“Alungo sono stato convinto che si potessero fare incontri veri soltanto per strada”. Di quali strade parliamo? Quelle di Parigi, più di mezzo secolo fa, quando il vecchio mondo sembrava trattenere il fiato un’ultima volta prima di crollare. Il tempo che il giovane Jean – protagonista e voce narrante – predilige è quello sospeso, prima dello spuntare del giorno. Il luogo? Uno in quei “caffè dell’alba” nei quali, finché fa buio, tutte le speranze sono ancora vive. Gli incontri, però, non fugano la paura del vuoto. Al contrario: la alimentano. Certe compagnie, infatti, danno le vertigini. “Prima o poi riuscirò a piantarle in asso”, pensa Jean, ricordando le bugie dette per liberarsene, i palazzi con uscita secondaria per abbandonarle sui marciapiedi, le frasi di circostanza per defilarsi, gli appuntamenti ai quali non si presenta.
Aprire Ricordi dormienti è come sedere al tavolo accanto a un anziano signore che riflette a voce alta su un pugno di istantanee del suo passato. Visi di donna, stanze, portoni, piazze, strade, frammenti di conversazioni tra sconosciuti, annotati per evitare che le parole vadano perse per sempre. Immagini delle quali la coscienza riesce a mettere a fuoco solo pochi dettagli. Il resto rimane sotto un sottile strato di neve e oblio. Non un romanzo né un racconto. Il tentativo di mettere ordine tra i ricordi. “Ciascuno è la tessera di un puzzle ma ne mancano molte e così la maggior parte rimane isolata”. Frammenti, dunque, appuntati su vecchi quaderni. Utili? Forse. O forse no, dal momento che, raccolti su queste pagine, non potranno più farsi legna per il fuoco di un nuovo racconto o del prossimo romanzo. Luci e ombre, come nel caso di alcune similitudini insolitamente fragili per un Nobel: “Il suo sguardo mi provocava un certo intorpidimento, come nei sogni in cui cerchi di fuggire ma rimani bloccato sul posto”; “con lei ci sarebbero stati altri incontri in quella stessa via, come le lancette dell’orologio che si ricongiungono ogni giorno a mezzogiorno e a mezzanotte”; “un’intuizione così fugace, come la luce minuscola di un fiammifero che brilla per pochi secondi nell’oscurità prima di perdersi”. Le fiammate, luminose ma brevi, riguardano il lacerante dilemma: realtà o possibilità? La ferita più grande non è perdere ciò che abbiamo vissuto, né ciò che abbiamo vissuto male (“se potessimo rivivere alle stesse ore, negli stessi luoghi e nelle stesse circostanze ciò che abbiamo già vissuto, ma viverlo molto meglio della prima volta, senza gli errori, senza gli inciampi e i tempi morti… sarebbe come ricopiare in bella un manoscritto pieno di cancellature”). La cosa che fa più male è perdere ciò che non si è mai vissuto.
Parigi – perfetta metafora dell’esistere – è disseminata “delle forme molteplici che le nostre vite avrebbero potuto assumere”, e certi incontri sono come incroci dai quali partono numerose strade, “e io – riflette Jean – ne trascuravo una, forse quella giusta”. E così, “migliaia e migliaia di sosia di te stesso si avventurano sulle migliaia di strade con non hai imboccato ai crocevia della tua vita, e tu che credevi ci fosse una strada soltanto”. Si può chiedere qualcosa di più a un Nobel? Si deve.