Politica, cuori, abusi e nonni: la ricetta di Sanremo

Mancano tre settimane circa al sipario sull’Ariston, e Claudio Baglioni – più capitano che direttore artistico, in un secondo anno che manterrà le promesse fatte nel 2018 – conduce il primo ascolto delle 24 canzoni in gara per la platea dei giornalisti. Brani in cui “c’è molto Pathos, Portos, Aramis”, ma è davvero l’unico scivolone dell’ex dittatore artistico che sembra più a suo agio. Ecco cosa ascolteremo dal 5 febbraio.

L’ultima volta che Nek è andato a Sanremo, è arrivato secondo (Fatti avanti amore): quest’anno con un brano tipicamente “neviano”, si domanda come fare per essere all’altezza dell’amore, giura che si farà trovare pronto (forse una minaccia). E ovviamente, si sa, “non c’è trama né copione per essere all’altezza dell’amore”.

In quota “omaggio alla canzone partenopea” ci sono Nino D’Angelo e Livio Cori, un duetto in talk (bilingue) che è un dialogo tra due generazioni in cui si toccano anche vette poetiche (“Io ti vedo così, mentre passa una vita e io non me ne accorgo perché mi ha distratto l’idea di non essere adatto”). Beato l’Ultimo, perché potrebbe essere davvero il primo. Porta “I tuoi particolari”, classicone sanremese in cui lei se n’è andata, lui ha tanta nostalgia: “Fa male adesso dirtelo adesso, ma non so più cosa sento”. Si sa, nei dettagli c’è Dio, che qui viene chiamato in causa come linguista (“Se solamente Dio inventasse nuove parole, potrei scrivere per te delle canzone d’amore”. Eh no?). Il brano di The Zen Circus è denso e interessante, coraggiosamente senza ritornello, accenna a “porte aperte e porti chiusi”, citando Kant. “Hai la democrazia nel cuore, ma l’amore è una dittatura fatta di imperativi categorici”. Arisa Si sente bene – letterale, come da titolo – parte lenta, poi sale. “Cartoonesca”, spopolerà in radio e la sua bella voce potrebbe garantirle il podio. Struggente Simone Cristicchi (papabile premio della critica), che si conferma un grande interprete, con un testo teatrale: “Abbi cura di me, abbi cura di me, il tempo ti cambia fuori, l’amore ti cambia dentro, basta mettersi al fianco invece di stare al centro”. Francesco Renga non sorprende, fa se stesso in un brano sull’amore scritto da Bungaro: “Il mondo si è perso, tu invece rimani”. Daniele Silvestri (con Rancore, che dev’essere il rapper del Censis) presenta una canzone che farà molto discutere: parla un sedicenne con un disturbo dell’attenzione, molto incazzato, che considera la scuola un carcere, la casa il posto dei domiciliari. Torna Loredana Bertè con un pezzo naturalmente rock, Cosa ti aspetti da me un po’ alla Vasco, che viene citato in una strofa (“va bene, va bene così”). I Negrita parlano apertamente di politica (“Di fantasmi sulle barche e di barche senza un porto come vuole un comandante a cui conviene il gioco sporco”) in una canzone I ragazzi stanno bene, in cui i maliziosi rivedranno Salvini. Patty Pravo e Briga duettano in Un po’ come la vita: “Tu vuoi volare? Hai tempo per pensare, ma intanto dimmi almeno dove il cielo va a finire”, brano valorizzato per lo più dalla voce della grande Patty. Brava Paola Turci, in un brano con piano e archi, perfetto per Sanremo, L’ultimo ostacolo. Anna Tantangelo sembra voler parlare del suo amore con Gigi D’Alessio, storiella di amori di lungo corso. Non imperdibile. Menzione per Irama che porta una terribile storia di abusi sessuali da parte di un padre violento: coraggioso. Bello il brano per il nonno di Enrico Nigiotti, per nulla banale e struggente: “Mi tengo stretto addosso i tuoi consigli perché lo sai che qua non è mai facile”. I tre tenorini del Volo presentano la romanza Musica che resta (purtroppo). Sono candidati al podio: non per nulla Baglioni ha detto che nessuna selezione è infallibile. A questo proposito: Mahmood parla di Soldi, ma forse è una canzone sull’integrazione.

