Quota 100 e Reddito: Varate le due misure simbolo. Se si sfora scattano tagli lineari

E adesso viene la parte difficile: far partire davvero il reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni “quota 100”. Ieri il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto con le due misure, poi il premier Giuseppe Conte e i due vice Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno illustrato il tutto in conferenza stampa. “Questa è una tappa fondamentale”, dice Conte. Però sullo sfondo già c’è l’altra tappa fondamentale: le elezioni europee di maggio. E tutti i dettagli dei due provvedimenti sono stati calibrati con quella in mente.

La Ragioneria generale dello Stato ha preteso che ci sia una specie di tagliola pronta a scattare: se finiscono i soldi per il reddito (7 miliardi) servirà subito un decreto per ridurre l’ammontare o trovare nuove coperture, lo stesso succede se Quota 100 costa più di quanto stanziato (4 miliardi), con tagli al budget del ministero del Lavoro o al bilancio dello Stato. Ma per oscurare questi dettagli spiacevoli, Salvini e Di Maio spiegano che siamo solo all’inizio: arriverà “quota 41” (in pensione tutti con 41 anni di contributi) e, assicura Salvini, “non si può mettere in discussione il diritto alla pensione per motivi economici”. Gli statali andranno in pensione da agosto, se avevano i requisiti a fine 2018, gli altri sei mesi dopo averli maturati. E, per evitare che vadano alle urne scontenti a maggio, Lega e M5S assicurano che almeno una parte della liquidazione – “30 mila euro” – sarà pagata subito.

Il reddito di cittadinanza resta la misura più complicata da gestire: ci sono alcuni ritocchi, nell’ultima versione, per accelerare. Per esempio 250 milioni per le assunzioni dei “navigator” che assistono i beneficiari nella società pubblica Anpal Servizi, oppure un’indicazione di chi saranno i primi a essere convocati ai centri per l’impiego (chi è disoccupato da “non più di due anni”, chi è sotto i 26 anni, chi prende l’assegno Naspi o lo prendeva fino a un anno fa).

L’obiettivo di Di Maio è pagare i primi assegni alla vigilia delle Europee, “a fine aprile”, ed evitare che sembri un intervento assistenziale ed elettorale. Il primo obiettivo è il più complesso: ora bisogna spiegare bene le procedure ai potenziali beneficiari, far funzionare le banche dati, dare il via alla filiera che deve processare le domande (tra Poste, Caf e Inps), coinvolgere le imprese che dovrebbero fare le offerte di lavoro, far arrivare in tempo le card su cui verrà caricato il sussidio. Uno sforzo titanico, soprattutto da compiere in poco più di due mesi.

Di Maio è altrettanto preoccupato di rassicurare i critici e sottolinea le norme “anti-divano” e “anti-abusi”. Le penalità per chi non rispetta gli impegni presi o mente sulle informazioni vanno dalla perdita di parti del sussidio a sei anni di carcere. Sono poche le categorie esentate dall’obbligo di accettare un’offerta “congrua” su tre proposte entro 100 chilometri nei primi sei mesi, 250 nel periodo successivo e su tutto il territorio nazionale dopo il primo ciclo di 18 mesi. Il vicepremier M5S sottolinea anche che i soldi sulla carta vanno spesi: chi non lo fa entro fine mese li perde, perché dimostra di non averne bisogno e perché non stimola i consumi (meccanismo non chiarissimo nelle bozze di decreto).

Per misurare il coinvolgimento delle aziende ci vorrà tempo, anche per vedere i primi contratti “a tempo pieno e indeterminato” incentivati dal reddito che va al datore di lavoro che assume il beneficiario. Rischiano di vedersi subito invece i contraccolpi sui Comuni, mai citati nei discorsi dei leader di Lega e M5S ma che si vedono caricare di nuovi compiti complessi senza ricevere un solo euro di risorse aggiuntive. Chi, dopo la prima selezione, non viene considerato subito abile al lavoro dovrà firmare un “Patto per l’inclusione sociale” sul modello di quello attuale del Rei, il Reddito di inclusione. Cioè viene preso in carica dai servizi sociali del Comune e, se necessario, anche dalla Asl. I Comuni dovranno poi organizzare il lavoro socialmente utile in campo “culturale, sociale, artistico, ambientale” cui sono tenuti i beneficiari dell’assegno, fino a otto ore a settimana. Ma per farlo i Comuni non ricevono un euro. Difficile che si dimostrino collaborativi. E ogni intoppo, da qui a maggio, rischia di costare caro nelle urne.

 

1. Il superamento della Fornero
Quota 100: come funziona tra requisiti, diritti e platee

Chi è nato entro il 1956 e ha lavorato almeno dal 1980 potrà andare in pensione a partire da aprile: la sperimentazione per il triennio 2019-2021 di quota 100 (ma chi matura i requisiti entro il 2021 potrà uscire anche dopo), consente a chi ha matura 62 anni di età e 38 di contributi di lasciare il lavoro prima rispetto alle regole attuali (67 anni per la vecchiaia e 43 anni e tre mesi per la pensione anticipata). Si potrà andare a riposo prima dei 62 anni se si sono maturati 42 anni e 10 mesi di contributi entro il 2018 (41 e 10 per le donne), ma si dovrà attendere la finestra trimestrale. Quindi non è previsto l’incremento di 5 mesi che doveva scattare nel 2019 ma se ne attendono comunque tre. La platea che potrebbe accedere alle misure è di circa 315.000 persone (un terzo statali) ma è probabile che il numero sia più contenuto a causa della norma del divieto di cumulo con l’attività lavorativa fino all’età di vecchiaia, mentre è cumulabile con i redditi da lavoro occasionale (massimo 5 mila euro).

