Le commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera hanno approvato il testo base sul suicidio assistito con il voto favorevole di Pd, M5S, Leu, Iv e Più Europa, mentre il centrodestra ha detto “no”. La legge sarà discussa in Aula da lunedì 13 con due relatori giallorosa: Alfredo Bazoli (Pd) e Nicola Provenza (M5S). Il testo approvato ieri però è stato annacquato rispetto alla proposta iniziale. L’emendamento più discusso è stato quello sull’obiezione di coscienza: “La dichiarazione dell’obiettore deve essere comunicata entro tre mesi dalla data di adozione del regolamento di attuazione della legge al direttore dell’Asl o dell’azienda ospedaliera”. Inoltre è stata approvata anche una “sanatoria” per chi è stato condannato per aver agevolato la morte medicalmente assistita di qualcuno. Ieri intanto è arrivato l’ok della Cassazione sulle firme per il referendum sull’eutanasia promosso dall’associazione Coscioni. Marco Cappato però attacca il Parlamento: “Si è limitato a tradurre in legge le richieste della Consulta. Un passo indietro”.
“Renzi come Siri”. La Giunta inventa il “precedente”
Palazzo Madama ha fretta di trascinare di fronte alla Consulta gli inquirenti della Procura di Firenze, che accusano Matteo Renzi di finanziamento illecito nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open: nonostante i dubbi ancora irrisolti, persino sulla competenza stessa del Senato a intervenire, come richiesto dal leader di Italia Viva, è già stata predisposta una relazione per attivare il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. Un documento illustrato ieri nella sua versione conclusiva di fronte alla Giunta per le autorizzazioni dalla berlusconiana Fiammetta Modena, che stigmatizza l’operato dei pm, rei di aver violato le prerogative parlamentari di Renzi acquisendo sms, messaggi Whatsapp e mail su dispositivi di terze persone, tra tutti Marco Carrai, senza l’autorizzazione preventiva del Senato. Per Modena, deve ritenersi allo stesso modo coperto dalla legge sul sequestro di corrispondenza nei confronti dei membri del Parlamento persino l’estratto conto di Matteo Renzi acquisito dalla Gdf dopo che dalla sua banca era partita una segnalazione per un’operazione sospetta all’Unità di informazione finanziaria (UIF) di Bankitalia. Uno scudo addirittura più rafforzato rispetto a quello che riguarda le intercettazioni.
“Per le intercettazioni due sono le modalità operative (ossia autorizzazione ex ante per quelle effettuate su utenze del parlamentare e autorizzazione ex post, ossia effettuate su utente di terzi). Per il sequestro di corrispondenza la procedura applicabile è solo quella dell’autorizzazione ex ante”, si legge nella relazione che prosegue. “Ovviamente quando viene reperita corrispondenza elettronica sul cellulare sequestrato a un terzo non parlamentare, l’autorità giudiziaria, ove si accorga della presenza di corrispondenza intercorsa con un senatore, deve immediatamente inviare richiesta al Senato come peraltro avvenuto anche in casi simili”. Quali? Per la senatrice Modena i magistrati di Firenze avrebbero dovuto sospendere le operazioni di sequestro e chiedere il permesso alla Giunta del Senato esattamente come era avvenuto nel caso di Armando Siri, finito nei guai insieme al suo collaboratore parlamentare, tuttofare e coindagato Luca Perini per i mutui ottenuti a prezzi di favore dalla Banca di San Marino. E che importa se allora il centrodestra aveva comunque censurato i magistrati di Milano ravvisando il fumus persecutionis nei confronti dell’ex sottosegretario leghista. Ma tant’è: “Ora – confida un autorevole membro della Giunta – quella richiesta preventiva peraltro non doverosa, diventa un modello virtuoso perché serve a perorare la causa”. Del caso Renzi si tornerà a discutere il 14 dicembre con l’esame delle questioni pregiudiziali sollevate da Piero Grasso di LeU per cui “la Giunta non ha la competenza a esprimersi sul caso in esame in quanto la legge prefigura una interlocuzione esclusivamente tra la Giunta stessa e il Giudice per le indagini preliminari”, mentre ancora è faccenda che attiene alla fase precedente. A quanto si apprende, c’è chi in Giunta vorrebbe chiedere di sentire proprio la Procura, che ha già fatto sapere di voler “corrispondere a ogni esigenza del Senato”. Ma l’impressione, più che altro, è l’obiettivo sia di chiudere in fretta l’istruttoria per portare il caso alla Consulta.
