De Benedetti e il mega-yacht. La Finanza: “Non l’ha dichiarato”

Ore 6.30 del 13 novembre 2011. Al porto di Gibilterra la Codecasa Tre, azienda di costruzioni navali di Viareggio, consegna all’Unicredit Leasing lo yacht “MY Aldabra”, con bandiera delle isole Cayman e un valore di 19.995.000 euro oltre Iva. Un minuto dopo il passaggio dal costruttore alla società della banca, quest’ultima lo consegna alla società semplice Aldabra con cui il 29 settembre 2011 aveva sottoscritto un contratto di leasing. La sua sede è in via Valeggio 41 a Torino, dove c’è lo studio del commercialista Massimo Segre che ne detiene l’1%. La restante parte, il 99%, appartiene a Carlo De Benedetti. Sono loro i soci di questa società su cui la Guardia di finanza di Torino ha condotto delle verifiche per poi contestare una “omessa dichiarazione di investimenti patrimoniali detenuti in Stati o territori a fiscalità privilegiata”, avvenuta tra il 2011 e il 2017, per un totale di 119.970.000 euro (20 milioni – il valore dello yacht – per 6 anni).

Gli accertamenti della Gdf e quei 51 metri

Le verifiche sono cominciate nel 2016 e sono terminate nel settembre scorso. La società rischia una sanzione amministrativa che può andare da un minimo del 6% a un massimo del 30%, cioè tra i sette e i 36 milioni di euro. De Benedetti in serata ha spiegato tramite un suo portavoce: “Esprimiamo profonda sorpresa per la notizia”.

È possibile in realtà che il processo verbale di constatazione della Guardia di finanza non abbia ancora portato all’apertura di un contenzioso davanti all’Agenzia delle Entrate. Il Fatto Quotidiano ha contattato lo studio Segre per altre informazioni senza riuscire a parlare con il commercialista che rappresenta la società.

Secondo i finanzieri sarebbe proprio l’ingegnere De Benedetti l’unico utilizzatore di questa imbarcazione di 51 metri, un “gioiello del mare” – spiegava l’azienda costruttrice in un comunicato stampa del settembre 2011 – che può ospitare fino a 14 ospiti senza contare gli otto membri dell’equipaggio. Un’imbarcazione di gran lusso con “raffinati arredamenti interni” realizzati con “finitura satinata”, legni di palissandro e rovere. All’aperto, sulla “sun deck”, c’è una jacuzzi all’aperto.

La particolarità, però, è la “zona da pranzo, insolitamente situata sul ponte timoneria, che attraverso l’ampia vetrata scorrevole, offre una spettacolare vista sul mare”. Il MY Aldabra (dove MY sta per “motor yacht) può contare su “modernissime apparecchiature di navigazione” e motori potenti che permettono di navigare in acque oceaniche. De Benedetti l’avrebbe utilizzata soltanto fuori dalle acque territoriali dell’Unione europea. Il suo capitano l’ha condotta tra Myanmar, Indonesia, Madagascar, Mozambico e altre zone vicine all’Oceano Indiano.

Pagamenti e l’uso fino al maggio 2017

A occuparsi del “management” dello yacht, cioè delle spese per rifornimenti e manutenzione, delle paghe dell’equipaggio e del capitano (dotato di una carta di credito per le spese correnti), è una società di Monaco con cui la Aldabra ha sottoscritto un contratto il 1° settembre 2011, cioè prima di prendere possesso dell’imbarcazione da Unicredit Leasing.

L’azienda di Monaco aveva le deleghe di operare con i due conti correnti aperti in Italia dalla società torinese. Quei conti sarebbero stati alimentati da Carlo De Benedetti, che ha avuto a disposizione lo yacht fino al 31 maggio 2017, quando è stato ceduto a una società delle Isole Vergini Britanniche per 13,5 milioni di euro.

“Era un investimento, andava denunciato”

Secondo la Guardia di finanza, la Aldabra – società semplice – avrebbe dovuto dichiarare tra i redditi il valore di mercato della nave come se fosse un investimento patrimoniale “in Stati o territori a fiscalità privilegiata”. Doveva rientrare nella “quadro RW” in cui devono essere inclusi, ad esempio, gli immobili, opere d’arte e anche le imbarcazioni detenuti all’estero e questo vale anche per i contratti di leasing di beni che stanno fuori dall’Italia.

