I “ricordi” di Modiano sono troppo fragili

“Alungo sono stato convinto che si potessero fare incontri veri soltanto per strada”. Di quali strade parliamo? Quelle di Parigi, più di mezzo secolo fa, quando il vecchio mondo sembrava trattenere il fiato un’ultima volta prima di crollare. Il tempo che il giovane Jean – protagonista e voce narrante – predilige è quello sospeso, prima dello spuntare del giorno. Il luogo? Uno in quei “caffè dell’alba” nei quali, finché fa buio, tutte le speranze sono ancora vive. Gli incontri, però, non fugano la paura del vuoto. Al contrario: la alimentano. Certe compagnie, infatti, danno le vertigini. “Prima o poi riuscirò a piantarle in asso”, pensa Jean, ricordando le bugie dette per liberarsene, i palazzi con uscita secondaria per abbandonarle sui marciapiedi, le frasi di circostanza per defilarsi, gli appuntamenti ai quali non si presenta.

Aprire Ricordi dormienti è come sedere al tavolo accanto a un anziano signore che riflette a voce alta su un pugno di istantanee del suo passato. Visi di donna, stanze, portoni, piazze, strade, frammenti di conversazioni tra sconosciuti, annotati per evitare che le parole vadano perse per sempre. Immagini delle quali la coscienza riesce a mettere a fuoco solo pochi dettagli. Il resto rimane sotto un sottile strato di neve e oblio. Non un romanzo né un racconto. Il tentativo di mettere ordine tra i ricordi. “Ciascuno è la tessera di un puzzle ma ne mancano molte e così la maggior parte rimane isolata”. Frammenti, dunque, appuntati su vecchi quaderni. Utili? Forse. O forse no, dal momento che, raccolti su queste pagine, non potranno più farsi legna per il fuoco di un nuovo racconto o del prossimo romanzo. Luci e ombre, come nel caso di alcune similitudini insolitamente fragili per un Nobel: “Il suo sguardo mi provocava un certo intorpidimento, come nei sogni in cui cerchi di fuggire ma rimani bloccato sul posto”; “con lei ci sarebbero stati altri incontri in quella stessa via, come le lancette dell’orologio che si ricongiungono ogni giorno a mezzogiorno e a mezzanotte”; “un’intuizione così fugace, come la luce minuscola di un fiammifero che brilla per pochi secondi nell’oscurità prima di perdersi”. Le fiammate, luminose ma brevi, riguardano il lacerante dilemma: realtà o possibilità? La ferita più grande non è perdere ciò che abbiamo vissuto, né ciò che abbiamo vissuto male (“se potessimo rivivere alle stesse ore, negli stessi luoghi e nelle stesse circostanze ciò che abbiamo già vissuto, ma viverlo molto meglio della prima volta, senza gli errori, senza gli inciampi e i tempi morti… sarebbe come ricopiare in bella un manoscritto pieno di cancellature”). La cosa che fa più male è perdere ciò che non si è mai vissuto.

Parigi – perfetta metafora dell’esistere – è disseminata “delle forme molteplici che le nostre vite avrebbero potuto assumere”, e certi incontri sono come incroci dai quali partono numerose strade, “e io – riflette Jean – ne trascuravo una, forse quella giusta”. E così, “migliaia e migliaia di sosia di te stesso si avventurano sulle migliaia di strade con non hai imboccato ai crocevia della tua vita, e tu che credevi ci fosse una strada soltanto”. Si può chiedere qualcosa di più a un Nobel? Si deve.

Marcello Fonte, da Cannes all’India (di Roma): “Ho molta fede, seguo la vita”

Marcello Fonte è tornato in Famiglia: lo spettacolo in scena all’India di Roma fino a domenica, ma anche il primo amore del palcoscenico, la famiglia allargata della compagnia Fort Apache Cinema Teatro, di cui fa parte dal 2016. In quell’anno, e con quei colleghi con cui recitava Tempo binario, Fonte fu notato e poi ingaggiato da Matteo Garrone per Dogman. Il resto è storia.

Scritto e diretto da Valentina Esposito, fondatrice di Fact con attori ex-detenuti, “il progetto è collettivo”, racconta Marcello. “Io interpreto un nonno migrante dalla Calabria ed è il mio secondo spettacolo con loro: nel primo fui scritturato perché uno degli interpreti era deceduto durante le prove. Aneurisma”.

