Asse Lega-5Stelle: “Le scritte in arabo dagli ospedali cittadini vanno rimosse”

Tempi difficili per la lingua araba in Emilia-Romagna. Dopo la polemica – con conseguente retromarcia della dirigente scolastica – sulle lezioni di arabo e Corano in una scuola del modenese, in consiglio comunale a Imola passa un emendamento presentato dal leghista Daniele Marchetti per togliere le traduzioni in arabo dalla cartellonistica segnaletica negli ospedali e spazi dell’azienda sanitaria locale. A favore della proposta ha votato il Movimento 5 stelle, che lo scorso anno ha strappato al centrosinistra la maggioranza in consiglio, mentre il Partito democratico si è astenuto con la motivazione che già da tempo l’Ausl si stava muovendo in quella direzione. Marchetti non è nuovo a queste iniziative, infatti già in veste di consigliere regionale aveva sottoposto la sua idea all’Assemblea legislativa. L’Azienda sanitaria dal 2004 ha iniziato a tradurre in arabo, francese e inglese i cartelloni delle indicazioni ma dopo appena sei anni, nel 2010, cominciato a eliminare le scritte in araba perché ha riscontrato, come spiega in una nota, che c’erano “alcuni problemi nella comprensibilità complessiva dei messaggi, fosse anche per il solo fatto che tutte le traduzioni dovevano essere inscritte in spazi definiti e perdevano in leggibilità” e che la lingua araba “ha molte declinazioni a seconda del paese di provenienza dei cittadini”, creando più disorientamento che altro.

La reazione dei sindacati è dura. La Fp-Cgil parla di discriminazione, attacca il Pd che si è astenuto e accusa l’amministrazione comunale di voler “rendere ancora più difficile la vita ai migranti, in ogni modo e ovunque, perfino in ospedale, anche se si tratta della salute delle persone. Addirittura in questo caso si chiede di togliere qualcosa che c’è già” perseguendo una “linea politica ben precisa”.

La banda della morte in ospedale. Affari in corsia divisi a metà tra furti e oltraggi alle salme

“Io sono un killer, se dopo anni in camera mortuaria hai ancora dei mutui da pagare non hai capito come funziona”. Non solo obbligavano i parenti dei defunti a scegliere i loro servizi ma spesso derubavano addirittura le salme senza risparmiarsi battute e gag di pessimo gusto. Due imprenditori bolognesi controllavano gli obitori dei due principali ospedali cittadini, il Sant’Orsola-Malpighi e il Maggiore, avendo creato di fatto un monopolio nell’aggiudicazione dei servizi mortuari senza disturbarsi tra loro. Una fitta rete di soggetti che teneva i contatti con infermieri e dipendenti funebri ai quali spettava l’incarico di agganciare i familiari dei defunti mettendoli in contatto con i referenti delle varie agenzie di servizi. Il tutto in cambio di una cifra tra i 200 e i 350 euro per ogni ‘lavoro’.

Trenta le misure cautelari (9 in carcere, 18 domiciliari) e 43 le perquisizioni eseguite da 300 carabinieri che hanno sequestrato un patrimonio di 13 milioni di euro. Le indagini, coordinate dalla Procura di Bologna, hanno consentito di disarticolare una vera associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e riciclaggio. “Qui nessuno è pulito, io non sono pulito, tu non sei pulito, nessuno è vergine”. Due i cartelli che si spartivano i servizi senza risparmiarsi furti e battute. Come quando uno degli indagati mette una buccia di banana in mano ad un morto: “Aspettando la barella gli è venuta fame”.

Per il gip Alberto Ziroldi “un profondo, radicato sistema corruttivo”. Ben espresso da un’altra indagata: “Sono la regina della camera mortuaria, non ho paura di un cazzo”. Ogni occasione era buona per manifestare consapevolezza dell’illiceità dei propri comportamenti, sintetizzata nel motto: “Gli ospedali li devi ungere”. O come un’altra infermiera, registrata mentre racconta al compagno dei beni sottratti al defunto: “Amo’ ho trovato due anelli, l’ho messi già in borsa però non so se è oro”.

