Toti nega il divorzio: “Nessuna scissione, è l’extrema ratio”

Scissione rimandata. O almeno sembra. Ieri Giovanni Toti è tornato sulla cena di qualche sera fa a Roma, in cui ha radunato una ventina di parlamentari di centrodestra prospettando la nascita di un nuovo partito, alternativo rispetto a Forza Italia. “Nessuno ha mai pensato di scappare, – giura il governatore ligure – certo, come nelle famiglie il divorzio è sempre possibile e magari è possibile anche costruirsi una nuova vita felice, ma resta sempre l’ultima ratio, una sconfitta per tutti”. Per il momento, quindi, non se ne parla, anche se le parole di Toti non escludono svolte future. Non prima, in ogni caso, delle europee: “Chi vuole proporre la propria linea nel nostro movimento politico si candidi sotto il nome di Silvio Berlusconi”. Sulla stessa linea anche i parlamentari di Forza Italia Osvaldo Napoli e Daniela Ruffino, partecipanti alla cena “scissionista”: “Nessuno ha congiurato contro nessuno, i problemi del partito sono stati messi sul tavolo con la franchezza e il desiderio di un confronto che non trova più luoghi dove potersi svolgere liberamente”.

L’ultimo tradimento: Pontassieve sceglie il governatore laziale

Pontassieve tradisce Renzi. Secondo i dati (diffusi dallo staff di Zingaretti) su 35 votanti nel circolo della cittadina dove abita Matteo Renzi 27 hanno scelto il Governatore del Lazio, 5 Maurizio Martina e 3 Roberto Giachetti. Nel circolo di Scandicci, territorio elettorale di Matteo Renzi, i risultati del Congresso favoriscono invece Maurizio Martina. Nel Comune che ricade nell’area metropolitana di Firenze, Martina ha avuto 152 voti superando Nicola Zingaretti, fermo a 123 voti. Roberto Giachetti si è fermato a 15 voti, 2 i voti per Francesco Boccia. A Rignano sull’Arno, paese natale dell’ex premier, invece c’era stato una sorta di plebiscito a favore di Giachetti, che ha conquistato ben l’83% delle preferenze contro il 10% di Martina e il 6% di Zingaretti. Da notare, comunque, che sui dati c’è una polemica che va avanti da giorni. Ieri Gianni Del Moro, responsabile Organizzazione, ha precisato: “Ribadisco che tutti i dati sono legati direttamente o indirettamente alle mozioni. Non esistono dati ufficiosi usciti o visionati da soggetti terzi e nessun dato è uscito dall’ufficio Organizzazione del partito nazionale”.

Lo Stato Sociale alla Boschi: “Ceni con noi, anziché con Salvini, a parlare di sinistra”

“La Boschi la porteremmo in un locale a San Giovanni a Roma dove si mangia a 4 euro, un prezzo veramente politico”. Secondo round della querelle politica-pop tra il gruppo indie de Lo Stato Sociale e la deputata del Partito democratico. A chiamare in causa i musicisti è stata l’ex ministra del governo Renzi con un tweet velenoso contro il reddito di cittadinanza che citava la hit Una vita in vacanza con cui la band si è classificata seconda al Festival di Sanremo. Un riferimento a cui i bolognesi avevano risposto dichiarando di preferire “la piena automazione o un reddito di cittadinanza vero, non l’ennesimo sussidio di disoccupazione. Venite a cena con noi invece che con i leghisti per parlare di cose realmente di sinistra”. Un invito che la Boschi non aveva disdegnato, almeno sul social: “La sinistra è lavoro, non sussidio. Però mi fa piacere parlarne a cena, fatemi sapere”. Adesso manca solo la data.

Silvio si cancella: ora sembra Fini

Forza Italia nel finale di partita è – per contrappasso – una specie di Futuro e Libertà.

Ebbene, sì: è come Fli, il partito che – parlandone da vivo – fu di Gianfranco Fini e che piaceva a tutti perché dispiaceva assai al Silvio Berlusconi di ieri.

Come nel passato, così nel presente.

