Perquisito giudice del Tar: “Corruzione in atti giudiziari”

La Guardia di Finanza ha compiuto ieri una perquisizione nel Tar di Catania, nell’ufficio del giudice Dauno Trebastoni. La Procura etnea ha precisato che la perquisizione “ha riguardato esclusivamente il predetto magistrato, indagato per il delitto di corruzione in atti giudiziari unitamente ad alcuni avvocati, tra i quali Amara e Calafiore”, coinvolti in due maxi inchieste sulla corruzione del sistema giudiziario, che nei mesi scorsi hanno deciso di collaborare con la giustizia, fornendo un contributo determinante alle indagini. Lo scorso dicembre gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore hanno patteggiato sulla vicenda Sistema Siracusa: due anni e nove mesi per il primo, tre anni per il secondo, ma le indagini che li coinvolgono proseguono in Sicilia come a Roma. Ieri stato perquisito anche lo studio dell’avvocato Attilio Toscano, come confermato dallo stesso interessato al sito Live Sicilia. Il Consiglio di Stato, massimo organo della giustizia amministrativa, ha scritto al procuratore di Catania Carmelo Zuccaro per chiedere informazioni sulla posizione del giudice Trebastoni.

Stragi e depistaggi, duello in tribunale fra poliziotti-testimoni

Non c’è stato solo un confronto tra due ex dirigenti della Polizia nell’aula di Caltanissetta giovedì. Quello tra Luigi Rossi e Calogero Germanà al processo per il depistaggio delle indagini su via D’Amelio è stato un confronto tra due modi di intendere la Polizia e lo Stato. Germanà ha raccontato di aver firmato il 20 maggio 1992 un rapporto che indirizzava un’indagine cara a Borsellino su ambienti vicini a un ministro di allora, Calogero Mannino. L’indagine verteva sul tentativo di ambienti mafio-massonici di condizionare una sentenza. Un giorno dopo la consegna ai pm del rapporto fu convocato a Roma dal Capo della Criminalpol Luigi Rossi che gli chiese conto di Mannino.

Pochi giorni dopo – ha raccontato Germanà – alla comunione della figlia, un cugino gli disse che anche Mannino voleva incontrarlo. “Rifiutai”. Il peggio però doveva venire: l’8 giugno 1992 Germanà fu rimosso con modalità umilianti: “Mi chiamarono di domenica dal mio vecchio commissariato di Mazara del Vallo dicendomi: lo sai chi è il prossimo commissario capo? Rino, sei tu! Da domattina”. Già capo della mobile di Trapani nel 1991, dirigente a Palermo su richiesta di Borsellino, Germanà tornava a Mazara per fare il commissario: una retrocessione beffarda.

Ben diverso il trattamento dello Stato all’altro protagonista del confronto: Rossi era capo della Criminalpol. Poi sarà vicecapo della Polizia e sottosegretario all’interno nel Governo Dini. Germanà invece incontrò prima l’umiliazione dello Stato e subito dopo la punizione di Cosa Nostra: il 14 settembre del 1992, fu inseguito sul lungomare – come ha ricostruito giovedì al processo – da un commando composto da tre boss come Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. Il mitra di Bagarella si inceppò e così Germanà ha potuto raccontare giovedì come reagì. Sparò con la sua pistola e poi scavalcò il muretto del lungomare. Si tuffò in acqua per schivare i colpi. Con questa storia, la sua carriera si è conclusa mestamente da Questore a Piacnza.

Giovedì però si è preso la soddisfazione di ripetere davanti al prefetto Rossi la storia di quell’incontro. Lui ricordava tutto. Il prefetto era evasivo. A un certo punto Rossi si è indispettito con il pm Gabriele Paci: “I ricordi sono di 27 anni fa (…)se poi mi vuole incriminare come falso testimone proceda pure, le sue domande sono insidiose, abbia rispetto dei miei 88 anni”.

Quando il pm Paci ha chiesto e ottenuto dalla Corte il confronto con Germanà, Rossi ha aggiunto: “lo convocai perché il Capo della Polizia Parisi mi chiese di convocarlo”. E poi: “ignoro le motivazioni del suo trasferimento”.

Il processo vede imputati per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio solo tre ‘pesci piccoli’ del gruppo investigativo ‘Falcone Borsellino’: l’agente Michele Ribaudo, l’ex ispettore Fabrizio Mattei e Mario Bo, ex funzionario che oggi è dirigente a Gorizia. La procura li accusa di calunnia aggravata. Prima però bisogna ricostruire il contesto. Cosa era davvero la Polizia italiana nel 1992? Rossi convoca il vicequestore Germanà il 21 maggio, due giorni prima di Capaci. Secondo Germanà ha già letto il rapporto ed è preoccupato per l’accenno al politico della corrente di Mannino.