 

2. Per la Pa si parte da agosto
Dal 1° aprile al via, statali dopo. Arriva la pace contributiva

Per chi ha maturato i requisiti entro il 31 dicembre 2018, il diritto alla pensione scatta dal 1 aprile. Per tutti gli altri tre mesi dopo. Discorso a parte per i dipendenti pubblici: a uscire entro il 1 agosto saranno tutti i lavoratori che hanno raggiunto quota 100 entro il 2018. Per chi li maturerà da gennaio 2019, la finestra resta di 6 mesi con 6 mesi di preavviso. Mentre per la scuola, la prima finestra si apre a settembre per le domande presentate entro il 28 febbraio. Con i fondi Bilaterali per il ricambio generazionale, si potrà andare in pensione tre anni prima di quota 100 a patto che ci sia un’assunzione. Andando in pensione con quota 100 l’assegno sarà più basso a causa dei minori contributi versati. Arriva poi la “pace contributiva”: per tre anni chi è interamente nel sistema contributivo potrà riscattare fino a 5 anni di contributi purché per periodi per i quali non fosse prevista contribuzione obbligatoria (quindi buchi contributivi o periodi di congedo facoltativo, aspettative ecc).

 

3. Il nodo del pubblico impiego
Tfr pagato subito solo in parte, riecco l’Ape e l’opzione donna

La grande novità del decreto riguarda l’anticipo di fine rapporto dei dipendenti pubblici. C’è una formula per evitare il differimento nel tempo dell’erogazione del Tfs per i dipendenti pubblici, fino a un massimo di 30mila euro. Il meccanismo dovrebbe prevedere un fondo di garanzia per accedere al prestito bancario e la “restituzione” degli interessi sotto forma di sconto fiscale. Il governo assicura che non ci saranno costi per i lavoratori.
Arriva poi lo sconto per il riscatto degli anni di università per gli under 45 che abbiano iniziato a lavorare dopo il 1996. Anche nel 2019 si potrà poi andare in pensione anticipata con l’Ape social e con l’opzione donna. La prima permette ai lavoratori in situazioni di disagio di ottenere la pensione senza penalità a partire dai 63 anni di età e dai 30-36 di contribuzione fino al raggiungimento dell’età anagrafica per la pensione di vecchiaia. Per l’opzione donna bisogna essere nate entro il 1960 (1959 le autonome) e 35 anni di contributi.

 

1. Coinvolte 5 milioni di persone
Reddito: da 40 a 780 euro con tetto all’Isee fino a 9.360

Reddito e pensione di cittadinanza raggiungeranno quasi 5 milioni di persone, 1,7 milioni di famiglie in cui rientreranno anche 250 mila nuclei con disabili. Il reddito potrà essere chiesto anche da stranieri purché residenti in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo (vale anche per gli italiani). La cifra stanziata è di 6 miliardi di euro nei nove mesi di applicazione del 2019, e andrà al 50% al Sud. Per richiedere il reddito bisognerà avere un Isee massimo di 9.360 euro. Viene considerato anche il reddito familiare che dovrà essere inferiore a 6.000 euro annui (per un single). A richiederlo potrà essere anche chi percepisce già il Rei. A spanne, in media saranno 400 euro a famiglia. Il beneficio andrà da un minimo di 40 a un massimo di 780 euro mensili. Sarà scomposto in una componente massima di 500 euro a famiglia a cui aggiungere 280 euro per l’affitto. La pensione di cittadinanza invece in un massimo di 630 euro e 150 euro per l’affitto. Aggiunta di 150 euro anche per il mutuo.

 

2. Ricerca di lavoro
Vale fino a 36 mesi. Dopo 1 anno va accettata un’offerta congrua

Il reddito di cittadinanza dura fino a 18 mesi, rinnovabili una volta dopo un mese di pausa. I beneficiari dovranno sottoscrivere un “patto per il lavoro” o un “patto per la formazione” e accettare un’offerta di lavoro su tutto il territorio nazionale dopo 18 mesi di fruizione del sostegno e in quel caso potranno continuare a goderne ancora per tre mesi “a compensazione delle spese di trasferimento”. Nei primi sei mesi di fruizione del reddito sarà considerata “congrua” un’offerta entro 100 chilometri dalla residenza, tra il sesto e il 12º mese entro 250 km e oltre il 18° mese, nel secondo ciclo di erogazione del reddito, ovunque in Italia, nel caso in famiglia non ci siano minori né disabili. Chi ha diritto al reddito cercando attivamente lavoro, potrà rifiutare fino a due offerte, accettando la terza. Tuttavia, dopo 12 mesi di fruizione del beneficio, non si potrà più rifiutare alcuna offerta ‘congrua’ (dunque entro 250 chilometri dalla residenza), pena la decadenza del sostegno.

 

3. Confindustria felice
L’assegno andrà pure a imprese e agenzie: sgravi fino a 18 mesi

Sgravi fiscali e incentivi alle imprese che assumono chi percepiva il reddito di cittadinanza. Ma a patto che l’assunzione sia “a tempo indeterminato e nei primi 24 mesi il beneficiario” non venga “licenziato senza giusta causa o giustificato motivo”. E che l’impresa aumenti il numero di dipendenti stabili. Alle aziende va (in forma di sgravio) l’importo del Rdc percepito dal neo-assunto per i mesi rimanenti fino alla fine del ciclo di 18 mesi (o comunque per un minimo di cinque mesi). Per donne e disoccupati da lungo tempo c’è una mensilità extra. Le aziende percepiscono invece metà dell’importo del reddito (sempre fino a fine ciclo) nel caso il beneficiario usufruisca di un corso di formazione per l’impiego o dell’ausilio delle agenzie per il lavoro (a cui andrà il restante 50%). Ai beneficiari del Rdc che avviano un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale entro i primi 10 mesi, è riconosciuto in un’unica soluzione un beneficio addizionale pari a 16 mensilità.

