Condannati Romeo, Bossi jr. e Minetti: “Ora il salva Rixi”

Qualche avvocato ieri in aula ci ha provato ma è andata male. I giudici sono andati dritti e hanno condannato. Sul tavolo la maxi-inchiesta milanese sulle cosiddette “spese pazze” poi ribattezzata Rimborsopoli: 57 ex consiglieri regionali tutti accusati di peculato. Assolti in cinque e condannati in 52, tra loro Renzo Bossi detto il Trota figlio di Umberto (2 anni e 6 mesi), l’attuale capogruppo leghista in Senato, Massimiliano Romeo (1 anno e 8 mesi) e Nicole Minetti (1 anno e 8 mesi), l’ex igienista dentale nonché gran dama delle cene eleganti di Arcore. Circa 3 milioni di euro le spese considerate illegittime fatte con denaro pubblico tra il 2008 e il 2012. L’indagine era dell’ex procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che nel 2014 chiese il rinvio a giudizio per 62 politici.

La prescrizione galoppa e non sarebbe un problema se il reato rimanesse quello di peculato. In realtà, ieri, Jacopo Pensa, avvocato di Romeo, ha chiesto ai giudici di primo grado di rinviare la sentenza in attesa che il 31 gennaio entri in vigore la nuova legge Anticorruzione voluta dal governo gialloverde, che si tiene in pancia una piccola aggiunta all’articolo 316 ter (indebita percezione di erogazioni da parte dello Stato) in base alla quale potrebbe essere modificata in un reato più lieve l’accusa di peculato per i politici.

Rapida e stringata la decisione dei giudici: la legge non è ancora in vigore, quindi si condanna. L’articolo 316 ter riguarda “chiunque mediante l’utilizzo di dichiarazioni o di documenti falsi (…) consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi o finanziamenti”. Così il vecchio testo a cui sono state aggiunte altre poche righe che recitano: “La pena è della reclusione da uno a quattro anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri”. Ecco il pertugio per alleggerire l’accusa di peculato per i politici. Non più quella parola generica “chiunque” applicabile a un semplice cittadino ma il termine giusto “pubblico ufficiale”.

La modifica, come svelato da Ferruccio Sansa sul Fatto, si deve a dieci parlamentari leghisti, da qui il soprannome di “Salva Rixi”, l’attuale viceministro leghista alle Infrastrutture e Trasporti, imputato nella Rimborsopoli regionale ligure. L’avvocato Pensa ha spiegato: “La nuova legge ha una norma più adeguata alle condotte contestate”. Più adeguata e più lieve con un termine di prescrizione che si abbassa a 7 anni e, ricordiamolo, i reati contestati vanno dal 2008 al 2012. Il reato di peculato ha una prescrizione, invece, di 12 anni. Le motivazioni della sentenza arriveranno tra 90 giorni, dopodiché Pensa ha annunciato che in appello chiederà l’applicazione della nuova legge. Il risultato non è matematico. Il peculato prevede che i soldi dei politici siano già nelle loro disponibilità in un fondo comune da cui vengono poi distribuiti. L’indebita percezione prevede invece che il denaro arrivi al soggetto solo dopo false dichiarazioni.

Insomma la partita resta aperta. E non è detto che quando inizierà l’appello sia ancora in vigore questa legge. Nel frattempo ieri l’accusa ha retto al primo grado. Dei 52 condannati solo uno è stato rubricato a 316 ter, ed è il consigliere regionale leghista Luca Ferrazzi. Vanno così in archivio come spese illegittime i 19.651 euro della Minetti usati per cene di sushi e l’acquisto del libro Mignottocrazia. A Romeo sono contestati 22 mila euro per bar o ristoranti. Per il Trota circa 15 mila euro tra iPad, spazzolini, caramelle e patatine. Tra i condannati anche l’eurodeputato leghista Angelo Ciocca (1 anno e 6 mesi), il suo collega di FI Stefano Maullu (1 anno e 6 mesi), il deputato Alessandro Colucci (2 anni e 2 mesi). Pena più alta, 4 anni e 8 mesi, a Stefano Galli ex capogruppo della Lega in Regione. Per l’accusa pagò con soldi pubblici il matrimonio della figlia. In attesa di capire se la “salva Rixi” soccorrerà i 51 politici lombardi, si può fin d’ora dire che, con l’eventuale passaggio in giudicato di pene superiori a due anni, chi non avrà risarcito completamente andrà in galera. Lo prevede la nuova legge Anticorruzione.

