la mano di Salvini “perché mi hanno promesso il reddito di cittadinanza, qua siamo tutti disoccupati, non si può vivere così, io ho votato anche Pina Castiello (sottosegretaria leghista con delega al Sud, è originaria di Afragola ndr), il padre abita qui vicino e mi dicevano ‘non ti preoccupare, ti faremo avere il reddito di cittadinanza’, e comunque Salvini non mi ha dato niente, il baciamano è stato un gesto d’amore, io non avevo mai visto una persona così brava”. Il video pubblicato sul sito di Fanpage è un documento importante. È un indizio che la Lega sta provando ad appropriarsi dell’architrave del progetto politico-elettorale del M5S, il reddito di cittadinanza che inizierà a essere erogato da aprile. Grazie al quale Luigi Di Maio è riuscito a fare il pieno di consensi nel Mezzogiorno. “Sta passando il nostro messaggio del ‘prima gli italiani che stanno in difficoltà’ – spiega il deputato Gianluca Cantalamessa, segretario campano della Lega – viene apprezzato il fatto che la Lega sta rimettendo al centro le esigenze dei forgotten, dei dimenticati che in America hanno votato Donald Trump: i disoccupati, il popolo delle piccole partite Iva, chi non riusciva ad andare in pensione, chi ora vede in noi la tutela degli italiani più deboli”. Cantalamessa però frena sul reddito di cittadinanza da ‘rubare’ ai Cinque Stelle: “L’entusiasmo di un signore non rappresenta la realtà: il nostro elettore è principalmente chi apprezza lo stop alla Fornero e il decreto Sicurezza, il milione di partite Iva che fruiranno della flat tax. Sono queste le misure volute da gran parte del popolo della Lega e da chi si sta avvicinando a noi. Quel signore è un caso isolato”. Anche baciare le mani a un ministro è un caso isolato, ci sono altri modi per sostenere lo Stato e dire no alle mafie. Lo hanno dimostrato le migliaia di persone che ieri si sono mobilitate ad Afragola per la manifestazione organizzata dalla Cgil per reagire all’escalation di bombe contro i commercianti del posto, 8 ordigni in 20 giorni, come raccontato un paio di settimane fa dal Fatto.

Tra studenti, associazioni e parrocchie c’era anche Gino Sorbillo, vittima a Napoli di una bomba carta contro la saracinesca della sua famosissima pizzeria di via dei Tribunali. “È stato un caso di terrorismo camorristico” secondo il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, che ha parlato a margine dell’incontro del “Sabato delle Idee” a Ponticelli. La pizzeria riaprirà domani.

Decretone, lo Stato pagherà solo l’80% degli interessi sul Tfr

Ancora senza un testo definitivo, dal decretone sul reddito di cittadinanza e quota 100 emergono delle novità inserite nell’ultima bozza, in attesa di arrivare in Gazzetta già a inizio settimana. Sul fronte del Tfr arriva uno sconto Irpef per la liquidazione dei lavoratori pubblici, ma sarà solo una compensazione sul fatto che per ottenere subito la somma, i dipendenti statali dovranno attivare un prestito bancario, fino a un massimo di 30 mila euro, in base a una convenzione. Il costo degli interessi finanziato è, infatti, sceso dal 95% all’attuale 80% e sarà finanziato dallo Stato con un fondo di 50 milioni. Per questo vengono previsti gli sconti fiscali che di fatto abbassano l’Irpef di 1,5 punti se il lavoratore percepirà l’indennità con un anno di ritardo, di 3 punti se gli anni sono due, 4,5 punti se si sale a 36 mesi, 6 punti a quattro anni e 7,5 punti per periodi superiori ai 60 mesi.

Due maxi-multe sono invece previste per chi favorisce il gioco illegale o trucca le slot machine. Nel primo caso si rischia tra i 20 e i 50 mila euro e da 3 a 6 anni di carcere. Nel secondo caso la multa è tra i 5 e i 50 mila euro per ciascun apparecchio truccato che si somma alla chiusura del negozio da 30 a 60 giorni.