 

4. Requisiti e domanda
Le modalità: prima il portale web, poi l’Inps verifica in 5 giorni

Le richieste per il reddito di cittadinanza possono essere presentate via Internet, da un apposito portale, o presso i Centri di assistenza fiscale (Caf) convenzionati dall’Inps, che per il servizio vengono finanziati per 20 milioni. Per la domanda è necessario aver calcolato l’Isee, l’indicatore di situazione economica equivalente che considera reddito e patrimonio, che si può calcolare dal sito dell’Inps. Sempre l’Inps verifica “entro cinque giorni lavorativi” il possesso dei requisiti, sulla base delle informazioni già disponibili nelle proprie banche dati. Secondo il decreto, l’Inps è anche autorizzata a contattare direttamente i nuclei familiari che, sempre sulla base dei dati già disponibili, sono potenzialmente idonei. I Comuni devono invece verificare i requisiti di residenza e soggiorno (10 anni di cui due continuativi o permessi lunghi). La carta su cui viene caricata la somma è fornita da Poste Italiane.

 

5. Tutti i paletti
Tetto al contante e chi fa il furbo rischia fino a sei anni di carcere

Sono tanti i paletti previsti. Per esempio comprare una moto nuova di cilindrata sopra 250 o un’auto nuova nei sei mesi precedenti la domanda (o possedere veicoli sopra i 1600). Si perde il diritto per 12 mesi anche in caso di dimissioni volontarie dal lavoro. Chi imbroglia nella dichiarazione Isee rischia da 1 a 6 anni di carcere e perde l’accesso per 10 anni. La stessa sanzione colpisce la famiglia in cui uno dei componenti svolga lavori in nero mentre prende il sussidio. La sanzione scatta solo se il reddito maturato in nero, se dichiarato, avrebbe comportato la perdita del sussidio. In compenso non si possono prelevare più di 100 euro al mese con la card su cui viene caricato il reddito e c’è il divieto di spenderli nel gioco d’azzardo. Non partecipare alle attività di formazione, alla ricerca attiva del lavoro etc. comporta poi perdite di varie mensilità, fino alla perdita del diritto a riceverlo.

 

 

2 manette e 2 misure

Che Bonafede abbia sbagliato, e di grosso, con quell’imbarazzante autovideo su Facebook travestito da secondino di Battisti non c’è dubbio. Ha esagerato e farebbe bene ad ammetterlo, scusarsi e magari chiudere i social (una trappola che sta sterminando i politici di mezzo mondo). Ma, come già con Salvini, appena un ministro di questo governo la fa fuori dal vaso provvedono subito i nemici pregiudiziali di questo governo a farne molta di più. Infatti sono tre giorni che tutti la menano su quel video con invettive, geremiadi, addirittura denunce in Procura (della Camera penale di Roma). Queste penne all’arrabbiata sarebbero più credibili se avessero scritto due righe per congratularsi col governo per essere riuscito là dove tutti i precedenti 24 (diconsi 24) governi, da Fanfani a Gentiloni, avevano fallito, assicurando alla giustizia dopo 37 anni quel feroce e vile criminale. Invece non l’hanno fatto e così autorizzano il sospetto che il nobile sdegno per un essere umano alla gogna nasconda ben più prosaici sentimenti: il rosicamento per un successo degli odiati giallo-verdi (i quali sbagliano sempre, a prescindere); e il doppiopesismo della vecchia, cara giustizia di classe che rifà capolino ogni qual volta finisce dentro un Vip o uno del giro (lo “scrittore”, il “compagno che sbaglia”).

Nel 1993 fece scandalo il filmato del dc Enzo Carra, arrestato (e poi condannato) per false dichiarazioni ai pm di Mani Pulite sulla maxitangente Eni e tradotto con gli schiavettoni ai polsi al processo per direttissima. Di Pietro tentò di fargli levare le manette per evitare un nuovo caso Tortora, ma quella era la regola: infatti alla stessa catena erano lucchettati altri 49 imputati tradotti da San Vittore: scippatori, ladruncoli e spacciatori catturati nella notte. Ma per quelli, in fila indiana davanti e dietro Carra, nessuna vergine violata spese una parola. Risultato: nel 1995 fu abolito l’arresto in flagranza per i falsi testimoni (voluto da Falcone e varato dopo la sua morte) e nel ’99 fu approvato il divieto di riprendere persone ammanettate. Legge sempre violata, perché è impossibile evitare fotografi e telecamere fuori dai tribunali quando arrivano gli imputati in ceppi (come impone la legge se i detenuti da trasportare sono più d’uno, per evitare che qualcuno fugga o si faccia del male). Poi ci sono le forze dell’ordine che immortalano gli arresti e mostrano le foto e i video in conferenza stampa o li passano ai giornali. E, quando si tratta di mafiosi o criminali comuni, tutti pubblicano tutto senza sottilizzare né badare al divieto. Se invece c’è di mezzo un “signore” o un amico degli amici, apriti cielo.

Nel 2010 si scatenò la canea perché l’ex provveditore alle opere pubbliche toscane Fabio De Santis era stato tradotto in manette con altri quattro detenuti (subito dimenticati) al Tribunale. Purtroppo gli indignati speciali non avevano fatto un plissé l’anno prima, quando tre rumeni arrestati a Roma per lo stupro alla Caffarella, poi risultati innocenti e prosciolti, erano stati sbattuti in tutte le tv e le prime pagine mentre la polizia di Roma li prendeva per i capelli e li ficcava dentro una volante e il questore li mostrificava come i sicuri “stupratori” prim’ancora che iniziasse il processo.