Csm, la “riforma” sotto l’albero Cartabia si fa il dono vista Colle
Corsa contro il tempo della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per portare la riforma del Csm entro Natale in Consiglio dei ministri, consapevole che poi ci sarà in campo solo la partita del Quirinale e lei il cuore lo ha lì. Sa bene, raccontano gossip ministeriali, che se fosse lei la prima donna presidente della Repubblica farebbe piacere a Mattarella.
L’improvvisa accelerazione sulla riforma del Csm c’è stata negli ultimi giorni: prima l’incontro con il premier Draghi, poi una convocazione con un preavviso di poche ore, con la giunta Anm che, comprensibilmente, ha detto che potrà dire la sua (ammesso che ne avrà il tempo) solo con un testo in mano, e ieri le convocazioni dei partiti di maggioranza. Anche in questo caso nessun testo scritto, ipotesi della ministra spiegate a voce e ascolto dei parlamentari ricevuti. Il sistema elettorale è il punto su cui si è più soffermata Cartabia. La sua ipotesi è questa: “Sistema binominale collegiale” con “correttivo”. Ovvero un collegio unico nazionale per eleggere i due componenti di legittimità tra i consiglieri di Cassazione; 2 collegi per eleggere 4 consiglieri in quota pm e 4 collegi per eleggere i 10 consiglieri in quota giudici di merito. I magistrati elettori votano per tutte le “categorie” e possono esprimere una sola preferenza. In ogni collegio ci sono almeno 6 candidati e saranno eletti i primi due più votati, inoltre, ci saranno 2 seggi “assegnati ai migliori terzi classificati”. Se le candidature non sono più dei posti in palio, si integrano per sorteggio tra i magistrati “che non hanno negato la loro disponibilità”. Scatta il sorteggio anche nel caso in cui non sia assicurata la parità di genere, obbligatoria.
Nessuna barricata dei partiti a questa ipotesi ma neppure un via libera. Il M5S ha sostenuto l’idea dei piccoli collegi e del doppio turno, contenuta nella riforma dell’ex ministro, Alfonso Bonafede, ieri dalla Cartabia insieme a Eugenio Saitta, capogruppo in Commissione Giustizia della Camera; il Pd si è “riservato” di valutare ma la reputa una proposta “interessante”; FI è per il sorteggio temperato. Per il M5S il punto più delicato, però, non è il sistema elettorale perché, ritiene, nessuna legge può dare la certezza di arginare il “correntificio”. Ha insistito, invece, sulle incompatibilità tra i membri della sezione disciplinare e delle commissioni che propongono nomine e valutazioni, previste dalla riforma Bonafede e mantenute in quella Cartabia, come la stretta sui fuori ruolo, e ha chiesto un blocco delle porte girevoli magistratura-politica, “che rappresenta il punto di snodo fondamentale di tutta la riforma”. Nell’ipotesi Cartabia, lo sbarramento è a monte e senza differenziazioni: “Divieto per i magistrati di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e politici sia per sindaci e amministratori sia per parlamentari”. Una norma che impedirebbe casi come quello di Catello Maresca, neo leader dell’opposizione di centrodestra nel consiglio comunale a Napoli dove è stato pm e poi giudice, ora sarà giudice a Campobasso. Le toghe elette, finito il mandato, possono tornare in magistratura, altrimenti si viola la Costituzione, sostiene Cartabia, ma “dopo un periodo di decantazione”. L’ ipotesi Bonafede, invece, prevede per parlamentari e consiglieri regionali il non ritorno in toga, bensì “il ricollocamento o al ministero o in altra alta amministrazione”. D’accordo con la ministra il Pd, anche se il capogruppo in commissione Giustizia Alfredo Bazoli, ieri da Cartabia insieme ad Anna Rossomando, responsabile Giustizia, ha detto che bisogna individuare “criteri più stringenti” per il rientro. Il capogruppo di FI, Pierantonio Zanettin, ex laico del Csm, dall’incontro si aspettava di più: “Dopo lo scandalo Palamara si doveva fare una riforma più coraggiosa”, la proposta sul sistema elettorale “favorisce il bipolarismo e mortifica i gruppi minori. Abbiamo riproposto il sorteggio temperato, unica soluzione per togliere potere alle correnti”. Identiche le considerazioni dei togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo. Sempre Zanettin concorda con il M5S sulle porte girevoli: “I magistrati eletti in politica non devono più poter fare né il pm, né il giudice”.