Pil, l’oroscopo delle stime. Ecco perché i numeri ballano

Con la nota di aggiornamento al Def di ottobre 2018, il Governo prevedeva per il 2019 una crescita del Pil di 1,5%. Già allora l’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb) aveva giudicato troppo ottimistiche le stime, soprattutto per la dinamica degli investimenti e per il deflatore (lo strumento che consente di “depurare” la crescita del Pil dall’aumento dei prezzi). Poco dopo, il Fondo monetario internazionale (Fmi) aveva pronosticato l’ 1,2%, mentre a novembre la Commissione europea si era fermata all’1% e l’Ocse indicava lo 0,9%.

Nell’ambito della trattativa con Bruxelles per l’approvazione della legge di bilancio, a dicembre il Governo ha rivisto il quadro programmatico attestandosi all’1%: per l’Upb è lo 0,8% (a causa degli investimenti in aumento di 1,8% anziché 2,4%), ma l’ultima previsione in ordine di tempo della Banca d’Italia parla di un ben più magro 0,6%.

Nel primo pomeriggio di lunedì prossimo sarà diffuso l’aggiornamento del World Economic Outlook del Fmi, ma correndo dietro a tutte queste stime si rischia di non capirci più nulla.

Incertezza. In realtà, le previsioni statistiche, in ciò del tutto simili a quelle meteorologiche, scontano un grado di incertezza che aumenta con il crescere della turbolenza in atto e dell’orizzonte temporale al quale si riferiscono. Basterebbe attendere il verificarsi degli eventi per non sbagliare, ma non è possibile, perché è meglio intervenire in via preventiva per correggere la rotta e le politiche economiche necessitano di un tempo di realizzazione per dispiegare i loro effetti.

Ciclo economico. La costante di questi ultimi mesi è che ogni previsione peggiora la precedente. La ragione di quanto sta accadendo è che il ciclo economico è in fase di contrazione, il rallentamento si è accentuato nella seconda metà del 2018 e pare non essere ancora terminato. Il Pil mondiale potrebbe aumentare del 3,5% nel 2019, due decimi in meno di quanto si pensava pochi mesi fa. I principali fattori di rischio sono, al momento, il possibile riacutizzarsi della guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, nuove tensioni finanziarie nei paesi emergenti, l’esito incerto della trattativa sulla Brexit. Per l’Italia, la cui crescita dipende fortemente dalle variabili esogene, bisogna aggiungere il rallentamento dell’economia tedesca che si ripercuote sulle imprese manifatturiere nostrane.

I modelli.Le stime aggregate sono poi basate su modelli statistici che incorporano numerose variabili e relazioni tra di esse. La disponibilità di dati più aggiornati rende più attendibili le stime più recenti, al netto della bontà del modello utilizzato. Ecco perché, fino a quando non si arresterà la discesa, continueremo ad avere previsioni peggiori delle precedenti.

Bankitalia. Sulla revisione al ribasso di Banca d’Italia pesa un ulteriore fattore tecnico, il cosiddetto trascinamento. Il Pil dell’ultimo trimestre 2018, la cui stima preliminare sarà resa nota dall’Istat a fine mese, secondo le informazioni più recenti dovrebbe far segnare una nuova caduta di 0,1-0,2 punti percentuali, facendo precipitare l’Italia nella recessione tecnica, ossia la diminuzione di due trimestri consecutivi. Il Pil dell’ultimo trimestre, destagionalizzato e corretto per i giorni di calendario, sarà quindi inferiore di un decimo al valore medio dell’anno 2018. Ciò significa che il 2019 parte con l’handicap, dovendo recuperare questo scalino prima di iniziare a crescere, ammesso che la discesa sia terminata.