Come Giorgio Napolitano, pur di sabotare il Berlusconi donizettiano, accompagnava ogni passo del post-fascista con gli occhiali – lo illudeva di portarselo a Palazzo Chigi – così Sergio Mattarella, al Quirinale, prende respiro nel ragionarsela col capo di Forza Italia piuttosto che vedersi intorno i barbari gialloverdi.

Come ieri Fini, teleguidato, parlava di “patriottismo repubblicano”, così oggi Berlusconi – irriconoscibile nel suo secondo predellino – sciorina in tema di “democrazie occidentali” cancellando il Silvio più sovversivo, quello che scatenava gli anatemi di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy.

Corsi, ricorsi e giravolte storiche, è il caso di dire.

Ma ogniqualvolta il sistema fronteggia l’anti-sistema è sempre all’interno di questo – individuando il soggetto più permeabile alle lusinghe – che va a trovarsi un volenteroso sicario della propria cerchia pronto a farsi cooptare nel palazzo altrui: Fini aveva da farsi candeggiare la camicia nera, e tant’è che Berlusconi – che pure è storia, non è certo una comparsa come il cognato di Tulliani – al prezzo della redenzione sta adesso rischiando di de-berlusconizzare se stesso.

Col tutto esaurito totalizzato a destra dal capo della Lega, Berlusconi, riabilitato e pronto a candidarsi alle Europee nella ritrovata rispettabilità, pur spalleggiato dai grandi giornali – con quel Corriere della Sera

che l’azzoppava nel 1994 per celebrarlo fino all’altrieri accreditandolo di qualità taumaturgiche – finisce con de-berlusconizzare se stesso trovando un ruolo solo come “indipendente di sinistra”: europeista, anziché sovranista; moderato piuttosto che gilet-giallato, dialogante col Pd delle ideologie e giammai – anzi, una vera diga – con il M5S post-ideologico il cui umore di popolo comunque, è tale e quale la maggioranza silenziosa, sempre che valga la sua prima squillante qualità: capire ciò che la gente chiede…

Se l’ingombrante Berlusconi era l’ossessione dell’arrembante Fini, così Matteo Salvini – dall’alto del suo 36 per cento nei sondaggi di appena ieri – è diventato l’incubo del Cavaliere di cui tutto si poteva immaginare fuorché ritrovarlo nel posto che fu del suo ingrato alleato al tempo del Pdl: “Non farà miracoli ma argina Salvini” mugugna compiaciuto perfino Massimo Cacciari, ed è la solita destra che può piacere solo alla sinistra la porzione di campo rimasta in dote ad Arcore.

A Matteo Salvini che dà del beone a Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, Berlusconi – con studiato sussiego – dovrà elargire le stesse smorfie di disapprovazione che Fini, a suo tempo, riservava a lui, quando dava del kapò al presidente socialdemocratico del Parlamento europeo, Martin Schulz.

E dunque sì, proprio come Fli, sarà Forza Italia in questa campagna elettorale.

Era un partito, quello nato dalle ceneri di Alleanza nazionale, riverito e applaudito – ricordate? – in ogni dove.

Era omaggiato, col suo leader – potete mai dimenticarlo? – da Nancy Pelosi e così anche dai coniugi Sarkozy, per non dire di Giuliano Amato, una sorta di precettore più che nel ruolo di un semplice ghostwriter per il Fini di Fli, battezzato statista e onusto di successi nelle più arcigne cancellerie internazionali.

Nella terra di Vico, tutto torna.

Già rodato – foderato in un improbabile tight – da un giro sulla carrozzella di Sua Maestà britannica, il Fini del Fli ostentava la benedizione di tutti in virtù di un’urgenza morale: dare alla destra italiana un destino rispettabile.

Un partito però senza uno zero virgola. Avendoli, quei numeri – i seggi, le percentuali, la famosa somma che fa il totale di Totò – il Berlusconi di ieri, e cioè il Salvini di oggi, e senza più l’immane mappazza inutile chiamata centrodestra.

La famosa somma che fa il totale, appunto: M5S e Lega.

Con Peppino che dice a Totò: “…e ho detto tutto!”.