Dal 2014, su Youtube, possiamo gustare uno splendido video dal titolo Mafia Roma Spettacolari immagini Ros arresto Carminati, con 382 mila visualizzazioni e, in alto a sinistra, il logo “Ros Carabinieri”. Si vede la Smart dell’ignaro Carminati e del giovane figlio avvicinarsi ai militari, che la bloccano coi mitra spianati, puntano la pistola alla tempia del conducente, lo fanno scendere con le mani alzate, lo ammanettano e lo portano via. Il filmato circola da quando, il 4 dicembre di cinque anni fa, la Procura di Roma, col suo capo Pignatone, i suoi aggiunti, i suoi sostituti e i suoi carabinieri tenne la conferenza stampa per annunciare la mega-operazione “Mondo di Mezzo” o “Mafia Capitale”. Carminati, diversamente da Battisti, non era stato condannato definitivamente a quattro ergastoli per altrettanti omicidi, ma per quell’inchiesta era solo indagato. E, diversamente da Battisti – sceso dall’aereo senza manette, come un turista qualunque – veniva ripreso mentre i carabinieri, pistole in pugno, gli mettevano le manette sotto gli occhi del figlio. Una scena lievemente più truculenta di Battisti che dà le sue impronte in Questura. Eppure era già in vigore la legge che vieta “la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica”. Forse il presunto innocente Carminati aveva meno diritti del sicuro colpevole Battisti? Ora gli stessi pm romani che diffusero (o consentirono la diffusione di) quel video dovranno indagare su Bonafede: chissà se riscopriranno quella legge che, per Mafia Capitale, avevano dimenticato. Già, perché allora nessuno – a parte Ilda Boccassini, scandalizzata dal filmato diffuso “in modo ossessivo” per fare “marketing e pubblicità” all’indagine – trovò nulla da obiettare. Nessun giornalone, politico di Forza Pd o Garante dei detenuti o vicepresidente del Csm o toga democratica. Nessuno di quelli che ora strillano contro Bonafede, e non si capisce bene a che titolo lo facciano Ermini e i magistrati di Area, visto che non compete a loro dare giudizi sul Guardasigilli. Competerebbe a loro, invece, stigmatizzare l’imbarazzante spettacolo dei procuratori attovagliati con politici, manager e imprenditori nel Toga Party del garantismo magnaccione a 6 mila euro a tavolo. Ma su quella sconcezza né il Csm né l’Anm dicono una parola. E meno male: c’è pure il caso che qualcuno sia offeso perché non l’hanno invitato.

“Vorrei firmare le musiche di Nanni Moretti”

Nada rock, Nada dark. È un viaggio negli abissi quello che Malanima ha fatto prima di riaffiorare con È un momento difficile, tesoro, in uscita venerdì per Woodworm Label. I brani sono strade che si intrecciano in labirinti d’introspezione, di continuo confronto tra il fuori e dentro, di richieste di salvataggio per attimi di sole e di perdono.

Dieci tracce crude, anche se lei preferisce inquadrarle nel realismo, anziché nella negatività. Un album cupo, a suo modo: “Me ne sono resa conto anche io mentre lo scrivevo. Ho la ‘sindrome del dramma’, cioè credo che nei momenti di sofferenza cadano le maschere e le persone siano più vere”. È questo l’aspetto che ama indagare quando compone perché è lì che è interessante pescare: “Perché è nell’intimo che tutti abbiamo paura di sentirci non belli, non perfetti, non forti”.

Se la fragilità appartiene all’essere umano, è in questo particolare periodo che “bisogna combattere la prepotenza e la forza”. “A me non interessa dimostrare niente, ero così anche da piccola, mi dicono. Non credo neanche che quelli che hanno bisogno di mostrare i muscoli siano felici, perché non si può essere felici a discapito degli altri”.

Animo e suono rock, come poche altre ormai (“l’ultima nostra rocker è stata Carmen Consoli”) è stata sempre poco attratta dall’ostentazione. È valso per la scelta di vita – si è allontanata da Roma per vivere in Maremma – quanto per quelle artistiche. Le piace chi “pensa a fare la musica”, non altro. Per questo negli anni ha collaborato con gruppi come A Toys Orchestra, Zen Circus e Criminal Jockers (la band di Motta, per intendersi).

“Mi rendo conto che le mie canzoni, per melodie e struttura, siano molto poco italiane. Ho lavorato sempre tanto da sola anche perché le soluzioni che mi proponevano andavano nella direzione di uno standard in cui non mi riconoscevo”. Per questo, per il nuovo album ha voluto e atteso John Parish (già produttore di PJ Harvey, Giant Sand, Afterhours), con il quale aveva già lavorato nel 2004 per Tutto l’amore che mi manca.

“Sentivo di aver bisogno di qualcuno – racconta –. In questi anni il bello e il brutto di un disco l’ho avuto sulle spalle, ma stavolta non volevo essere sola”. Lui era la persona giusta e gli ha mandato i brani anche se in tour. Hanno prima lavorato a distanza e poi è andata a registrare a Bristol: “Non ce l’avrei fatta senza di lui. È riuscito a dare un’uniformità al disco, come fosse quasi un’unica canzone e io volevo che ci fosse questo, un’atmosfera compatta”.

Tra le tracce spicca O madre, straziante richiesta di ascolto: “Con mia madre ho avuto un rapporto molto, molto complicato. Ne ho già scritto e capita spesso che esca qualcosa che si riferisca alla relazione, ma questa volta ne sono particolarmente contenta perché credo di averla risolto. L’ho perdonata e anzi, ho ancora bisogno di lei. Non la combatto più, chiedo il suo aiuto. Quando l’amore è potente, riesci nel tempo a recuperare e capire, e forse fai pure gli stessi errori”.

È proprio quella la traccia che sceglierebbe se qualche canzone del disco dovesse finire sul grande schermo come già successo in precedenza con Jeeg Robot, Mio fratello è figlio unico, La finestra di fronte: “Per O madre però, ci vorrebbe Bergman, perché lui ne potrebbe fare qualcosa con quel ‘madre fammi posto tra le tue gambe’”. E se fosse Nanni Moretti? “Lo adoro, come tutti i suoi film!”.