La storia nella quale Germanà incappa è più grande di lui e parte da lontano: nel 1980 a Monreale il capitano Emanuele Basile viene ucciso. Il giudice Paolo Borsellino fa condannare i tre killer: Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia, molto vicino a Riina. Il Capo dei Capi decide che l’unico verdetto possibile per quel caso è l’assoluzione. Per questa ragione (vedi scheda) fu ucciso con il figlio il presidente della Corte di Appello che firmò la condanna nel 1987, Antonino Saetta. Quel processo fu un vero braccio di ferro perché stava a cuore anche a Borsellino. Quando il suo amico Salvatore Scaduti, presidente della Corte di appello del secondo processo, fu avvicinato dal notaio Pietro Ferraro nel 1992, Borsellino gli chiese di scrivere una relazione.

Scaduti firmò prima la relazione sulle pressioni e poi la condanna. Al secondo passaggio la mafia punta sulle pressioni politico-massoniche. Secondo Scaduti, il notaio Ferraro gli disse che le pressioni per l’assoluzione venivano da un politico di nome Enzo ‘manniniano e trombato’. Inizialmente la Polizia aveva puntato sul deputato Enzo Culicchia, che in realtà era di un’altra corrente. Poi Germanà prende in mano le indagini e il 20 maggio firma il suo rapporto: ‘Enzo’ – per lui – è Vincenzo Inzerillo. Il perché lo ha rispiegato giovedì. Non era stato candidato alle regionali, quindi era in quel momento un ‘trombato’. Ed era manniniano, secondo le sue informazioni. Ad aprile del 1992 però era stato eletto al Senato. Per questo Germanà con il suo rapporto mette in subbuglio i palazzi. La pista da lui segnalata infatti lega un senatore in carica, vicino al potentissimo ministro Mannino, agli interessi di Riina. Ecco perché si muovono Parisi e Rossi. Allora lo Stato non era pronto a recepire quella verità. Inzerillo fu arrestato nel 1995 e condannato definitivamente nel 2011 anche per la vicinanza al boss Graviano, quello che nel 1992 puntava il mitra contro Germanà. Il commissario bravo a schivare i colpi della mafia. Meno quelli dello Stato.

Altri morti in mare, la Marina ne salva tre Sea Watch attacca

Ancora un naufragio tra Libia e Italia: un gommone con una ventina di persone a bordo, 25 miglia nautiche a nord-est di Tripoli. Tre migranti sono stati salvati da un elicottero della Marina Militare italiana; altri 3 corpi apparentemente senza vita sono stati visti in mare, ha riferito la Marina. Nessuna traccia degli altri passeggeri. E proprio ieri l’Oim ha registrato quasi il raddoppio degli arrivi in Europa nei primi 16 giorni dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2018: 4.216 contro 2.365. I morti accertati sono già 83. All’alba di ieri erano arrivati 67 migranti a Lampedusa, soccorsi dalla Guardia Costiera. Secondo il Viminale, dall’inizio dell’anno sono sbarcati in Italia solo 188 migranti. Non c’erano mezzi militari navali in zona, l’aereo e poi un elicottero hanno fatto il possibile. Tre naufraghi sono a Lampedusa in “condizioni serie”. Le ricerche degli altri fa sapere la Marina, continuano sotto il coordinamento libico. La Sea Watch 3, a dieci ore di navigazione dal naufragio, ha fatto sapere: “Dal Centro di coordinamento italiano si sono rifiutati di darci informazioni dicendoci che Tripoli aveva la responsabilità”. Un mercantile avrebbe rinunciato a intervenire, la Ong accusa l’Italia per i “porti chiusi”.