Salone del Libro, chiusa l’indagine. Rischia il processo anche l’ex sindaco Piero Fassino

Sono tre le turbative d’asta contestate all’ex sindaco di Torino e ora deputato Pd, Piero Fassino, indagato insieme ad altre 28 persone nell’inchiesta sulle passate gestioni del Salone del libro. Ieri la Procura ha notificato loro l’avviso di conclusione dell’indagine cominciata nel 2015 a partire dal presunto peculato commesso da Rolando Picchioni, ex deputato Dc, per circa venti anni presidente della Fondazione per il libro che organizza la rassegna dell’editoria. Tra il 2010 e il 2015 avrebbe speso 850 mila euro “per finalità personali”, commesso vari episodi di falso ideologico in atto pubblico (i bilanci), truccato tre appalti e altro ancora. L’inchiesta fa luce sui suoi ultimi anni da presidente e sulla gestione “pasticciata”. Lo dimostrerebbero, ad esempio, le gare d’appalto bandite per l’organizzazione delle edizioni 2015 e 2016, ma anche i bilanci. La prima edizione fu affidata direttamente alla filiale italiana del colosso GL Events, che gestisce il Lingotto Fiere, “con la fittizia motivazione dell’urgenza, così evitando di effettuare le procedure di evidenza pubblica”.

La seconda edizione, invece, aveva un bando cucito su misura per quella società. Per questo devono rispondere di turbativa d’asta non solo Picchioni, ma anche Fassino, l’assessore regionale alla Cultura Antonella Parigi e altri. L’ex sindaco è indagato di turbativa d’asta anche per la selezione di uno sponsor che doveva assumere la carica di “socio fondatore” per salvare le finanze dell’ente: solo dopo una trattativa privata con Intesa San Paolo lui, la presidente Milella e Michele Coppola (ex assessore regionale alla cultura per la giunta di Roberto Cota e ora direttore dei beni culturali della banca) affidavano a due avvocati l’incarico di predisporre dei bandi “che, di fatto, recepivano gli accordi già avvenuti ed escludevano altri soggetti potenzialmente interessati”. “Ho sempre esercitato ogni incarico istituzionale affidatomi con rigoroso rispetto delle leggi e scrupolosa tutela dell’interesse pubblico. E senza alcun interesse personale – ha detto Fassino -. L’amministrazione comunale ha operato insieme alle altre istituzioni con l’unico obiettivo di salvaguardare la più prestigiosa iniziativa italiana del libro e di perseguire il bene di Torino”.

Un grosso capitolo dell’indagine è dedicato a sei bilanci taroccati (dal 2010 al 2015) con l’iscrizione, tra gli attivi, del valore del marchio del Salone del libro che la procura ritiene sovrastimato per “nascondere” i debiti. “Contesterò ogni accusa con argomenti vincenti e convincenti”, ha dichiarato ieri Picchioni all’Ansa. Tra i reati a lui contestati c’è la distruzione dei dati informatici sul computer della Fondazione per il libro: il 7 aprile 2014, perquisito per un’altra indagine, chiese alla sua segretaria chiedendole di formattare il pc. La segretaria e due dipendenti lo fecero. Gli investigatori, scoperta la faccenda, gli chiesero il motivo e lui disse di voler nascondere l’estorsione fatta da un giovane imprenditore. Tuttavia era una calunnia, vicenda per la quale il 31 ottobre scorso Picchioni è stato condannato a due anni dalla Corte d’appello. Nel frattempo, però, l’imprenditore calunniato aveva rivelato alla Procura alcuni trucchi di Picchioni, dando il via all’indagine.