Un vincolo d’area per Roma (ma con il placet della politica)

Ieri la Soprintendenza di Roma ha presentato alla stampa le sue ambiziose “Strategie di salvaguardia per il paesaggio urbano”. Il cuore del progetto è “una nuova tipologia di vincolo per armonizzare le trasformazioni urbane, lo sviluppo sostenibile, la tutela dell’identità culturale dei quartieri storici di Roma”. La novità “risiede nella natura strategica del vincolo, di medio e lungo periodo” e dovrebbe avere lo scopo di “governare e non bloccare le trasformazioni, attraverso una tutela graduata, rispetti le caratteristiche storiche e tipologiche dei quartieri della città”. Per questo motivo “la procedura avviata dalla Soprintendenza Speciale di Roma non mira a preservare particolari edifici o impianti decorativi su singole costruzioni, ma riguarda invece un intero contesto urbano. Il II Municipio della Capitale, scelto come zona campione, verrà sottoposto a una tutela di tipo paesaggistico, sviluppata in collaborazione con gli altri Enti che partecipano al Tavolo, l’Assessorato all’Urbanistica di Roma Capitale, la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e la Regione Lazio”. La Soprintendenza ha esplicitato la genesi di questa idea: che è “l’allarme sul rischio di perdita dei caratteri identitari di parti significative della Capitale, che le recenti leggi urbanistiche nazionali e regionali hanno provocato sui media, nelle associazioni e nella cittadinanza”.

In pratica, si cerca di mettere un argine ai disastri bipartisan della politica: quelli determinati dallo Sblocca Italia di Renzi e dal Piano Casa laziale della Polverini, riproposto senza troppi ripensamenti da Zingaretti: una stagione di regresso culturale e di distruzioni materiali, che a Roma è stata simboleggiata dall’abbattimento dei villini storici. È un lodevole intento, ma è lecito nutrire più di un dubbio sulla strada scelta per raggiungere lo scopo.

Mentre, infatti, la proposta di legge sulla tutela dei centri storici proposta dall’Associazione Bianchi Bandinelli mira a cambiare in modo efficace il quadro normativo, qua si tratterebbe invece di concertare una politica di tutela tra soprintendenza ed enti locali, arrivando a un vincolo concordato che abbia le caratteristiche di una sorta di piano paesaggistico applicato alla realtà urbana.

Ciò che non convince è la confusione dei ruoli: gli enti locali, guidati da amministrazioni elette dal popolo, hanno il diritto e il dovere di pianificare in autonomia il futuro delle città. E non si tratta – o non si dovrebbe trattare – di scelte neutrali sul piano politico: esiste una politica urbanistica di destra (asservita alla rendita e al mercato), e dovrebbe esistere una politica urbanistica di sinistra, tesa a difendere lo spazio pubblico e a garantire i diritti costituzionali delle fasce più deboli. La trasformazione della città, spazio politico per eccellenza, dovrebbe essere lo specchio più diretto e immediato delle convinzioni, delle aspirazioni, della cultura del governo locale.

Proprio per questo nessun accordo, nessun tavolo, nessuna strategia comune può vincolare le amministrazioni future, magari di segno politico opposto: non può sul piano giuridico, e non deve su quello politico. Insomma, la politica deve fare il suo mestiere. D’altro canto, anche la tutela deve farlo. Se esiste un sistema di tutela indipendente dalla politica, e che si basa invece su criteri tecnico-scientifici, è perché alcune scelte non possono essere nella disponibilità di chi opera cercando consenso. Chi deve dire di no, non può avere remore o aspettare la benedizione preventiva della controparte. Il sistema si regge su una virtuosa tensione: se la soprintendenza intende porre un vincolo, lo deve fare in perfetta autonomia, senza accordi preventivi e senza le inevitabili connesse trattative e annacquature.

Così come la politica deve, nel suo progetto, poter essere libera.

Lo sfascio delle nostre città è in gran parte frutto della lunga stagione dell’urbanistica contrattata, ormai sfociata in una urbanistica tutta privatizzata. Sarebbe letale impiccarci ora, seppur con le migliori intenzioni, a una “tutela contrattata”, o consociativa.

La bambola che da 60 anni corre dietro alle donne

Frivola, dissipata, pigra, immersa in un universo monocolore rosa e accompagnata da un uomo, Ken, quasi senza sesso, più cicisbeo che amante o marito. Non c’è forse bambola più criticata di Barbie, che a marzo compirà sessant’anni. Presa di mira, fin dalla sua “nascita” nel 1959, dai tradizionalisti religiosi, cattolici come musulmani – che hanno visto in lei un emblema del peggior Occidente –, è stata messa sotto accusa pure dalle femministe, per il suo narcisismo e la sorprendente assenza della maternità. “Una vita solitaria, individuale, immersa nella contemplazione di se stessa” quella di Barbie secondo Lucetta Scaraffia. Con Barbie, ha scritto invece Lidia Ravera, “abbiamo smesso di essere educate a essere madri e abbiamo incominciato a essere educate a diventare oggetti del desiderio altrui”. Una bambola per bambine borghesi, racconta a sua volta Nicoletta Bazzano nel suo divertente libroLa donna perfetta. Storia di Barbie (Laterza editore), per ragazzine allevate per essere, almeno fino agli anni Settanta, “casalinghe e consumatrici, sempre in cerca di qualche scontata e futile gioia”, visto che nella vita di Barbie, ieri come oggi, “sono bandite devastanti passioni”.

Creata dalla co-fondatrice di Mattel, Ruth Handler, Barbie vende 300.000 esemplari solo il primo anno, oltre un miliardo fino a oggi. Un mito che tuttavia da anni dà segni di cedimento, specie dopo la chiusura della catena di negozi “Toys ‘R’ Us” e soprattutto visto che ad attrarre i bambini sono sempre di più cellulari, tablet e consolle. E proprio per questo Barbie sta diventando, forse emula di Chiara Ferragni, sempre più influencer – 1,2 milioni di persone la seguono su Instagram, mentre con l’account @BarbieStyle è anche una travel influencer – e presto sarà lanciata sul grande schermo con un film Warner Bross dove Margot Robbie incarnerà il ruolo della bambola più contestata della storia.

Impressionante la prontezza commerciale con cui, nel tempo, la casa produttrice ha risposto alle critiche. Pochi anni dopo l’esordio, la biondissima e magrissima bambola viene spedita a lavorare. Diventa non solo maestra o pediatra, ma anche ingegnere robotico, apicoltrice, paleontologa, ufficiale d’aviazione. Inoltre, già nel 1964 esce Barbie di colore, la prima di una lunghissima serie di bambole all’insegna del multiculturalismo più sfrenato, dalla giamaicana alla cinese, dalla pellerossa alla kenyota, dalla polinesiana alla portoricana. Sotto la pioggia di critiche sulle sue dimensioni impossibili, le misure mutano, diventando più realistiche, tanto che la nuova Barbie “umana” conquista persino una copertina del Time. E poi c’è la Barbie con il jihab, la Barbie gay friendly, viene prodotta persino una Barbie senza capelli per le bambine in chemioterapia.