Consumi.Cosa tutt’altro che scontata secondo Banca d’Italia, che segnala un rallentamento dei piani di investimento delle imprese per tutto il 2019 e non prevede un’accelerazione nei consumi delle famiglie, fermi a un modesto +0,6% come nel 2018, pur beneficiando delle misure di sostegno previste nella manovra di bilancio. Partendo dal presupposto che, da parte di organismi nazionali ed internazionali, non esistono previsioni giuste o sbagliate, ma solo le migliori possibili sulla base delle informazioni disponibili, non resta che prendere atto che da alcuni mesi a questa parte l’economia mondiale sta rallentando e quella italiana, affetta da indiscutibili problemi strutturali, ancora di più.

Buffagni: “Basta soldi a Confindustria se fa politica”

Anche lui, il sottosegretario che è l’uomo di Luigi Di Maio in Lombardia, fa muro contro la Torino-Lione: “Ci sono grandi opere giuste perché sono corrette. Ma se devi buttare miliardi per un’opera antistorica e anticiclica io dico che quei soldi li utilizziamo per fare un’altra grande opera che serve al paese, visto che abbiamo il meridione senza infrastrutture”. Così ieri durante L’Intervista di Maria Latella su Sky Tg24 Stefano Buffagni, sottosegretario a Palazzo Chigi con delega agli Affari regionali, si è unito al fuoco di fila dei big del M5S contro il Tav. Ma Buffagni ha parlato anche del reddito di cittadinanza e dei controlli per verificare eventuali abusi: “Contiamo anche sulle segnalazioni che spesso arrivano dal vicino di casa che è invidioso, perché vede quello che sfrutta uno strumento di aiuto illegalmente”. Però la frase più dura il sottosegretario l’ha riservata a Confindustria: “Se ora Confindustria vuole difendere gli interessi delle imprese ben venga, ma se vuole far politica allora vada a far politica. Ma a questo punto credo che le società di Stato, le partecipate, dovranno smettere di finanziarla con le decine di milioni di euro. Voglio vedere come faranno i liberali senza tutti quei soldi”.

Leoni vola ancora: cacciato, torna all’Aeroclub

Lo avevano ribattezzato il “Barone verde”. Come il mitico aviatore, ma in salsa leghista: senatore di lunga data, fedelissimo di Umberto Bossi e storico presidente dell’AeroClub, che ha guidato per praticamente tutti gli anni Duemila. Abbattuto da una condanna per peculato, a 71 anni oggi Giuseppe Leoni è di nuovo in rampa di lancio: grazie a un pasticcio del precedente governo, può tornare a capo dell’AeCi.

All’AeroClub, ente pubblico che si occupa dell’aviazione sportiva italiana, Leoni era entrato nel 2002: ovviamente in quota Lega Nord, di cui all’epoca era parlamentare di spicco (in totale quattro legislature, sempre con l’inconfondibile papillon al collo) nonché co-fondatore del partito insieme al Senatùr. Il governo Berlusconi assecondò la sua grande passione per il volo, in cui si dilettava nel tempo libero con la sua licenza di pilota civile, e lo nominò commissario dell’AeCi. Il giocattolo gli è piaciuto tanto da tenerselo fino al 2017: 15 anni da padre padrone, una flotta di velivoli battezzati in onore dei leader padani (chissà che fine ha fatto l’ “I-Umbe”), una serie di ombre, dal numero reale degli iscritti alla gestione dei fondi. Alla fine anche un processo concluso con una pesante condanna (in primo grado): tre anni per peculato, per aver pagato con i fondi dell’ente le spese legali di una causa personale.

Anche dopo la sentenza a fine 2016, però, Leoni si era ben guardato dal mollare la poltrona. Anzi, a inizio 2017 si era persino fatto rieleggere presidente per l’ennesima volta, anche perché la normativa fa scattare l’ineleggibilità solo dopo condanne definitive. Il Coni (che si occupa della parte sportiva) inerte, il Ministero dei Trasporti (autorità competente) muto. Il primo passo l’aveva fatto l’Anac con una sospensione per ragioni etiche, ratificata con un po’ di ritardo dalla giunta di Giovanni Malagò. Poi, dopo un anno di melina, si è mosso il governo Gentiloni, commissariando finalmente l’ente a febbraio 2018.