Di nuovo tanto amore nel rap di Federica Carta e Shade in Senza farlo apposta; poi c’è quello infelice di Einar in Parole nuove, quello reggae dei Boomdabash in Per un milione; porno quello di Ex-Otago (“Non è semplice scoprire nuove tenebre tra le tue cosce dietro le orecchie”), ci si rotola tra le lenzuola anche nel testo di Ghemon Rose viola (che non c’entrano nulla con quelle rosse di Ranieri). Motta ha perso la bussola (Dov’è l’Italia) in un testo sulle migrazioni. Cinque autori per Rolls Royce di Achille Lauro, tra testo e musica: hanno scritto una parola a testa. “Dio ti prego salvaci da questi giorni”, dice il testo. E anche da certi pezzi. Però Baglioni si è sforzato di cucinare una cena sorprendente e piena di sapori: ci divertiremo.

Brexit in stallo: May rischia elezioni anticipate

L’exit strategy dallo stallo sulla Brexit saranno le elezioni politiche? Bomba lanciata da uno scoop del Daily Mail: Mark Sedwill, il funzionario a capo della Pubblica amministrazione, avrebbe presenziato a una riunione di alto livello per avviare i preparativi. Accanto alle indiscrezioni, i ragionamenti politici. Le consultazioni con tutti i partiti, avviate da Theresa May dopo la bocciatura dell’accordo di recesso da lei raggiunto con l’Ue, non sembrano portare a significativi passi in avanti. Si scontrano con la sua intransigenza, in particolare, sulla possibilità di sterzare verso una unione doganale permanente, come richiesto dal Labour.

È un esito non sgradito agli unionisti del Dup, visto che eliminerebbe l’odiata backstop al confine fra le due Irlande. E molto gradito all’Ue, che ha dato chiari segnali di disponibilità.

Si scontra però con le linee rosse dei Breexiters: renderebbe impossibile perseguire la politica commerciale indipendente che, insieme al controllo dell’immigrazione, è stata una dei motori del ‘Sì’ al referendum del 2016. L’alternativa a una Brexit morbida è un ‘no deal’, che la maggioranza del Parlamento è decisa a non permettere. Per scongiurarlo bisogna estendere l’art. 50: estensione che l’Ue concederebbe solo se finalizzata a un esito preciso, per esempio elezioni o un secondo referendum. Per organizzare quest’ultimo ci vorrebbero però almeno 6 mesi, mentre le elezioni potrebbero tenersi molto prima. Nuove elezioni presuppongono però la caduta del governo o le dimissioni della May.

Escluso che gli unionisti irlandesi abbiano interesse a far cadere il governo, per riuscirci è necessario che un sufficiente numero di conservatori sfiducino il proprio leader: potrebbe accadere quando sarà chiaro che l’alternativa è un disastroso ‘no deal’.

Salamè, corsa a ostacoli verso la pace

C’era (stata) una volta la conferenza di Palermo sulla Libia: due mesi or sono o poco più, il 12 e 13 novembre. Qualcuno aveva alimentato la (falsa) speranza che una quadra fosse stata trovata. I fatti degli ultimi giorni e il rapporto presentato ieri al Consiglio di Sicurezza dall’inviato dell’Onu Ghassan Salamé confermano l’ovvio, cioè che non è così: in Libia, si continua a sparare; a Tripoli, il premier riconosciuto dalla comunità internazionale al-Sarraj è contestato dai suoi vice, che lo accusano di “portare il Paese al collasso” – come se non lo fosse già -; in Cirenaica, il generale Haftar la fa da padrone con avalli internazionali di Egitto, Russia, Francia.