Intanto, i 4 togati di Magistratura Indipendente hanno chiesto l’apertura di una pratica al Csm proprio per sollecitare una legge sulle porte girevoli. La richiesta è in una lettera in cui spiegano perché hanno votato a favore del rientro in toga di Maresca: la legge “va applicata anche se non si è d’accordo”. Il plenum si era spaccato: 11 sì e 11 astenuti.
Indagato, sfiduciato, battuto. Ma lo salvano i “comunisti”
1994, 21 novembre. Il premier Silvio Berlusconi viene indagato per complicità in tre tangenti alla Guardia di Finanza, confessate dal fratello Paolo e da altri manager Fininvest. I pm di Milano hanno la prova che un consulente del gruppo, l’ex finanziere Massimo Maria Berruti, ha depistato le indagini subito dopo aver incontrato il premier a Palazzo Chigi. Di qui l’urgenza di interrogare contestualmente sia Berlusconi sia Berruti sul contenuto dello strano incontro. Borrelli invia a Roma un ufficiale dei carabinieri a notificare al premier l’invito a comparire. Ma il Cavaliere quella sera non è nella Capitale: ha cambiato programma e ha deciso di restare a Napoli, a un concerto di Luciano Pavarotti nell’ambito di un convegno internazionale dell’Onu sulla criminalità. Così l’ufficiale, consultatosi col procuratore di Milano, lo raggiunge telefonicamente per illustrargli il provvedimento e chiedergli un appuntamento per la notifica l’indomani a Roma.
22 novembre. Il Corriere della Sera esce con la notizia di Berlusconi indagato. Per anni il Cavaliere racconterà di aver ricevuto un avviso di garanzia a Napoli durante il G8 e di averlo scoperto dal Corriere, e di essersi dovuto dimettere da premier a causa di quella fuga di notizie. Cinque balle in una sola frase: non era un avviso di garanzia, ma un invito a comparire obbligatorio per legge; non gli fu notificato a Napoli, ma a Roma; a Napoli non c’era alcun G8 (che si era tenuto a giugno), ma un semplice incontro Onu fra ministri degli Interni; Berlusconi non apprese la notizia dal Corriere il 22 novembre, ma dal carabiniere che lo chiamò la sera del 21 e gli lesse il contenuto dell’atto, da quel momento non più segreto, dunque quella del Corriere non fu una fuga di notizie top secret (anzi è probabile che la fonte fosse proprio l’entourage berlusconiano, visto che l’ufficiale gli ha letto solo due dei tre capi di imputazione e il Corriere ha riferito soltanto quelli). Falso, infine, che il suo governo sia caduto per quel motivo.
6 dicembre. Di Pietro, pressato da un’ispezione ministeriale segreta disposta da Biondi su istigazione di Previti e Paolo Berlusconi per alcune sue vicende private, e archiviata subito dopo le sue dimissioni, si dimette dal pool Mani Pulite. Così non sarà lui a interrogare Berlusconi, che dopo tre settimane di rinvii si presenta finalmente in Procura il 13 dicembre.
22 dicembre. Il governo Berlusconi si dimette in seguito alle mozioni di sfiducia delle opposizioni Pds e Ppi, cui si è associata la Lega Nord per il dissenso insanabile sulla riforma delle pensioni.
1995, gennaio. Il Cavaliere riprende a mentire, gridando al “ribaltone” e al “golpe”. Tutto falso. Scalfaro, verificata l’esistenza di una maggioranza parlamentare favorevole a un governo tecnico-istituzionale per varare alcune riforme urgenti prima del voto anticipato, chiede allo stesso Berlusconi di scegliersi il successore. Lui indica il suo ministro del Tesoro uscente, Lamberto Dini. Poi però, al momento di votarlo, il centrodestra gli nega la fiducia e decide di astenersi, anche se Berlusconi ha ottenuto i due ministeri che gli interessano per due amici: le Telecomunicazioni per Agostino Gambino (uno dei suoi avvocati) e la Giustizia per l’ex giudice Filippo Mancuso (suo fan). Nasce così una nuova maggioranza formata da tutti gli altri partiti: Lega Nord e centrosinistra.
Aprile. La Procura di Brescia riceve una raffica di dossier pieni di accuse, accumulati dall’entourage berlusconiano, contro Di Pietro. L’ex pm viene indagato per abuso, falso, corruzione e concussione dopo aver rifiutato l’ennesima offerta del Cavaliere (terrorizzato dai sondaggi sulla sua popolarità altissima e dalle voci sulla nascita di un suo partito) di entrare in politica con Forza Italia.