Eppure, paradossalmente, è proprio questa overdose di politicamente corretto, questa folle rincorsa a diventare qualunque cosa – come recita lo slogan dell’account Twitter di Barbie, #YoucanBeAnything – a destare i dubbi degli esperti, quasi come il vecchio modello biondo e casalingo. “Perché è stato fatto tutto ciò? C’era dietro un progetto pedagogico? O è stato semplicemente per continuare a vendere?” si chiede la psicoanalista Marta Tibaldi.

“Quando i bambini giocavano con i bottoni”, continua, “era il loro immaginario a dare forma all’oggetto, qui invece l’immaginario è del tutto esterno, imposto, e poco conta che Barbie ora lavori o abbia fattezze afroamericane”. “L’evoluzione della Barbie era necessaria, ma i codici del politicamente corretto sono pensati e imposti, spesso acriticamente, dal mondo degli adulti”, spiega a sua volta lo psicoanalista Maurizio Montanari. “Inoltre, quando ad esempio si introduce una Barbie con il jihab, sarebbe necessaria un’opera di introduzione culturale, un dialogo che introduca e spieghi usi e costumi non sempre generalizzabili”.

E infatti non è forse un caso, come nota sempre Nicoletta Bazzano, che nessun altro giocattolo abbia subito e subisca tante decapitazioni, scotennamenti e mutilazioni, magari da parte di bambine che in questa donna adulta non riescono ancora oggi a riconoscersi. Così, a sessant’anni dalla sua “nascita”, i dubbi restano paradossalmente simili: la nuova Barbie è l’immagine di una sessualità femminile attiva e non forzatamente legata alla procreazione, come aveva notato a suo tempo la sessuologa Shere Hite, oppure risponde esattamente alla donna moderna, perché, come ha scritto l’economista Agnes Nairn, nonostante sia “spezzata, frigida e privata della maternità”, è in grado di affrontare mille mestieri sempre con una manicure impeccabile, espressione palpabile e vincente della sostanziale subalternità moderna”? Forse, chissà, era meglio fermarsi alla bionda nullafacente intenta a provare abiti da sposa e a viaggiare col suo lussuoso camper rosa.

Un ideale lontanissimo per le bambine, ma d’altronde proprio come l’astronauta o la calciatrice di grido. E poi, se proprio si voleva essere realisti, perché l’unica Barbie che non è stata mai prodotta è proprio lei, Barbie anziana?

Isis, attacco kamikaze a Manbij: 16 morti tra cui 4 soldati Usa

È di 16 persone il bilancio delle vittime dell’attentato di ieri dello Stato Islamico a Manbij, nel nord della Siria. Tra loro, secondo gli attivisti dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, si contano nove civili e cinque combattenti curdo-siriani sostenuti dagli Stati Uniti. Mentre il Washington Post ha confermato la morte di 4 soldati Usa, i primi dall’annuncio del 19 dicembre scorso del presidente Trump del ritiro delle truppe Usa dal territorio siriano che culminerà con il rientro dei circa 2000 uomini schierati nel Paese. In base alla ricostruzione, un attentatore suicida si è fatto saltare in aria in un ristorante del centro a Manbij dov’erano presenti una quindicina di soldati americani. L’azione era stata poi rivendicata dall’Is. Intanto le Forze democratiche siriane (Fds), alleanza curdo-araba sostenuta dagli Usa in funzione anti-Isis bocciano la “zona di sicurezza” che le forze di Ankara creeranno nel nord per proteggere il Paese dagli attacchi terroristici, secondo quanto dichiarato dal presidente Recep Tayyip Erdogan. “È una nuova invasione”, ha dichiarato Sohanook Deebo, membro del braccio politico delle Fds che ha spiegato che le Fds accetterebbero solo la creazione di una zona cuscinetto se fosse sotto l’egida dell’Onu per “preservare l’unità della Siria e impedire infiltrazioni di terroristi”. Il presidente russo Putin e il leader turco hanno fatto sapere che si incontreranno a Mosca il 23 gennaio per colloqui sulla situazione in Siria, alla luce del ritiro delle truppe Usa.

Ora arriva l’inferno delle incertezze

Il voto di martedì sera alla Camera del Comuni è stato un colpo particolarmente duro per Theresa May – non ci aspettava un’opposizione così massiccia alla sua linea negoziale sulla Brexit – ma è lungi dall’essere chiarificatore. Ancora non è dato sapere quale sarà l’alternativa che raccoglierà il consenso del Parlamento, quanto tempo il premier resterà in carica, cosa voglia esattamente la maggioranza dei deputati, dopo aver detto quello che non vuole. Il negoziatore dell’Unione, Michel Barnier, non intende negoziare un nuovo trattato di separazione, soprattutto per quanto riguarda la questione nord irlandese e i diritti dei cittadini, e una Brexit nel caos – un no-deal Brexit – si fa più minaccioso e probabile.

