Relazione sulla 194. La Grillo è in ritardo di undici mesi

Siamo fermi al 2016 Ciò che sappiamo sull’applicazione della legge 194 risale a più di due anni fa: all’ultima relazione presentata al Parlamento, il 22 dicembre 2017, dall’allora ministro Beatrice Lorenzin (con un ritardo di 10 mesi rispetto a quanto previsto dalla legge stessa). Un ritardo che ha riguardato tutti i ministri che si sono succeduti dal 2000 in poi, ma che adesso, ha rilevato Emma Bonino con una interrogazione parlamentare urgente al ministro della Salute Giulia Grillo, ha raggiunto il record di 11 mesi. “C’è il vuoto – dice Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni – e questo impedisce di capire come prevenire e intervenire per la mancata applicazione della legge”. Lo staff della Grillo rassicura: la relazione sarà depositata a breve. E dice che il ritardo è dovuto alle scarse pressioni fatte a suo tempo dalla Lorenzin sulle Regioni, a loro volta costrette a fare i conti con la disorganizzazione dei consultori nella raccolta dei dati. Proprio questi ultimi rappresentano una criticità: ce ne dovrebbe essere uno ogni 20mila abitanti, ma sono 0,6. L’ultima relazione ha confermato una diminuzione degli aborti e l’alto numero di medici obiettori (7 su 10).

Lo scudo per Cesaro adesso inguaia Salvini

Pugno duro e bando alle chiacchiere: anche per la camorra la pacchia è finita. Promette di non andarci per il sottile il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, atteso oggi ad Afragola dopo le bombe fatte esplodere nei giorni scorsi che hanno colpito anche la pizzeria Sorbillo, in pieno centro a Napoli. Tra chi confida nella determinazione di Salvini, anche i magistrati campani alle prese con gli attentati ma pure con le inchieste sui rapporti tra politica e clan. Come quelli del Tribunale di Napoli Nord che attendono che la Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato dia via libera all’uso delle intercettazioni che chiamano in causa Luigi Cesaro, imputato per voto di scambio insieme a una ventina di altre persone, tra cui uno dei figlioli. E i suoi due fratelli, da mesi in carcere nell’ambito di un’altra inchiesta, quella della Dia di Napoli sulle commistioni politiche-mafiose nella realizzazione del polo industriale di Marano in Campania.

Il processo per voto di scambio si è appena aperto e le intercettazioni in questione sono ritenute dagli inquirenti “di assoluta rilevanza”. Anzi, indispensabili ai fini “della prova delle condotte illecite” contestate a Cesaro. Ma nonostante i mesi già trascorsi in attesa delle decisioni del Senato, i magistrati potrebbero ora essere costretti a ricominciare tutto da capo: la richiesta di autorizzazione a utilizzarle andava fatta alla Camera. O almeno questo hanno sostenuto Forza Italia, Fratelli d’Italia e Pd in Giunta. Contrario a questa ipotesi solo il Movimento 5 Stelle. E la Lega di Salvini? Scoprirà le carte solo la prossima settimana al momento della decisione. Anche Vincenzo Maiello, il principe del foro di Napoli che Cesaro ha ingaggiato per la sua difesa, ha sollevato la questione dell’incompetenza del Senato. Nella memoria allegata agli atti di Palazzo Madama ha anche sostenuto che il suo assistito è stato perseguitato dai magistrati per anni. E che gli inquirenti hanno proceduto alle intercettazioni senza aver prima l’ok del Parlamento come prescritto dalla Costituzione. Altro che captazioni casuali.

Ma di cosa è chiamato a rispondere Cesaro? È nei guai per l’impegno profuso nella campagna elettorale per le amministrative in Campania del 2015 in cui a correre per un seggio da consigliere era suo figlio, per tutti Armandino, nonostante la stazza. Eletto a Palazzo Santa Lucia con una vagonata di voti grazie alle quali è diventato capogruppo di Forza Italia in regione. Secondo l’accusa, suo padre avrebbe mosso mari e monti: intervenendo in più occasioni per sponsorizzare nomine in importanti settori dell’amministrazione pubblica. Promettendo posti di lavoro. E soprattutto procacciando commesse rilevantissime, come quella di cui parla in una delle intercettazioni che i magistrati vorrebbero utilizzare, l’imprenditore Antonio Di Guida, ritenuto referente del clan Polverino e sodale dei fratelli di Cesaro, Aniello e Raffaele.