Salamé prospetta all’Onu una sorta di percorso elaborato da 15 esponenti di tutte le fazioni libiche: prima le elezioni parlamentari “per unificare la Libia”; poi l’elaborazione della Costituzione, che dovrebbe definire termini e mandato del presidente, senza la quale elezioni presidenziali sarebbero “pericolose e divisive”. Il testo offrirebbe una base di lavoro alla conferenza nazionale che Salamé vorrebbe convocare entro febbraio e il cui esito dovrebbe essere avallato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Fonti libiche hanno spiegato all’AdnKronos che il documento è stato recepito da Salamé, che, prima di Natale, dopo una riunione di tre giorni in Tunisia con 65 esponenti di tutte le componenti libiche, aveva suggerito di creare un gruppo ristretto di 15 persone. Dopo due riunioni è stato messo a punto un testo di sei pagine intitolato “National conference concept paper”. In esso, si legge tra l’altro che “la legittimità delle istituzioni libiche attuali è esaurita”, il che rende la situazione sempre più tesa, come dimostrano gli scontri degli ultimi giorni a sud di Tripoli, che hanno fatto almeno nove vittime e decine di feriti. Il documento evoca, quindi, la volontà dei libici d’affidarsi alla comunità internazionale e all’Onu per trovare a una soluzione che metta fine al caos di questi ultimi otto anni del ‘dopo Gheddafi’. Nel rapporto al Consiglio di Sicurezza, Salamé è ieri parso dare credito a questa visione ottimistica: é “l’ora per la Libia di riunirsi con spirito di compromesso e superare le difficoltà del passato”, dopo che “la situazione di stallo è stata sostenuta da interessi gretti, un quadro giuridico distrutto e la razzia della grande ricchezza del Paese”.

Il diplomatico libanese ha concluso: “Invito i membri delle varie istituzioni libiche a vedere la Conferenza nazionale come un interesse patriottico che trascende faziosità e personalismi”. Di fatto, a Tripoli si vive di nuovo nella paura di un conflitto: dopo mesi di calma grazie all’accordo di cessate il fuoco di settembre, la capitale è stata due giorni fa teatro di nuovi scontri letali. Ancora più grave la situazione nel sud, a Sabha, divenuta terreno di battaglia fra al-Serraj e Haftar e dove ieri s’è avuta notizia dell’uccisione di un presunto leader di al Qaida. Il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte ha ribadito l’impegno a stabilizzare la Libia in funzione anti-terrorismo (e pure contro la ripresa delle partenze dei migranti, al momento quasi ferme). Ma l’azione dell’Italia continua a essere osteggiata, quando non ostacolata, dalla Francia, mentre la Germania starebbe più con Roma che con Parigi: così, almeno, avrebbe detto la cancelliera Merkel al presidente Mattarella.

Macron e la “svendita” di Alstom agli americani

Il 9 febbraio 2014, Patrick Kron e Jeff Immelt, i due patron della francese Alstom e dell’americana General Electric, si incontravano per cena a Parigi, aprendo mesi di trattative che portarono a una delle cessioni più traumatiche per la Francia: la vendita del comparto Energia di Alstom al gigante Usa. L’azienda di Belfort, creata nel 1879, è uno dei fiori all’occhiello dell’industria francese. Suoi sono TGV e metro che circolano in tutto il mondo. Cinque anni dopo, i giudici si interrogano sul ruolo che Emmanuel Macron giocò all’epoca sulla trattativa, mentre era ministro dell’Economia di François Hollande.

A ricorrere alla procura di Parigi è stato un deputato dei Républicains, Olivier Marleix. In una lettera, di cui Le Monde ha rivelato i contenuti, Marleix ipotizza che, favorendo la vendita Alstom, l’attuale presidente abbia tratto dei vantaggi personali per la sua folgorante ascesa all’Eliseo e si appella all’articolo 40 del codice di procedura penale per cui “ogni funzionario al corrente di un crimine o di un delitto è tenuto a informarne il procuratore della Repubblica”.