Già Miglior attore a Cannes e agli European Film Awards, Fonte ha qualche reticenza a parlare di progetti futuri: “Ce ne sono, ce ne sono…”; sicuramente Via dall’Aspromonte di Mimmo Calopresti e Vivere di Francesca Archibugi, entrambi in uscita ad aprile, ma “televisione no”.

Quanto è cambiata la sua vita artistica? “Certamente sono più ambito… però ho lavorato sempre. Mi do da fare, anche nel sociale”. Al successo, invece, non ha mai pensato: quando gli è arrivato “ero pure un po’ demoralizzato perché pensavo che stessi sbagliando tutto e che era meglio forse che tornavo in Calabria a zappare”. Ride. “Ma proprio quando pensi questo, la vita ti dice: ‘No, rimani qua’. E così è successo a me, tutte le volte che mi stavo deprimendo. Non tutto si realizza sempre… Nel momento in cui accetti che nulla è obbligatorio, allora lì la vita ti dice: ‘Hai capito’”.

Né nel passato né nel futuro vive Marcello: “Non faccio previsioni. Io seguo, seguo. Seguo quello che la vita mi mette davanti, cerco di capire che mi vuole dire”. È religioso? “Io sì, sì. Ho molta fede… Ho un buon rapporto, come dire, con me stesso”.

 

Così parlò De Crescenzo

Lo spirito di Luciano De Crescenzo è salvo, ed è un gran regalo per il novantesimo compleanno del maestro. Da questa ricorrenza infatti è nata l’idea di portare in teatro Così parlò Bellavista, romanzo da cui poi lo stesso filosofo e scrittore ha tratto, diretto e recitato nell’omonimo film del 1984.

L’adattamento e la regia di Geppy Gleijeses sono fedeli ed efficaci nel mettere in scena il ritratto di una Napoli dove si affrontano le difficoltà quotidiane con buffa poesia e comica filosofia, che il pubblico sembra davvero apprezzare: cori di risate sincere che si levano qua e là davanti a una smorfia o a una battuta. Gleijeses stesso interpreta il professore di filosofia in pensione Gennaro Bellavista, dopo aver vestito i panni del genero nel film, Marisa Laurito è la moglie casalinga, sbrigativa ma concreta, che deve mandare avanti la baracca mentre il marito tiene le sue “lezioni” di fronte a una combriccola che raduna il vice sostituto portiere del condominio Salvatore – interpretato da un altro “veterano” di Così parlò Bellavista, Benedetto Casillo –, lo spazzino del palazzo e altri due giovani, e Gianluca Ferrato che è Cazzaniga, il nuovo direttore dell’Alfa Sud proveniente da Milano.

C’è tutta la tavolozza dei colori e delle sfumature di Napoli, con i suoi mondi – quello del microcosmo condominiale e quello fuori dal palazzo, di giovani disoccupati e malavitosi che chiedono il pizzo – che provano a parlarsi. Come avviene nello scambio di battute tra Bellavista e il camorrista che si presenta al negozio del genero, Giorgio, e della figlia Patrizia. Il professore chiede all’altro, con disgusto per quel modo di fare violento: “Vi qualificate come napoletani e non vi rendete conto che avete ammazzato Napoli?”.

Essere napoletani, per Bellavista, è ben più che essere nati in quella città. Il professore ha una teoria, quella che ci sono i cosiddetti “uomini d’amore”, chi ama stare in mezzo agli altri (i napoletani), e gli “uomini di libertà”, chi tiene alla propria privacy. In base a questo, Bellavista etichetta come “uomo di libertà” il nuovo inquilino del palazzo, Cazzaniga, che viene dal Nord e porta scompiglio spostando i nomi sulle cassette delle lettere, bevendo tè invece che il caffè, mangiando il panettone invece dei mostaccioli a Natale. Con il rinforzo del portiere Salvatore che in una sorta di razzismo rovesciato definisce Cazzaniga e i milaesi “un’altra razza”.