È proprio Di Guida a confidare in una conversazione captata dagli inquirenti di aver ottenuto una commessa pubblica di 10 milioni di euro (con un guadagno di 2 milioni) dietro l’intervento del ras di Forza Italia in Campania. In favore del quale l’imprenditore stava sostenendo la campagna elettorale di Cesaro junior. Lo stesso Di Guida è finito in carcere a Matera per l’affare del polo industriale di Marano la cui realizzazione era stata affidata in regime di project financing alla società Cesaro Costruzioni Generali srl dei germani del senatore forzista.

Infiltrazioni nel tessuto imprenditoriale e gestione clientelare della campagna elettorale del 2015 sono due facce della stessa medaglia, scrivono gli inquirenti. Che accusano Cesaro ma pure il suo pupillo. Che sogna in grande: forse verrà addirittura candidato alle Europee. L’hashtag #oratoccaanoi, che sia una promessa o una minaccia, finora gli ha portato bene.

Quel moderato buonsenso che servirebbe ai 5 Stelle

Sere fa, al termine della puntata di Otto e mezzo (post cattura di Cesare Battisti), nella quale Alfonso Bonafede si era mostrato misurato e istituzionale, come si deve al ministro di Giustizia, con lui abbiamo condiviso la stessa idea sullo stile comunicativo dei Cinquestelle. Che, più si fosse distinto da quello di Matteo Salvini e più ne avrebbe guadagnato, in termini di serietà e forse anche di consenso.

Il giorno dopo, purtroppo, il triste e deprimente video del Guardasigilli, “celebrativo” dello sbarco a Ciampino dell’ex latitante pluriomicida ci ha convinti una volta di più che, in assenza di un’opposizione, i peggiori nemici dei grillini di show e di governo sono i grillini medesimi. Specialisti nell’arte di spararsi sui piedi. Non soltanto per le reazioni indignate che lo spot ha sollevato ma per una banale ragione di propaganda elettorale. Ovvero: come vendere male un pessimo prodotto al pubblico sbagliato. Un rapido passo indietro. Tutte le analisi sulla composizione e natura del grande successo del 4 marzo concordano sull’avvenuta saldatura nel M5S di due blocchi distinti. Al centro, il cuore “militante” del consenso, quello generato nell’alveo social del movimento poi consolidatosi attraverso i Vaffa day nelle battaglie contro la casta e a favore della legalità e i beni comuni. Intanto, intorno a questo nucleo cresceva la massa dei nuovi arrivati, provenienti da ogni dove ma soprattutto dal Pd. Coloro che potremmo definire con antica terminologia: il voto d’opinione. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che non hanno mai frequentato la piattaforma Rousseau, che hanno apprezzato l’esplosività di Beppe Grillo nel mettere alla berlina l’ancien régime anche se non capiscono granché di certe sue “elevate” elucubrazioni. Gente che si era stufata delle solite facce e dell’arroganza della cosiddetta vecchia politica, incuriositi dall’irrompere della generazione pentastellata, e dalla sfacciata trasparenza con la quale i nuovi si mostravano al popolo, perfino nell’esibire acerbe inesperienze. Ora, quando Bonafede divulga quei video, quando Di Maio annuncia la fine della povertà o che, in piena stagnazione, siamo alla vigilia di un altro boom digitale, oppure quando on the road verso Strasburgo, con Di Battista accanto, il vicepremier definisce il Parlamento europeo “una marchetta francese che dobbiamo chiudere il prima possibile”, più di una domande sorge spontanea. Quel linguaggio così crudo, minaccioso (a volte truculento) a chi è rivolto? Chi intendono convincere? Il popolo dei Vaffa day? Non avrebbe molto senso visto che la base grillina è già ampiamente motivata di suo per abboccare a forme discutibili di autopropaganda. E se anche fosse un tentativo di corteggiare gli elettori di Matteo Salvini, chi mai preferirebbe la (brutta) copia all’originale? Restano quegli svariati milioni di elettori approdati al M5S da lontano, forse non molto politicizzati ma che al posto dei megafoni stentorei gradirebbero un messaggio di concretezza, di moderato buon senso, di stabilità. Tanto per capirci, il linguaggio che sta dando popolarità al premier Giuseppe Conte.