Accuse per il presidente che arrivano nel pieno della crisi dei gilet gialli e con un nuovo capitolo appena aperto dello scandalo Benalla, sull’uso illecito dei passaporti diplomatici da parte dell’ex consigliere dell’Eliseo. Olivier Marleix non parla a vanvera: tra il 2017 e il 2018 è stato presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sulle decisioni di politica industriale e si è interessato all’affaire, che conosce a menadito. La cessione di Alstom Energia (che rappresentava il 70% del fatturato dell’azienda al colosso americano per 12,3 miliardi di dollari, è stata conclusa il 5 novembre 2014. A “autorizzarla formalmente”, scrive il deputato alla Procura, era stato il nuovo e giovane ministro dell’Economia, nominato da poco più di due mesi dopo essere stato vice segretario generale dell’Eliseo, e prima ancora passato per la banca d’affari Rothschild. Era stato del resto sempre Macron a “autorizzare”, fa notare sempre Marleix, anche le cessioni di attivi di altre “aziende francesi strategiche”, come Alcatel-Lucent alla finlandese Nokia. Il giornale Mediapart ricordava ieri che, nel 2015, Macron era stato sentito da una prima commissione parlamentare, già incaricata di indagare sulla vendita di Alstom Energia, e aveva dichiarato: “Il governo si è trovato di fronte al fatto compiuto”. Marleix non è dello stesso avviso e sospetta anzi che si sia piuttosto installato un “sistema” che “se fosse verificato – scrive – potrebbe essere interpretato con un patto di corruzione”. Marleix si interroga infatti sui “doni record”, circa 15 milioni di euro, che il giovane candidato alla testa di un movimento appena nato, En marche!, aveva ricevuto per finanziare la sua campagna verso l’Eliseo e scrive: “Il fatto che nella lista dei donatori o degli organizzatori delle cene per la raccolta dei fondi figurino persone che potevano essere interessate a quelle vendite precipitose non può che sollevare interrogazioni”.

Si chiede anche come mai non sia “mai stata aperta un’inchiesta” giudiziaria sulla vendita e come mai la giustizia francese sia stata particolarmente clemente con Alstom che aveva riconosciuto il suo coinvolgimento in fatti di corruzione in diversi paesi esteri tra il 2000 e il 2011. Nel 2014 era stata la giustizia americana a condannare il gruppo francese a una multa record di 772 milioni di dollari.

Un dirigente dell’azienda, Frédéric Pierucci, ha a sua volta scontato tre anni di reclusione negli Usa accusato di corruzione in Indonesia. Il dietro le quinte delle trattive Alstom-GE Pierucci le ha raccontate in un libro, Le piège américain, uscito in Francia appena alcuni giorni fa.

Non ne Podemos più Lite Errejon-Iglesias: c’eravamo tanto amati

Come nel martirio di San Paolo, la testa dell’omonimo spagnolo politico contemporaneo Pablo Iglesias, ora decapitata da quella bifronte di Inigo Errejon, co-fondatore con lui del partito Podemos, ha rimbalzato per tre volte. E da ogni rimbalzo sono nate non tre fontane, ma tre tappe diverse della storia della formazione politica speranza della sinistra. L’ultima, però, pare la definitiva. A quattro mesi dalle elezioni amministrative e dai festeggiamenti per il quinto anniversario dalla nascita, Íñigo Errejón, il più “politico” della coppia che nel 2014 creò dal nulla (o quasi) una forza in grado di scalfire il bipolarismo spagnolo alle Europee prendendo l’8% dei voti, ha deciso di correre per la Comunità di Madrid insieme all’attuale sindaca Manuela Carmena, con cui pure Podemos aveva stretto un patto alle scorse votazioni. Peccato però che lo faccia “a carattere personale” e voltando le spalle al partito, che con il compagno Iglesias pensa a opporgli un’altra candidatura.