Soldi Unicef, riparte a Firenze il processo ai fratelli Conticini

Riparte l’inchiesta della Procura di Firenze sugli oltre 6,6 milioni di dollari destinati all’assistenza dei bambini africani ma che, secondo le accuse, sarebbero transitati sui conti privati di Alessandro Conticini, fratello maggiore di uno dei cognati dell’ex premier Matteo Renzi. Negli scorsi giorni, infatti, è arrivata una prima querela, presentata dalla Operation Usa di Los Angeles, organizzazione no profit tramite cui opera la Fondazione Pulitzer, che permette così ai pm della procura fiorentina, Luca Turco e Giuseppina Mione, di andare avanti nelle indagini, almeno per il filone che riguarda i 5,5 milioni di dollari versati dalla Operation Usa tra il 2009 e il 2016 alla società Play Therapy Africa, creata da Alessandro Conticini, ex funzionario Unicef di Addis Abeba. Altri 3,8 milioni di dollari sarebbero stati versati, invece, dall’Unicef che, per il momento, ancora non ha risposto alla richiesta della procura fiorentina. A ottobre scorso, sul proprio sito, Unicef Italia spiegò che le somme erano “il corrispettivo di prestazioni nell’ambito di regolari contratti in diversi Paesi del mondo”. Secondo la procura, però, una parte di questa è passata sui conti personali di Alessandro Conticini e del fratello Luca.

“Riaprite le indagini. Ecco le nuove prove”

“La verità è ciò che voglio di più al mondo prima di chiudere gli occhi per sempre”. Sono trascorsi quasi 40 anni dalla morte del giornalista Mino Pecorelli, ma la sorella Rosita ancora non si arrende. Processi, verbali e sequestri per decenni non hanno ancora portato alla luce la verità sull’omicidio compiuto il 20 marzo 1979. Ieri però la signora Rosita, 84 anni, assistita dall’avvocato Valter Biscotti, ha presentato un’istanza al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone: vuole far riaprire le indagini sulla base di alcune nuove inchieste giornalistiche che collegano una testimonianza al sequestro di un borsone pieno di armi.

Il 27 marzo 1992, infatti, l’estremista di destra Vincenzo Vinciguerra aveva rivelato al magistrato Guido Salvini di aver saputo che “Magnetta (un altro estremista, ndr) si stava comportando male in quanto gli aveva fatto sapere che o veniva aiutato a uscire dal carcere o lui avrebbe consegnato le armi in suo possesso fra cui la pistola che era stata utilizzata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli…”.

Le successive indagini non portarono a nulla. Ma nel 1995, a Monza, vennero sequestrate alcune armi ritenute essere di Magnetta. Nessuno aveva mai messo in relazione i due fatti. Fino al 5 dicembre scorso, quando la giornalista Raffaela Fanelli aveva scritto che alcune di quelle armi sarebbero compatibili con i proiettili che hanno ucciso Pecorelli.

Signora Pecorelli, quando ha pensato che l’inchiesta potesse essere riaperta?

Dopo aver appreso l’esistenza di nuovi elementi dalla giornalista Raffaella Fanelli. Ho ritenuto che non si potesse lasciare nulla di intentato. Io non ho mai smesso di sperare e lottare. Quando ho saputo che c’erano collegamenti nuovi si è riaccesa la speranza.

Cosa ha pensato quando ha letto gli articoli della Fanelli?

Mi sono rivolta subito all’avvocato Biscotti, di cui ho massima stima. Insieme abbiamo ritenuto che fosse il caso di presentare un’istanza. Occorre fare dei controlli che potrebbero far riaprire il caso. Non ci possiamo permettere di lasciare nulla di intentato, è l’ultima cosa che voglio prima di chiudere gli occhi.

Come è andato l’incontro ieri mattina con il procuratore Pignatone?

Mi è sembrata una cosa molto positiva. Al momento sono molto speranzosa. Penso ci possano essere spiragli importanti. Ho molta fiducia nella Procura e devo ringraziare il mio avvocato e la giornalista che ha scritto la notizia.

Dopo numerose indagini e diversi processi lei trova ancora la forza di lottare.