Calenda fa l’appello: a parole sono tutti d’accordo nel Pd

Il fronte europeista unitariodi Carlo Calenda adesso ha il suo manifesto. L’ex ministro ha annunciato su Twitter la partenza di “Siamo europei”, un’iniziativa per formare lista unica con le forze politiche e civiche. Un progetto più ampio del Pd che raccoglie le firme e gli apprezzamenti di molti esponenti dem come Maurizio Martina, Nicola Zingaretti e l’ex premier Paolo Gentiloni. Martina aderisce con entusiasmo: “Ci sono! E alle primarie PD del 3 marzo lanciamo i volontari per la nuova Europa”. L’idea di Calenda convince anche chi è fuori dal Pd come Laura Boldrini e Giuliano Pisapia, oltre a raccogliere le firme delle promotrici di “Roma dice basta” e “Se non ora quando”, di sindaci come Beppe Sala, Giorgio Gori e Giuseppe Falcomatà, di Andrea Illy e Carlo Feltrinelli. Nel manifesto, Calenda ricorda i risultati raggiunti in 70 anni di Ue in campo economico e sociale, ma avverte che l’incrocio tra globalizzazione incontrollata, i cambiamenti delle innovazioni tecnologiche e un’immigrazione fuori controllo in tempi recenti hanno aumentato le diseguaglianze e messo in crisi la costruzione europea.

Le élite si pentono, ma dimenticano di fare la penitenza

C’è una pratica che sembra andare di moda: il pentimento delle élite. Nomi altisonanti come il presidente della Commissione europea, Claude Juncker, l’editore e finanziere Carlo De Benedetti, lo scrittore Alessandro Baricco, ma anche, nel suo ultimo libro, il mai sereno Enrico Letta o il giornalista Gad Lerner. Tutti quanti hanno espresso parole di ripensamento per peccati, spesso irrimediabili, come l’austerità o i cedimenti alla sinistra modello Tony Blair. Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo viaggio in Germania, ieri, ha dato forza a questo sentimento sottolineando l’importanza delle parole di Juncker e la sua critica alle politiche di austerità.

È stato forse l’ex premier lussemburghese quello che si è cosparso di più il capo di cenere, se non altro perché la confessione del peccato è stata fatta di fronte a tutta l’Europa. “Durante la crisi con la Grecia siamo stati poco solidali con la Grecia e troppo arrendevoli con il Fondo monetario internazionale”, ha dichiarato qualche giorno fa Juncker. E lo dici solo ora? deve aver pensato il premier greco, Alexis Tsipras. Ma quelle parole non sono isolate.

Si prenda il caso di Carlo De Benedetti, intervistato dal Sole 24 Ore: “Quanto all’élite europea credo sia necessaria un’autocritica. Negli ultimi 20 anni siamo stati troppo innamorati della globalizzazione (…) la responsabilità di questa accettazione acritica è da attribuire a Blair e al blairismo che ha contagiato la sinistra europea”. Quindi anche Matteo Renzi, immaginiamo. Ma prima forse anche Walter Veltroni e Massimo D’Alema tutti folgorati sulla via di Londra. Peccato che a quelle folgorazioni i giornali del suo gruppo abbiano dedicato tutta la loro potenza di fuoco.

Enrico Letta, che dopo la sconfitta politica nel Pd a opera proprio di Renzi si è trasferito a Parigi dove insegna a Science Po, dice invece nel suo ultimo libro Ho imparato che le élite hanno peccato di un “mix tossico di autoconservazione e machiavellismo politico”, osservazione corretta da parte di chi quella tossicità in qualche modo l’ha incorporata.

La strada del pentimento l’aveva già imboccata la scorsa estate Gad Lerner, proprio su questo giornale, quando, per denunciare “l’imborghesimento del Pd” e la sua “confidenza” con il capitalismo italiano non risparmiava critiche a se stesso: “Sono un borghese benestante, un radical chic, l’amico di Carlo De Benedetti. Sono tutte cose vere. Per questo la nuova classe dirigente del centrosinistra non partirà certo da quelli come me”. Di fronte a tali dichiarazioni la mezza ammissione sfuggita a Pier Luigi Bersani sul ruolo negativo operato da Giorgio Napolitano durante il passaggio dai governi Berlusconi a Monti sembra poca cosa, ma se approfondita aprirebbe davvero un sentiero inedito.