In questa ancora vasta “opinione”, ci creda ministro Bonafede, i filmini Luce creano soprattutto imbarazzo. Così come la comunicazione mirabolante o sotto vuoto spinto. Bisognerebbe convincersi una buona volta che gli elettori con l’anello al naso non esistono. Mentre se si sentono presi per il naso magari da lezioncine prefabbricate recitate a menadito da giovani promesse del cambiamento (c’è anche un kit 5S per indottrinare i parlamentari), prima o poi quelli salutano e se ne vanno.

Niente condono spiagge, riaperta la rottamazione bis

Nuova chance per chi ha perso il treno della rottamazione-bis con la possibilità per chi non ha pagato le rate in tempo di accedere a quella ‘ter’ ma anche lo stop alla sanatoria sui balneari. Queste sono altre due indicazioni che emergono dal decreto legge Semplificazioni. In particolare, si riaprono i termini per aderire alla rottamazione delle cartelle anche per chi non era in regola con i pagamenti della rottamazione bis al 7 dicembre, e quindi non poteva rientrare nella nuova sanatoria introdotta col decreto fiscale. I tempi saranno più stringenti rispetto alla rottamazione ter: si paga entro il 31 luglio in una unica soluzione o in 10 rate in 3 anni, anziché in 5 anni e 18 rate. Sul fronte dei balneari, M5s ha deciso di ritirare l’emendamento che di fatto garantiva una sanatoria per gli stabilimenti balneari con procedimenti in corso. E ora si appella al Carroccio perché tolga anche il suo. Entrambe le richieste di modifica prevedono, tra le altre cose, che siano sospesi “i contenziosi amministrativi e il blocco delle procedure di decadenza e revoca delle concessioni balneari”. In mattinata i 5 stelle erano stati attaccati dal gruppo Pd: “Preparano un condono tombale in pieno accordo con i colleghi di governo della Lega”.

Tari in bolletta, auto blu e niente soldi agli atenei privati

La tassa sui rifiuti (Tari) inserita in bolletta ritenta la strada verso la Gazzetta Ufficiale, sotto forma di emendamento al decreto semplificazioni dopo che è stato fatto saltare dalla legge di Bilancio. La possibilità riguarderebbe solo i Comuni in situazione di dissesto finanziario e di rischio, che a quel punto avrebbero la possibilità di accordarsi con le aziende elettriche per inserire la Tari nella bolletta della luce. Nel decreto è stato inserito anche un emendamento secondo cui lo Stato potrà comprare anche auto blu oltre i 1600 centimetri cubici di cilindrata, se poco inquinanti. Quello di 1600 cc è l’attuale limite che potrà essere superato, a quanto dispone la norma, se i veicoli hanno un valore di emissioni di grammi di biossido di carbonio per chilometro uguale o inferiore a 160. Quest’ultimo è lo stesso limite oltre il quale la manovra ha introdotto “l’ecotassa” per le auto di nuova immatricolazione. Altra novità: gli Atenei privati che diventano società di capitali non potranno accedere al fondo per il finanziamento ordinario delle università. Una limitazione che porterebbe incassi per lo Stato pari a 100 milioni di euro all’anno.

Dorigo, metà docente metà avvocato

Sono nella stessa stanza dell’Università, uno di fronte all’altro: il primo ha denunciato il “sistema”, il secondo era invece più gradito. Il primo è Philip Laroma Jezzi, il ricercatore dell’Università di Firenze che aveva denunciato le selezioni pilotate nei concorsi per l’abilitazione nazionale all’insegnamento. L’altro è Stefano Dorigo che fu abilitato e che, stando alle conversazioni dei suoi esaminatori, era spinto dal barone di turno. A distanza di anni la partita è ribaltata: Laroma Jezzi da qualche settimana è diventato professore associato di Diritto Tributario e ieri ha visto i finanzieri entrare nella stanza di Dorigo per una perquisizione.

I finanzieri del Nucleo tributario di Firenze cercavano alcuni documenti: Dorigo non è accusato dai pm Paolo Barlucchi e Luca Turco per il vecchio concorso ma perché continuerebbe a svolgere oltre alla docenza anche la professione di avvocato. Per conto di chi? Del professor Roberto Cordeiro Guerra, il barone che l’avrebbe supportato. L’ipotesi dell’accusa è quindi che Dorigo, continuando a fare l’avvocato, avrebbe fornito all’Università di Firenze “una prestazione diversa, perché parziale, non rispettando la condizione di incompatibilità con l’esercizio di attività di libero professionista”. La procura ha dato il via al blitz, nella convinzione che Dorigo, nel suo ufficio universitario, possa aver nascosto documenti utili alle indagini.