Sarebbe facile dire che la storia si regge su stereotipi, invece la bravura dell’autore e Gleijeses è di riprodurre archetipi, tinti in modo caricaturale. Proprio perché da qui si parte, le cose possono cambiare: la teoria del professore è destinata ad andare in frantumi quando i due personaggi s’incontrano e si conoscono a fondo. Cazzaniga, che va al lavoro la mattina presto, rivela che se potesse si alzerebbe tardi e berrebbe molto volentieri il caffè piuttosto che il tè, ma sua moglie è tedesca e ha queste abitudini.

La morale qual è? Come sintetizza Bellavista alla fine della loro chiacchierata rivelatrice: “Si è sempre meridionali di qualcuno”.

Rossi Stuart sarà Caravaggio diretto da Placido

Sarà Kim Rossi Stuart il protagonista del nuovo film su Caravaggio che Michele Placido dirigerà nei prossimi mesi per Goldenart, Lotus e Rai Cinema adattando una sceneggiatura da lui scritta con Salvatore De Mola.

Dopo il successo della trasposizione del suo romanzo La ragazza nella nebbia (David di Donatello per la migliore opera prima), Donato Carrisi tornerà a dirigere nelle prossime settimane a Roma Toni Servillo in L’uomo del labirinto, un nuovo thriller prodotto da Colorado Film e Medusa tratto da un altro suo noir incentrato su una ragazza scomparsa e ritrovata, un uomo senza più nulla da perdere e una caccia al mostro con risvolti psicologici. Lo scrittore pugliese debutterà inoltre a fine anno nella fiction tv come showrunner di un adattamento del suo best seller Il tribunale delle anime diretto a Roma da Stefano Lodovichi per Gavila e Colorado film e Sky che lo trasmetterà in 8 episodi da 50 minuti ciascuno.

Cate Blanchett, Billy Cudrup e Kristen Wiig sono gli interpreti principali di Che fine ha fatto Bernadette?, un nuovo film di Richard Linklater tratto dal fortunato libro di Maria Semple Where’d You Go, Bernadette? dove un’architetta agorafobica sceglie di far perdere le sue tracce alla vigilia di un viaggio verso l’Antartide a cui si appresta con la sua famiglia.

Si gira a Roma Nel bagno delle donne, una commedia diretta dall’esordiente Marco Castaldi e interpretata da Luca Vecchi, Stella Egitto, Daphne Scoccia e Francesca Reggiani per Bella Film e Kahuna Film. In scena un uomo molto stressato che si chiude a chiave nella toilette di un cinema deciso a non uscire fino a quando non terminerà la pausa di riflessione che in tanti gli hanno consigliato, ma pronto ad accogliere le persone che lo andranno a cercare.

Il “douleur” della Duras è solo al femminile

Quanto mai opportuno che “dolore” in francese sia un sostantivo femminile, e dunque La douleur, romanzo autobiografico della somma Marguerite Duras, scritto nel 1944 ma pubblicato solo nel 1985, ora trasposto al cinema da Emmanuel Finkiel.

Film femminile, femmineo e femminista, complice la lettera della Duras, che risuona per bocca di Mélanie Thierry, minuta e volitiva, e ancor più brava: La douleur è una prova di intelligenza, emotiva e tout court, nonché un peana alle virtù antiborghesi, al primato della sostanza umana sulla forma sociale, un chiodo conficcato lì dove sta scritto “è giusto”.

Giusto aspettare un marito, pensarlo ogni minuto, di ogni ora, per ogni giorno, seppure forse non lo si ami più, di certo lo si vorrebbe lasciare: accade a Marguerite, nella Francia del 1944 occupata dai nazisti, giacché il consorte, Robert Antelme, come lei intellettuale e membro della Resistenza, viene preso dalla Gestapo e mandato chissà dove. Lei vorrebbe un figlio da Dionys Mascolo (Benjamin Biolay), compagno di lotta e desiderio, lei incontra il collaborazionista Rabier (Benoît Magimel) e ci gioca come il topo con il gatto, e viceversa: tornerà, lui? Finkiel al diapason della Duras sa come accordarsi, ad Auschiwtz il padre perse i genitori e il fratello, ma questa affinità non è mai intesa né utilizzata per prevaricare il diario di Marguerite, al più integrato con qualche notazione sugli ebrei e lo sterminio: il film non vuole mai sentirsi superiore al libro che adatta, bensì prestargli fede, cercando di trasformarne al meglio le potenzialità cinematografiche, che la futura regista vi aveva puntualmente ma ancora inconsciamente disseminato.

