Le ipocrisie sul terrore

Si può viaggiare in tanti luoghi e modi diversi, anche leggendo un libro che percorre i territori insanguinati del terrore e del terrorismo. Partendo dalla Palestina del Primo secolo dopo Cristo, dove era attiva la setta integralista ebraica degli Zeloti, per arrivare sino al terrorismo globale dei giorni nostri, quello combattuto da “guerrieri transnazionali” in nome dell’islamismo jihadaista.

Nel corso del viaggio, si visiteranno la Francia del Terrore giacobino, l’India della rivolta dei Sepoy del 1857, la Russia zarista dei populisti e dei nichilisti, il fervore anarchico e dinamitardo della Belle époque europea, l’Algeria francese degli anni Cinquanta, l’Italia della strategia della tensione e del “Partito armato” degli anni Settanta, con una deviazione in Irlanda per incontrare la locale guerriglia indipendentista.

Questo viaggio di avventura e di sofferenza ha trovato una guida d’eccezione nello storico Franco Benigno, autore del libro Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica (Einaudi). L’autore affronta un tema antico che il nostro presente ha trasformato in un tabù ipocrita, ossia il nodo teorico e pratico della violenza politica come levatrice di storia. All’autore non interessa tanto il punto di vista del terrorista e le cause che lo possono muovere all’azione, quanto riflettere sul momento generativo, le modalità e le tecniche di costruzione di un discorso sul terrore e il terrorismo che, nella sua mortifera essenzialità, ha dimostrato una paradossale vitalità nell’edificare la realtà e fare la storia. Nel corso del suo viaggio il lettore avrà modo di scoprire almeno quattro metodi di terrorismo rimanendone sorpreso perché forse neppure ne sospettava l’esistenza. La prima maniera è quella del terrorismo rivoluzionario, originata nella Francia giacobina di Robespierre che, dal 1789 in poi, ha rivendicato il terrore come strumento terribile, ma necessario e persino positivo per realizzare la giustizia sociale, difendere le libertà conquistate, terrorizzare i nemici della rivoluzione e tenere in soggezione il popolo ancora troppo immaturo.

La seconda maniera, quella del terrorismo nazionalista, potremmo definirla irlandese perché nel 1882, a Phoenix Park, forse colpì per la prima volta. Questo tipo di terrorismo prevede il dispiegamento di campagne di boicottaggio che poggiano su un retroterra logistico e una società civile mobilitata, la pratica della guerriglia “mordi e fuggi” e l’uso di ordigni a scoppio ritardato che consentono la sopravvivenza dell’attentatore.

La terza maniera, quella del terrorismo populista e nichilista, è il “metodo russo”, che è valso però anche per l’India: qui l’attentatore cerca la morte con azioni armate, di solito in un contesto urbano, per riuscire a vincere una guerra asimmetrica contro l’idra zarista. Il populista russo si muove in nuclei clandestini compatti, fedeli alla causa sino all’estremo sacrificio con azioni esplosive che servono ad accelerare il tempo della rivoluzione sociale, in attesa del tanto sperato risveglio del popolo delle campagne. I rivoluzionari bolscevichi Lenin e Trotski criticheranno l’eccessivo spontaneismo di questi metodi, ritenendo che poco collimassero con la realizzazione del comunismo. Lo fece soprattutto quel trotskista di Trotski, come tanti trotskisti dopo di lui capace più di porre le giuste domande che di dare efficaci risposte, quando si chiese: “Se basta armare un revolver per arrivare allo scopo, perché dunque gli sforzi della lotta di classe? Se si possono intimidire degli alti personaggi col fracasso di un’esplosione, perché dunque un partito?”.