Gli inquirenti hanno iscritto Dorigo sul registro degli indagati perché “in concorso con Roberto Cordeiro Guerra, in qualità di ricercatore a tempo determinato (…) presso l’università degli studi di Firenze Dipartimento di Giurisprudenza settore scientifico disciplinare Ius/12 Diritto Tributario, in regime di tempo pieno, commetteva frode nell’adempimento dei relativi obblighi contrattuali”. Cordeiro Guerra, nell’ottobre 2017, in seguito alle indagini iniziate con la denuncia di Laroma, era stato sospeso dall’insegnamento. A sostituirlo, in quei mesi, furono proprio Dorigo e Laroma. Ora gli inquirenti ritengono che Dorigo abbia continuato a lavorare per “l’associazione professionale ‘Studio Legale Tributario Cordeiro Guerra & Associati’’”.

A dargli una mano sarebbe stato proprio “Cordeiro Guerra (…) titolare delle quote maggiori dell’associazione professionale e della cattedra presso la quale Dorigo svolge l’attività di ricercatore”. Guerra è indagato “in qualità di istigatore e beneficiario”. Il sistema andrebbe avanti dal primo dicembre 2016 e non sarebbe terminato. I reati contestati sono due: frode nelle pubbliche forniture e truffa. Dorigo avrebbe attestato “falsamente di non esercitare più attività di libero professionista, e di non percepirne quindi i relativi compensi”. E per nascondere il suo lavoro secondo l’accusa faceva firmare agli altri associati gli atti processuali su cui, in realtà, aveva lavorato lui. Inoltre per farsi pagare avrebbe gonfiato i compensi relativi a incarichi precedenti alla sua assunzione come ricercatore.

Il crac del broker degli scandali con 600 milioni di diamanti

Intermarket Diamond Business (Idb), che fu il maggior broker nazionale di diamanti, è in procedura fallimentare. L’istanza è stata presentata nei giorni scorsi dagli amministratori della società, nominati dai magistrati di Milano che hanno rimosso i predecessori finiti sotto indagine. Il giudice Alida Paluchowski, presidente della seconda sezione civile del tribunale lombardo, ha fissato all’8 aprile la prima udienza dei creditori e ha nominato curatore l’avvocato Maria Grazia Giampieretti. In ballo, oltre al futuro della Idb e dei suoi dipendenti, ci sono i tempi di riconsegna a decine di migliaia di risparmiatori di pietre valutate, a fine 2017, 641 milioni, che i clienti hanno lasciato in deposito al broker.

Le due inchieste penali in corso sulla vicenda ora potrebbero salire a tre nel caso emergessero reati fallimentari. La Procura di Milano indaga per truffa sulla vendita delle pietre e ha perquisito i broker e alcune banche. I passati vertici di Idb sono poi sotto indagine per associazione a delinquere, circonvenzione di incapace, falso, peculato e sequestro di persona. I magistrati indagano sui trasferimenti di quote societarie intestate attraverso un trust alla fondatrice di Idb, Antinea Massetti De Rico (che era in stato vegetativo dal 2011) e a suo marito, Richard Edward Hile, entrambi deceduti nel 2017. Tra aprile e maggio 2018 gli inquirenti avevano sequestrato conti correnti e azioni conferite all’Hile Trust per 70 milioni. Il 3 ottobre scorso però la seconda sezione penale della Cassazione ha accolto l’istanza contro i sequestri avanzata da una nipote di Hile e ha rinviato gli atti al tribunale perché li riesamini. Il 14 maggio 2018 il presidente e amministratore delegato di Idb, Claudio Giacobazzi, è stato trovato morto in un hotel a Reggio Emilia. Nel 2005 Idb era stata oggetto di un fallito tentativo di infiltrazione della ’ndrangheta, scoperto dal giudice Guido Salvini nel 2008. Dopo l’esplosione del caso, i clienti hanno iniziato a premere su broker e banche per riottenere i propri soldi e il blocco delle nuove vendite ha pesato sui conti 2017 di Idb, con il crollo di ricavi (da 130 milioni del 2016 a 3,5) e risultati (da 5,4 milioni di utile a 15,7 di perdite).