Il problema è che il commissariamento è stato motivato non con i precedenti giudiziari ma con la presunta violazione del limite di tre mandati introdotto dall’ex ministro Lotti: vuoi perché sembrava la strada più semplice, vuoi per non avventurarsi in un terreno scivoloso, Palazzo Chigi ha scelto di rimuovere Leoni per una mera questione temporale. Ed è proprio su questo che il leghista ha fatto e vinto ricorso al Tar. Nel suo lungo regno all’AeroClub ci sono tanti anni da commissario e soltanto due mandati da presidente (2005-2009 e 2013-2017): le due cariche per i giudici amministrativi non sono equiparabili.

Un bel pasticcio: quella del 2017 era soltanto la terza (dunque consentita) rielezione, il commissariamento pare proprio illegittimo. Il reggente Pierluigi Matera, avvocato noto nell’ambiente per i tanti incarichi al Coni e nelle Federazioni (nonché prorettore della Link Campus, l’università privata con buone entrature col potere), potrebbe essere costretto a fare i bagagli. Torna Leoni: nonostante la condanna, come stabilito dal Tar “la presidenza del Consiglio riprenderà il procedimento di nomina avviato”. Oppure potrebbe appellarsi al Consiglio di Stato. Ma oggi a Palazzo Chigi c’è anche la Lega, in particolare il sottosegretario Giorgetti che conosce bene Leoni: si racconta che fu proprio il “Barone verde” a segnalare a Bossi un giovanissimo Giorgetti, allora sindaco di Cazzago Briaga. Ne è passato di tempo, e forse l’era di Leoni all’AeroClub non è ancora finita.

Superstipendi, benefit e sprechi. Il conto della Ue

Il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, fresco di pentimento sulle politiche di austerità, percepisce 27.436,90 euro al mese cioè il 138% dello stipendio del funzionario con più alto grado tra i commissari. Non sfigura però nemmeno la ministra degli Esteri dell’Ue, l’alto rappresentante Federica Mogherini che ne prende 25.845,35, circa 3mila euro di più di tutti gli altri commissari, che si fermano a 22.852,26 euro al mese. Pierre Moscovici, commissario per gli affari economici e monetari, 22.367 euro.

Incarichi importanti, lautamente retribuiti. Che da qualche giorno sono finiti nel mirino del Movimento 5 Stelle Europa, che ha lanciato la campagna per il taglio degli stipendi dei commissari Ue, “uno schiaffo – dicono – agli oltre 100 milioni di poveri dell’Unione”. Anche perché i benefit non finiscono con la conclusione del mandato: c’è un “sussidio – denuncia ancora M5S Europa – che i Commissari ricevono alla fine del loro mandato per una durata di due anni” che consente loro di ricevere fino al 65% dello stipendio. Una spesa che impegna 682mila euro nel bilancio europeo 2019.

Sarà un anno di spese straordinarie, questo. Con le elezioni di maggio e il turnover tra chi entra e chi esce si spenderanno diverse centinaia di mila euro in più tra viaggi, entrata in servizio o cessazione, indennità di prima sistemazione, traslochi e uscite varie. In totale, la cifra messa in preventivo per gli stipendi degli eurocommissari è di 2,4 milioni in più rispetto al 2018 (da 10,2 miliardi a 12,6).

Il bilancio complessivo della Commissione per il 2018 è stato di 3,56 miliardi. La maggior parte se n’è andata in stipendi, esclusi i 10 milioni e 200 mila euro dei commissari: funzionari e staff sono costati in totale 2,2 miliardi di euro. Un altro miliardo è servito per le spese amministrative; 164 milioni in apparecchiature informatiche, affitti e rimborsi e spese di sicurezza per le abitazioni, 291 milioni per spese di rappresentanza, meeting e convegni.