“Carlo ci interessa: siamo simili, serve una nuova proposta”

“Ho letto il manifesto di Calenda e l’ho trovato condivisibile in molte sue parti”. Paolo Romani, senatore di Forza Italia, che già si era fatto notare prima della pausa natalizia come l’avamposto di un partito centrista con pezzi di Forza Italia e di Pd (soprattutto a trazione renziana), segue con interesse l’operazione dell’ex ministro dello Sviluppo. “Ho incontrato Calenda prima di Natale a casa di amici comuni, abbiamo parlato della sua operazione politica. Ci siamo confrontati sulla necessità di un’alternativa alla prevalenza dei due partiti di governo”. Però, sottolinea Romani, “il manifesto è tutto nell’ambito del dibattito precongressuale del Pd. Quindi ci esclude, perché sembra porsi come una componente del Pd. Anche se nel merito delle cose non ci sono grandi distanze”.

Onorevole, ma questa operazione non “chiama” una riflessione anche dentro Forza Italia?

Ritengo necessaria l’apertura del dibattito su questi temi anche all’interno del mio partito. Non sono d’accordo sull’inseguimento della Lega, a prescindere. E neanche sull’affermazione di Salvini che dice che il centrodestra è morto.

E quindi?

Serve una proposta politica diversa, un movimento liberale, popolare, riformista, che contenga al proprio interno proposte programmatiche che vadano nella direzione di investimenti alle infrastrutture e incentivi alle imprese, senza tralasciare e avere un pregiudizio nei confronti del reddito di inclusione e della revisione della Fornero.

Quali sono i punti di contatto tra questa sua idea e la proposta di Calenda?

L’invito a ricordarsi che questa Europa non ci piace, ma che ci dobbiamo fare i conti. Il punto di partenza di contenuti e argomenti di una piattaforma che difenda anche la strategicità di alcune aziende italiane, come Ilva, Alitalia e Fca. Per esempio, lo sbandieramento dell’ecotassa scoraggia anche le ambizioni di quest’ultima.

A che punto sono le sue interlocuzioni con Renzi?

Credo che lui abbia voglia di aspettare le Europee e la conclusione del dibattito congressuale, prima di prendere decisioni.

Parla con Berlusconi?

Qualche volta. Mi sono tirato un po’ fuori: il problema è la forma partito. A Forza Italia serve un innalzamento dei livelli democratici interni. C’è un malessere altamente diffuso nel nostro partito, a tutti i livelli, dagli amministratori locali ai parlamentari. Può coglierlo chiunque ci vive, al di là dei dati di Pagnoncelli.

Che cosa succederà con le Europee?

Se ci sarà una larghissima prevalenza della Lega, il centrodestra come lo conosciamo non esisterà più, andrà rinnovato. E io non mi rassegno all’idea che l’unico leader sia Salvini.

Vede convergenze a quel punto con il progetto di Calenda?

Non ho idea di cosa ci potrà essere sul terreno della politica tra un paio d’anni. E anche i leader si costruiscono nel tempo, come Renzi e Salvini dimostrano.

Cosa condivide dell’europeismo alla Calenda?

Prima di tutto la premessa, che mette l’accento sui 70 anni di pace. Questa Europa non rappresenta gli interessi degli italiani, ma l’Italia non ne può prescindere: è una potenza che rimane, nonostante tutti i problemi. E c’è un dato singolare: in Italia non si dibatte della riforma della nuova architettura dell’Europa. Juncker 5 anni fa presentò un progetto in questo senso. La Francia e la Germania ne hanno discusso, noi no. C’è tanto da fare.

Un listone per “nascondere” il Pd e aprire ai delusi di B.

L’operazione superamento del Pd è ufficialmente iniziata con la presentazione del manifesto di Carlo Calenda. D’altra parte, la “lista unica delle forze politiche e civiche europeiste” ha prima di tutto un obiettivo: nascondere il simbolo del Pd alle Europee. Zingaretti aveva già detto di essere pronto a non presentarlo. Martina non sarebbe d’accordo, ma ha firmato. “Il Pd non basta, dobbiamo parlare al mondo liberale, socialdemocratico, sui contenuti e non fare lista contro, ma una lista per cambiare l’Europa”. Dice chiaro e tondo il promotore. Mentre Beppe Sala, uno dei 101 firmatari: “È un inizio, ma anche una sfida al Pd, perché se adesso il partito risponde dicendo che ‘abbiamo le primarie’, io sarò il primo a dire, tenetevele che ci avete messo un anno a farle”.