Che cos’è l’attesa, che cos’è il dolore per un’assenza, che cos’è la Storia messa in abisso in una storia, che cos’è la cosa giusta, da sentire ancor prima che da fare? Finkiel non si sottrae, con la voce over della Thierry legge la Duras per filo e per senso, con le testimonianze dei salvati ricorda come vedere l’orrore escluda spesso il poterne parlare, però poi fa il contrario. Sopra tutto, ci dice dell’attesa, un tempo che tempo non è, la compresenza di un qui e ora e un là e non ora che potrebbe non arrivare mai: un tempo parziale, monco e affilato che in Marguerite s’abbina a un dolore in contumacia, da mandare ai pazzi.

Sicché Finkiel toglie definizione alle immagini, certezza al futuro, intelligibilità ai sentimenti, senso alla Storia, e raddoppia, divarica, dialettizza: una, nessuna e quante Marguerite, forse le due che condividono la stessa inquadratura e un tempo doppio? In tempo di guerra nessuna cortesia per gli ospiti, Dyonis sferza: “A cosa tieni di più? A Robert Antelme o al tuo dolore?”, Marguerite non è da meno: “A ogni ora, di ogni giorno” il marito l’ha pensato, ma è intenzionata a lasciarlo. Perché solo se rimaniamo fedeli a noi stessi la Storia non avrà la meglio sulla storia, e sulla verità. Da vedere.

 

Una giovane studiosa ritrova il testo su “Degli Angeli”

Il poeta esule spagnolo Rafael Alberti – morto 20 anni fa – sapeva dell’esistenza di un dattiloscritto nato come intervento pubblico, ma lo aveva cercato invano. Ora quel foglio è tornato alla luce, grazie al lavoro filologico di Francesca Coppola, dottoranda in Letteratura spagnola all’Università di Salerno, che l’ha recuperato tra le carte custodite nell’Archivio contemporaneo Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze. Nel 1966 Einaudi pubblicò in Italia la silloge di Alberti “Degli Angeli” (tradotta da Vittorio Bodini): il 30 maggio 1966, nei sotterranei della Libreria Einaudi – chiusa da tempo – si ritrovarono per presentarlo, oltre all’autore, lo stesso Bodini, l’ispanista Ignazio Delogu, il poeta Giovanni Toti e Pier Paolo Pasolini. Che, per l’occasione, scrisse appunto un testo nel quale dimostrava all’amico tutto lo stupore e la venerazione per i suoi versi, “con un misto di terrore e di ammirazione, di tenerezza e di difesa”. Il testo di PPP che qui riportiamo è stato finora pubblicato soltanto sulla rivista scientifica SigMa diretta da Flavia Gherardi.

PPP, l’apprendista poeta nella bottega di Rafael Alberti

Quando leggo un poeta non mi viene mai in mente che scrivo io stesso delle poesie, è perciò che lo leggo come un critico, come un filologo, come un linguista; sento questo ingenuamente, come un dovere. Con Rafael Alberti non riesco ad applicare questo dovere, abbastanza umile, ma anche difensivo. Credo che non ci sia razza di poeta più diversa da me di quella di Rafael Alberti; di fronte a tanta diversità, riesco forse di nuovo a trovare il diritto di leggerlo come poeta, come un poeta apprendista. Tutto quello che so della poesia, non vale infatti per conoscere Alberti. Tutto quello che so l’esaurisco per fare poesia io stesso, e per farne esperienza nel leggere, da critico, gli altri poeti che un po’ mi somigliano. Ma la più bella cosa del mondo è continuare ad apprendere. Chi di noi non desidererebbe essere sempre apprendista, ragazzo di bottega? È così che mi sento leggendo Alberti. Come un ragazzo che entra a imparare il lavoro a una bottega, e vede il maestro intento all’opera: un’alta montagna di cristallo.