“Premesso che da un punto di vista formale non sono stati rispettati i dovuti obblighi di riservatezza – fa sapere il portavoce -, l’ingegner De Benedetti non ha mai evaso, o omesso di dichiarare, alcuna proprietà estera, in particolare per quanto riguarda l’imbarcazione MY Aldabra, che era di proprietà di UniCredit Leasing SpA in Italia”. Questa sarebbe “un’informazione data al pubblico e basata sul nulla, gravemente lesiva”, ragione per la quale “l’Ingegnere avvierà pertanto azioni a tutela della sua reputazione e in tal senso ha già dato mandato al professor Franco Coppi di procedere giudizialmente”.

Davigo: “La ricerca del potere appanna il ruolo delle toghe”

Il gruppo di DavigoAutonomia e Indipendenza contro la partecipazione di alcuni procuratori alla cena con politici, Salvini in testa e imprenditori, organizzata martedì sera da “Fino a prova contraria”. Dice AeI: “La magistratura, a differenza della politica, non deve cercare legittimazione sociale ma preoccuparsi della perdita di credibilità. Riteniamo che la partecipazione a una superpubblicizzata iniziativa-cena di lusso, insieme a politici, imprenditori e in generale uomini di ‘potere’, rischi di appannare l’immagine di autonomia e indipendenza della magistratura, che va invece preservata e custodita gelosamente”. La credibilità delle toghe passa anche dalla trasparenza e dalla qualità dell’azione del Csm, “fortemente compromesse dallo strapotere delle correnti”, sempre in auge:

“Non si riesce a spezzare questo meccanismo infernale” e denuncia che anche nella proposta di nomina di nuovi 4 magistrati segretari del Csm “la rigida appartenenza correntizia l’ha fatta da padrone”. I consiglieri Csm Ardita e Davigo hanno chiesto, in merito, l’apertura di una pratica.

Il povero don Sturzo e la calca degli eredi

Tutti al centro, scrutando l’orizzonte oltre il vituperato governo gialloverde dei sovranisti di destra e dei populisti post-ideologici. I cent’anni esatti dell’Appello ai liberi e forti di don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare italiano degenerato poi in Democrazia cristiana, ha fatto esplodere il dibattito sull’urgenza di fare un nuovo partito dei cattolici. Al centro, al centro, al centro: è la speranza che regge le migliaia di righe sparse su vari quotidiani di ieri, giorno dell’anniversario sturziano. E la prima osservazione è decisamente stupita. Per la serie: quanti sono gli eredi che si accalcano attorno al simulacro del glorioso popolarismo italiano?

Tanti, fin troppi. C’è persino il redivivo Silvio Berlusconi, l’uomo del bunga bunga e di molte altre cose, che in una lunga lettera al Corsera

rivendica don Sturzo. Poi ci sono Zingaretti, i cattolici del Pd, i prodiani, Castagnetti (che fa storia a sé), infine gli irriducibili modello Rotondi che ieri ha festeggiato con Rocco Buttiglione e Calogero, vecchie volpi dello Scudocrociato. Epperò proprio questa confusione conferma quanto sia lontana al momento la prospettiva di un partito unico dei cattolici, possibile exit strategy da questo tempo populista. Anche perché oggi la Chiesa italiana riflette le divisioni che agitano il Vaticano. A partire dalla fronda clericale e tradizionalista, vicina a Salvini e schierata contro Bergoglio, che sogna un altro papa, come ha detto ieri il cardinale Kasper. Il dibattito ovviamente proseguirà sulla scia di quanto annunciato dal presidente della Cei settimane fa: formare nuovi cattolici in politica. Toccherà a loro, però, decidere cosa fare, autonomamente. E l’avversario, a leggere bene Avvenire, l’Osservatore romano e soprattutto La Civiltà cattolica è il sovranismo di Salvini. Questo il nodo vero. Quanto ai Cinquestelle sono ancora tantissimi i fedeli che li votano, e che amano Francesco.