Finisce così anche la conduzione a due di Podemos, che altrettante volte aveva vacillato. Ultima: la scissione ricompattata al congresso di due anni fa, chiamato Vistalegre 2, in nome del primo Vistalegre, in cui davanti a centinaia di delegati, i due avevano ritrovato un’intesa emotiva, corredata da tanto di foto di abbraccio; e numerica, con l’89% dei voti a favore della linea radicale e più di sinistra di Iglesias. Che però non ha tenuto.

“Oggi tutti sanno che c’è bisogno di uno stravolgimento”, è tornato infatti a spiegare “el niño” Errejon nella lettera co-firmata con Carmena, nella quale si sottolinea che la “maggioranza ha bisogno di un progetto che rinnovi la speranza e la fiducia nelle cose che si possono fare, anche meglio”. Dunque, un’amara ammissione: Podemos, che portava in sé la speranza di trasformare la piazza degli “Indignados” in un progetto politico, così come si era presentato al Teatro del Barrio, nel quartiere multietnico di Lavapiès a Madrid nel 2014 ha fallito, perché già ha esaurito proprio quella speranza. “Un compleanno amaro”, risponde Iglesias con un’altra lettera in cui si dice “incredulo” non solo per la notizia in sé, arrivata fulminea dal suo compagno di battaglie, ma per averla letta solo pochi istanti dopo su tutti i media spagnoli. Una di “quelle manovre politiche”, vergognose agli occhi del segretario generale che alle strategie politiche si è sempre detto ostile. “Fossi in lui mi dimetterei da deputato, ma di qualcosa deve pur vivere”, attacca Errejon l’altro Pablo, Echenique, organizzatore generale di Podemos che sarcasticamente sottolinea quanto “anche questa sarà una decisione personale”.

Personale contro collettivo. Collettività contro egoismi. Quello di Errejon di protagonismo, secondo molti, è solo cresciuto nel tempo, ma è sempre stato l’ago di bilancia di Podemos. Fin da quando – nominato numero due – il niño decise di dare la segreteria dell’Organizzazione a Sergio Pascual, suo fedelissimo, poi segato da Iglesias per una sospetta cospirazione contro di lui. E da qui a cascata l’intera deflagrazione della Direzione del Partito, i cosiddetti “Cinque di Vistalegre”.

Ad andarsene per prima era stata Carolina Bescansa, la quale non allineata con il leader all’ultimo congresso, seppure non sosteneva neanche la mozione Errejon, nell’ottica del “chi non è con me è contro di me” del segretario, fu bollata come traditrice. Sospetto poi confermato quando l’anno passato per sbaglio diffuse su Telegram una bozza di piano per detronizzare Iglesias. L’altro auto-epurato è stato Luis Alegre, il primo leader di Podemos nella Capitale spagnola che da “pablista” passò a essere “errejonista”, e in vista del secondo congresso scrisse una dura lettera contro il segretario generale accusandolo di portare il partito alla “distruzione”. L’ultima, ma in realtà prima in ordine di importanza nonché più “toccante” defezione era stata quella di Juan Carlos Monedero, primo fedelissimo di Iglesias a dimettersi nel 2015 dopo che venne fuori che aveva preso 400 mila euro per le consulenze ai governi di Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua, non dichiarandoli secondo le regole fiscali spagnole. La versione ufficiale fu che lasciava il partito per divergenze strategiche. La verità è che dal suo studio universitario ha sempre continuato ad appoggiare l’amico Pablo contro quello che a Vistalegre definì “ambizione smisurata” del numero due.

Ed eccola qui “l’ambizione smisurata” del deputato e co-fondatore di Podemos nell’ultimo braccio di ferro con il leader. E – dopo aver aperto la crisi del partito – dichiara di non volerlo abbandonare, restando anzi, non solo come deputato, ma anche come dirigente. Questa volta però in gioco non c’è solo l’unione di due ragazzi in grado di tenere testa ai più tenaci politici spagnoli, ma una formazione politica di governo, visto il patto su con l’esecutivo di Pedro Sanchez.