La verità è la cosa che voglio di più al mondo per mio fratello. Cerco la verità e non mi arrenderò finché non l’avrò scoperta. Ho combattuto 40 anni per sapere la verità sull’omicidio di Mino, adesso sembra esserci un appiglio e non mi arrenderò mai. Mi aspetto di avere giustizia. Mio fratello era tutto per me.

Caporalato, i 400 braccianti traditi dal sindacato

Gli italiani non andavano a raccogliere i kiwi, “perchè lavorare per ‘37 euro per otto ore è da morti di fame’”. Ma gli africani – reclutati nei centri di accoglienza straordinaria (in attesa di protezione internazionale) – e molti rumeni sì, loro a lavorare per 4 euro e 50 centesimi all’ora ci andavano dalle cinque del mattino. Succede non nelle campagne di Rosarno, ma alle porte della Capitale. A 80 km da Roma, a Latina, dove un’organizzazione in circa tre anni ha reclutato come manodopera nei campi almeno 400 lavoratori. Sfruttandoli. C’era quindi – secondo i magistrati di Latina, Carlo La Speranza e Luigia Spinelli – un’associazione a delinquere tutta italiana, con a capo Luigi Battisti e Daniela Cerroni, entrambi ritenuti amministratori di fatto della Agri Amici, una cooperativa nata nel 2014 e poi finita al centro di una segnalazione al ministero che ne evidenziava le anomalie, ma poi rimasta lettera morta.

Ieri i due sono stati arrestati insieme al sindacalista Marco Vaccaro, che garantiva a Battisti “una copertura nelle sedi istituzionali nei rapporti con i lavoratori”. Era lo stesso sindacalista che quando nel 2016 viene eletto segretario generale della Fai Cisl Latina, dichiara: “Metterò al servizio dei lavoratori tutta la mia passione ed esperienza”. Adesso secondo i pm che lo accusano di estorsione, era passato dall’altra parte della barricata, dalla parte di chi costringeva alcuni braccianti a iscriversi a quel sindacato, ottenendo come “ingiusto profitto” gli “introiti connessi alle nuove iscrizioni e alle domande di indennità di disoccupazione inoltrate all’inps”. “Io c’ho l’appoggio sindacale ai massimi livelli”, diceva intercettato il 27 novembre 2017 Luigi Battisti. Che poteva contare, secondo le accuse, anche sull’ispettore del lavoro di Latina, Nicola Spognardi (finito ieri ai domiciliari per corruzione), il quale per gli investigatori tutelava la cooperativa “facendo in modo di limitare le visite ispettive” e ottenendo in cambio “l’affidamento della gestione della sicurezza del lavoro” in una società nella quale aveva interessi, ma anche “la promessa di curare la formazione dei lavoratori dietro retribuzione”.

Tutto quindi è cominciato durante un controllo della Squadra mobile di Latina, guidata da Carmine Mosca. Alle cinque del mattino, decine e decine di braccianti si radunavano in via Epitaffio dove, ammassati, salivano su furgoni verso le campagne. Qui raccoglievano kiwi e olive anche per dieci ore al giorno, con trenta minuti di pausa non retribuita e con buste paga fasulle. All’organizzazione il lavoro non mancava: “Il problema – dice Battisti intercettato l’11 dicembre 2017 – è che non riesco a portarli perché so’ troppi… Chi te dice che non c’è lavoro menace… (…) Io rifiuto a ripetizione, ho rifiutato quindici giorni fa altri venti ettari di kiwi”.