“Cene e nomine di giudici: una rogna preoccupante”

Magistrati indagati in Calabria per corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento mafioso. Toghe che partecipano a riunioni convocate in nome del “garantismo” insieme a un variopinto parterre di personaggi (da Flavio Briatore a Matteo Salvini, passando per Maria Elena Boschi). Polemiche sul ministro della Giustizia che va ad accogliere in aeroporto il latitante Cesare Battisti e poi posta un video su Facebook. E festeggiamenti per i cento anni di Giulio Andreotti. Gian Carlo Caselli, una vita da magistrato tra Torino e Palermo, osserva con pacatezza quello che sta succedendo. “Dell’inchiesta sui magistrati calabresi posso ovviamente parlare solo in astratto”, dice. “Ma se le prime notizie risultassero vere e fossero poi confermate dalle indagini in corso, per la magistratura (non solo calabrese) sarebbe un brutto colpo”.

Quindici toghe di vari uffici sono sospettate di reati gravi, legati all’esercizio delle loro funzioni.

Sì, sarebbe – sottolineo sempre il condizionale – una macchia velenosa. Ma c’è anche il risvolto della medaglia: è la stessa magistratura che ha individuato la macchia, che ha scoperchiato quello che potrebbe risultare un groviglio perverso. Prova inequivocabile che la magistratura rimane un’istituzione affidabile e solida, perché (e non tutte le pubbliche amministrazioni possono vantarsene) dimostra di saper applicare la legge con giusto rigore anche al suo interno. Senza indulgenze che contrasterebbero con il principio della legge uguale per tutti. In un momento difficile, non è poco. Comunque, oltre al lavoro del magistrato penale, bisognerà seguire con attenzione anche quello del Csm, perché ferite come queste vanno suturate bene e in fretta.

Il ritorno di Battisti? Ritiene che il governo lo abbia gestito in modo poco sobrio?

Vorrei dire un paio di cose, una per il presente e una per il passato. È comprensibile che chi governa voglia intestarsi anche qualche successo delle forze dell’ordine. È successo altre volte, ma senza le smodate esagerazioni avutesi con Battisti. Accolto come una star, mancava solo il red carpet, ed esibito nello stesso tempo come uno scalpo. Tutto ciò che può sembrare spettacolo, gogna o vendetta, più che applicazione della legge, non va. Essenziale invece è far capire a Battisti e ai tanti che sono stati contigui a quelli come lui, e che magari ancora ragionano come lui, la forza di quelle regole democratiche che lui e altri volevano abbattere a colpi di revolver sparati alle spalle di vittime inermi.

Quella per il passato?

Trovo ancora oggi inaccettabile l’atteggiamento dei francesi, manifestato anche nel caso Battisti: una saccente presunzione di superiorità verso il nostro sistema giudiziario, frutto di pregiudizio e ignoranza. Prima di giudicare si dovrebbe conoscere. Per esempio, si scoprirebbe che il processo ai capi storici delle Brigate rosse è stato fatto non solo con il pieno rispetto delle regole processuali, ma persino dell’identità politica degli imputati detenuti: è stato loro consentito di controinterrogare le vittime, a partire da Mario Sossi, un magistrato che avevano sequestrato e imprigionato. Nessun tribunale speciale. Nessuna persecuzione. I francesi si son bevuti le fake news raccontate dai fuorusciti italiani e da molti intellettuali che nel nostro Paese si nascondevano dietro la formula ipocrita ‘né con lo Stato, né con le Br’. Un suicidio per il buon senso e tanto ossigeno per i vari Battisti.

A Roma la giornalista Annalisa Chirico ha organizzato un “toga party” per una “nuova giustizia”, facendo sedere intorno a tavoli da 6 mila euro, alcuni importanti magistrati insieme a politici, imprenditori, lobbisti e varia umanità.

Premetto che ognuno va a cena con chi gli pare. Ma per i magistrati ci vorrebbe più attenzione e sensibilità. Il procuratore nazionale antimafia che ha declinato ufficialmente l’invito lo ha dimostrato. Altri no. Ed è preoccupante anche perché in parallelo con le cronache della lussuosa cena, circolano notizie su una specie di guerra di posizione circa prossime nomine a importanti uffici direttivi che potrebbero proprio riguardare anche magistrati ospiti della cena. Una rogna in più per un Csm che voglia sottrarsi ad accuse di lottizzazione. L’invito prevedeva il dress code smart casual: forse perché si temeva che qualche magistrato potesse presentarsi in toga e tocco per farsi meglio riconoscere? Ma questo, ovviamente, è uno scherzo…

Si sta celebrando con varie iniziative il centenario della nascita di Andreotti, dalla sua Procura portato a processo per mafia.