Maturità 2019, l’esame si sdoppia: seconda prova “mista” e orale-quiz

Con la comunicazione delle materie per la seconda prova, per gli studenti e studentesse di tutta Italia l’“incubo” della maturità si fa sempre più concreto. Ma prima di giugno, i ragazzi farebbero bene a segnarsi queste date: 19 e 26 marzo, 28 febbraio e 2 aprile. Sono i giorni in cui si terranno, per la prima volta organizzate a livello ministeriale, le simulazioni nazionali delle prove scritte decise dal Ministero dell’Istruzione. Lo ha comunicato ieri il ministro Bussetti in diretta Facebook annunciando le materie per la seconda prova che si terrà il 20 giugno, (la prima il 19). A marzo gli studenti si affronteranno il tema d’italiano, gli altri giorni la seconda prova che quest’anno “debutta” nella nuova veste multidisciplinare. Come ha detto il ministro, per il liceo classico ci sarà la traccia “mista” in greco e latino, per lo scientifico matematica e fisica. Per facilitare la transizione, già a dicembre il Ministero aveva diffuso degli esempi tracce. Le prove multidisciplinare sono solo le ultime new entry di una lunga lista di modifiche all’esame di Stato che entrano in vigore da quest’anno. Già il ministro Fedeli aveva iniziato a rinnovare le prove, infatti il tema d’italiano 2019 sarà suddiviso in tre (quasi) nuove tipologie di testo: nell’analisi del testo potendo scegliere tra due autori e non più uno solo, a partire dall’Unità d’Italia, il saggio argomentativo prende il posto dell’articolo di giornale e del saggio breve, il tema d’attualità. Le novità di quest’anno non incontrano il favore degli studenti: “La nuova maturità si fa sempre più vicina e terrorizza sempre più studenti con l’incubo della seconda prova. Questa impostazione maldestra è la conferma che sperimentano sulla pelle degli studenti” è la critica di Giammarco Manfreda, coordinatore nazionale della Rete degli Studenti Medi. Che attacca anche il nuovo colloquio orale: “Eliminata la tesina, unico momento di libera espressione e allenamento alla ricerca, il candidato dovrà pescare una tra tre buste con degli spunti. Una roulette russa che va abolita”.

All’orale infatti lo studente non presenterà più la classica tesina su un tema a sua scelta, ma dovrà sostenere il colloquio multidisciplinare scegliendo un argomento a caso – per motivi di trasparenza – da una di tre buste che conterranno diversi argomenti. Ma non finisce qui: i maturandi dovranno parlare della loro esperienza scuola-lavoro e saranno interrogati anche sulla Costituzione.

Telefonate prima della valanga, la Procura non ha mai indagato

C’è una domanda che la Procura di Pescara non ha rivolto né al senatore Luciano D’Alfonso, ex presidente della Regione Abruzzo, né ad Antonio Baldacchini, che il 18 gennaio 2017 era al Coc (Centro operativo comunale) di Penne: perché Baldacchini chiama il governatore il giorno in cui sta per consumarsi la tragedia di Rigopiano per 3 volte nell’arco di un’ora? Il cellulare di D’Alfonso riceve tre chiamate. La prima alle 9.09 (52 secondi). La seconda alle 9.18 ma il telefono sembra squillare a vuoto. La terza alle 9.40 (28 secondi). Il dato emerge dai tabulati di D’Alfonso che la Procura di Pescara ha richiesto dopo l’istanza di alcuni avvocati e soltanto dopo la chiusura dell’indagine il 26 novembre. In sostanza, sebbene D’Alfonso fosse indagato (per lui c’è una richiesta di archiviazione), gli inquirenti non hanno ritenuto di analizzare il suo traffico telefonico. Il Fatto sta analizzando questi dati con l’intento di trovare – dal punto di vista giornalistico e non penale, com’è ovvio – qualche frammento di verità in più sulla tragedia che il 18 gennaio di due anni fa costò la vita a 29 persone all’hotel Rigopiano di Farindola.

I contatti tra Baldacchini e D’Alfonso sono interessanti perché nella sala della Croce Rossa, accanto al Coc, s’insedia il Centro operativo avanzato proprio la mattina del 18 gennaio. E Baldacchini è il “delegato del comune alla Protezione civile”. Il 18 gennaio accade qualcosa d’incredibile: alle 11:21 giunge al Coc la telefonata di Gabriele D’Angelo, cameriere all’hotel Rigopiano, il quale chiede aiuto e lancia l’allarme per l’albergo. Telefonata scomparsa dal fascicolo – è stato infatti aperto un seconda inchiesta per depistaggio – e scoperta grazie allo scoop di Ezio Cerasi del Tg3 Abruzzo. D’Angelo purtroppo in quelle ore perderà la vita aspettando invano i soccorsi. Si scoprirà che il Coc di Penne aveva segnato su un brogliaccio la telefonata di D’Angelo.