Come si faccia ad avere la natura di poeta di Rafael Alberti mi è inconcepibile: lo guardo come un negro, che non ha mai visto un bianco, guarda un bianco. Con un misto di terrore e di ammirazione, di tenerezza e di difesa. Dunque tu fai poesia così? E sei poeta? Ma come è possibile, se a me pare che ci sia un unico modo di essere poeta, il mio? Come è possibile che ci siano due poesie? Come è possibile che dove c’è qualcuno che parla di sé, con quella confidenza, con quella astuzia, ci sia invece uno che parla di un se stesso così strano, come senza confidenza con sé, con tanta abilità e niente astuzia, con sortilegi senza costo, puri, con ricerche d’amore che non implicano complessi di inferiorità, con tecniche metafisiche che non implicano nessuna reale ambiguità? Com’è possibile ripetere lo stesso motivo con la naturalezza di un artigiano o di un animale? Fare settemila poesie e settemila oggetti tutti puri, con dentro tutto e niente di sé, parlando sempre di sé e senza mai confessarsi? Come puoi Rafael Alberti dare un ritratto così vero, così umano e così articolato di te, se mai una volta discendi a patti con le norme degli autoritratti, se hai tanto selvaggio, donchisciottesco pudore?

Parli forse di te come un bambino, che non sa che la sua millanteria è contraria al pudore? Un bambino che non parla di sé, perché si è estraneo come un dio, ma delle proprie imprese e della propria immagine nel mondo? Ma perché parli delle tue imprese, se non ti interessano? Perché parli di quello che ti è capitato o ti capita, se poi riferisci tutto a una cima immacolata, che pure, tu sai che è soltanto l’abitudine di un figlio di vecchi cattolici che non si svelavano agli altri solo per buona educazione o ipocrisia? Con che legname hai bruciato tutto questo, rendendolo materiale di tanto valore? Perché ti metti a scrivere una poesia? Se non descrivi, non ti confessi, non accusi, non rimpiangi, non piangi, non ti lodi, non fingi di lodarti, non aduli il lettore, non gli chiedi pietà ecc. ecc. Come ti si presenta la poesia? Senza neanche un po’ di voglia di essere fedele alla realtà, che si rimpiange sempre? Se sei stato nelle “città di mare che non conoscono crepuscoli”, dove anch’io sono stato, che conosco, e che mi fanno impazzire di nostalgia, come fai parlandone a non essere neanche un poco realistico, neanche un poco, un poco solo, descrittivo? Pensi che tutta l’Europa e tutta la Spagna abbiano lavorato per metterti in mano un bulino prezioso con cui lavorare l’anima come una scaglia?

Come puoi sempre pensare e fare la poesia, anche la più piccola, come un inno? E se i tuoi sono inni, inni di quale religione? Forse di una piccola religione, che comprende una nazione, una confessione, una lotta politica, una vittoria dei cattivi con poche buone speranze per il futuro? Ma perché tutto questo è detto attraverso inni? Perché il rimpianto per ciò che non è stato o è stato male e ingiustamente, è sempre, in te, anche nella dolcezza straziante, così duramente pieno di ritegno, da non poter esprimersi che con altre parole? Come fai a essere così forte da sostituire a una a una le parole che hanno tanto peso, tanto significato e tanto dolore nella nostra vita, strapparle, e sostituirle con parole analoghe trovate nella tua officina di poeta? Dove tieni la chiave di quella officina? Ci può essere tanta interezza e naturalezza di canto in una natura di poeta? E non solo quando è canto, ma anche quando è discorso?

E tutta una vita, è possibile che possa essere così trasposta, senza mai un attimo di incertezza o di pentimento, nei termini di un emblema, in uno snodarsi di immagini che sono una scommessa di perfezione? Come si fa a fare una serie di poesie “una più bella dell’altra”, a suscitare come nuovo sempre lo stesso entusiasmo nel lettore? Dove sono le ombre? Maledetti angeli! Lo sai che non si possono leggere tutte di seguito le tue poesie, perché l’entusiasmo, ripetendosi sempre uguale, diventa insostenibile?

Per gentile concessione di Graziella Chiarcossi

Tsipras rischia sulla Macedonia (del Nord)

Dopo due giorni di aspro dibattito in Parlamento conclusosi con la fiducia seppur di misura, 151 voti su 300, al governo guidato da Alexis Tsipras, le cancellerie di tutto il mondo attendono ora l’esito di un altro voto che si terrà probabilmente la prossima settimana.