La salute della democrazia è un bene prezioso. Può non reggere a prove di masochismo istituzionale. Come nel caso delle manifestazioni per Andreotti. In sé nessuno le contesta. Ma se hanno il patrocinio del Senato, si svolgono in Senato, alla presenza del presidente del Senato, stendendo un velo su tutte le vicende e i misteri che hanno portato ad accostare la figura di Belzebù al sette volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro, in particolare cancellando la sua responsabilità per aver commesso fino al 1980 il reato di associazione a delinquere con Cosa Nostra, come accertato con sentenza di appello confermata in cassazione, ecco che si fa del male alle istituzioni democratiche. Che io sappia, l’unico che ha osato dirlo è il senatore dei Cinquestelle Mario Michele Giarrusso. Per il resto afasia e amnesia.

Mini-Tav e Di Maio: resa di “Repubblica”

D’accordo, l’importante è arrivare. Ossia scriverlo, prima o poi. Quindi va dato atto a Repubblica di aver riferito ieri che Luigi Di Maio è per il no al Tav, la tratta Torino-Lione che tanti industriali, le madamine, Salvini, Renzi e tanti simpatici giornali vogliono, anzi pretendono. Un no totale, anche al mini-Tav. E questo perché, sostiene il quotidiano di Largo Fochetti, “Di Maio ha capito – e ha dovuto spiegarlo al presidente del Consiglio Conte – che sul Tav a rischiare prima di tutto è lui”. E va bene. Però bisogna riavvolgere il nastro, di poche ore. E leggere il Fatto del giorno prima, in cui riferivano che dallo staff di Di Maio negavano qualsiasi intenzione di aprire a mediazione sulla Torino-Lione. Oppure compulsare le agenzie di qualche giorno fa da Strasburgo, dove il vicepremier e capo politico, accompagnato da Alessandro Di Battista, ribadiva che “se l’analisi costi benefici desse esito negativo, l’opera non potrebbe stare in piedi”. Così viene da chiedersi dove sia la notizia, se Di Maio lo diceva dritto da giorni. E dove sia finito il mini-Tav che, proprio Repubblica, dava ormai come una soluzione a cui il M5S si stava rassegnando. Per carità, magari il capo politico non era sincero, può essere il sospetto. O magari è solo Repubblica che si arrende all’evidenza dei fatti.

L’ex Br Lojacono: “L’Italia non ha mai chiesto l’estradizione, sconterei la pena in Svizzera”

Accetterebbe di scontare l’ergastolo in Svizzera Alvaro Lojacono, ex membro delle Brigate Rosse condannato per l’agguato di via Fani in cui la scorta di Aldo Moro – sequestrato e poi ucciso – venne sterminata. Lojacono, da tempo cittadino svizzero, rompe il silenzio dopo quasi vent’anni con un’intervista al portale Ticinonline.it pochi giorni dopo il recente arresto dell’ex Pac Cesare Battisti. Se l’Italia presentasse una richiesta di estradizione corretta e completa (cioè per tutte le condanne italiane cumulate), con la garanzia di non procedere più per gli stessi fatti, spiega Lojacono, “l’accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda“. In pratica, l’ex terrorista non ha mai scontato la pena per via Fani, ha fatto 11 anni di carcere in Svizzera per l’omicidio del magistrato Girolamo Tartaglione, non ha mai espresso parole di compassione per le vittime, lamentando spesso “la logica di vendetta” con cui lo Stato italiano (secondo lui) avrebbe combattuto il terrorismo, accetterebbe ora di scontare nel paese elvetico l’ergastolo, inflittogli da un giudice svizzero, secondo le sentenze italiane: “L’Italia non riconosce, né può riconoscere, la carcerazione sofferta in Svizzera per gli stessi fatti e reati – spiega – perché non solo non ha chiesto alla Svizzera l’estradizione, ma neppure ha chiesto alla Confederazione di processarmi in Svizzera. La certezza della pena vale anche per il detenuto: io sono stato scarcerato quasi venti anni fa.