Ma il brogliaccio – prima dello scoop di Cerasi – era incomprensibilmente svanito. salvo poi ricomparire. Già il 26 gennaio 2017, infatti, il poliziotto Clementino Crosta si reca dagli inquirenti per dichiarare che a pagina 32 del brogliaccio del Coc, in quel 18 gennaio, era stato segnato: “D’Angelo Gabriele hotel Rigopiano evacuazione”. Il 10 novembre 2018, ben 22 mesi dopo la tragedia, i carabinieri del gruppo forestale ascoltano l’autore del brogliaccio: è il volontario Andrea Sgambato. Il teste – che in quelle ore prestava servizio al Coc – riferisce di essere un amico di Gabriele D’Angelo, di aver ricevuto una sua telefonata e poi aggiunge: “Mi chiese se si poteva inviare uno spazzaneve per liberare la strada per permettere a tutte le persone di lasciare la struttura alberghiera. A quel punto mi recai dal supervisore del Coc, Antonio Baldacchini, che in quel momento si trovava nella stessa sala, e gli riferii il contenuto della telefonata di D’Angelo. Lui mi disse esplicitamente di annotare la chiamata di D’Angelo sul brogliaccio delle chiamate ma che comunque se ne sarebbe dovuto occupare il Coc di Farindola poiché non era sua competenza”.

Anche Baldacchini viene sentito dagli inquirenti che gli mostrano il brogliaccio: “Non sono stato edotto – è la sua risposta lapidaria – di quanto riportato sul registro che mi mostrate, ovvero ‘hotel Rigopiano evacuazione’, e null’altro posso riferire in merito”. Le sue telefonate con D’Alfonso precedono d’un paio d’ore la disperata richiesta di aiuto lanciata da D’Angelo al Coc.

Ma è comunque interessante sapere cosa chiedeva Baldacchini al governatore. Il Fatto gli ha domandato: ha mai chiamato D’Alfonso in quelle ore? “No”, risponde Baldacchini. Gli spieghiamo che dai tabulati di D’Alfonso si scoprono tre telefonate partite dal suo cellulare. “Può essere come può non essere – risponde – è passato tanto tempo non ricordo”. Lei – continuiamo – sente spesso D’Alfonso? “No”. E allora come fa a non ricordare di averlo chiamato e soprattutto per quale motivo? “Non ricordo”. Abbiamo rivolto la stessa domanda via sms a D’Alfonso ma non abbiamo ricevuto risposta. Eppure – per ricostruire gli eventi di quei giorni – sarebbe interessante capire per quale motivo, l’uomo che non ricorda la telefonata di D’Angelo, e che non ricorda la telefonata al governatore, tra le 9:09 e le 9:40 del 18 gennaio, avesse così bisogno di parlargli.

Battisti, tutti gli errori di un criminale da televisione

Battisti è mio e me lo gestisco io. Dopo l’asta ministeriale per aggiudicarsi la miglior divisa e la peggior contumelia, forse Cesare Battisti avrà cambiato idea sulla sua latitanza. Forse, se avesse immaginato con quale ansia lo aspettavano capitan Salvini e gli uomini di Bonafede, si sarà chiesto se sia valsa la pena trascorrere 38 anni di fughe nottetempo, coperture à la page, costose tinture per capelli e barbe finte. Che poi, queste latitanze fanno male alla salute; i bistrot dove si mangiano solo ostriche e tartare, il colesterolo ringrazia, le spiagge tropicali dove se stai annegando non puoi nemmeno chiamare il bagnino. Altri criminali più efferati e più lucidi di lui si sono fatti catturare per tempo, si sono dissociati al volo, sono in libertà da mo’ e qualcuno va pure in televisione. Altre brutte grinte, come i Casalesi o i boss di Cosa Nostra, se proprio sono costretti a lasciare il bunker sotto casa, al massimo vanno a Montecarlo. Battisti, no. Lui, duro. Da un intellò all’altro, da una metamorfosi all’altra, fino a diventare il simbolo di uno Stato che per una volta non molla, non condona, non prescrive. A Battì, m’hai provocato e io te distruggo. Averci pensato prima. Omonimo di un martire irredentista, criminale comune passato alla politica per procurarsi un’aura di perseguitato (mossa non delle più originali, senza fare nomi), evaso, scrittore di romanzi noir dove l’assassino è lui, testimonial delle manette. Diciamo la verità: non ne ha azzeccata una.