E poi c’era l’iscrizione al Fai-Cisl. “Inizialmente – spiega ai magistrati un dipendente del Sindacato Uil – circa il 70% dei dipendenti della Agri Amici erano iscritti alla Uila (Unione Italiana dei Lavori Agroalimentari, ndr). Da circa un anno gli iscritti sono diminuiti in numero sostanziale in quanto per come riferitomi da alcuni lavoratori, dalla cooperativa li hanno indotti a cambiare sindacato dietro la velata minaccia di non rinnovargli il contratto e quindi lasciarli senza lavoro”. A un certo punto, Battisti parlava anche dell’ipotesi, non concretizzata, “di costituire tre cooperative che poi si potrebbero consorziare”. In una di questa, l’ispettore Spognardi proponeva di inserire “come commercialista un soggetto indicato dalla Cisl”, che “così ‘sta contenta’”. Il tutto, secondo il giudice Gaetano Negro che ieri ha emesso l’ordinanza di misura cautelare, “in un’ottica di spartizione (…) Battisti in sostanza, attraverso la nomina di commercialisti indicati rispettivamente dall’Ispettore del lavoro e dal sindacalista della Cisl si sarebbe potuto garantire ulteriore copertura”.

Così Battisti ha creato un impero (“lo abbiamo creato insieme”, dice intercettata Daniela Cerroni intercettata il 3 dicembre 2017) e lo sa bene: “Ma te pare che un giocattolo del genere che me frutta a me un sacco de soldi lo vado a fa rompe?”, dice lui stesso al telefono. Da qui, le case e le macchine, 20 tra auto e automezzi quelli che risultano a lui intestati. “Se ho speso 400 mila euro in due anni significa che ho guadagnato 200 mila euro l’anno mi sembrano un po’ troppi”, si faceva i conti in tasca Battisti il 18 novembre 2017. Ieri, quindi, sono arrivati gli arresti, mentre si contano altri 50 indagati, tra imprenditori agricoli, commercialisti, funzionari ed esponenti del mondo sindacale, che avrebbero dovuto tutelare i lavoratori. Non farli sfruttare.

Il ministero: “Stop alla gara per bonificare Bussi”

Sembrava fatta, dopo anni la bonifica della discarica più grande d’Europa stava per partire. Invece il ministero dell’Ambiente ora chiede la revoca dell’appalto da 45 milioni di euro per la bonifica delle discariche “2A e 2B” di Bussi (Pescara). La denuncia arriva dal forum abruzzese H2O: “La nota del ministero, a firma della nuova dirigente Luciana Distaso, ha passaggi desolanti. Si sostiene che il Responsabile Unico del Procedimento, l’Ing. Bentivoglio del Provveditorato alle Opere Pubbliche, non avrebbe trasmesso la documentazione di gara al ministero. La dirigente rivela che il ministero avrebbe omesso di trasmettere entro giugno 2018 la relazione sulle attività svolte alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, cosa che avrebbe bloccato l’accesso ai fondi. A scusante si sostiene che la precedente dirigente D’Aprile si è dimessa a febbraio 2018”. In quella data la gara, partita nel 2015, era stata aggiudicata all’ATI. A quel punto, per legge, restavano 60 giorni per la stipula del contratto. “Non solo tale sottoscrizione non è avvenuta – denuncia il forum H2O – ma scopriamo che il ministero propone addirittura di annullare l’operazione rischiando di far perdere le somme per la bonifica”.

I 567 contatti telefonici (in 48 ore) “dimenticati” dell’allora governatore

Il 17 gennaio 2017 il telefono dell’ex governatore abruzzese Luciano d’Alfonso squilla già freneticamente. Un contatto telefonico – tra sms e telefonate – ogni 14 minuti. Il 18 gennaio – il giorno della tragedia – salgono a 397: uno ogni sei minuti. Parliamo di 567 contatti telefonici nei soli 17 e 18 gennaio: sono le 48 ore determinanti nella gestione dei soccorsi dell’Abruzzo bloccato dalla neve. Cifre che Il Fatto è in grado di rivelare in esclusiva. E che nessuna procura finora ha mai analizzato. Sebbene fosse indagato – per lui c’è ora una richiesta di archiviazione – la procura di Pescara non ha mai richiesto i tabulati di D’Alfonso, né quelli del suo braccio destro Claudio Ruffini, nonostante la “coppia” abbia gestito in solitaria – fino all’istituzione del tavolo regionale, attivato solo il 18 gennaio alle 15.30 – la distribuzione delle turbine in Abruzzo.