25 maggio. Dell’Utri è arrestato a Torino per i fondi neri di Publitalia. Patteggerà 2 anni e 6 mesi in Cassazione per false fatture e frode fiscale.
Luglio. Berlusconi e Dell’Utri vengono indagati dalla Procura di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco (il primo sarà poi processato e condannato, il secondo archiviato).
1996. Previti dichiara: “Se vinciamo le elezioni non facciamo prigionieri”. Invece vince l’Ulivo di Romano Prodi, che va al governo. Berlusconi, da poco indagato anche per corruzione di alcuni giudici romani (insieme a Previti e ad altri due avvocati Fininvest), dopo le rivelazioni di Stefania Ariosto, già compagna del suo ex capogruppo alla Camera, Vittorio Dotti, è terrorizzato. Ma senza motivo: i famigerati “comunisti” sono a sua completa disposizione. A giugno il Tesoro dà il via libera alla quotazione di Mediaset in Borsa, malgrado le indagini del Pool di Milano sui reati fiscali e contabili del gruppo con l’intero comparto estero della All Iberian e di altre 63 società totalmente sconosciute al bilancio consolidato. Così gli enormi debiti del gruppo vengono scaricati sul mercato azionario. L’apposito ministro delle Telecomunicazioni Antonio Maccanico aggira poi la sentenza della Consulta del 1994 che impone la riduzione delle reti Mediaset da tre a due col trasferimento di Rete 4 sul satellite e concede al Biscione una proroga sine die. Pazienza se Rete 4 ha perso la gara per la concessione a vantaggio di Europa 7 di Francesco Di Stefano (che resta senza frequenze, abusivamente occupate dall’emittente berlusconiana). In cambio di tanta generosità, Berlusconi fa un’opposizione perlopiù finta e parolaia.
1997. Nasce la Commissione Bicamerale per la riforma della Costituzione (e soprattutto della magistratura), presieduta dal segretario Pds Massimo D’Alema. Berlusconi, che ne fa parte, viene riabilitato come padre costituente e appoggia le “riforme” d’intesa col centrosinistra: sulla giustizia, la bozza dell’ex lottatore continuo Marco Boato è copiata in parte dal Piano di Rinascita Democratica della P2 di Licio Gelli e in parte dal programma di Forza Italia. A maggio il Cavaliere viene operato in gran segreto all’ospedale San Raffaele per un tumore alla prostata. Il 4 dicembre viene condannato per la prima volta dal Tribunale di Milano: 1 anno e 4 mesi per falso in bilancio sui fondi neri nell’acquisto di Medusa Cinema.
1998. Berlusconi colleziona altre due condanne in primo grado a Milano: 2 anni e 9 mesi per corruzione della Guardia di Finanza e 2 anni e 4 mesi per finanziamento illecito a Craxi tramite All Iberian. Ma ormai ha ottenuto la riabilitazione politica con la Bicamerale: così fa saltare il tavolo delle riforme costituzionali in Parlamento, lasciando D’Alema&C. con un pugno di mosche, e torna a dichiarare guerra ai “comunisti”.
(9. continua)
L’intesa con Renzi. Salvini chiama Casini: “ti votiamo”
Ora il piano B di Matteo Salvini si chiama Pier Ferdinando Casini. I due si sono sentiti nelle ultime ore e a prendere l’iniziativa è stato il leader della Lega che negli ultimi giorni sta creando un asse con Matteo Renzi per individuare un candidato da votare al quarto scrutinio. La prima ipotesi che Salvini ha in testa resta quella di Mario Draghi a cui la Lega non potrà dire di no in caso di candidatura del premier. Ma come piano B sta lavorando a un asse con Renzi per fare i kingmaker per il Quirinale, come successe a febbraio per buttare giù il governo Conte. Appurato che la Lega voterà Berlusconi solo come “bandiera”, nelle ultime ore Salvini ha chiamato Casini, su cui punta Renzi: “Dal quarto scrutinio potresti essere il nostro candidato”. Salvini è convinto che il Pd non potrà non votare Casini perché eletto nelle file dem. Una mossa anche in chiave anti-Meloni che dovrebbe piegarsi e anti-Berlusconi, che rimarrebbe fregato. Ieri il leader della Lega con i suoi deputati ha allontanato l’ipotesi di voto anticipato: “Sul Colle saremo uniti, il prossimo presidente sarà l’interlocutore delle prossime tre legislature: questa, la prossima e quella successiva”.