È soprattutto per il Nord Irlanda che la prospettiva del no-deal sarebbe nefasta. L’accordo negoziato con Theresa May era congegnato in maniera tale da tutelare il Good Friday Agreement, che nel 1998 mise fine a decenni di sanguinose guerre in Nord Irlanda, conferendo ai nord irlandesi il diritto di proclamarsi cittadini della Repubblica di Irlanda oltre che della Gran Bretagna, e di rimanere de facto e de jure, dopo il Brexit, dentro l’Unione europea. Un’uscita senza accordo rappresenterebbe una lesione dell’accordo del Venerdì Santo, e non è da escludere che prima o poi una maggioranza di nord irlandesi sceglierà la via di un referendum sulla riunificazione dell’Irlanda, pur di evitare una rigida frontiera fra le due parti dell’isola e di restare in Europa e nel suo ordinamento giuridico

Ma anche per i cittadini europei nel Regno Unito, e per gli inglesi che vivono nell’Unione, l’orizzonte è scuro. L’assenza di un Withdrawal Agreement li priverebbe in poco tempo di tutti i diritti legati alla libertà di movimento di cui hanno sin qui goduto (previdenza sociale, permessi di lavoro, riconoscimento delle qualifiche personali, ricongiungimenti familiari, ecc). Dal limbo conosciuto negli anni successivi al referendum sulla Brexit passerebbero all’inferno dell’incertezza legale. Difficile dire come si potrà uscire da questa massiccia sconfessione della linea dell’esecutivo senza che il popolo britannico sia di nuovo interpellato, restituendo spazio e voce a chi nel 2016 aveva votato contro la Brexit (non solo Nord Irlanda ma anche Scozia, Gibilterra, Londra).

Se il no-deal sarà confermato – o se la Brexit non verrà revocata – l’Unione non avrà praticamente armi per difendere i propri cittadini, che dal giorno alla notte diverranno cittadini di Paesi terzi. Legalmente potrà impegnarsi solo negli ambiti in cui sarà in grado di esercitare, e sin da principio, un’influenza. Quel che si spera è che preservi unilateralmente, come primo atto, i diritti dei residenti inglesi nel proprio territorio: raccomandando l’allineamento delle procedure nazionali in materia di residenza e permessi di lavoro alle “migliori pratiche” già prospettate in alcuni Paesi membri, e garantendo che tali diritti includano non il soggiorno nei singoli Stati e il libero movimento nell’Unione.

Ben più grave il caso dei cittadini europei in Gran Bretagna: sono più di 3 milioni, e in uno scenario no-deal diverranno vittime, come già purtroppo lo sono i cittadini di Paesi terzi, dell’ambiente ostile – hostile environment – promosso esplicitamente da Theresa May nel 2012, quando era ministro dell’Interno (gli italiani residenti in Gran Bretagna, iscritti o no all’Aire, sono circa 675.000). Le promesse fatte dal primo ministro potranno essere revocate dal Parlamento d’un solo colpo, quando vorrà. Solo un trattato internazionale che salvaguardi i diritti iscritti nel Withdrawal Agreement darebbe ai cittadini europei in Gran Bretagna le certezze legali che essi chiedono con insistenza da anni. Il ringfencing dei diritti – la loro messa in sicurezza – è possibile se l’Unione, oltre a proteggere unilateralmente i residenti inglesi in Europa, condizionerà i negoziati sulle future relazioni a un preliminare accordo bilaterale Unione-Regno Unito che sia equiparabile a un trattato internazionale vincolante, e che preservi e migliori il capitolo diritti del Withdrawal Agreement. Anche per questo è cruciale dare alla Gran Bretagna più tempo, oltre la data di recesso del 29 marzo, per uscire dalle difficoltà presenti in modo da non distruggere due anni di negoziato con l’Unione e salvaguardare sia i cittadini post-Brexit, sia l’accordo del Venerdì Santo.

“I mercati scommettono su una proroga. Ma l’opzione preferita è no alla Brexit”

Carlo Alberto De Casa è capo analista della società di trading online ActivTrades, e un attento osservatore dell’andamento dei mercati in relazione alla Brexit.

Dopo la bruciante sconfitta del governo di martedì la sterlina è prima precipitata e poi subito risalita: perché?

Perché la bocciatura dell’accordo di recesso era prevista e già “prezzata” dai mercati. La sterlina è risalita quando May ha chiarito che non si sarebbe dimessa: i mercati ora scommettono su una estensione dell’articolo 50, quindi una posticipazione della Brexit.

Quindi non temono un no deal?

Al contrario, il no deal è il più temuto per le sue ripercussioni economiche. Parliamo di uno scenario drammatico, con una svalutazione della sterlina anche del 10%, con un cambio sul dollaro che potrebbe scendere a 1,15. Una sterlina debole significa inflazione, forte aumento dei prezzi, crisi del settore commerciale legato alle importazioni. Sul piano degli scambi doganali, va ricordato che in caso di no deal verrebbero applicate le tariffe della Organizzazione Mondiale del Commercio, fortemente punitive rispetto agli accordi europei, e che per la negoziazione di nuovi trattati commerciali internazionali sarebbero necessari diversi anni. Poi c’è il problema enorme dei servizi: verrebbe revocato da un giorno all’altro il passporting, la licenza europea che permette ad aziende e banche di operare in tutta Europa dalla sede londinese. Contavano sui 21 mesi della transizione concordata, moltissime non sono pronte.

Che succede in caso di elezioni?

Insieme al no deal è lo scenario di maggior caos. Theresa May uscirebbe necessariamente di scena lasciando un vuoto di leadership. Uno dei possibili candidati a succederle, Boris Johnson, non è molto gradito dai mercati perché considerato di ultradestra. Ma non lo è nemmeno Jeremy Corbyn, sia per il suo manifesto politico – che prevede la nazionalizzazione delle ferrovie o l’università gratuita – sia per il suo euroscetticismo, che rende difficile un esito no Brexit. L’impatto sulla sterlina è calcolato intorno al 5% in meno.

E poi?

Lo scenario che reputo più probabile è quello dell’estensione dell’art. 50, che in questo momento è auspicato dai mercati perché darebbe più tempo alle aziende per prepararsi e rimanderebbe l’eventuale choc valutario. Meglio dei precedenti ma non risolutivo, perché temporaneo. Gli scenari risolutivi e quindi più graditi ai mercati sono due: il primo è una rinegoziazione con esito positivo. Supponiamo che la May ottenga da Bruxelles delle concessioni significative, ripresenti il suo accordo modificato al Parlamento e stavolta ne ottenga la ratifica. In questo caso ipotizzo un apprezzamento della sterlina di 2-3 punti. Lo stesso nel caso di secondo referendum, che però ha molte incognite e prolungherebbe di mesi l’incertezza, visto positivamente dai mercati nel caso prevalga il Remain. Infine, l’ultima ipotesi: la revoca dell’art. 50 e quindi niente Brexit. Scenario preferito, ma molto improbabile per ragioni politiche.