Il Fatto ha iniziato ad approfondire quel che la procura di Pescara finora – legittimamente – ha ritenuto di tralasciare: i tabulati sono entrati nel fascicolo d’indagine soltanto quando, un mese fa, a inchiesta chiusa, li ha richiesti la difesa del sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, oggi accusato di omicidio colposo. E per il Fatto risultano molto interessanti, soprattutto se partiamo dalle parole che il braccio destro di D’Alfonso, Claudio Ruffini, dice agli investigatori l’11 luglio 2018, quando viene sentito come persona informata sui fatti: “Nei giorni dell’emergenza neve il mio ruolo non era gestionale o operativo. Acquisivo e trasmettevo esclusivamente informazioni al Presidente. Mi fu chiesto dal presidente di trovare delle turbine”. Sentito anche nelle indagini difensive, dagli avvocati di Lacchetta, Ruffini dice: “Ricevevo da D’Alfonso ordini che non potevano essere discussi”.

In altre parole, nella distribuzione delle turbine, in quelle ore è il governatore a decidere. In prima persona.

Senza dubbio il senatore D’Alfonso, all’epoca presidente di Regione, è uomo capace e volitivo. Ma un dato emerge chiaramente dall’analisi dei suoi tabulati: in 48 ore – tra il 17 e il 18 gennaio – deve gestire ben 567 contatti telefonici. A tutte le ore del giorno e della notte. Quale persona – seppure si faccia aiutare – può gestire con lucidità una tale mole di contatti telefonici? Per di più durante un’emergenza? Non è un atto di accusa verso D’Alfonso. Anzi. È la prova che s’è senza dubbio prodigato fino all’inverosimile per risolvere i problemi della sua regione. Ma è anche il sintomo di un contesto piuttosto complesso. I Carabinieri del Noe, in un’informativa del febbraio 2017, segnalano alla procura di L’Aquila – che correttamente invia gli atti a Pescara – di aver intercettato Ruffini proprio nelle ore della ricerca delle turbine. E con queste parole: “D’Alfonso (…) ha delegato Ruffini alla gestione dei mezzi spazzaneve e delle cosiddette ‘turbine’”. I carabinieri riscontrano “numerose e gravissime interferenze e incomprensioni causate proprio da Ruffini e dalle spesso confliggenti disposizioni date in ordine alla gestione dei mezzi”. Gli investigatori aggiungono: i “criteri non parevano correlati all’effettive emergenze”. Questi atti sono entrati nel fascicolo d’indagine soltanto 8 mesi dopo il loro deposito alla procura di Pescara che, in un primo momento, li aveva confinati un altro procedimento, senza ipotesi di reato né indagati.

La difesa di Lacchetta ha chiesto alla procura di Pescara di acquisire tutte le intercettazioni acquisite dal Noe. Richiesta respinta perché coperte dal segreto istruttorio: provenivano da altre indagini in corso. Inchieste che però adesso non sono più coperte dal segreto. Intercettazioni e tabulati, peraltro, potrebbero dimostrare ulteriormente la correttezza di D’Alfonso e Ruffini. Quel che è certo, però, è che costituiscono altri frammenti di verità sulla tragedia di Rigopiano. Non soltanto quella storica. Ma anche quella processuale.