La quarta maniera è quella della “vendetta anarchica” e della “propaganda di fatto” che insanguinò i vent’anni della Belle époque grazie alla scoperta della dinamite e alla diffusione dei giornali che consentirono di esaltare quegli atti individuali di tipo giustizialista. L’idea di base è colpire in modo indiscriminato, perché non è vero che esistono bambini innocenti, se sono nati borghesi: la loro prosperità poggia sulla fame altrui. L’altra strada è lo scacco al re, una versione aggiornata del tirannicidio classico, ossia l’attacco mirato che, smembrando il sovrano, disarticoli anche il corpo dello Stato. Il prototipo di questo tipo di attentato fu quello di Felice Orsini contro l’imperatore Napoleone III, a Parigi, nel 1858, con le “bombe all’Orsini”. La Belle époque si rivelò un periodo d’oro anche per il terrorismo e un’età terribile per le sue vittime: è stato calcolato che, nel quarto di secolo precedente la Prima guerra mondiale, vi siano stati 220 morti e 750 feriti con una serie di delitti politici eccellenti: dall’assassinio, nel 1894, del presidente francese Marie-François Sadi Carnot all’attentato al re d’Italia Umberto I nel 1900 da parte dell’anarchico Gaetano Bresci.

Ma il viaggio guidato di Benigno non si direbbe completo senza una sua riflessione sul controterrorismo. Il riferimento è al terrorismo degli apparati di Stato che, per combattere il terrorismo, vivono, pensano e finiscono per agire come loro, organizzandosi in nuclei di ferro clandestini. Le tecniche del controterrorismo si perfezioneranno laddove esisteva il problema e, quindi, non stupisce che i due migliori laboratori saranno, nell’Ottocento, la polizia zarista e, nel Novecento, la “scuola francese”, che trovò nel modo con cui combatté la resistenza algerina, tra torture, controguerriglia militare e guerriglia psicologica, un punto di snodo per tutti i controterrorismi di Stato del mondo, a partire dalle dittature sudamericane degli anni successivi.

Se la storia dimostra che il delitto politico, che sia un omicidio mirato o una strage, è un atto che esiste e che appartiene di norma a una tradizione rivoluzionaria, esso può essere utilizzato, contemporaneamente, anche da altri soggetti, statali e parastatali, per fini differenti, se non opposti a quelli degli autori. In quest’ultimo caso, ci si trova di fronte all’applicazione alla lotta politica di una tecnica di combattimento che punta a ottenere effetti diretti (l’eliminazione di un avversario) o indiretti (terrorizzare, intimorire, condizionare l’opinione pubblica). E siccome la lotta politica è combattuta da gruppi diversi, portatori di differenti interessi, anche l’attentato politico – sotto copertura o per via di manipolazione – può divenire un’estensione estrema della competizione per il potere. Quanto più il fervore ideologico di un gruppo rivoluzionario è genuino, tanto più esso è manipolabile per secondi e terzi fini, senza che il soggetto che subisce quest’azione, nell’immediatezza degli eventi, sia in grado di rendersene conto.

Abbiamo parlato di un libro di storia e, dunque, di un’attività di ricerca laica per cui un terrorista è, anzitutto e sino alla fine, un militante politico e un combattente, non uno squilibrato paranoico assetato di sangue. Questa, infatti, è soltanto la scorciatoia che abbiamo scelto per provare a esorcizzarlo, così da illuderci di riuscire a tenerlo il più lontano possibile da noi, quanto più ormai egli è dentro di noi e le città che abitiamo.

Mail box

 

La legge del mare, un esempio per l’accoglienza dei migranti

Con l’espressione “Stato di bandiera” ci si riferisce al fatto che una nave ha una certa nazionalità, cioè è collegata all’ordinamento giuridico di un Paese. La nazionalità comporta la soggezione della stessa alla sovranità di questo Stato che attribuisce la propria nazionalità a una nave facendola iscrivere in appositi registri. Una sentenza inglese del 1865 considera la nave un’isola navigante su cui lo Stato di bandiera esercita sovranità. Per esempio, se avviene un delitto mentre l’imbarcazione è in acque internazionali, ci si regola secondo le leggi dello Stato di cui si batte bandiera. Allora che chi sale su una nave è come se si trovasse in quello Stato: se una nave olandese imbarca i migranti ciò dovrebbe essere equivalente a un loro ingresso in Olanda. Non lo si può stabilire a livello europeo?

Questo avrebbe facilitato le cose per i 49 migranti presi da una nave olandese e una tedesca: a quel punto sarebbero stati incaricati di accoglierli Olanda e Germania.