Salvini e l’arte della manipolazione tra politica e media

“I politici, d’altro canto, sentivano sempre il bisogno di offuscare e giustificare le loro azioni, per convincerti che lavoravano per la giustizia e per il bene comune”

(da “L’uomo di Calcutta” di Abir Mukherjee – SEM, 2018 – pag. 204)

Plagio, imbonimento, lavaggio del cervello, persuasione occulta. Sono le tecniche di manipolazione che adotta Matteo Salvini, magari senza saperlo e volerlo, nella bulimia mediatica della sua comunicazione politica. E sono basate tutte su quel rapporto di fiducia che si stabilisce tra lui e una parte del corpo elettorale, sedotto da un apparente buon senso comune, da una mal dissimulata ragionevolezza, da un’ingannevole semplificazione.

Ne sono complici, più o meno consapevolmente, quei mass media che abboccano all’amo della propaganda leghista, anche per contestarla o criticarla. È la retorica dell’Uomo forte, del “Capitano”, dell’uomo solo al comando che accomuna paradossalmente i supporter e gli avversari di Rambo Salvini. Un duplice processo di identificazione/avversione che alla fine rafforza la sua immagine e la sua popolarità.

Un ruolo da protagonisti spetta in questa narrazione ad alcuni personaggi di un servizio pubblico televisivo sempre più al servizio del governo giallo-verde e in particolare del líder máximo leghista. Dalla neo-direttrice di Rai1, Teresa De Santis, pronta a censurare Claudio Baglioni per il suo “comizio” sui migranti, con il rischio di danneggiare lei stessa il Festival di Sanremo e quindi l’azienda per cui lavora; fino al veterano di tutte le campagne elettorali, Bruno Vespa, sprofondato nella poltrona bianca del salotto di Porta a Porta quasi fosse un inginocchiatoio da sacrestia, per amministrare una confessione – più che imbastire un’intervista o un contraddittorio – e impartire benevolmente un’assoluzione senza penitenza.

Quando Salvini fa il bilancio del primo semestre di governo, per esempio, a volte rivendica questi sei mesi a proprio vantaggio, come nel caso della diminuzione degli sbarchi nel 2018, per cui esibisce dati che non sono soltanto suoi dal momento che nei primi sei mesi dell’anno c’erano un altro governo (Gentiloni) e un altro ministro dell’Interno (Minniti). Altre volte, come per la controversa riforma delle pensioni o della disattesa flat tax, si giustifica con la litania “noi siamo al governo da appena sei mesi”, “non abbiamo la bacchetta magica”, “lasciateci lavorare” e così via. Quando il vicepremier afferma che per il Tav, la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, in caso di dissensi nella maggioranza si deve rimettere la decisione a un referendum popolare, dimentica ciò che ha sottoscritto – insieme ai suoi partner – nel “Contratto di governo”, laddove alla fine del punto 27, pagina 50, si legge: “Ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo fra Italia e Francia”. E quando infine il ministro dell’Interno invoca la legittima difesa, facendo leva sul “grave turbamento” che chiunque può provare se un ladro o un rapinatore vìola il domicilio privato o la sede di un esercizio commerciale, trascura di affrontare il nodo del porto d’armi (o della detenzione) e quindi di indicare in base a quali criteri saranno valutate le richieste e poi eventualmente concesse le licenze.

Ecco, c’è un mix di buon senso e di cattiva coscienza in tutto questo turbinio di parole; un impasto di buona fede e di ipocrisia; un detto e un non detto che rende la comunicazione di Salvini oggettivamente doppia e ambigua. Più che allarmarsi e gridare allo scandalo, forse basterebbe non fidarsi troppo.

Csm, la malafede di carrieristi e “correntisti”

Il precedente Csm – quello che il vicepresidente Legnini definiva nelle sue seriali esternazioni, il migliore degli ultimi anni – è riuscito nella invidiabile (si fa per dire) impresa di farsi bocciare per ben tre volte dal giudice amministrativo la nomina all’incarico direttivo di procuratore di Modena di un pm che occupava un posto semidirettivo (l’aggiunto Lucia Musti) anziché a chi già da otto anni era titolare di un posto direttivo (il procuratore di Rimini, Paolo Giovagnoli).

Tale esito appariva, peraltro, scontato perché la terza delibera – quella nuovamente annullata dal Consiglio di Stato l’8 gennaio 2019, adottata dal Csm il 25 luglio 2018 (impropriamente) in prossimità della sua scadenza – conteneva, come rileva il Cds, “una valutazione che sembrava confermare la semplice ricerca di una addizione motivazionale a una decisione in realtà già ‘pre-acquisita’”.