L’operazione presenta alcuni punti fermi, ma anche una serie di criticità e di incognite. Tanto per cominciare, c’è un grande tessitore, Paolo Gentiloni, che punta a portare il “listone” in stile Ulivo alle elezioni per Strasburgo. E poi, c’è stata un’accelerazione dovuta ai primi dati che arrivano dai congressi di circolo, con Nicola Zingaretti avanti oltre le aspettative (dichiarate). Ieri il governatore del Lazio ha ricevuto un’altra serie di numeri. A livello regionale, su 25.927 votanti, il 49,1% sceglie lui, il 34,7% Martina, il 13% Giachetti. Un andamento molto al di sopra delle aspettative dei zingarettiani. E così Calenda ha giocato d’anticipo. Un modo anche per posizionarsi e poter lavorare sulle liste prima del 3 marzo, il giorno delle primarie. A firmare sono stati in molti, da Sergio Chiamparino a Stefano Bonaccini, da Walter Ricciardi e Armando Santoro agli ex dirigenti dell’Istituto superiore di sanità rimossi dalla Grillo, a Mario Giro, in rappresentanza dei cattolici di Demos. Per arrivare a Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana (Mdp), passando per uno dei primi animatori della Leopolda, come Edoardo Nesi.

Mancano all’appello Emma Bonino, che considera Calenda “più antipatico” di Renzi. E Federico Pizzarotti, ex Cinque Stelle, ora Italia in comune, che recalcitra, visto che non è chiaro se ci sarà un’apertura al mondo dei Cinque Stelle. Zingaretti guarda agli ex Pd fuoriusciti dalla “Ditta” e non disdegna un dialogo con il mondo del Movimento, mentre Calenda pensa al centro. E non solo. Con Scelta Civica voleva recuperare liberali, forzisti, moderati. Per ora, l’interlocuzione è sotto traccia (Calenda chiarisce di non aver cercato tra loro firmatari del manifesto). Ma in futuro si vedrà. L’ex ministro dovrebbe essere capolista, ma tra i candidati si parla di personaggi come lo stesso Sala e Giorgio Gori. Da notare la voce critica di Enrico Letta che parla addirittura di “mossa che fa un favore ai populisti”.

In calce al manifesto, gli ex renziani di Lotti (con Martina) e di Giachetti, altro candidato alla segreteria, spiccano per la loro assenza. Non sono neanche stati cercati, raccontano i promotori. Quelli che invece hanno firmato sono molti dei sindaci che avevano sostenuto la candidatura di Marco Minniti, da Matteo Ricci a Andrea Gnassi, da Dario Nardella a Giuseppe Falcomatà. Capeggiati dallo stesso Ricci, ex fedelissimo di Renzi (nell’ultima segreteria era il responsabile Enti locali), che ieri ha annunciato il suo sostegno per il congresso a Zingaretti. Al Fatto spiega: “Renzi è stato un grande presidente del Consiglio e sono stato onorato di poterlo aiutare. I suoi errori sono i miei errori. Dopodiché pare non scommettere sul Pd. Io invece credo che possiamo ripartire”.

Non stupisce che renziani e lottiani (quelli che sostengono Martina) siano i più critici. Per tutti, parla Antonello Giacomelli, in un post su Facebook: “Se fosse la lista di tutte le forze europeiste, personalmente sarei in difficoltà ad aderire. Partiti conservatori e partiti progressisti sono ugualmente europeisti ma con punti di vista molto diversi. Il testo del manifesto sarebbe il programma comune di chi si richiama ai liberali come alla sinistra di Tsipras, ai popolari e conservatori come a democratici e socialisti?”.