“B., basta shopping o ti molliamo”
Berlusconi telefona, ci prova, porta via i parlamentari a Coraggio Italia. È il suo shopping natalizio per il Quirinale. E Gaetano Quagliariello, vicepresidente del partito di Toti e Brugnaro, per vent’anni tra i parlamentari di Fi più ascoltati ad Arcore, risponde così: “Prenderci due o tre parlamentari e indispettirne 30 è una cosa politicamente stupida, perché finisce che nessuno lo vota”.
Senatore Quagliariello, Berlusconi è il primo ad aver trasformato la corsa per il Colle in una campagna elettorale.
Ci fu la campagna mediatica per Emma Bonino ma è la prima volta che accade con un leader di partito. Però va ricordato il contesto in cui siamo, un governo di unità nazionale: il prossimo Presidente o sarà espressione della maggioranza o il governo cade. Berlusconi quindi dovrebbe sforzarsi di diventare il candidato dell’area di governo. Come direbbe De Gaulle: “Vasto programma”.
Così prova a rubarvi i parlamentari. Che effetto le fa?
Penso che queste manovre siano opera di suoi seguaci un po’ troppo zelanti che credono di giocare a Risiko. Mentre Silvio cerca di accattivarsi tutti, addirittura il M5S, gli sciocchi, per il gusto di sfilare due-tre parlamentari di Coraggio Italia, ne indispettiscono 30. Politicamente una stupidata.
La campagna è ventre a terra. Lei è stato contattato?
No, ma fossi in Berlusconi non imposterei questa partita come l’ultima carica di Bataklava, perché se poi l’obiettivo va a vuoto rischia l’effetto boomerang. Forza Italia rischia di spaccarsi.
Intanto FI ha preso Sorte, Benigni e Pedrazzini.
Nomi sopravvalutati, evidentemente le plusvalenze non sono solo nel calcio. Sorte e Benigni sono usciti prima dell’estate e si rivendono ora: è sempre lo stesso circoletto. Non sta a me dare consigli, ma si pensi alla politica più che a qualche pedoncino sulla scacchiera.
Come si avvicinano i partiti all’elezione del capo dello Stato?
Mi colpisce che i partiti più grandi di centrodestra e centrosinistra non elaborino proposte, per il Quirinale e per il dopo. O manca la capacità strategica oppure si rendono conto che la propria coalizione non basta. Al centro dello schieramento invece si sta provando a fare qualcosa.
Farete un partito unico con Renzi per pesare sul Colle?
Di partiti fatti a freddo ne abbiamo visti troppi, serve tempo. Ma per il Colle bisogna muoversi con una proposta univoca. Vediamo quale…
Draghi andrà al Colle?
Non lo so, ma per me è la prima candidatura. Anche se non l’unica.
Colle, Letta punta su Draghi. L’asse con Conte e Meloni
Il nome e cognome non lo ha fatto, ma la carta calata ieri dal segretario del Pd porta a un identikit preciso, quello di Mario Draghi. Per l’elezione del capo dello Stato, “io sono per una maggioranza larga, se si riuscisse a comprendere anche l’opposizione sarebbe positivo”, ha dichiarato a Corriere Tv. Parole che segnano un cambio di passo. Perché c’è un solo candidato al Colle che a oggi risponde davvero a questa descrizione: Draghi. Conferme ufficiali dal Nazareno non ce ne saranno – com’è ovvio – fino a gennaio. Ma da quando ha iniziato a intestarsi il governo Draghi, Letta cresce anche nei sondaggi. L’altro – da eleggere con una maggioranza larga – sarebbe Sergio Mattarella. E se lui ha detto fino allo sfinimento di essere contro il bis, Giorgia Meloni in tempi non sospetti ha dichiarato di non essere disponibile a votarlo.