May resiste: “Continuerò a lavorare per lasciare l’Ue”

Londra

Trecentoventicinque No contro 306 Sì. Salvata per 19 voti. Alla fine, come previsto, il governo di Theresa May è sopravvissuto alla sfida di Jeremy Corbyn, e la mozione di sfiducia presentata ieri dal segretario laburista si è ammaccata contro il muro, stavolta compatto, della maggioranza Tory in Parlamento. Anche i falchi Brexiter, che ieri avevano contribuito ad affossare l’accordo di divorzio con la Ue, oggi hanno sostenuto la May, perché ancora più di lei detestano la prospettiva di Corbyn a Downing Street. Hanno votato per il governo anche i 10 parlamentari Dup, vero incongruo ago della bilancia dell’intera Brexit, con la loro guerra politica senza sconti alla backstop nord-irlandese.

La May si guadagna ancora la sopravvivenza politica e ora può procedere secondo le indicazioni date subito dopo la bruciante sconfitta di martedì e ribadite ieri dopo il voto di fiducia: avviare, con due anni di ritardo, le consultazioni con tutti i gruppi politici, ascoltare le loro idee e mettere insieme una bozza di piano B per la Brexit, da presentare lunedì di nuovo alla House of Commons e poi a Bruxelles. Ma è una strada molto accidentata. Per tutto il pomeriggio di ieri, il dibattito pre-voto ha mostrato al Paese una Assemblea divisa in modo apparentemente inconciliabile, con la May che, malgrado la dichiarata disponibilità ad ascoltare, finalmente, alternative al suo piano per la Brexit, non ha fatto che dire no. No all’ipotesi di una unione doganale permanente, priorità per il Labour. Va detto che i rapporti con il principale partito d’opposizione sembrano partire con il piede sbagliato anche perché, a 5 minuti dalla sconfitta della sua mozione di sfiducia, Corbyn ha dichiarato che è disposto a partecipare alle consultazioni solo dopo che il governo avrà escluso l’ipotesi di no deal. No a elezioni che, ha dichiarato la May, “non sono nell’interesse nazionale: inasprirebbero le divisioni quando abbiamo bisogno di unità e porterebbero il caos ora che abbiamo bisogno di certezze”. No a un secondo referendum, che sarebbe un tradimento del chiaro mandato popolare espresso con il primo. E del resto, a oggi, l’ipotesi di una seconda consultazione popolare ha solo 100 sostenitori alla House of Commons. E no alla richiesta di una estensione dell’art. 50, che ormai appare ineludibile visto che, perfino in caso di eventuale approvazione, in seconda o terza battuta, del suo deal, non ci sono i tempi legali per le complesse ratifiche parlamentari.

Una opposizione particolarmente sconfortante, quest’ultima, visto che nel pomeriggio di ieri sono arrivate la aperture della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron, entrambi preoccupati dalla prospettiva di un no deal e per questo disponibili a concedere più tempo al Regno Unito. Macron è il primo leader europeo a sollevare pubblicamente l’ipotesi di un allungamento dei tempi anche oltre le elezioni europee di maggio, un importante cambio di tono rispetto alla posizione precedente che escludeva di superare quella scadenza. Una flessibilità confermata anche dal capo negoziatore Michel Barnier che, commentando il voto di martedì ha dichiarato: “Voglio ricordare che il Parlamento e il Consiglio europei hanno sempre detto che, se il Regno Unito decide di cambiare le sue linee rosse. L’Unione è pronta a dare una risposta favorevole”. Messaggio chiaro, ma forse non ancora recepito. “È inflessibile come un dodo” diceva ieri di Theresa May un sottosegretario intercettato dalla Bbc. Il dodo si è estinto nel 1681. “È un governo zombie” ha chiosato Corbyn, protagonista di un furibondo scambio di accuse con la premier. È una definizione accurata, dopo la monumentale sconfitta, che nella guerra aperta degli ultimi mesi fra Parlamento ed esecutivo ha ridefinito gli equilibri di forza a favore del primo.

Nuove patologie associate al Tav: l’ossessione del buco

Com’è ’sta Tav? Necessaria, necessarissima, cioè almeno a metà per favore, fate ’sto tunnel, senza buco non si può stare. Questo bisogno del buco, come si sa, è presente in molte patologie, ma nessuna così preponderante sui media come quella dei Sì Tav. L’epidemia sta assumendo contorni preoccupanti e si manifesta spesso associata a una violenta forma di “numerismo come se fosse Antani”, non disgiunto da violente espettorazioni dette “in nome del progresso” (o, nei casi più gravi, “della libertà di movimento”). Prendiamo un articolo del CorSera di ieri: “A ripeterle di continuo sembrano vere anche le bugie, figurarsi i numeri. ‘La Tav costa 20 miliardi’ dice il ministro Toninelli. ‘Costa 20 miliardi’ ripetono Di Maio e Bonafede”. Bufala poi ripetuta “sui social orchestrati dalla Casaleggio&Associati”, e – potenza del male – nello stesso articolo del CorSera: considerando tutta l’alta velocità Torino-Lione infatti si arriva “a 18 miliardi”. La tesi è che, essendo la parte italiana meno di 5 miliardi, solo di quello si deve parlare: siamo all’analisi costi-benefici sezionale. Peraltro – ci viene spiegato – si fa “finta di ignorare che sui percorsi nazionali nessun impegno è stato ancora formalizzato”, cioè quel che conta non è tanto il progetto dell’alta velocità (e chi se lo ricorda più che doveva andare da Lisbona a Kiev e non se n’è fatto neanche un metro?), ma quel benedetto buco. È chiaro che, a fronte di un bisogno psicologico di questa portata, una fredda analisi economica negativa non basta: forse è il caso di provare con l’ipnosi.