Renzi, dal canto suo, ha capito di non avere né i voti, né i soldi, per fare un partito prima delle Europee. E ha iniziato a lavorare per il congresso. Lui e Maria Elena Boschi si stanno impegnando per Roberto Giachetti. Scommettendo sul fatto che alle primarie potrebbe arrivare ben al 20% e magari Zingaretti fermarsi al 40%: a quel punto in Assemblea potrebbe convergere su Martina e rovesciare un risultato annunciato. A quel punto, in area renziana, si favoleggia di un possibile accordo con Calenda per le caratteristiche del listone. Le intenzioni dell’ex segretario si capiranno con l’uscita del suo libro per Marsilio, prevista per il 15 febbraio, con tour annesso. Pronte due campagne elettorali parallele, quella congressuale e quella per le Europee. Un’altra data da cerchiare sul calendario è il 21 marzo: prevista una grande mobilitazione nel nome di Prodi. L’asticella per il successo elettorale è superare il 20%. Ma dopo, tutto è possibile, scissione compresa.

Maria Antonietta Boschi

Casomai qualcuno credesse ancora alla favoletta del Pd “di sinistra”, ha provveduto Maria Elena Boschi a sfatarla con la memorabile battutona sullo Stato sociale (che per lei non è il Welfare, ma la band arrivata seconda all’ultimo Sanremo) e sulla “vita in vacanza” (intesa come la pacchia sardanapalesca del reddito di cittadinanza per i 5 milioni di poveri creati anche dal suo partito). Per una volta la freddura, peraltro copiata ad Aldo Cazzullo, è riuscita a fare più danni al Pd del suo rottamatore ufficiale, che tuona contro il reddito da un tipico mezzo di locomozione proletario: un motoscafo di Venezia. Nel silenzio assoluto dei vari Zingaretti e Martina. Se non sapessimo che Maria Etruria e Matteo stanno scientificamente picconando quel che resta del loro partito per farne un altro ancora peggiore, ci domanderemmo quanto li pagano i 5Stelle e la Lega per mettere in fuga gli elettori superstiti. Mai, a memoria d’uomo, il Pd si era accanito contro una legge come ora contro il sussidio per i meno abbienti, fino al punto di annunciare un referendum abrogativo in combutta con FI (che nel programma elettorale prometteva non solo il reddito di cittadinanza, ma financo l’“azzeramento della povertà assoluta”, manco l’avesse scritto Di Maio) e con Fd’I (già “destra sociale”).

Se il centrosinistra avesse speso un decimo delle energie e dello sdegno che ora impiega contro il reddito per combattere una a caso delle 41 leggi vergogna di B., il berlusconismo sarebbe durato molto meno. Dal 2011 al 2018 i nostri “progressisti” hanno regalato senza fare un plissé 60 miliardi alle banche rovinate dai loro amici magnager; hanno votato sette manovre con 40-50 miliardi a botta di sgravi fiscali alle imprese; hanno buttato ogni anno 4 miliardi abolendo l’Imu sulle prime case (anche dei ricchi), 12 miliardi per gli incentivi del Jobs Act alle imprese e altri 10 miliardi per gli 80 euro a chi uno stipendio ce l’ha. Poi, in vista delle elezioni, si sono ricordati dei poveri: solo che l’Istat ne conta 5 milioni, mentre lorsignori li hanno ridotti a uno solo col Reddito di inclusione (in media 297 euro mensili a testa). Un primo passo contro la miseria, peraltro dimenticato in campagna elettorale per non darla vinta al M5S: così nessuno se n’è accorto. Ora che la platea si allarga a 4,9 milioni di poveri, con un assegno medio di 500 euro a famiglia (fino a 780 euro al mese a persona), il Pd si batte come un leone perché l’Italia torni a essere l’unico paese Ue senza un reddito minimo, mentre globalizzazione, delocalizzazione, automazione e nuova recessione sterminano centinaia di milioni di posti di lavoro.