I deputati greci saranno chiamati a ratificare l’accordo siglato l’estate scorsa a Prespa tra Tsipras e il suo omologo macedone Zoran Zaev per concludere 28 anni di dispute sul cambiamento del nome dell’ex repubblica jugoslava di Macedonia in Repubblica di Macedonia del Nord. Questo storico accordo, consigliato a Tsipras, per usare un eufemismo, dalla Nato e dall’Unione Europea (che infatti la settimana scorsa aveva inviato la cancelliera Merkel ad Atene) dato che la Grecia ha il diritto di veto sulla questione precludendo l’ingresso del piccolo paese balcanico nella Ue e nella Alleanza Nordatlantica, con l’avvicinarsi del voto parlamentare è diventato anche un’occasione per Tsipras di ridisegnare il panorama politico greco in vista delle elezioni di ottobre, sempre che non si vada a elezioni anticipate. L’avvicinarsi del passaggio in aula ha costretto infatti il ministro ultranazionalista della Difesa, Panos Kammenos, a rassegnare le dimissioni per non perdere il proprio elettorato in vista delle consultazioni di quest’anno, pena l’esclusione dal parlamento del proprio partito della destra sovranista Anel contrario alla concessione del nome Macedonia, che per i greci corrisponde solo alla regione greca dove nacque Alessandro Magno.

Il problema è che il partito dei Greci Indipendenti di Kammenos è stato fino alle dimissioni del proprio leader il partner di minoranza della coalizione di governo. Ora Tsipras sta chiedendo ai piccoli partiti di centro come Potami e di centro sinistra come Dimar e ai socialisti dell’ex Pasok, ora diventato Movimento per il Cambiamento non solo di votare a favore dell’accordo ma di formare una compagine progressista per formare una nuova maggioranza da consolidarsi con il voto di ottobre o prima in caso di anticipazione delle elezioni. Per questo motivo Tsipras ha preferito rischiare di cadere chiedendo la fiducia. Avrebbe potuto non chiederla visto che le dimissioni di Kammenos non comportavano la caduta del governo. Ma per Tsipras formare una nuova maggioranza di centro-sinistra è vitale per consentirgli di vincere nuovamente le elezioni e bloccare il ritorno al governo del maggior partito di opposizione, quella Nea Demokratia di centro-destra che nei sondaggi sarebbe almeno 5 voti avanti a Syriza.

Da parte sua, il leader di Nea Demokrazia, Kyriakos Mitsotakis, ha ribadito la sua richiesta di elezioni generali anticipate ma tutti sanno che in realtà spera non si terranno perché, se dovesse vincere, a quel punto il cerino della Macedonia rimarrebbe nelle sue mani e non potrebbe più usarlo come clava contro gli avversari in nome dell’identità nazionale. La parabola di Tsipras sta andando dunque in senso opposto : da ribelle a beniamino dell’Europa. E della Nato.

Ghana, ucciso Hussein-Suale. Con i reportage da infiltrato smascherò il calcio “sporco”

È stato ucciso con tre colpi di pistola intorno alle 11 di mercoledì sera a Madina, un sobborgo di Accra, la capitale del Ghana, il giornalista investigativo Ahmed Hussein-Suale, 34 anni: stava guidando verso casa quando gli si è affiancata un motocicletta con due uomini che gli hanno sparato.

Suale era un reporter che lavorava sotto copertura e collaborava con il collettivo di giornalisti d’inchiesta Tiger eye private investigation: aveva denunciato la corruzione all’interno della federazione calcistica ghanese e di Kwesi Nyantakyi, il presidente della federazione. , che era anche vicepresidente della Confederazione africana del calcio e membro del Comitato esecutivo della Fifa. Suale lo aveva filmato mentre intascava tangenti per un totale di 65 mila dollari.

La Tiger eye, guidata dal giornalista Anas Aremeyaw Anas che in pubblico si presenta sempre a volto coperto per non rivelare la propria identità, dal lavoro del reporter ne ha tratto poi il documentario Numero 12: Quando l’avidità e la corruzione diventano la norma, in seguito distribuito dalla Bbc. A quel punto un terremoto si è abbattuto sul mondo del calcio ghanese. Il capo della federazione si dimise dal suo incarico e venne multato dalla Fifa – 500 mila franchi svizzeri – per conflitto d’interessi. Sempre la Fifa poi lo interdisse a vita da tutti gli incarichi nel mondo del calcio sia a livello nazionale che internazionale. La federazione calcistica africana inoltre sospese una cinquantina di arbitri. Ma i guai per Suale arrivarono presto. Dopo la messa in onda del documentario da parte della Bbc, il parlamentare ghanese Kennedy Agyapong fece circolare alcune foto del giornalista chiedendo che venisse punito.