La motivazione della delibera – redatta dal membro togato Palamara (per anni presidente dell’Anm) – si fondava su argomentazioni poco convincenti. Come la “sua (della Musti) più ampia capacità di promuovere e garantire il ‘lavoro di squadra’ all’interno dell’ufficio giudiziario con la piena valorizzazione dei colleghi e del personale creando nel contempo le condizioni per ‘protocolli di intesa’ con altre amministrazioni”; o come il “particolare rilievo” della “istituzione del Das (Definizione affari semplici) – formato dalla dott.ssa Musti e da alcuni componenti delle aliquote di polizia giudiziaria” – cui la predetta “era giunta esaminando la posta giornaliera”. O ancora la circostanza che “la Musti aveva curato la formazione del personale di Pg per garantire il corretto utilizzo di modelli standard per la trattazione degli affari definiti semplici” (la Pg, in verità, dovrebbe essere adibita a svolgere attività investigativa più che amministrativa).

A questo “record” si è aggiunta una valanga di annullamenti di nomine sempre dal precedente Csm: a) procuratore di Trani; b) procuratore di Venezia; c) quattro presidenti di sezione della Cassazione; d) presidente sezione Tribunale di Potenza; e) procuratore aggiunto della Dna (ribadita dopo un primo annullamento); f) presidente Corte di appello di Lecce. Gravi sono le accuse che il Cds muove all’organo di autogoverno: “Il Csm manifestava una irragionevole incoerenza nell’attività amministrativa”; “insistita illegittimità ed elusività dell’operato del Csm”; “intento elusivo di sottrarsi al vincolo confermativo da giudicato”; “in uno Stato di diritto il primato del diritto accertato mediante sentenze passate in giudicato vincola ogni amministrazione pubblica”.

E questi sono solo alcuni dei tanti esempi dimostrativi, da un lato, di un delirio di onnipotenza per cui il Csm ritiene di non dover sottostare alle decisioni dei giudici e, dall’altro, del grave grado di degenerazione correntizia che comporta nella gestione dell’ordine giudiziario disfunzioni, ritardi, incertezze, condizionamenti, lesione dei diritti di singoli magistrati, sicché si impone l’abrogazione di qualsiasi immunità per consentire, in caso di comprovati abusi e favoritismi, il ricorso del magistrato danneggiato alla giustizia.

I casi citati dimostrano, altresì, la malafede dei “correntisti” e “carrieristi” che si oppongono al sistema di estrazione a sorte dei membri togati. Quello che preoccupa è che il ministro di Giustizia – che aveva preannunciato una riforma del Csm col sistema misto sorteggio/elezione –, intervistato a Presadiretta, si è, invece, schierato per un sistema di elezione attraverso piccoli (quanto?) collegi: sistema inidoneo a impedire la infiltrazione correntizia, posto che nessun magistrato – salvo che si chiami Davigo – potrà mai superare i candidati sostenuti dalle correnti. Forse bisogna dare ragione a quell’autorevole magistrato del Csm che già nel 1970 affermava: “La magistratura è ingovernabile”.