Tradotto: il segnale del segretario del Pd è a lei. Tanto è vero che in serata va ad Atreju a ribadire l’importanza di votare il presidente con una larga maggioranza. Alla manifestazione di Fratelli d’Italia, è tutto uno scambio di cortesie e di battute. Tanto che Letta deve pure schermirsi rispetto a “un’eccessiva sintonia” con la Meloni. Ma è un fatto, il terzo incontro tra i due in poche settimane. Da Fdi chiariscono che non c’è alcun accordo su un candidato comune. Ma la preferenza della Meloni per il premier è trapelata più volte. Draghi potrebbe essere un presidente sufficientemente forte da darle l’incarico, in caso di vittoria alle elezioni. Ergo, tra Letta e Meloni sul punto ci sono interessi convergenti. “Giorgia” potrebbe scegliere Draghi per andare alle elezioni, “Enrico”, che in mattinata aveva escluso elezioni, ad Atreju la mette in un altro modo: “Se Draghi andasse al Colle sarebbe difficile per questa maggioranza andare avanti”. Però non arriva mai a dire che Draghi deve rimanere dov’è, anche se incalzato più volte sul tema dagli intervistatori, Bruno Vespa e Maurizio Belpietro. Per lui, le urne restano una tentazione. E tanto vale farle balenare davanti al pubblico di Atreju. A proposito di “offerte” alla Meloni, Letta ci mette pure il no al proporzionale, in favore di un maggioritario che piace a FdI, ma non certo ai 5Stelle.
Di certo fare asse con Meloni per il Quirinale è centrale. Perché Matteo Renzi e Matteo Salvini tessono la loro tela parallela, insistendo su Pier Ferdinando Casini. Mentre i Cinque Stelle sono agitati e divisi. Letta, ovviamente, punta anche a una convergenza con Giuseppe Conte. Ma l’avvocato ha le truppe in costante subbuglio. Lo conferma il plebiscito con cui ieri Davide Crippa – non certo un contiano – è stato riconfermato capogruppo del M5S a Montecitorio (131 voti su 158 aventi diritto). Non solo: Conte teme di essere scavalcato nelle trattative – e nella considerazione ai tavoli – da Luigi Di Maio. L’avvocato e i 5Stelle a lui più vicini parlano da giorni di “una donna” al Quirinale: ma non hanno un vero nome. E allora Draghi al Quirinale, con l’attuale ministrato dell’Economia Daniele Franco a Palazzo Chigi può essere una via per evitare danni maggiori per il presidente del M5S. Realista, al punto che in una riunione pochi giorni fa lo avrebbe riconosciuto: “Se l’ipotesi di Draghi al Colle fosse concreta, con un accordo vero tra i partiti, non potremmo non votarlo”. Anche se il premier non è la prima opzione per Di Maio, convinto che spostarlo da Chigi rischi di portare al voto anticipato.
E comunque poi si deve tornare a Letta, che cerca anche di arginare quella parte del Pd che insiste per il bis di Mattarella. Non a caso ha preso le distanze dal duo Dario Parrini e Luigi Zanda, che aveva presentato un dl per porre il divieto di rieleggere il Capo dello Stato in Costituzione, vendendolo come un contributo al bis. Lanciare Draghi potrebbe essere una buona mossa. Anche se i big dem non sono troppo d’accordo.
Dario Franceschini lavora attivamente contro. Sogna ancora il Colle per sé. Mentre Lorenzo Guerini è di quelli che tifano perché il premier resti dov’è più o meno per sempre. Variabili non indifferenti in una partita che vede anche le coalizioni sfaldarsi. Eppure, con Draghi ufficialmente in campo, per tutti sarebbe difficile dire di no.
I casi di due migranti detenuti e poi assolti
Dopo 22 mesi di carcere è tornato libero Patrick Zaki, il 30enne studente e attivista egiziano, incarcerato dalle autorità di Al-Sisi e sotto processo con l’accusa di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di false notizie, propaganda per il terrorismo. In questi due anni, per Zaki si è mossa l’opinione pubblica: esponenti politici, attivisti, artisti e ong gli hanno inviato centinaia di messaggi di solidarietà. Proteste e manifestazioni sono state organizzate in tutta Italia contro lo Stato egiziano, al quale è stato chiesto di liberare lo studente dell’Università di Bologna, data la manifesta ingiustizia della detenzione e del processo da lui subito. Ma l’ empatia dimostrata a Zaki è mancata quando in Italia in tribunale e in carcere sono finiti in maniera altrettanto ingiusta due migranti: a Palermo l’eritreo Medhanie Tesfamariam Behre e il siriano Morad Al Ghazawi a Catania. Due errori giudiziari acclarati, due intoppi avvenuti non nell’Egitto retto da una giunta militare, ma nel sistema di una democrazia occidentale.
Behre Mille giorni di cella Scambiato per trafficante per una chiamata in SudanPiù di 60 udienze in tre anni di processo celebrati a Palermo, e oltre mille giorni di detenzione. È il risultato della lunga vicenda giudiziaria subita da Medhanie Tesfamariam Behre, un falegname eritreo che ha festeggiato il suo 30° compleanno in una cella del carcere Pagliarelli di Palermo. Un clamoroso errore giudiziario, di cui il Fatto ha dato conto insieme a pochi altri quotidiani italiani, ma che ha avuto ampio risalto nella stampa internazionali, dal Guardian fino al New York Times.