Il 20 settembre 2017 l’Antitrust aveva sanzionato le modalità di offerta dei diamanti “gravemente ingannevoli e omissive” con listini autoprodotti molto più alti dei valori di mercato: 9,35 milioni al canale Idb (2 milioni al broker, 4 a UniCredit e 3,35 a Banco Bpm), 6 milioni all’altro broker Dpi e al suo canale (un milione alla società, 3 a Intesa Sanpaolo, 2 a Mps). Il 17 ottobre scorso il Tar del Lazio ha poi confermato le multe. Le società coinvolte hanno presentato ricorso al Consiglio di Stato.

L’avvocato Anna D’Antuono, consulente legale dell’associazione di risparmiatori Aduc, spiega che “in caso di fallimento, i clienti che ancora detengono i diamanti in Idb dovranno presentare ricorso per restituzione-rivendicazione delle pietre. Ogni azione è però da valutare e coordinare con le mosse da compiere nei confronti delle banche ‘presentatrici’, per evitare incompatibilità tra le procedure e soprattutto difficoltà nella quantificazione del danno da richiedere”.

Il collocamento di diamanti in banca come “beni di investimento” è esploso durante la crisi finanziaria del 2008. Gli istituti piazzavano attraverso la propria rete i diamanti venduti dai broker ricevendo in cambio commissioni spesso superiori al 10% dell’importo totale. Negli ultimi 15 anni le banche attraverso Idb e Dpi hanno venduto pietre stimate in 2 miliardi. Nei giorni scorsi Mps, che si è detta pronta a rimborsare integralmente i clienti riacquistando i loro diamanti, ha finalmente ottenuto l’autorizzazione della Questura a procedere nell’operazione. Una stima delle pietre vendute negli anni dal broker Dpi ai clienti del gruppo di Siena è di 330 milioni.

Van Dyck, Veronese e Hayez: i tesori “dimenticati” di Carige

Due dipinti di Van Dyck a bilancio. Tutti in questi giorni spulciano i conti Carige e qualcuno si è ricordato di quella voce: patrimonio artistico, valore iscritto per 30 milioni, ma sul mercato potrebbe arrivare a 100. E adesso chissà che fine farà: c’è già chi immagina di alienarlo.

‘Patrimonio artistico’:sta lì, quella voce, sepolta tra depositi, crediti fiscali e crediti deteriorati. Chissà che cosa avrebbe detto il fiammingo Antoon van Dyck. Non è il solo, perché la collezione Carige è un tesoro che comprende quadri di Veronese, Grechetto, per non dire di una tela che secondo alcuni sarebbe opera di Rubens. E poi ancora Boldini e Hayez. Senza contare una collezione forse unica dei grandi della pittura genovese del ‘600, quando la Genova dei mercanti dominava il Mediterraneo e forse cercava di nobilitare il denaro con l’arte: ecco Castello, Cambiaso, Piola, Procaccini e Strozzi. Sono ospitati ai piani alti della sede, il ponte di comando del palazzone moderno e sgraziato che domina sui tetti del centro storico. Entri nella sala riunioni e trovi un enorme dipinto con i colori purissimi del Veronese. Ha dominato le riunioni dei potenti della Carige negli anni d’oro e poi quelle sempre più affannate dei manager che non riuscivano più a raccapezzarsi con i conti. ‘Susanna e i vecchioni’ è il titolo, una giovane donna puntata dagli sguardi pieni di cupidigia degli anziani che ricorda il destino della banca. E forse di Genova.

Trovi arte dappertutto spaziando dal tredicesimo al quindicesimo piano della banca. Ti imbatti nella ‘Sacra Famiglia con san Giovannino’ e nel ‘Ritratto d’uomo’ di Van Dyck. Poi in quel gioiello che è il ‘Cristo Deposto con la Maddalena’ di Procaccini. Ma trovi arte perfino all’ingresso, nell’atrio, un ‘Notturno con la Sacra Famiglia’ della scuola di Luca Cambiaso. Nella sede di Milano della controllata Banca Cesare Ponti c’è un Hayez che ha viaggiato nelle mostre di mezzo mondo.