Magistrati corrotti Nazione infetta

Mentre i più importanti giornali erano impegnati a scovare anche il più piccolo granello di sabbia nell’ingranaggio dell’alleanza fra Cinque Stelle e Lega e poi a fare le pulci al ‘decretone’ del governo, di cui Conte, Di Maio, Salvini si dimostravano giustamente orgogliosi, a me il fatto più grave, e anche impressionante, è sembrato l’incriminazione di 15 magistrati calabresi (15) da parte della Procura di Salerno per reati che vanno dalla corruzione alla corruzione in atti giudiziari al favoreggiamento mafioso. Durante il Fascismo, la Magistratura ordinaria fu incorruttibile. Tanto che il Regime dovette inventarsi i Tribunali Speciali per giudicare i reati politici, soprattutto quelli di opinione di cui il Codice di Alfredo Rocco, che era un grande giurista ma pur sempre un fascista, era zeppo. Nel dopoguerra, dopo gli anni dello slancio della ricostruzione e una classe politica che si era temprata in quel conflitto, cominciò a insinuarsi nelle nostre élite, chiamiamole così, il tarlo della corruzione. E la Magistratura, o almeno una parte di essa, fu connivente. Il Tribunale di Roma veniva chiamato “il porto delle nebbie” per la sua abilità nell’insabbiare le inchieste che avrebbero potuto rivelarsi insidiose per ‘lorsignori’. E a Milano, col Procuratore generale Carmelo Spagnuolo, gran frequentatore di bische, le cose non andavano tanto meglio. Ai Procuratori generali o ai Procuratori capo era facile tagliare le unghie ai Pm fastidiosi: avocavano a sé le inchieste e non se ne sapeva più nulla. Successivamente, con il Pci che si era consociato col Potere, divenne praticamente impossibile indagare sulla corruzione dilagante e sistematica fra i politici e gli imprenditori. Perché mancava l’opposizione. Il crollo dell’Urss, nel 1989, cambiò completamente la prospettiva. Il pericolo sovietico non esisteva più, la Dc divenne meno indispensabile in funzione anticomunista (il “turatevi il naso” di Montanelli) e molti voti in libera uscita andarono alla Lega, che sarà stata anche ‘brutta, sporca e cattiva’ (per me non lo era affatto) ma era una vera forza di opposizione con la quale bisognava fare i conti e non si poteva più dilapidare allegramente, a proprio uso e consumo, il denaro dei cittadini (Giuliano Cazzola ha calcolato che la corruzione fino al 1992 ci è costata circa un quarto dell’attuale debito pubblico, stima abbondantemente per difetto perché tiene conto solo dei reati corruttivi scoperti che sono in genere, come per tutti gli altri reati, un decimo di quelli effettivamente commessi). La presenza della Lega liberò le mani alla Magistratura e nacque Mani Pulite con lo straordinario pool dei Pm di Milano, alcuni dei quali ricordati da Marco Travaglio nel suo editoriale del 17.1. Non capisco però perché Marco si sia dimenticato nei polpastrelli Antonio Di Pietro che di Mani Pulite fu il motore e che nel biennio 1992-94 veniva osannato da tutti, soprattutto da chi aveva la coda di paglia (famoso e imperituro, mi dispiace per lui, rimane un editoriale del direttore del Corriere, Paolo Mieli, intitolato “Dieci domande a Tonino” come se ci avesse mangiato insieme, fin da ragazzo, a Montenero di Bisaccia). Io distinguo le persone fra quelle che hanno una percezione positiva di Di Pietro e quelle che lo hanno odiato fin dall’inizio (“Di Pietro è un uomo che mi fa orrore”, Berlusconi) e tuttora lo odiano, perché si può star certi, o quasi, che questi ultimi hanno qualcosa di losco da nascondere. Parlo naturalmente del Di Pietro magistrato, il politico, ingenuo, pare aver smarrito quella furbizia contadina (“che ci azzecca?”) che gli permise a suo tempo di mettere nel sacco gli indagati e il loro truffaldino politichese. Mi spiace comunque che oggi i magistrati o gli ex magistrati di Mani Pulite, con l’eccezione di quel gran signore che è Francesco Saverio Borrelli, abbiano isolato umanamente Di Pietro. Mi pare una brutta storia di razzismo sociale. Passarono pochissimi anni e, con tutti i testimoni del tempo ancora in vita, ‘lorsignori’, sostenuti da quasi tutta la stampa, riuscirono, con un gioco delle tre tavolette, a capovolgere le carte in tavola: i veri colpevoli divennero i giudici, le vittime i ladri, assurti, spesso, a giudici dei loro giudici. Era ovvio che con un simile, incoraggiante, precedente la corruzione esplodesse coinvolgendo tutti i settori della vita pubblica e privata, normali cittadini compresi. Ma se le inchieste della Procura di Salerno dovessero essere confermate l’effetto sarebbe devastante. Una corruzione così ampia all’interno della Magistratura, massimo organo di garanzia in uno Stato di diritto, minerebbe alla radice la fiducia dei cittadini di essere uguali almeno davanti alla legge e significherebbe che questo Paese è marcio fino al midollo. E si potrebbe dire, parafrasando un antico e famoso titolo dell’Espresso: “Magistratura corrotta, Nazione infetta”.

Caro Massimo, non ho dimenticato Di Pietro: il mio era un elenco di ex procuratori capi e Di Pietro non lo è mai diventato.

Mail box

 

Chirico faccia pure le sue cene ma la giustizia ne resti fuori

Francamente faccio fatica a dare un qualche significato alla campagna denominata “Notte della Giustizia” che Annalisa Chirico, giornalista del Foglio, sta pubblicizzando con le sue cene. Potrei capire se la suddetta si battesse per una giustizia più giusta per tutti, ma a sentirla parlare mi sembra che la sua unica attenzione vada a quel mondo di imprenditori, alta borghesia e industriali che frequenta e che sono il solo ceto sociale per cui dimostra un qualche interesse. Non credo che la signora in questione, che è libera di fare tutte le cene e scelte che vuole, possa rappresentare niente e nessuno né tantomeno pensare di avere la credibilità necessaria per intestarsi battaglie per cause così nobili come la “Giustizia giusta”. Credo al contrario che alla Chirico vada bene questo tipo di giustizia che permette a chi ha potere economico, magari coinvolto in qualche processo, di sfruttare tutte le falle che l’attuale sistema giudiziario presenta, portando spesso il processo stesso a estinguersi per intervenuta prescrizione. Detto questo, la giornalista faccia pure le sue cene eleganti.