Intervenne da New York il Comitato per la protezione dei giornalisti in difesa di Suale contro il politico ghanese, parlamentare in un paese dove la violenza contro i cronisti non era la norma. Il primo giornalista ucciso risale al 1992, Suale è stato il secondo.

Brexit, il muro di Corbyn: non si tratta sul ‘no deal’

“Se il governo rimane intransigente, bloccando il supporto all’alternativa del Labour per calcoli elettorali, e il Paese si trova di fronte al potenziale disastro di un ‘no deal’, è nostro dovere prendere in considerazione le altre opzioni uscite dal nostro congresso, inclusa quella di una votazione popolare”.

Ieri per la prima volta il segretario laburista Jeremy Corbyn, durante un atteso discorso nella cittadina costiera di Hastings, ha aperto pubblicamente all’ipotesi di sostenere un secondo referendum, come richiesto da circa il 70% dei membri del suo partito e da 71 su 256 deputati laburisti.

Un’apertura dovuta forse anche alla minaccia dei Lib-Dem, il cui segretario Vince Cable ha dichiarato che appoggerà una nuova mozione di sfiducia laburista solo in cambio dell’impegno a sostenere un People’s Vote. E andare a elezioni è ancora il primo obiettivo del segretario. Corbyn comunque non ha chiarito quale sarebbe la posizione del suo partito, se in una eventuale campagna referendaria sceglierebbe il campo del Remain, preferito dagli iscritti, o quello del Leave, che nel referendum del giugno 2016 aveva raccolto tre milioni di voti rossi. Lo deciderà il partito a tempo debito, ha spiegato.

Sono passate meno di 24 ore dal fallito tentativo di far cadere il primo ministro May, mercoledì sera, con una mozione di sfiducia bocciata per 19 voti. Corbyn riparte subito all’attacco della linea dell’esecutivo. L’offerta di dialogare, dice, “è solo di facciata, non un serio impegno ad affrontare la nuova realtà” di un ‘deal’ morto e sepolto dopo la rovinosa bocciatura di martedì scorso alla House of Commons. Per questo, Corbyn rifiuta, finché il governo non abbia tolto dal tavolo la “disastrosa” opzione di un ‘no deal’, di partecipare alle consultazioni avviate ieri mattina dalla premier con tutte le forze politiche per uscire dall’impasse.

Malgrado il veto di Corbyn, esplicitato in una lettera ai suoi parlamentari, i deputati si parlano eccome. Il ministro ombra per la Brexit, Keir Starmer, non ha mai interrotto il dialogo con i Tory Remainers: un rapporto che potrebbe rivelarsi decisivo per orientare la Brexit verso una versione morbida. E nel pomeriggio, in un colloquio a quattro, i laburisti Hilary Benn e Yvette Cooper hanno fatto arrivare a David Lidington, vice di fatto della May, e al potente ministro per l’Ambiente Michael Gove il messaggio del segretario: il primo passo è scongiurare un ‘no deal’.

Theresa May non può farlo, almeno apertamente, perché questo alienerebbe i falchi Brexiteers e gli unionisti irlandesi di cui ha ancora bisogno per restare in sella.

Ma uno scoop del Telegraph ieri ha rivelato un fondamentale retroscena. In una conference call con 330 imprenditori importanti, subito dopo la bocciatura dell’intesa con l’Ue, il ministro del Tesoro li ha rassicurati sul fatto che il ‘no deal’ possa essere fermato grazie a una mozione parlamentare che sarà presentata lunedì dal deputato conservatore Nick Boles e che, garantisce Hammond, può ottenere la maggioranza parlamentare. Colpo basso, da cui Downing street ha dovuto prendere le distanze.

Sempre lunedì, al termine di un fine settimana di colloqui, May dovrà presentare la bozza del suo piano B, che il Parlamento voterà il 29 gennaio. A due mesi esatti dal Brexit Day.