Viviana Vivarelli

 

DIRITTO DI REPLICA

Nell’articolo “Inps, la grande partita oltre quota 100 e reddito”, Stefano Feltri ricorda, in un inciso per la verità alquanto forzato, la vicenda del mutuo concesso al direttore generale dell’Istituto, Gabriella Di Michele. In proposito è da precisare che la procedura di assegnazione del mutuo al direttore generale è stata sottoposta a verifica interna, dalla quale è emersa una mera irregolarità amministrativa, prontamente sanata. Nessun rilievo di carattere disciplinare, civile o penale, quindi, nella procedura di concessione del mutuo che viene regolarmente erogato. Nell’articolo, inoltre, nel disegnare i futuri scenari di governance dell’Istituto, Feltri sottolinea i rischi di un commissariamento perché i dirigenti Inps sarebbero “assai meno collaborativi con una figura transitoria che con un presidente dai pieni poteri”. Possiamo affermare che quanto paventato dall’autore dell’articolo, anche alla luce di quanto avvenuto in anni recenti, quando più volte l’Istituto è stato commissariato, è del tutto privo di fondamento. Come avvenuto anche in passato, i dirigenti Inps sono pronti a offrire la piena e fattiva collaborazione agli organi di vertice, qualunque sia la forma decisa dal governo. Perché questo è il loro compito e la loro funzione, al servizio non solo dell’Istituto, ma dell’intero Paese.

Ufficio relazioni con i media dell’Inps

 

Gentile Stefano Feltri, leggo sul Fatto l’articolo a sua firma “La grande partita oltre quota 100 e reddito”. Desidero ringraziarla di aver correttamente citato la circostanza che fu il sottoscritto a chiedere all’Anac la verifica di tutte le gare di appalto centrali e territoriali dell’ultimo triennio del mio mandato da direttore generale dell’Inps, corredata delle opportune iniziative di accentramento delle funzioni di acquisizione delle risorse strumentali. La scelta fu motivata dal fatto che l’Inps nel 2012 è stato al centro della più grande operazione di fusione mai avvenuta in Italia, con l’incorporazione dell’Inpdap e dell’Enpals nell’Ente da me diretto. La straordinaria complessità dell’intervento non riguardò solo la riduzione ad unità degli assetti organizzativi, delle procedure amministrative ed informatiche, ma anche delle procedure di gara centrali e territoriali che erano oltremodo diversificate, molte delle quali con impegni pluriennali risalenti addietro negli anni. La richiesta di verifica fu pertanto motivata da questi elementi e non dall’accertamento di comportamenti incongrui o illeciti. Quando, invece, mi sono imbattutto in tali circostanze, come nel caso Ecovillage o nella gestione immobiliare del facility management – come ripetutamente ha riportato il suo giornale – ho provveduto a bloccare le operazioni o a segnalare alla Procura della Repubblica le relative fattispecie.

Mauro Nori ex direttore generale Inps

Ringrazio per le precisazioni che ribadiscono alcuni dei punti toccati dall’articolo, mi associo agli auspici sul futuro.
Ste. Fel.

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri l’intervista a Enzo Iacchetti aveva un titolo che rispecchiava il suo pensiero (“Molière e Plauto? Basta”) e un occhiello che gli attribuiva una frase mai pronunciata (“Hanno ucciso il teatro”). Quella corretta, riportata nell’intervista, era: “Gli autori dovrebbero svegliarsi. Basta con Pirandello e Plauto. Molière ha rotto i coglioni. Devono scrivere del nostro tempo”. Ce ne scusiamo con Iacchetti e con i lettori.

FQ

L’ortomercato milanese ostaggio del Far West

Non si può parlar male di Garibaldi. E neanche di Milano, che com’è noto è il migliore dei mondi possibili. Intendiamoci: a Milano si vive bene, è l’unica città europea d’Italia, e io l’amavo e la difendevo quando voi tutti dicevate che era brutta, triste e grigia; e continuo a difenderla oggi da chi l’attacca immotivatamente. Ma oggi nessuno l’attacca perché il mainstream è: “Milano è meravigliosa a prescindere”. Lo storytelling è: “Milano quanto sei bella e vincente”. Tanto che vengono oscurati anche i fatti, i duri, incontrovertibili fatti. Quanti di voi, miei cari venti lettori, sanno per esempio che c’è un’inchiesta giudiziaria aperta sull’Ortomercato milanese? Che il direttore generale della Sogemi (la società del Comune di Milano che controlla l’Ortomercato), Stefano Zani, è indagato dalla pm Ilda Boccassini per corruzione e turbativa d’asta?