Quello che importa, comunque, non è tanto rimproverare incoerenze evidenti o segnalare la conversione tardiva. Quanto comprendere. Di fallimento del patto tra élite e popolo ha scritto Alessandro Baricco su Repubblica: “Le élite lavorano per un mondo migliore e la gente crede ai medici, rispetta gli insegnanti dei figli, si fida dei numeri dati dagli economisti (…) quando quel patto funzionava, era saldo, produceva risultati. Adesso la notizia che ci sta mettendo in difficoltà è: il patto non c’è più”.

Quello che ai più sfugge è che la rottura è avvenuta da tempo. Si potrebbe risalire alla nascita dell’Unione europea di Maastricht, testa pensante della moderna austerity.

Ma leggendo un articolo, uno dei tanti dedicati all’argomento, di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera restiamo in tempi più recenti: “Si ha l’impressione che le élite tradizionali (…) facciano sempre più fatica a comprendere, e quindi a rappresentare, ciò che non da oggi sta prendendo forma negli strati profondi delle società occidentali e che la crisi economica rinvigorisce (…). Di fronte a tutto ciò parlare di una ‘ribellione delle masse’ all’ordine del giorno sarebbe francamente esagerato. Ma tenere gli occhi ben aperti di certo non lo è per nulla”. Sono parole scritte non nel 2018, ma nel 2008, subito dopo il fallimento di Lehman Brother’s, nel pieno della grande crisi economica. Le risposte a quella crisi sono state le stesse di sempre – vero Bersani? – e il risultato, se non è stata la “ribellione” è però un disconoscimento. Dal voto del M5S o di vari populisti europei ai Gilet gialli. Contro qualsiasi governo, di destra o di sinistra. Ora, qualcuno vuole forse ripensarci e recuperare il terreno perduto. Ma un pentimento che si rispetti ha bisogno anche di una penitenza. E quella ancora non si vede.

Anche Meloni critica: “Quei soldi finiranno a immigrati e rom”

Anche Giorgia Meloni, all’indomani dell’approvazione del reddito di cittadinanza, si iscrive al partito dei critici. L’ex ministra ha raccolto l’invito del direttore di Libero Vittorio Feltri: proporrà un referendum contro la legge bandiera dei Cinque Stelle. Fratelli d’Italia – ha annunciato – è pronta a organizzare dei comitati di raccolta firme “per abolire questo pessimo provvedimento”. La posizione di Meloni sul reddito non è lontana da quella del Pd: secondo l’ex missina lo Stato deve aiutare chi non può lavorare, ma soprattutto dare possibilità di trovare un impiego a chi è in cerca di un posto (come effettivamente dovrebbe accadere con la riforma dei centri per l’impiego). Meloni ha proposto, peraltro, un utilizzo alternativo dei fondi stanziati per il reddito di cittadinanza: “Il costo complessivo è di 7,1 miliardi, destiniamoli ad abolire la fattura elettronica, a pagare i debiti della Pa, a ridurre le tasse alle imprese che assumono”. La leader di Fratelli d’Italia è sempre sensibile, se così si può dire, alle battaglie “etniche”: “Si direbbe che il reddito di cittadinanza – conclude – sia una manna soprattutto per immigrati, rom e lavoratori i nero”.

Toti è pronto all’addio. E scippa Forza Italia

Un sondaggio commissionato da lui medesimo dà un nuovo soggetto politico di centrodestra al 6%. Non troppo lontano da Forza Italia, che nelle rilevazioni più negative non supera l’8. Parliamo di Giovanni Toti, il governatore ligure che da tempo sta con un piede fuori dal partito di Silvio Berlusconi. “Un nuovo partito vale già come Forza Italia”, ha detto con un po’ di ottimismo mercoledì sera, in una cena in un ristorante romano vicino piazza del Popolo (“da Brillo”) di fronte a una ventina di parlamentari: una dozzina di deputati, 3-4 senatori e qualche esponente del territorio.