La storia della banca si intreccia con quella di Genova: un istituto nato nel 1483. Allora si chiamava Monte di Pietà. “Ma la collezione – raccontano in Banca Carige – è nata dopo, nel 1966, in un altro periodo di grande ricchezza della città”. Genova delle industrie, dei cantieri, che sfiorava un milione di abitanti e aveva il record italiano di depositi. Nei corridoi della banca si raccontava di un imprenditore con un deposito di 300 miliardi di lire liquidi. Carige in quegli anni era tra i primi dieci istituti d’Italia. “Ma l’acquisizione maggiore è la collezione di Angelo Costa, il capostipite della famiglia di armatori, l’uomo che guidò Confindustria”. Erano anche gli anni che nei vicoli intorno a Carige incontravi Fabrizio De André e Paolo Villaggio. Renzo Piano lavorava nel suo studio di piazza San Matteo, a poche decine di metri da qui.

“Noi non teniamo i dipinti chiusi gelosamente”, raccontano alla Carige, “Li ospitiamo nelle sale di rappresentanza, a rotazione. Molti, però, li prestiamo gratuitamente, come accadrà nel 2020 per la mostra sulla pittura genovese alle Scuderie del Quirinale”. No, non è come per i tesori d’arte che accompagnarono i fasti e il tracollo di Veneto Banca nella sede principesca di Montebelluna: nella stanza del grande capo campeggiava il “Rio dei mendicanti” di Francesco Guardi, un’opera stimata 600 mila euro.

“La collezione Carige ha una storia. Comprende sia i maestri fiamminghi conosciuti in tutto il mondo, sia i pittori genovesi che proprio da loro presero le mosse”, racconta il critico d’arte Giovanni Meriana. Ma oggi rischia di diventare una voce di bilancio. E qualcuno teme che, se la banca sarà ceduta a un euro, se ne andranno anche i Van Dyck.

Fca, a Torino Mirafiori e Grugliasco dicono addio al doppio turno

Il calo dei volumi produttivi dei modelli Maserati, Levante, Ghibli e Quattroporte, continua ad avere contraccolpi sugli stabilimenti torinesi di Fca. Alla Carrozzeria di Mirafiori e alla Maserati di Grugliasco – dove gli operai lavorano in media una settimana al mese – dal febbraio si lavorerà su un unico turno, dalle 8 alle 16, anziché su due. Non saranno interessati gli addetti alla manutenzione e quelli di alcuni reparti come la lastratura, circa la metà della forza-lavoro. “Non era mai successo che le produzioni negli stabilimenti Fca fossero impostate su un unico turno, vuol dire che siamo ai minimi storici delle vendite. Alle Carrozzerie si passa da 140 Levante al giorno prodotti su due turni a 78”, spiega il responsabile di Mirafiori, Ugo Bolognesi. “Siamo ormai in un pozzo senza fondo. L’ennesima brutta notizia per i lavoratori. Faranno pagare a loro l’ecotassa”, aggiunge il segretario generale della Fiom torinese Edi Lazzi. “Abbiamo chiesto a Fca un incontro sul futuro produttivo e occupazionale degli stabilimenti italiani, a prescindere dall’ecotassa”, spiega Michele De Palma, responsabile Auto della Fiom, al termine dell’incontro all’Unione Industriale di Torino per il rinnovo del contratto di Fca”.

Donne in pensione più tardi, crolla il numero degli assegni: -20,4%

Rallenta il numero delle pensioni erogate nel 2018 soprattutto a causa dell’inasprimento dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia delle donne e per ottenere l’assegno sociale. Lo scorso anno, secondo quanto emerge dal Monitoraggio dell’Inps sui flussi di pensionamento, sono stati liquidati 483.309 trattamenti con un calo del 20,4% rispetto al 2017. Sono diminuite soprattutto le pensioni di vecchiaia (-39,4%) che con 125.293 unità risultano largamente inferiori a quelle anticipate (140.752). Hanno subito un vero e proprio crollo, invece, gli assegni sociali che con il passaggio del requisito da 65 anni e 7 mesi a 66 anni e 7 mesi sono scesi a 16.621 con un calo del 79%. Per le donne, con l’asticella incrementata di un anno, a 66 anni e 7 mesi e portata a livello degli uomini, si è verificato una contrazione degli assegni del 64,7% con appena 8.792 donne che hanno potuto accedere a questo trattamento. E per il primo trimestre del 2019 il crollo potrebbe essere più consistente con l’ulteriore incremento di 5 mesi per tutti, sia per la vecchiaia (a 67 anni) sia per le anticipate (a 43 anni e tre mesi gli uomini, a 42 anni e tre mesi le donne). Quota 100 infatti avrà effetti solo a partire dal secondo trimestre.