Il governo infatti, alla vigilia del voto per la Manovra economica in Parlamento, teme che la rottura porti gli oppositori di Iglesias a votare contro l’accordo con i socialisti. Inoltre la rottura tra i due rischia di acuire la crisi già serpeggiante nelle formazioni regionali del partito che nei prossimi mesi dovranno affrontare le elezioni amministrative e comunali. La prova è il calo alle urne di dicembre in Andalusia, dove Podemos, alleato della sinistra Unita ha ottenuto 3 scranni in meno delle precedenti votazioni in cui correva da solo. Sulla sponda opposta, i sovranisti di Vox festeggiano su Twitter i sondaggi che li darebbero come seconda forza a Madrid, “con voti rubati a Podemos”.

Torino, nigeriano ucciso a colpi di bilanciere in testa

Il cranio sfondato con un bilanciere da palestra. È stato ammazzato così Andrew, nigeriano di 33 anni residente al Moi di Torino, l’ex mercato ortofrutticolo e poi villaggio olimpico nel 2006 ancora occupato da molti extracomunitari. Un omicidio avvenuto mentre l’uomo nel letto della sua camera al primo piano della palazzina arancione. Secondo un primo esame del medico legale, la morte di Andrew, che da tempo aveva chiesto lo status di rifugiato, risale a due giorni fa. L’omicida è entrato nella sua camera, l’ha colpito più volte alla testa con un bilanciere e poi è uscito, chiudendo la porta. Il movente è ancora sconosciuto. Tante le ipotesi, compreso il regolamento di conti. Ieri, in centro a Torino, in via Pietro Micca, un altro nigeriano, anche lui residente al Moi, è stato aggredito da un uomo, probabilmente del Gambia, che lo ha colpito alla testa con un’accetta. Il delitto riaccende le polemiche le tensioni sull’ex Moi: “Conosciamo la situazione e non abbassiamo la guardia”, interviene il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che annuncia, per mercoledì al Viminale, un incontro con la sindaca Chiara Appendino. “Una brutta storia – sbottano alcuni residenti – Qui non si può vivere”.

“Fu tentato omicidio”: quattro condanne per l’aggressione al figlio di Bettarini e Ventura

Tutti e quattroresponsabili di tentato omicidio, ma con pene diverse, dai 9 anni ai 5 anni di carcere, perché solo uno di loro aveva con sé un coltello e non c’è la prova che anche gli altri sapessero che fosse armato. Si è chiuso così in primo grado, davanti al gup di Milano Guido Salvini, il processo con rito abbreviato sull’aggressione ai danni di Niccolò Bettarini, il 20enne figlio dell’ex calciatore Stefano e della conduttrice tv Simona Ventura, colpito con coltellate, calci e pugni lo scorso primo luglio fuori dalla discoteca milanese ‘Old Fashion’.

“È finito un incubo. Giustizia è stata fatta”, ha detto a caldo dopo la sentenza il giovane che venne ricoverato per alcuni giorni all’Ospedale Niguarda e subì anche un intervento chirurgico per la ricostruzione di un nervo. “Non mi interessano i soldi, ma solo che giustizia sia stata fatta”, ha aggiunto il ragazzo, parte civile col legale Alessandra Calabrò, confermando l’intenzione già espressa di rinunciare al risarcimento, una provvisionale da 200 mila euro, che il giudice gli ha riconosciuto. A Davide Caddeo, il 29 accusato di aver sferrato le otto coltellate, il giudice ha inflitto 9 anni. Pene diverse, invece, per gli altri tre imputati: 5 anni e 6 mesi ad Alessandro Ferzoco, 6 anni e 6 mesi ad Albano Jakej e 5 ad Andi Arapi, l’unico incensurato che oggi è anche uscito dal carcere ottenendo i domiciliari. A tutti e tre, però, è stata concessa la “diminuente” del “reato diverso da quello voluto”.