Non è detto che, quando il dado sarà tratto, tutti i presenti siano disposti a seguirlo, ma molti sì. Il fatto è che Toti ancora non si decide. “Aspetta di arrivare al numero sufficiente per un gruppo autonomo”, dice qualcuno. “Attende sondaggi migliori”, dice un altro.

Tentenna. Sembrava dovesse uscire da Forza Italia già la scorsa estate, poi se n’è riparlato con insistenza a ottobre, e invece niente. Ora il tema ritorna. “Sembra un muezzin, che a ore stabilite inizia la sua cantilena. Ma poi non fa nulla…”, dicono dal vertice del partito.

L’analisi del governatore ligure è lineare: Forza Italia, così com’è, non funziona. Non c’è linea politica e non c’è leadership. E poi, secondo Toti, a Matteo Salvini non passa nemmeno più per l’anticamera del cervello di tornare con B. Da qui la necessità di mettere in campo una nuova forza, che stia nel centrodestra ma che sia diversa da Lega e Fdi. Niente fusione con la Meloni, come sembrava un paio di mesi fa, ma un partito nuovo di zecca, che faccia da stampella di centro a Salvini.

Nel frattempo Toti conta le truppe. L’altra sera ad ascoltarlo c’erano i piemontesi Osvaldo Napoli e Daniela Ruffino; i lombardi Alessandro Sorte, Claudio Pedrazzini, Stefano Benigni; il friulano Roberto Novelli; il toscano Giorgio Silli; la sua fedelissima Manuela Gagliardi. “Trovarsi a cena tra amici per ragionare di politica con uno sguardo al futuro è la cosa più normale del mondo…”, osserva Napoli.

Molti sono lombardi, segno di un malcontento verso la coordinatrice Mariastella Gelmini. Alessandro Sorte, per esempio, era un suo fedelissimo. Malessere che si registra anche nel gruppo alla Camera, dove Gelmini soffre il gradimento di Mara Carfagna tra i deputati. E Toti è abile a infilarsi in queste bizze per portare acqua (e deputati) al suo mulino. Ormai il governatore è un corpo estraneo nel partito e con B. non parla da tempo. Dopo Alfano, un altro delfino (o sardina, per dirla alla Berlusconi) volta le spalle a Silvio.

Freccero lancia Freccero. E poi in onda “C’è Grillo”

La nuova Raidue di Carlo Freccero si avvarrà di un nuovo critico cinematografico: Carlo Freccero. Lunedì sera, infatti, in prima serata andrà in onda la versione integrale di Ultimo tango a Parigi. E il film di Bernardo Bertolucci sarà introdotto da una presentazione di circa 10 minuti proprio del direttore di Rai Due. Che andrà in video per la prima volta da quando ha preso le redini della seconda rete.

Lo stesso Freccero, tra l’altro, oggi scrive un articolo sul Messaggero dove si dice scandalizzato dal fatto che la recente scomparsa del grande regista sia passata sotto silenzio da parte dei media. Che, a parte qualche replica dei suoi film, non ne hanno quasi parlato. Ma le sorprese del neo direttore non finiscono qui. Lunedì 28 gennaio su Raidue, sempre in prima serata, farà il suo esordio C’è Grillo, nuovo format dedicato ai personaggi che hanno fatto grande la tv, a partire proprio da Beppe Grillo, cui sarà dedicata la prima puntata. Il programma, realizzato con immagini di repertorio, vedrà poi protagonisti Enzo Tortora, Roberto Benigni e Gianfranco Funari (con una puntata condotta da Enrico Lucci).

Il 25 gennaio partirà invece Povera Italia, ovvero la nuova versione di Night tabloid, il programma d’informazione condotto da Annalisa Bruchi, assieme ad Alessandro Giuli. Altra sorpresa sarà lo speciale del 4 febbraio su Fabrizio De André, con la messa in onda di uno dei suoi ultimi concerti, quello al Teatro Brancaccio di Roma nel 1998. Infine, sarebbe stata chiusa la trattativa per Morgan, che tornerà in tv come giudice nell’edizione 2019 di The Voice.

E lo stesso Morgan sarà protagonista, il 24 gennaio, di una serata dedicata a Freddie Mercury e ai Queen, sull’onda del successo cinematografico del film Bohemian Rhapsody, nelle sale in questi giorni. Si era parlato di un ritorno anche di Asia Argento, ma per ora non c’è nulla di fatto.