Più sobrio, in termini assoluti, l’Europarlamento che ha speso 1,9 miliardi nel 2018. Ma basti solo pensare che ha ben tre sedi, Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. Questa giostra gira dal 1992 e la Corte dei conti ha stimato uno spreco di 114 milioni di euro ogni anno. Se si accorpassero le sedi il risparmio sarebbe di 127,2 milioni. Spesso si votano mozioni che vanno in questa direzione, ma la Francia – dove il Parlamento ha una delle tre sedi – pone sempre il veto.

Gli europarlamentari, che già “costano” 313 euro per ogni giornata passata a Bruxelles o a Strasburgo, ricevono anche un’indennità di viaggio particolare perché funziona al contrario. Più vicini restano, più intascano di rimborso, 23 euro e spicci se non vanno oltre i 50 chilometri, 0,03 centesimi se superano i mille. Se le trasferte non superano gli 800 chilometri i parlamentari non devono presentare alcun rendiconti, se devono anche pernottare percepiscono un’indennità doppia ma devono portare le ricevute. Quanto agli staff, se non altro, in Europa va meglio che da noi per i 2000 assistenti parlamentari: gli stipendi, tutti in regola e pagati direttamente dall’istituzione, partono da 1800 euro mensili.

Mentre in Italia siamo riusciti ad abolire, nel 2014, il finanziamento pubblico ai partiti, all’Europarlamento non si discute nemmeno. Anzi, le spese – comprensive anche dei costi per le campagne elettorali – aumentano. Anche qui, il 2019 come ovvio sarà anno di extra: sono stati messi a budget quasi 50 milioni per i partiti e una ventina per le fondazioni.

Tra le spese straordinarie in vista dell’arrivo del fine mandato c’è anche l’indennità di transizione: per i parlamentari uscenti c’è un mese di stipendio per ogni anno da eletto, con un minimo di sei mesi e un massimo di due anni. Ma pure una buona pensione, 1500 euro puliti, che si possono cumulare con altri redditi e addirittura raddoppiano se il parlamentare ha fatto due mandati. Arriveranno allo scoccare dei 63 anni, per il resto della vita.

“Le élite non cambiano. Ora si sentono più al sicuro”

“Gli intellettuali ne discutono, ma le élite di pentirsi non hanno alcuna voglia, almeno in Italia”. Il politologo Piero Ignazi, docente di Scienza politica all’Università di Bologna, è netto.

Le classi dirigenti danno davvero segno di volersi emendare?

Alcuni intellettuali sottolineano come le élite abbiano sbagliato tutto negli ultimi dieci anni. Ma finora non ho sentito fare ammenda né dai vari presidenti delle associazioni confindustriali né da esponenti degli organi istituzionali. Insomma, nulla dalla classe dirigente.

Però il presidente della commissione europea Jean Cladue Juncker ha riconosciuto che c’è stata “mancanza di solidarietà” nei confronti della Grecia e che la Commissione ha dato “troppa importanza all’influenza del Fondo monetario internazionale” nella gestione di quella crisi.

Questo è un altro discorso, e riguarda l’Europa. Già anni fa il Fmi aveva ammesso che le politiche di austerità imposte alla Grecia erano totalmente sbagliate perché erano un salasso. Ma in quel caso la Germania ha mostrato il suo volto peggiore, il contrario della comprensione. E da lì è nata la crisi in Europa degli ultimi anni, con quel comportamento punitivo.

La miccia è quella.

Sì, e Angela Merkel è la responsabile, anche se poi ha cercato di mondarsi accogliendo migranti.

Torniamo all’Italia, e al dibattito sulle élite. Che ne pensa?

Concordo perfettamente con quanto scritto da Ernesto Galli della Loggia, che ha indicato le responsabilità delle classi dirigenti, ossia di quelle persone con alto livello di istruzione e di reddito, che rivestono posizioni centrali nella vita politica ed economica. In poche parole, di coloro che sono in grado di influenzare le decisioni e le visioni di società. Ma anche gli intellettuali potrebbero farlo, in modo anche più incisivo.