La storia di Behre inizia a Khartoum (Sudan), dove il giovane si era rifugiato dopo la fuga dall’Eritrea e poi dall’Etiopia. La sua speranza era di arrivare in Europa e riabbracciare la sorella, attraversando come fanno molti migranti prima il Sahara e poi il Mediterraneo. Il 26 maggio 2016, però, viene arrestato dalle milizie sudanesi, in un’operazione congiunta con le autorità inglesi e la Procura di Palermo. È accusato di essere Medhanie Yehdego Mered, soprannominato “il Generale”, trafficante eritreo di esseri umani sul quale pende un mandato di cattura internazionale. Dal Sudan viene estradato in Italia, per essere trasferito nel carcere di Rebibbia. Ma quando scende dall’aereo, atterrato a Ciampino, i suoi tratti fisici non corrispondono alle foto segnaletiche del trafficante Mered, diramate dagli inquirenti durante le indagini.
Il ragazzo dice che c’è stato uno scambio di persona e i familiari si attivano perché venga dimostrato l’errore. Ma la Procura di Palermo non gli crede e trova nel suo cellulare le prove che lo incastrano. Alcune foto di “cannibalismo” e un video sarebbero la dimostrazioni di sevizie su migranti. Dai suoi profili social estraggono la chat con una donna, che risulta essere la vera moglie di Mered.
Emergono subito i primi errori: le foto sono di una “cerimonia buddhista” scattate nel 2009 in Thailandia, i video scaricati da YouTube. Nella chat, correttamente tradotta dai periti della difesa, la donna dice a Behre di essere già impegnata. L’avvocato difensore Michele Calantropo le prova tutte per scagionare il ragazzo. Fa sottoporre la madre, arrivata dall’Eritrea, all’esame del Dna. Stesso test genetico fatto al figlio del vero trafficante, che si trova in Svezia con la madre. La donna dirà in udienza che l’uomo in carcere non è il marito. Poi ci sono le numerose testimonianze delle vittime del vero smuggler, che raccontano le torture e sevizie subite, e negano che l’uomo dietro le sbarre sia il vero trafficante. Anche il fratello di Mered, interrogato dalle autorità olandesi, conferma l’ipotesi della difesa. Ma la Procura non indietreggia, anzi intercetta due interpreti della difesa e un giornalista che si occupa del caso, e accusa la stampa di “coprire il trafficante”.
Le prove a suo discarico sembrerebbero schiaccianti, ma il giudice di primo grado lo condanna a 5 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (12 luglio 2019). La colpa di Behre è aver ricevuto, quando si trovava in Sudan, una telefonata di un cugino che gli chiedeva aiuto mentre era in Libia in mano ai trafficanti, prima di attraversare il mar Mediterraneo a bordo di un barchino.
Ma il giudice chiede la scarcerazione di Behre perché riconosce che non è Mered, ma il ragazzo è trasferito al Centro di permanenza per il rimpatrio di Caltanissetta, dove resterà altre 3 settimane. Fino a quando lo Stato italiano gli riconosce lo status di rifugiato politico e lo lascia libero. Oggi vive in Inghilterra, dove spera di ricominciare una nuova vita. Mentre il vero Mered è ancora latitante, e la sua cattura internazionale è bloccata dal processo d’appello di Palermo.
Morad Attivista anti-Assad incarcerato per terrorismo “con indizi contraddittori”
Era arrivato in Italia su un barchino, insieme ai familiari e altre 500 migranti. Un lungo viaggio iniziato nel 2011, partendo dalla Siria, passando per la Giordania, l’Egitto, la Libia e infine navigando il Mediterraneo. Il 21enne siriano Morad Al Ghazawi pensava che la sua odissea fosse finita una volta approdato in Sicilia, e non si aspettava dover vivere un calvario giudiziario. Quindici mesi di detenzione, tra le carceri di Catania, Rossano Calabro e Sassari. In mezzo numerose udienze, tre avvocati che si sono alternati per difenderlo, e un processo a Catania con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico.