Il “partito dei rosiconi” che ridicolizza il reddito

Maria Elena Boschi riassume il reddito di cittadinanza così, su Twitter: “Dice Di Maio che da oggi cambia lo Stato Sociale. La colonna sonora infatti diventa ‘Una vita in vacanza’”. Sarebbe a dire: per l’ex ministra – che cita il tormentone dell’ultimo Sanremo – i beneficiari della misura contro la povertà sarebbero in pratica degli inguaribili fancazzisti. È una delle più raffinate reazioni “di sinistra” all’approvazione del reddito di cittadinanza (e non sorprende che le risposte al tweet della Boschi siano moltissime e furibonde). L’altra è quella di Matteo Renzi, che esprime la sua critica alla riforma dei 5Stelle con un video a bordo di un motoscafo a Venezia.

Insomma: il giorno dopo l’opposizione s’è svegliata con un certo senso di smarrimento. Il Salvimaio – conflittuale, pasticcione, contraddittorio quanto si vuole – ha portato a casa le due leggi su cui si è giocato quasi tutto in questi primi 7 mesi: reddito di cittadinanza e pensione con “quota 100”.

Il colpo è oggettivamente duro. Il polso allo smarrimento dell’elettore democratico lo si può tastare leggendo l’editoriale di Massimo Giannini su Repubblica: “Il governo del cambiamento mantiene la parola data (…) Lo fa con un’enfasi insopportabile (…) Lo fa con stile discutibile (…) Ma lo fa, contro tutto e contro molti”. Con il Fatto, Giannini articola il suo ragionamento: “Il Pd, con Gentiloni, aveva approvato una misura che assomiglia al reddito di cittadinanza, il Rei. Ma l’ha fatto in dosi omeopatiche, non si è mai spinto ad approvare una forma di tutela universale. È normale che ora si chieda: ‘Perché il reddito di cittadinanza non l’abbiamo pensato noi?’. Dal punto di vista politico i Cinque Stelle hanno fatto una cosa di sinistra”.

Stefano Fassina è un uomo di sinistra, ma notoriamente su posizioni più radicali rispetto a quelle del giornale di riferimento degli elettori dem. Descrive la reazione dei suoi ex compagni di partito con una sola parola: “Stupida”. Anzi due: “È pure autolesionistica. Sembra che non si rendano conto di quanto la disperazione sociale possa far apprezzare il reddito di cittadinanza. È una misura forse insufficiente, effimera, precaria. Insomma, ha dei limiti e dei problemi, ma è considerata importante da milioni di persone in condizione di povertà. E anche la bandiera della Lega sulle pensioni va in quella direzione: quota 100 manderà mezzo milione di persone in pensione prima”. Ancora più assurdo, secondo Fassina, che l’opposizione si limiti ad augurare sciagure: “Prima tifavano per lo spread, ora tifano contro il Pil e a favore della recessione”.

Il sociologo Domenico De Masi con i Cinque Stelle ha avuto alti e bassi, per usare un eufemismo. Ma sulla reazione dei “progressisti” all’approvazione del reddito di cittadinanza è molto chiaro: “Ma come si fa a pensare quello che ha scritto la Boschi? Come si fa? È la prima volta che si pensa a 5 milioni di poveri. Per una persona che ritiene di essere di sinistra e di avere a cuore le diseguaglianze sociali, quella di giovedì dovrebbe essere una giornata importante. E poi ci sono delle affinità evidenti con il reddito di inclusione voluto da Gentiloni, da Renzi e dalla Boschi. Con la differenza non trascurabile che il reddito di cittadinanza riguarda 5 milioni di persone invece che 800 mila. E otterranno 780 euro invece che 220. Capisco le critiche da destra, quelle del Pd proprio no”.

Parla anche la politologa del Pd Elisabetta Gualmini, in passato vicina a Renzi, ora sostenitrice della mozione Zingaretti. Lei il partito non l’ha lasciato, ed evita accuratamente la polemica con l’ex premier e con l’ex ministra delle Riforme. Ma riconosce: “Il reddito di cittadinanza in sé è una misura positiva, il problema semmai è il resto della manovra, che non lo sostiene con gli investimenti e la crescita. Di certo la sinistra non può e non deve cedere il tema delle diseguaglianze e della redistribuzione agli altri partiti. Avremmo dovuto valorizzare il Rei”.