Nemmeno la lezione di Macron, partito col taglio delle tasse ai ricchi, cioè molto più a destra di Salvini (che la Flat tax l’ha lasciata perdere), e convertito di corsa al “reddito universale” per rompere l’assedio dei Gilet gialli, fa riflettere il partito più cieco, sordo e ottuso dell’Occidente. Il reddito di cittadinanza, se le stime saranno confermate, costerà nel primo anno 6 miliardi (più 1 per i centri per l’impiego e i navigator). Sommandolo alla quota 100 per le pensioni, non si arriva neppure a 10. Meno della metà delle due bandiere del renzismo: il Jobs Act e gli 80 euro. Eppure chi non fece una piega quando Renzi buttò dalla finestra 22 miliardi l’anno a pioggia per due misure che non smossero i consumi né crearono posti di lavoro in più rispetto ai già pochi che nascevano prima, ora si scandalizza per 10 miliardi destinati alle fasce più deboli della popolazione: pensionati minimi, costretti a campare con 100 o 200 euro al mese, giovani senza lavoro e anziani lavoratori costretti dalla Fornero a rinviare la meritata pensione. Quasi che Conte, Di Maio e Salvini scialassero i nostri soldi in champagne, casinò e donnine allegre. Che Confindustria, abituata a mettersi in tasca la magna pars delle manovre, sia sul piede di guerra non stupisce. Che B., dimentico di aver copiato al M5S il reddito di cittadinanza in campagna elettorale, scateni i rottweiler, è normale: già è un miracolo se, ridotto com’è, si ricorda come si chiama. Che la stampa di destra titoli ogni giorno sul “regalo a fannulloni e a fancazzisti”, offendendo milioni di poveri che attendono da 25 anni i milioni di posti di lavoro promessi da tutti i governi della Seconda Repubblica, è ovvio: fanno il loro sporco mestiere.

Ma è incredibile che, salvo rare eccezioni, da sinistra e dal mondo cattolico non si levi una voce a sostegno di una misura che per la prima volta affronta concretamente l’urgenza della povertà. Si era detto che il reddito costava 50 o 60 miliardi l’anno, dunque non sarebbe mai stato approvato: ora è legge dello Stato, anche se non si sa se si farà in tempo a erogarlo alla prevista scadenza di aprile. Si era detto che avrebbe favorito chi vuole poltrire sul divano o arrotondare lo stipendio al nero. Allora il governo ha inserito paletti, controlli e sanzioni per scoraggiare i furbi (che comunque, nel Paese dell’evasione e del lavoro nero, ci saranno sempre, ma non possono penalizzare gli onesti: altrimenti, per evitare che ne approfitti chi non ne ha diritto, bisognerebbe abolire anche la cassa integrazione, il sussidio di disoccupazione, le agevolazioni sanitarie, scolastiche e universitarie ai meno abbienti, gli 80 euro, il Rei e gli altri strumenti del Welfare). E ora tutti a criticare i paletti, i controlli e le sanzioni. E a ripetere a macchinetta che ci vuol altro per creare lavoro, come se il lavoro si creasse per decreto e come se il reddito non fosse pensato proprio per chi non ce l’ha, lo cerca ma non è detto che lo trovi. Non va mai bene nulla, e neppure il suo contrario. Presto Maria Antonietta Boschi si affaccerà al balcone di Banca Etruria e annuncerà il nuovo slogan vincente del Pd: “Non hanno pane? Mangino brioche”.

Katharina Frostenson lascia l’Accademia (in cambio di una “pensione” a vita)

Accordo all’accademia svedese: Katharina Frostenson – moglie del fotografo delle feste accusato di molestie – sotto inchiesta per violazione del segreto d’ufficio, si è dimessa. In cambio della sua “volontaria scelta”, come ha sottolineato l’Accademia nel comunicato, l’Istituzione che sceglie il Premio Nobel per la Letteratura le darà 1.200 euro al mese e continuerà a pagarle l’appartamento in centro che le era stato assegnato. “Una sorta di pensione”, ha commentato il segretario permanente Anders Olsson sentito dai media svedesi, “perché come membro dell’Istituzione ha lavorato per questa 25 anni ed è giusto che venga ricompensata”. La questione ha però innescato non poche critiche in Svezia: in primo luogo perché finora e come da Statuto, il lavoro dei membri risultava essere “a titolo gratuito”. Da qui, delle due l’una: o la rendita alla Frostenson è solo una trovata per chiudere lo scandalo che nel 2018 ha impedito di premiare il Nobel; oppure è vero che i membri ricevono qualche tipo di retribuzione in cambio delle loro prestazioni. Finora il problema non si era mai posto, visto che la partecipazione sugli scranni dell’Accademia era a vita, quindi per forza di cose nessuno, una volta morto, poteva percepire la pensione.