L’ultrà: “Volevo vendicare la morte di Dede”

La guerriglia di Santo Stefano a Milano tra ultrà interisti e napoletani non solo fu un’azione militare, ma anche il tentativo di alcuni capi della curva Nord di anticipare un progetto dei tifosi partenopei di assaltare il Baretto, storico ritrovo nerazzurro. Agli scontri del 26 dicembre partecipa anche Alessandro Martinoli, varesino dei Blood and Honour capeggiati da Dede Belardinelli, morto investito in quella battaglia. Due giorni fa, Martinoli è stato arrestato con Nino Ciccarelli, il capo dei Viking. Sono accusati di rissa aggravata e omicidio come gli altri 30 indagati. Ieri, Martinoli ha confessato di aver partecipato agli scontri e accoltellato un napoletano. “Ero in via Zoia – ha detto – quando è stato trasportato il corpo di Dede”. L’amico con cui ha passato il Natale assieme ad altri ultrà tra cui il capo dei Boys Marco Piovella, è sofferente, pieno di sangue. “A quel punto – ha detto tra le lacrime a Salvini – sono tornato in via Novara, cercavo vendetta”. Troverà solo i resti degli scontri.

Torniamo al progetto dei napoletani di assaltare il Baretto. La voce arriva ai referenti della Nord più di una settimana prima. Ci credono per vari motivi. Il Baretto, che si trova nel piazzale dello Sport sotto la Nord, era già stato preso d’assalto il 9 agosto 2012 da ultrà croati durante un turno preliminare di Europa League tra Inter e Hajduk Spalato. Quella guerriglia fu lo spartiacque. E gli ultà napoletani hanno l’abitudine degli ultrà napoletani di compiere azioni lontano dallo stadio. È successo il 5 novembre 2017, prima del match con il Chievo a Verona con l’assalto al bar ritrovo dei tifosi dell’Hellas (altra squadra della città). Il 6 gennaio 2018 a Napoli, nei pressi della stazione, 200 ultrà partenopei incappucciati assaltano la polizia che scorta i veronesi (5 arresti il 7 gennaio scorso). Assieme al gruppo dei veronesi, anche ultrà laziali e tedeschi. A Udine, il 26 novembre 2017, prima della partita 150 ultrà azzurri tentano un assalto ai friulani fuori dallo stadio. Se tre indizi fanno una prova, tanto basta ai tifosi nerazzurri per ritenere credibile un possibile assalto al Baretto. A pesare c’è anche l’ingresso dei tifosi del Napoli nel settore ospitiil 21 ottobre 2017 durante Napoli-Inter, quando per la prima volta gli interisti cantano: “Vesuvio erutta, tutta Napoli è distrutta”. In prima fila molti capi che a Santo Stefano hanno dato il via agli scontri.

Riandiamo al 26. Quando Martinoli torna in via Novara per la sua vendetta la guerriglia è finita. Sull’asfalto resta un arsenale. Molte armi sono dei napoletani. Un dato che conferma l’ipotesi dell’assalto al Baretto. Ora, al netto dei prossimi passi della Procura, c’è un’altra partita che alza di nuovo il livello di allerta. Il 31 gennaio si gioca Inter-Lazio di Coppa Italia. Le due tifoserie sono gemellate. La curva Nord sarà chiusa. Fonti investigative spiegano che i laziali non entreranno allo stadio rimanendo con gli interisti, il che renderà l’atmosfera tesa. Alternativa più soft la vendita dei biglietti del primo anello anche agli abbonati del secondo (la curva). Nei prossimi giorni si valuterà la gestione dell’ordine pubblico.