In sostanza, come emerge dalla sentenza, i tre volevano picchiare Bettarini e non tentare di ucciderlo e manca la prova che fossero a conoscenza che Caddeo, conosciuto a malapena dagli altri, girasse con un coltello.

Stando a quanto ricostruito nel processo, con le testimonianze in aula disposte dal gup, Ferzoco e la sua compagnia avevano avuto già nei giorni precedenti una lite in un altro locale con un amico di Bettarini. Scontro che si è riacceso quella notte del primo luglio all’Old Fashion. E Caddeo quella sera si era aggiunto agli amici di Ferzoco, ma nessuno lo conosceva bene.

Don Luigi Larizza: l’estremista di destra anti-migranti vince l’appalto per i richiedenti asilo

“Credo che la Comunione sia incompatibile con la carità a pagamento che si sta facendo da parte di certi sacerdoti”. Era il 19 agosto 2017 quando don Luigi Larizza, parroco del Sacro Cuore di Taranto e sacerdote vicino ai movimenti di estrema destra, scriveva questo post sulla sua pagina facebook. Posizione in netta contrapposizione con quanto predicato da Papa Francesco in tema di accoglienza. Posizioni che forse don Luigi non ricorda più dato che la cooperativa da lui presieduta ha partecipato e vinto un bando di gara indetto dal comune di Taranto per la gestione dello “Sprar”, il Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati. Una gara da 1 milione e 200 mila euro. Denaro che ora don Luigi che fino a pochi giorni ha insultato pubblicamente i migranti e chi li accoglieva dovrà gestire per garantire accoglienza e percorsi di integrazione. Proprio lui che era balzato agli onori della cronaca perché nel 2016 pochi giorni dopo un episodio avvenuto a Napoli nel quale due immigrati impedirono alle forze dell’ordine di eseguire un arresto, scrisse che sarebbe stato opportuno sparare. La bufera spinse il religioso a ridimensionare e il vescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro, a prendere le distanze “Don Luigi – spiegò il capo della chiesa tarantina – è stato più volte invitato a prendere posizioni più equilibrate e stemperare i modi, specie per non rovinare i rapporti con i rappresentanti della comunità islamica di Taranto” e “don Luigi sbaglia, non ci sono poveri bianchi che vengono prima e poveri neri che vengono dopo”. Il religioso fu anche protagonista di un duro scontro ripreso dalle telecamere: accusò l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano di aver portato i cornetti agli immigrati e di aver trascurati le famiglie bisognose della città. Diverse volte è stato ospite di emittenti nazionali nelle quali denunciava la disparità di trattamenti riservati a immigrati e tarantini. Ma non solo. Qualche tempo fa era pronto a celebrare una messa in suffragio di Benito Mussolini: un’iniziativa, organizzata da “i missini di terra ionica”, che fu bloccata ancora una volta dal vescovo Santoro.

Crollo della torre del porto: assolto in appello il pilota della nave che urtò l’edificio

Sentenza d’appello. Erano le 23.05 del 7 maggio 2013: la nave cargo Jolly Nero della compagnia Messina durante una manovra urtò la torre piloti del porto di Genova. L’edificio in pochi secondi crollò e morirono nove persone (altre quattro rimasero ferite).

Ieri, quasi sei anni dopo la tragedia, al Palazzo di Giustizia di Genova è arrivata la sentenza di appello che conferma parzialmente la pronuncia dei giudici di primo grado: assoluzione confermata per Giampaolo Olmetti, comandante d’armamento, e per il terzo ufficiale Cristina Vaccaro. Assolto per non aver commesso il fatto anche il pilota Antonio Anfossi che in primo grado era stato invece condannato a 4 anni e 2 mesi.

Ridotte o confermate le altre condanne: Roberto Paoloni, comandante della Jolly Nero, è stato condannato a 9 anni e undici mesi (in primo grado la pena era stata di 10 anni e quattro mesi). Pena confermata invece per il primo ufficiale della nave cargo Lorenzo Repetto: è stato condannato a 8 anni e sei mesi, proprio come in primo grado. Anche il direttore di macchina, Franco Giammoro, si è visto confermare la condanna a 7 anni. Stesso discorso per la compagnia Messina che era stata condannata al pagamento di un milione e 500 mila euro perché ritenuta responsabile di illecito amministrativo relativo al comportamento del comandante. La pena è stata confermata.