Carige, via libera Ue: banca chiede garanzie su bond per 2 miliardi

L’Unioneeuropea ha concesso un sostanziale via libera al piano di salvataggio di Carige messo a punto dal governo italiano. “Le manovre – scrivono da Bruxelles – appaiono mirate, proporzionate e limitate nel tempo e nella portata e quindi in linea con le norme Ue sugli aiuti di Stato”. Un semaforo verde che l’istituto ligure ha colto al volo, annunciando ieri sera la richiesta al ministero dell’Economa di una garanzia per due emissioni obbligazionarie per un importo complessivo di 2 miliardi di euro con durata rispettivamente di 12 e 18 mesi, riservandosi la facoltà di chiedere l’attivazione dell’ulteriore garanzia per un miliardo. La decisione degli uffici Antitrust della commissione di Bruxelles ha incontrato l’ovvia soddisfazione del governo. Del resto, già l’altroieri il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, aveva sostenuto in un’audizione in Parlamento che l’eventuale ricapitalizzazione precauzionale di Carige “sarebbe solo una misura temporanea e quindi sarebbe improprio parlare di nazionalizzazione”. Non giungono, però, buone notizie dall’agenzia Fitch, che ha tagliato il rating a lungo termine della banca a ‘CCC’ da ‘CCC+’, otto livelli sotto il rating spazzatura, e pericolosamente vicino al default.

“C’è il rischio di incentivare nuovi mini-jobs all’italiana”

Quota 100 non era necessaria ma è costosa: andiamo già ora in pensione prima degli altri Paesi e ci sono solo 23 milioni di italiani che lavorano. Il reddito cittadinanza è più interessante: per la prima volta c’è uno strumento di reddito minimo con risorse sostanziali, dopo le tappe intermedie del Sia e del Rei. Tra le tante incertezze, però, l’aspetto più preoccupante è quello della governance. È bene aver separato la parte di contrasto alla povertà, affidata ai servizi sociali, da quella di inserimento nel mondo del lavoro, che spetta ai centri per l’impiego. Ma il processo resta complicatissimo, con mille istituzioni coinvolte, Poste, Anpal, Comuni, Regioni, centri per l’impiego, che non saranno sicuramente pronti il primo aprile di quest’anno e neanche il primo aprile del prossimo. Alcuni centri oggi non hanno neppure la connessione a Internet. C’è poi il problema del nero, e l’unica risposta sembra essere “carcere duro”, ma è un approccio che abbiamo già visto non funzionare. L’altra questione è: il sussidio incentiverà dei mini jobs all’italiana? L’azienda potrebbe essere tentata dal dire ai lavoratori: “Ti assumo part time o in stage e poi ti prendi il reddito di cittadinanza”. Servono micro-simulazioni per capire cosa può succedere e un monitoraggio degli effetti ma nella relazione tecnica non se ne parla.

“Troppa fretta per le Europee, serviva una fase di transizione”

Bisognava evitare l’errore di buttare tutto il lavoro fatto finora in materia di lotta alla povertà, soprattutto sul livello del beneficio, sulla platea dei beneficiari e le risorse investite. Il reddito di cittadinanza è stato determinante per consolidare questi due punti e questo è sicuramente positivo. Ma la fretta può essere cattiva consigliera. La scadenza elettorale prossima e la necessità di arginare il consenso alla Lega ha determinato un’accelerazione che però rischia di partorire un prodotto che incontrerà molte difficoltà che emergeranno dopo le Europee. Il sistema che si stava creando intorno al Rei (il reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni) viene sconvolto, e con esso la relativa governance. I Comuni non sono più in prima fila. E viene dato un ruolo enorme ai centri per l’impiego che sappiamo essere molto deboli. Ma dei cinque milioni di persone che hanno i requisiti economici per il reddito, l’Anpal ha stimato che solo il 25-30 per cento avranno i requisiti per accedere al lavoro, gli altri saranno in condizioni oggettive o soggettive che non permetteranno di inserirle al lavoro. Sono numeri in linea con quelli osservati all’estero in sistemi simili. Non nego che a regime il sistema possa funzionare, ma non hanno calcolato una fase di transizione che invece doveva esserci.