“Cerchiamo tutti i terroristi, anche quelli neri dei Nar”

Davanti alle telecamere di Accordi&Disaccordi, il Guardasigilli giura che “l’impegno è quello di assicurare alla giustizia italiana tutti i terroristi latitanti, che siano di destra o di sinistra: non ci sono differenze”. E a margine, Alfonso Bonafede risponde così al Fatto: “Non lasceremo nulla di intentato per nessuno dei casi in esame, compreso quello di Vittorio Spadavecchia”. Ossia un ex Nar fuggito a Londra nel 1982, legatissimo al “Cecato”, a Massimo Carminati: il personaggio centrale di Mafia Capitale, ex militante del gruppo di estremisti “neri”. Eppure Spadavecchia è al sicuro secondo il The Times, che due giorni fa ha titolato: “L’Italia ha abbandonato la caccia al terrorista esule in Gran Bretagna”. Stando al quotidiano londinese infatti le autorità italiane avrebbero rinunciato all’estradizione perché da Roma non sono arrivati nuovi mandati e non stati presentati ricorsi, dopo che un giudice britannico nel 2016 si era pronunciato proprio contro l’estradizione.

Ma il 5Stelle Bonafede assicura che la partita non è chiusa. “Però ogni caso è diverso dall’altro, non si può generalizzare” dicono dal ministero della Giustizia, da dove forniscono maggiori dettagli sulla vicenda giudiziaria di Spadavecchia. Chiarendo che da via Arenula, circa due anni fa, avevano trasmesso alle autorità britanniche il mandato di arresto per l’ex terrorista, perché da Londra volevano il mandato invece della richiesta di estradizione. Ma l’istanza italiana era stata poi rigettata dalla Corte di Westminster: “essenzialmente – precisano – perché Spadavecchia era stato condannato in contumacia”. E comunque, insistono, “continueremo a lavorare in silenzio”. E d’altronde è lo stesso Bonafede a ricordare che “c’è un dipartimento del ministero che è impegnato quotidianamente per cercare di recuperare tutti questi terroristi”.

Però ci sono tanti altri fronti aperti e tanti altri nodi, per il ministro. E ieri sera il numero due del Movimento ne ha parlato a Loft, intervistato da Andrea Scanzi e Luca Sommi. Spiegando che all’aeroporto di Ciampino ad aspettare Cesare Battisti ci tornerebbe, anzi “lo rivendico”. Ma quel video sul ritorno in Italia in manette dell’ex terrorista, no, non lo rifarebbe: “È stato un errore, riguardandolo non mi è piaciuto, e la musica di sottofondo è un po’ oscena”. Insomma, dal Guardasigilli arriva l’abiura. Il filmato che ha fatto indignare tantissimi sul Battisti esibito come una preda non andava fatto. “Anche se la mia intenzione – sostiene – era quello di raccontare quella giornata e il ruolo che ha avuto la polizia penitenziaria nell’operazione”.

Però c’è anche Rita Bernardini, coordinatore della presidenza dei Radicali, che accusa Bonafede di aver violato la Costituzione con quel filmato. Ma il ministro ribatte: “Conosco e stimo Bernardini, però neanche le replico. Io non ho violato alcuna norma, e quel video non ha violato la dignità di nessuno”. Però resta il tema del rapporto con i terroristi, e con Battisti.

Così al ministro ricordano che Roberto Saviano firmò nel 2004 un appello a favore dell’ex terrorista e scrittore (ma nel 2009, precisa Scanzi, Saviano chiese di ritirarla). E Bonafede è duro: “Non c’è nulla di intellettuale da riconoscere a chi ha ucciso altre persone, e non accetto il discorso sulle falle nei processi per Battisti”. Poi si parla della cena di martedì scorso a Roma tra imprenditori, magistrati e politici vari: tra cui Matteo Salvini e Maria Elena Boschi. E il ministro un po’ ride un po’ punge: “Non mi hanno invitato, e comunque io non sarei andato, difficilmente si può parlare di giustizia in quel contesto. E poi la sera in cui erano tutti in quella terrazza a prezzi elevatissimi ero in visita al carcere di San Vittore per un’iniziativa con i detenuti”.

Infine il Tav, su cui Bonafede è secco: “Per me non si deve fare. Un mini-Tav? Un’opera fatta a metà per fare contente le due forze di governo non sarebbe certo un favore al Paese”. Sipario.