Il sostituto procuratore, Enrico Zucca, aveva chiesto la conferma di tutte le condanne di primo grado e anche la condanna a 8 anni di carcere per Olmetti.

Alla lettura della sentenza Adele Chiello, mamma di Giuseppe Tusa (una delle vittime), ha urlato: “Ho perso sei anni della mia vita. I potenti non si toccano”. I suoi legali hanno annunciato che impugneranno la sentenza in Cassazione.

Ammanettato e legato per i piedi, 31enne tunisino muore durante fermo di polizia

Prima gli hanno messo le manette ai polsi e poi lo hanno legato ai piedi con una corda per fermarne i calci. Subito dopo Arafat Arawi, 31 anni di origine tunisina, è morto per un arresto cardiaco. La tragedia è avvenuta giovedì sera nel centro di Empoli dove il titolare di un money transfer aveva richiesto l’intervento della polizia per l’atteggiamento molesto del giovane: quest’ultimo, residente a Livorno e cittadino italiano, intorno alle 18.30 era entrato al “Taj Mahal” per spedire 40 euro alla sua famiglia ma il titolare del negozio – che vende anche spezie e prodotti alimentari – gli aveva contestato la falsità di una delle due banconote da 20 euro.

A quel punto Arawi ha dato in escandescenza ed è partita la telefonata del titolare ai carabinieri. Il giovane si è rifugiato nella macelleria vicina e poi, raggiunto dagli agenti, è tornato a inveire contro di loro e contro il titolare del money transfer che gli aveva negato il servizio. Dopo averlo ammanettato e steso su un fianco, il giovane ha continuato a sferzare calci e mordere i poliziotti ed è per questo che questi ultimi lo avrebbero immobilizzato con una corda. Secondo quanto risulta al Fatto, i poliziotti di Empoli non avrebbero fatto pressione fisica sul corpo di Arawi ma l’unico obiettivo era quello di neutralizzarne i movimenti. È stato a quel punto che il giovane ha avvertito il malore fatale.

Sul posto erano già arrivati gli agenti sanitari del 118 che hanno tentato di rianimarlo e, nella tarda serata di giovedì, anche la pm di Firenze Christine Von Borries e la polizia scientifica, che hanno svolto tutti i sopralluoghi del caso. Secondo una testimone sentita da Radio 1 gli agenti di polizia sarebbero stati con il ragazzo per “più di un’ora” e lo avrebbero “portato in bagno e perquisito nudo”. Adesso l’indagine viene portata avanti dalla Squadra Mobile di Firenze e saranno decisive le immagini delle telecamere del negozio che avrebbero ripreso tutte le fasi dell’arresto. Ieri Von Borries ha anche sentito, come persone informate sui fatti, una decina di persone: il commerciante, gli agenti di pronto soccorso e i quattro poliziotti che hanno messo in atto il fermo. In serata poi la Procura di Firenze ha aperto un fascicolo contro ignoti con l’accusa di omicidio colposo ma sarà l’autopsia di lunedì a stabilire le cause precise del decesso. Arawi si era trasferito da pochi mesi a Livorno dove faceva carico e scarico al porto ma tornava spesso a Empoli, città in cui si era sposato con una donna italiana, per incontrare gli amici connazionali e mandare soldi ai propri genitori.

Sulla vicenda non poteva mancare l’intervento del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che ha subito preso le difese degli agenti parlando di “tragica fatalità”: “Totale e pieno sostegno ai poliziotti che a Empoli sono stati aggrediti, malmenati, morsi – ha detto il titolare del Viminale ¬. Se un soggetto violento viene ammanettato penso che la Polizia faccia solo il suo dovere”.