Morad è arrestato il 4 dicembre 2015, dopo essere sbarcato a Pozzallo a bordo della nave “Bourbon Argos”. Durante i controlli, la Digos di Ragusa nota il giovane siriano con uno zainetto. Dentro ci sono “nove telefoni cellulari e una chiavetta usb”. Al loro interno trovano “immagini di scenari di guerra”, “corpi mutilati”, “cadaveri”, e foto del “clandestino armato e imbracciante fucili mitragliatori”, e persino un video con bandiere nere. C’è anche un documento, ribattezzato il “diploma dell’Isis” e “passaporto Isis”, che gli inquirenti ritengono sia un “lasciapassare per jihadisti”, utilizzato dal terrorista per muoversi liberamente in Europa ed entrare in contatto con altre cellule.
Per la Procura di Catania, Morad diventa un terrorista dello Stato Islamico. Ma quando i giornalisti di MeridioNews traducono il presunto “passaporto Isis”, scoprono che in realtà che si tratta di “attestato di fede”, con la foto e il nominativo di un musicista siriano che vive in Svezia. L’artista dice ai giornalisti di non aver rapporti con l’Isis, spiega che il file è un fake e che si tratterebbe di uno scherzo. In effetti, online si trova lo stesso passaporto, ma con foto e nominativi diversi.
A Morad è anche contestato di aver avuto rapporti con un combattente jihadista, con il quale ha una foto, e con un presunto terrorista. Ma durante il processo, emergono le falle dell’accusa. Il combattente, che nella foto imbraccia il fucile, è un amico di famiglia, della stessa città di Dara’a, in Siria, che aveva lottato contro il regime di Bashar Assad nel nome delle vittime dei “Martiri di Dara’a”. Morad spiega di aver fotografato i cadaveri “per fare vedere al mondo” quello che il suo popolo stava subendo. Anche il video trovato nel suo telefonino è in realtà una parodia, di “un arabo proclamante la difesa della Siria impugnando fucile e spade”, che usa un “fucile giocattolo e barba finta”. Il giovane spiega di essere fuggito dalla Siria già nel 2011, prima che nel Paese arrivasse l’onda nera delle bandiere dell’Isis e proprio a seguito dei bombardamenti e rastrellamenti subiti a Dara’a. “Appare molto più verosimile – scriverà alla fine della vicenda il giudice nelle motivazioni della sentenza che lo scarcera definitivamente –, ritenere che Al Ghazawi fosse scappato con la famiglia dalla propria patria a causa di una situazione insostenibile, nella quale si e costretti a combattere o a soccombere ed in entrambi i casi non si riesce a vivere”.
La Procura di Catania, convinta che il ragazzo sia un terrorista, aveva chiesto una condanna a 4 anni di carcere. Ma il 27 febbraio 2017, il giudice lo assolve perché il fatto non sussiste, sottolineando che le prove dell’accusa “rappresentano dei meri dati indizianti, perlopiù sconfessati da non ardui riscontri, sicuramente inidonei a costituire valida prova di colpevolezza, perché quasi sempre insufficienti e a volte del tutto contraddittori”. Solo allora Morad era potuto tornare libero e riabbracciare la sua famiglia, che nel frattempo aveva ricevuto asilo in Germania.
“Voti a 50 euro l’uno”: nei guai marito dell’assessore regionale
Avrebbero comprato numerosi voti pagandoli 50 euro ognuno per ottenere la vittoria alle elezioni che lo scorso ottobre hanno portato alla riconferma del sindaco uscente di Triggiano (Bari), Antonio Donatelli, candidato sostenuto da diverse liste civiche. La compravendita di voti, secondo i carabinieri e la Procura di Bari, sarebbe stata “architettata” e “realizzata” da Alessandro Cataldo, marito dell’assessora ai Trasporti della Regione Puglia, Anna Maurodinoia (che è estranea all’inchiesta). Gli iscritti sul registro degli indagati in tutto sono 13.
“Non uccise Rocchelli: Markiv è innocente”
Non è statol’ex soldato ucraino Vitaly Markiv a uccidere Andrea Rocchelli, il reporter italiano rimasto vittima di un attacco nel Donbass nel maggio 2014. A confermarlo è stata la Corte di Cassazione che ieri ha dichiarato inammissibili i ricorsi presentati dalla procura generale di Milano e dai familiari del giornalista contro la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte d’assise d’Appello milanese nel 2020. Markiv era stato condannato in primo grado a Pavia a 24 anni di reclusione. “Sono molto felice. Finisce un incubo che è durato quattro e mezzo”, ha detto l’avvocato Raffaele Della Valle. La Federazione nazionale della stampa ha invitato a riprendere “l’impegno a reclamare verità e giustizia per Andrea Rocchelli”.