Raimondo: “Scaricato per la mia satira”. La Rai: “Il caso non esiste”

“Oh, magari è una coincidenza, ma dalla conferenza stampa in poi, diciamo che i miei interlocutori hanno detto che preferiscono non fare quello che si era pensato di fare”: per “conferenza stampa” Saverio Raimondo intende quella di Sanremo.

Lo stand-up comedian commenta telefonicamente quello che ha poco prima descritto su Facebook come uno stop improvviso a una sua collaborazione inserita nell’ambito del Festival di Sanremo. La Rai smentisce tutto, spiegando che non esiste un “caso Raimondo né alcun tipo di accordo contrattuale o trattativa economica che lega il comico al Festival: il fatto che non faccia parte della squadra non ha niente a che vedere con il contenuto delle sue eventuali esibizioni”.

Tutto è nato perché ieri il comico ha scritto un post a commento di un articolo di TvBlog, che si interrogava su una sua presenza al Festival, vista una camera riservata a suo nome. “Rispetto ai retroscena, posso dirvi che in effetti esiste da settimane una camera a Sanremo prenotata da Rai a mio nome per i giorni del Festival. Ma quella camera nelle prossime ore verrà evidentemente assegnata a qualcun altro, perché la mia presenza a Sanremo, prevista e voluta da Rai1 già da mesi e condivisa a più livelli, negli ultimi giorni è stata messa in discussione fino alla cancellazione delle ultime ore”. Ribadisce al telefono: “Non grido né allo scandalo, né alla censura. Più semplicemente, come il mio illustre omonimo, grido alla noia. Che barba, che noia”, dice Raimondo, che però ritiene difficile non collegare la battuta d’arresto del progetto – che avrebbe riguardato la creazione di “contenuti digital” nel suo stile e “una finestra nel DopoFestival” – al polverone che si è alzato sulla kermesse dopo che il “capitano” Baglioni ha risposto alle domande sulle politiche migratorie dell’attuale governo.

Qualche contenuto, dal fatto che avrebbe indossato un gilet giallo al fatto che dal porto di San Remo avrebbe fatto ironia sugli approdi degli artisti stranieri, il comico dice di averlo anticipato, mentre conferma di non aver ancora firmato niente: “Questo può succedere, visti i tempi, e non credo neanche che sia dipeso dai miei interlocutori. D’altronde con l’azienda ho anche altri tipi di collaborazioni. Mi sembra solo sia cambiato il clima. Hai presente quando entra la maestra e tutti smettono di ridere? Ecco, ho l’impressione che sia entrata la maestra”.

Nel 2015, Saverio Raimondo condusse con Sabrina Nobile il Dopo Festival in streaming senza risparmiarsi termini come “squirting” e “sesso anale”. Le puntate andarono in blackout sul sito per un po’, ma l’allora direttore di Rai1, Giancarlo Leone, spiegò: “Non sappiamo cosa sia successo, ma la cosa importante è che si sia sbloccato. Quando sono venuto a conoscenza del problema, le puntate erano già tornate online”.

“Philip odiava la notorietà, il suo aplomb lo proteggeva”

Benjamin Taylor è un uomo dalla voce pacata, quasi di seta. Uno sguardo pulito illumina un viso proporzionato e borghese. È pettinato con cura, elegante senza ruffianerie, 66 anni ottimamente portati. Non è difficile immaginarlo come il ragazzino de Il clamore a casa nostra.

A quel ragazzino succede qualcosa il 22 novembre 1963…

Avevo 11 anni ed ero davanti all’Hotel Texas di Fort Worth con mia madre, a sentire il presidente Kennedy, che terminò il suo breve discorso e, forse per guardar meglio lei, da donnaiolo qual era, si avvicinò e mi strinse la mano. A scuola lo raccontai a tutti. Qualche ora dopo il presidente fu assassinato a Dallas.