Verso l’archiviazione l’esposto contro Lo Voi. Scarpinato lo critica

Sul procuratore di Palermo Lo Voi, aspirante procuratore di Roma, c’è una preistruttoria disciplinare del Pg della Cassazione per un esposto del capogruppo in Antimafia del M5S, Giarrusso. In una conferenza stampa su alcuni arresti, Lo Voi avrebbe detto che un deputato regionale del M5S aveva aiutato uno degli indagati a impedire la nomina di una consulente della Commissione Ambiente facendo mancare il numero legale, ma non era vero: erano presenti tutti i membri del M5S. Lo Voi ha spiegato di aver parlato solo di mancato numero legale, attribuito al M5S dal gip che ha disposto gli arresti. Per questa vicenda la Prima commissione del Csm ha chiesto l’archiviazione dell’esposto perché si tratta di una “vicenda singola e sporadica, del tutto inidonea a determinare l’apertura di un procedimento per incompatibilità ambientale o funzionale”. Su Lo Voi c’è una nota molto critica inviata dal Pg di Palermo Scarpinato al Csm e alla Cassazione: il gip ha riportato elementi inviati dalla Procura, che a sua volta ha preso per buona un’informativa della pg, ma l’errore poteva essere “facilmente” accertato esaminando il video della seduta di Commissione, sul sito dell’Ars.

Salvini baciamo le mani: proprio come Gava

Quei corpi piegati e urlanti ai quali Matteo Salvini ha fatto toccare il suo braccio e spesso anche la mano, fanno anzitutto tristezza. Più che militanti infervorati sembrano umili clientes nell’atto di manifestare la propria provvisoria e chiassosa devozione al leader pro tempore. È successo a Renzi, è accaduto ancor di più con Berlusconi. Oggi siamo al super Matteo.

Uno tra i devoti si spinge nel baciamano, segno di plateale sottomissione al potente che può, decide, sceglie a chi fare bene e a chi no. Sul tema un tizio avanza la supplica: “Non farci pagare più la scorta a Roberto Saviano”.

Ecco, siamo a questo. L’immagine restituisce la plebe assiepata nei vicoli di Napoli, erano gli anni della Democrazia cristiana onnipotente, a quel coro di bocche che si posavano sul “ciciniello”, l’anello che don Antonio Gava, leader doroteo della Dc e proconsole di Napoli, infilava al mignolo. “Mi facevano schifo”, confesserà anni dopo lui stesso in un momento di straordinaria sincerità, interrogato sul sentimento che lo attraversava al tempo dell’incontro con questa specialissima tribù di adoratori. Al chiacchieratissimo Gava, che l’Italia vide persino ministro dell’Interno al pari del Nostro, quelle scene troppo cariche forse pure di sudori estranei alla vita ministeriale, scocciavano parecchio. Cosa che non capita a Salvini, che raccoglie con entusiastica meraviglia tutta questa imprevista devozione.

Gli avranno spiegato – lui è meneghino – dove sarebbe andato. Afragola è stata la florida campagna napoletana, un paesone agricolo che dopo il terremoto del 1980 è stato completamente trasformato, squartato da una edilizia pubblica e popolare. I frutteti fecero posto alle abitazioni dei senzatetto, dei nullatenenti, dei diseredati. E Afragola è divenuta periferia metropolitana, residenza di un nuovo sottoproletariato urbano che si è portato appresso la violenza gangsteristica facendo divenire quel paese di contadini un centro pulsante di camorra.

Salvini, che spesso eccede in autostima e fa selfie con tutti, ieri ha scelto di farsi fotografare, una foto felice, lui disteso e lei sorridente, con Cristina Acri, consigliere comunale di Afragola e moglie di tal Aniello Esposito, un imprenditore inquisito per concorso esterno per associazione mafiosa. Il marito della neoleghista afragolese è accusato di gestire, in nome di un clan, tre centri di accoglienza per migranti: a Cirò Marina, a Dugenta e il terzo proprio ad Afragola.

Ecco, tutto si tiene. Il leader del “prima gli italiani”, colui che rimanda a casa gli extracomunitari o li lascia affogare in mare, si ritrova dentro l’oleosa economia dell’accoglienza, nel pieno di una contraddizione politica così enorme e scioccante da radere la reputazione politica. Ma a Salvini, che ha il vento in poppa, oggi è concesso ogni contorsione. Nessuno vede né sente. La storia si ripete. Non è stato il Parlamento italiano, deputati e senatori non umili clientes di provincia, a decretare che Ruby fosse la nipote di Mubarak?