Leonardo Gentile

 

Perché Giachetti non sciopera per ripristinare le preferenze?

Il deputato del Partito democratico Roberto Giachetti, in Parlamento ormai da diverse legislature grazie alla trafila Verdi-Partito Radicale-Margherita-Pd, è famoso per il digiuno di protesta contro il “Porcellum”. Nel frattempo quella legge elettorale è stata sostituita dalla sua brutta copia “Italicum”, a sua volta sostituita dalla copia un po’ meno brutta, il “Rosatellum”. Nel percorso di queste repliche ci sono state due sentenze di incostituzionalità, rimaste però lettera morta. Ma il nostro Parlamento e sembra che tutti si siano dimenticati di questo obbrobrio.

Perché Giachetti lo sciopero della fame non lo fa adesso, per richiedere il ripristino della preferenza sulle schede elettorali? Cosa di cui in televisione, sulla stampa e nei due palazzi romani tutti sembrano essersi dimenticati?

Lorenzo Filippi

 

I ricchi sono sempre più ricchi Vanno redistribuite le risorse

Da un articolo pubblicato qualche tempo fa sul vostro giornale ho appreso che nel 2017 i 500 più ricchi del mondo hanno incrementato la propria ricchezza del 23% rispetto all’anno precedente. Anche in Italia i ricchi diventano sempre più ricchi, mentre il ceto medio s’impoverisce e significa che anche un modesto aumento del Pil potrebbe non produrre alcun miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione, perché quell’incremento sarà andato a esclusivo vantaggio di una ristretta cerchia.

Inoltre, con lo sviluppo della automazione e della robotizzazione il lavoro è destinato a ridursi ulteriormente. Che fare, allora?

Restiamo indifferenti o proviamo la strada della più equa redistribuzione del reddito? Almeno questo governo ha preso coscienza del problema e ha adottato alcune misure per cercare di risolverlo, mentre il bonus degli 80 euro di Renzi era un provvedimento ingiusto che divideva i cittadini.

Il reddito di cittadinanza è una misura conforme al dettato costituzionale, si veda all’articolo 3, perché riconosce ai cittadini pari dignità sociale.

Maurizio Burattini

 

Parlare di Tav è ormai inutile: nessuno sa più ragionare

La discussione sul treno Alta velocità Torino-Lione è stata politicizzata in tal modo che tutto mi pare fuori luogo quando si parla di questa vicenda e lo dico da strenuo sostenitore non tanto del No Tav ma del buonsenso.

Non si capisce perché la razionalità di una relazione costi-benefici debba sottomettersi all’ubriacatura dei Sì Tav.

Il modo migliore per garantire la pace nella società è proteggere le legittime richieste delle minoranze (se i contrari al Tav sono davvero minoranza) e accettare che non si può imporre a maggioranza tutto.

Quest’opera è stata imposta a una terra bellissima senza prima ascoltare il territorio, senza spiegare le proprie ragioni, senza giustificare le proprie azioni e senza mostrare i propri progetti in trasparenza.

Questo è più che sufficiente per definirla inutile, irrazionale e irragionevole, e per dire che non si deve fare, senza bisogno di scomodare i bilanci e gli elettori.

Massimo Marnetto

 

Le poesie di Pasolini e Alberti sono da rileggere di continuo

La pubblicazione dell’inedito di Pasolini su Rafael Alberti è stato lo spunto per rileggerne i versi e vivere un’armonia di natura e umanità.

Alberti soffrì l’esilio ma poté ritornare nella sua Spagna, Pasolini è stato sempre esule in patria. Due poesie e due grandi da non smettere mai di rileggere.

Alessandra Salini

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo di Selvaggia Lucarelli pubblicato sul Fatto Quotidiano del 16 gennaio, risulta un’imprecisione sul fatto che io abbia contattato il giovane Benigni. È stata invece la mamma del ragazzo, Antonietta Mancuso, a contattarmi per richiedere il mio intervento per tutelare gli interessi di Matteo Benigni per i fatti della Lanterna azzurra.

avv. Roberto Canafoglia