I parenti delle vittime: “Ora riaprite le indagini”

“Bisogna riaprire l’indagine. Le notizie pubblicate ieri dal Fatto sono un tassello in più che avvalora la necessità di indagare a fondo. E che rafforza la nostra convinzione”. A parlare è Gianluca Tanda, portavoce del comitato vittime di Rigopiano e fratello di Marco, il pilota marchigiano morto nel resort insieme alla fidanzata. Il Fatto ieri ha rivelato che un’informativa del Noe è rimasta nel cassetto della Procura per ben 8 mesi prima di essere presa i considerazione, e soltanto dopo la richiesta dei difensori del sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta. Il Noe informava la procura di Pescara di aver intercettato, nei giorni dell’emergenza, e nelle ore della tragedia, chi si occupava di distribuire le turbine in tutto l’Abruzzo: l’ex governatore Luciano d’Alfonso e il suo braccio destro Claudio Ruffini. Gli investigatori parlano di “numerose e gravissime interferenze di Ruffini e disposizioni confliggenti per la gestione dei mezzi di soccorso”. E ancora: i “criteri utilizzati per la distribuzione dei mezzi idonei per liberare la strada dalla neve non parevano correlati alle effettive emergenze”. L’informativa non fa rifermento a Rigopiano, ma ad altri comuni, e mette nel mirino la gestione dei soccorsi. La procura di Pescara dopo averla ripescata ha deciso di archiviare D’Alfonso. Oggi si celebra il secondo anniversario della tragedia di Rigopiano: il 18 gennaio 2017, alle 17 circa, una valanga s’abbatte sull’hotel Rigopiano nel comune di Farindola. Il bilancio: 29 morti. Il Fatto ieri ha intervistato un dirigente dell’Anas mai convocato come teste dalla Procura: ha parlato di gestione “estemporanea” dei soccorsi. “Tutto ruotava intorno a D’Alfonso che ha coordinato l’emergenza a livello ‘amicale’ – dice oggi Tanda – e senza una vera programmazione”. Anche Giampaolo Matrone, un sopravvissuto, chiede approfondimenti: “Non sono in grado di comprendere la rilevanza penale delle intercettazioni e dell’intervista pubblicate ieri dal Fatto. Ma chi ha sbagliato paghi”.

“Due anni fa l’esistenza di 29 cittadini inconsapevoli e innocenti finiva nella strage di Rigopiano. Alle vittime va il nostro ricordo, alle famiglie la nostra solidarietà, per la Regione il nostro rammarico”. Sono le parole pronunciate ieri in aula del Senato da Primo Di Nicola, parlamentare del M5S ed ex direttore del Centro, che precisa che quello di Rigopiano non fu un incidente ma una strage “perché quel giorno non avvenne un evento inatteso, ma prevedibile ed evitabile se solo la Regione avesse avuto una Carta delle valanghe”. Anche per Di Nicola occorre andare fino in fondo: “Leggendo le intercettazioni dei protagonisti di questa storia così come riportate dal Fatto si vede come coordinamento e soccorsi finiscano per dipendere dalle decisioni esclusive del presidente della Regione Abruzzo. Credo che a questo punto riaprire le indagini a tutto campo sia nell’interesse di tutti.

Procura di Modena, Lucia Musti rischia il posto

Lucia Musti potrebbe dover lasciare il posto di procuratore di Modena. Ieri, la Quinta commissione del Csm, all’unanimità, ha deciso di proporre al plenum di nominare Paolo Giovagnoli, sostituto Pg a Bologna ed ex procuratore di Rimini che, per ben tre volte, ha vinto il ricorso al Consiglio di Stato (Cds) contro la nomina di Musti, avvenuta per la prima volta nel 2016. L’ultima pronuncia del Cds è dell’8 gennaio scorso quando la Quinta sezione presieduta da Giuseppe Severini aveva dato al Csm un mese di tempo per ottemperare. Le due volte precedenti, c’era ancora il vecchio Consiglio, nonostante la pronuncia dei giudici amministrativi, il Csm aveva confermato Musti. La sentenza del Cds dell’8 gennaio dice che il Csm l’ultima volta che ha rinominato Musti “ha in parte aggravato profili di difetto di motivazione e di violazione di legge”.Ora la decisione passerà dal plenum. La Quinta commissione, probabilmente la prossima settimana, dovrà esaminare anche un’altra nomina annullata dal Cds, quella del procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Maurizo Romanell. Per due volte il Cds ha dato ragione alla pm della Dna Maria Vittoria De Simone