Però?

In questo dibattito manca la riflessione sulle responsabilità di alcuni gruppi intellettuali, che hanno scelto posizioni deleterie per la coesione sociale. E ciò perché hanno abbracciato i dogmi del neo-liberalismo.

Perché lo hanno fatto?

Perché molti provenivano dal mondo marxista o comunista. E allora c’è stato un normale processo di distacco, quasi di ripudio, del passato. E si è andati al di là del dovuto.

Ma gli intellettuali possono ancora influenzare?

Sì, hanno una grande possibilità di farlo tramite i media.

E dovrebbero invocare il pentimento di chi guida il gioco.

Non bisogna pentirsi, piuttosto bisogna cambiare. Il crucifige lasciamolo perdere.

E come si cambia?

Riconoscendo di essere stati troppo proclivi al neo-liberalismo e recuperando il tema della giustizia sociale, scomparso dall’agenda politica di tutti i partiti e dai discorsi pubblici.

Non ne parla neppure la sinistra?

No, non ce la fa. Il Pd non ha il coraggio di dire: “Viva il reddito di cittadinanza, ma facciamolo bene”. Dovrebbe rivendicare che con il Rei avevano cominciato a farlo nella maniera giusta. Ma prima bisognerebbe ammettere che è una misura equa, in vigore in molti Paesi. È inutile sparare a pallettoni contro il reddito, anzi si fa il gioco della destra più forcaiola. Mentre non si dice nulla di quella vergogna di Quota 100, che scardina i conti pubblici.

Molti cittadini erano rimasti penalizzati dalla riforma Fornero.

Non sono un tifoso di quella riforma, ma quella sulle pensioni non è certo una misura per la povera gente.

Ma perché le classi dirigenti non avvertono la necessità di questo tipo di misure? Non si rendono conto del cambio di fase?

No, perché non hanno subìto danni. Hanno Matteo Salvini che va a gonfie vele, e per loro va benissimo. molto meglio di Luigi Di Maio. E infatti tutti sparano contro il reddito, utilizzando l’immagine di fannulloni sul divano che Reagan e la Thatcher usavano per giustificare il taglio dello stato sociale. Mentre su Quota 100 è il silenzio.

Le classi dirigenti si sentono tutelate da Salvini?

Sì, assolutamente. Il capo della Lega parla di flat tax, e di certo non vuole fare la guerra agli evasori fiscali. Piuttosto, i Cinque Stelle stanno facendo la fine del Titanic. Erano partiti gridando ‘onestà, onestà’ e guardi ora.

L’abbraccio con la Lega si sta rivelando fatale?

Certamente. Ed è colpa di Matteo Renzi.

Perché ha fatto muro all’accordo tra Pd e M5S?

Be’, se hai uno scavezzacollo e lo mandi con le brutte compagnie, fa una brutta fine. Ma se gli metti vicino persone ragionevoli magari va meglio.

Ma ora? Arriveranno i Gilet gialli anche in Italia?

No, da noi i Gilet gialli sono i 5Stelle e governano. Poi quando la gente non sarà più soddisfatta perché sta ancora male verranno sostituiti. E comunque in Francia il dibattito sulla sfiducia nei confronti delle istituzioni va avanti dall’inizio del 2018, da prima dei Gilet. E lo ha alimentato lo stesso Macron.

Rimane la domanda: che succederà da qui a breve?

Questo Paese andrebbe rivoltato come un calzino ma ciò non sta accadendo. Quindi l’Italia è destinata al declino.

A meno che non si cambi.

In questo Paese non si può toccare nulla. Basta ricordare la sollevazione verificatasi quando il ministro della Salute Grillo ha rimosso i membri del Consiglio Superiore di Sanità, cosa che era perfettamente nel suo diritto. Certo, poi lei si è mossa come un elefante in cristalleria. Ma la sola idea di rinnovamento è respinta: le classi dirigenti si chiudono a riccio. Altro che dibattito.