Parte da quest’episodio per poi raccontare tutto quell’anno: la crisi di Cuba, il Vietnam, il KKK. È un testo che, pur avendo le caratteristiche del memoir, apre anche uno spaccato sull’America degli anni 60.

Volevo creare un punto di incontro fra me, la mia famiglia e la nazione. Ho ottenuto questa visione globale diventando più vecchio. Da giovane non mi interessava l’autofiction, ero più attratto dalle invenzioni narrative, ma ora sono ritornato a quell’anno come una sineddoche della mia vita e anche del mio paese, una parte per il tutto.

Oltre alla consapevolezza dell’età, potrebbe averla influenzata anche il suo lavoro su Proust, del quale ha scritto un’apprezzata biografia.

Proust è stato la mia porta verso l’autobiografia, ma mentre lui era uno scrittore da libri lunghi, io sono uno scrittore della brevità, non voglio annoiare nessuno. E per l’autobiografia non si tratta di accumulare esperienze, ma di coglierne il significato. Prima di morire hai la possibilità di riconnettere l’accaduto al significato. Mentre vivi le esperienze, non c’è possibilità di comprensione.

Ne Il clamore a casa nostra troviamo alcune delle sue letture formative, pur non essendo un vero e proprio romanzo di formazione: ci sono dentro Baldwin, Twain, Harper Lee, Salinger, Golding.

Sono le letture che mi hanno formato, ma è vero che in un anno non si può parlare di sviluppo del personaggio. Non è un Bildungsroman, ma la descrizione della tempesta prima che esploda in un bimbo ebreo, futuro omosessuale, con la sindrome di Asperger. James Baldwin scrisse: “Per me essere nero, povero e omosessuale è stato vincere al Jackpot”.

Meglio vivere di gloria riflessa, scrive. Nel libro c’è l’ammirazione per il fratello, per il suo migliore amico dell’epoca Robby. E non è un segreto il rapporto profondo che la legava a Philip Roth. Ricorda un po’ il personaggio di Thomas Bernhard, Il soccombente.

Sono predisposto all’ammirazione. Sono diventato uno scrittore per questo. Questo libro è dedicato allo scrittore che più ho ammirato: Philip.

Che le ha dedicato Il fantasma esce di scena.

Ho cominciato a scrivere un libro su di noi prima che morisse, è stata una sua idea. Philip diceva spesso che la strada verso l’inferno è piena di lavori non terminati, per questo non vorrei dire di più. Si sa che ci legava un profondo affetto. Oltre che un rapporto professionale.

In che senso?

Philip ha editato Il clamore a casa nostra, per esempio. Per quanto riguarda i suoi, mandava a circa una decina di amici il manoscritto, poi ci incontravano di pomeriggio, lui accendeva il registratore, noi parlavamo, e poi si rinchiudeva per fare l’ultima stesura.

Che tipo era Roth?

Come tutti i miti ha creato una protezione, discostando la realtà privata dall’immagine pubblica. Di Hemingway si ricordano la forza e il coraggio, e invece era pieno di fobie e paure. Philip a casa era un altro rispetto alla sua immagine pubblica. Quando ti urlano o ti inseguono per strada, arrivi a odiare la fama. Lui sviluppò quell’aplomb che tutti conoscono. Avevamo un sacco di cose in comune: la passione per la musica, le risate, lo sguardo con cui guardavamo la gloria della letteratura americana. Montaigne diceva delle grandi amicizie: “È perché è lui, è perché sono io”, è semplice. Io e Philip ci siamo innamorati al primo sguardo, c’era un magnetismo personale. Reagivamo allo stesso modo alla politica. Ero con lui la notte della vittoria di Trump, ma questo lo troverete nel prossimo libro. E a proposito credeva in un ritorno dei democratici. Se dovessi proprio fare una previsione, anch’io lo direi.

Ha ridato i famosi 800 dollari alla domestica?

Non erano mica 800, Philip mi chiese di pagarle l’ultima settimana. Estela Solano, oltre ad aver ricevuto il compenso, ormai è diventata una star.