L’Ortomercato è un luogo-simbolo di Milano, a lungo tenuto in ostaggio dalle organizzazioni mafiose che per decenni hanno fatto i loro affari dentro i mercati generali di Milano. Fin dai primi anni Novanta si erano trovate tracce della presenza dei Morabito, il clan di Africo alleato con le ’ndrine dei Palamara e dei Bruzzaniti che si era via via liberato della concorrenza di Cosa nostra e Camorra all’Ortomercato, diventando il monopolista criminale della piazza. L’operazione “For a King” del maggio 2007 rivelò che il boss della ’ndrangheta Salvatore Morabito aveva aperto addirittura un night club dentro i locali della Sogemi: il “For a King”, appunto.

Vecchie storie nere. Quelle nuove parlano di otto avvisi di garanzia piombati dentro gli uffici della nuova Sogemi, che per conto del Comune di Milano gestisce il mercato agroalimentare più grande d’Italia, ortofrutticolo, ittico, floricolo e delle carni, 650 mila metri quadrati, 600 mila tonnellate l’anno di prodotti, 11 mila utenti, giro d’affari 2,5 miliardi di euro.

Dell’indagine sappiamo poco. Una presunta tangente di “2 mila euro in contanti” (rata di una mazzetta più consistente? stipendio mensile?) “consegnata al direttore generale il 25 ottobre 2018” in cambio di un occhio di riguardo per una società di facchinaggio, la Ageas, amministrata da Antonio Gnoli. Questa storia ha anche un eroe positivo, un ispettore dell’Ortomercato addetto al controllo delle cooperative di facchinaggio, che l’11 gennaio 2018 avrebbe rifiutato la mazzetta, facendo poi partire l’inchiesta. “Ma tu quanto guadagni in Sogemi?”, gli avrebbe chiesto Gnoli. “Dai dimmelo. Quando vai in pensione? Vieni a fare consulenze da noi. Al tuo uomo quanto gli dobbiamo dare, 1.500 euro? Dicci tu. Sei l’imperatore del mercato, quello che tu dici noi facciamo”. L’ispettore dice no. E allora riceve a casa una busta con un proiettile e un foglietto con su scritto “I bastardi si castigano. Tocca te”. I non bastardi invece si pagano. Almeno secondo le ipotesi d’accusa ancora tutte da provare. Secondo i magistrati della Procura di Milano, a fine novembre 2018 il direttore generale e i suoi sodali avrebbe “turbato il procedimento amministrativo” alla base del “bando di gara Ageas per l’assegnazione dei servizi di facchinaggio per il 2019”.

Tutto attorno, all’Ortomercato il clima è di aggressioni, minacce, violenza e paura. Una denuncia presentata da un facchino dice: “Noi della nostra coop cerchiamo di non girare mai da soli, siamo guardinghi e impauriti, subiamo continue provocazioni. Sono terrorizzato e sto anche pensando di lasciare il lavoro”. Ci sono coop sospettate di pagare in nero i dipendenti e di evadere tasse e contributi. Insomma: Ortomercato far west. Anche questa è Milano, oggi, nel migliore dei mondi possibili.

Troika, farina e festa: a scuola dal “Corriere”

Accademia che passione. Altro che Crusca. Ma festa, farina e Troika. Nasce Rcs Academy, è la business school del Corriere della Sera, debutterà con le prime iniziative a marzo e raccoglierà il fior fiore tra i neolaureati e i professionisti già in carriera per reclutarli innanzi alle cattedre di cui sono incaricate le prime firme di via Solferino, tutti – va da sé – di scienza infusa.

Altro che Accademia de’ Lincei, altro che Accademia dei Fornelli. È subito festa, farina e Troika con Fed Fubini, il giornalista principe del liberismo che al ritmo di un compassato cha-cha-cha – eccolo che canta: “Soros, Draghi e Bce” – pur si svela febbrile nella sua richiesta di nobilitare l’ateneo con più opportuna dedica: Soros Academy. L’Accademia dell’Academy, con Rcs, ha già un più autorevole blasone ma Luciano Fontana, l’attuale direttore del giornale, propende per Pimpa Academy, in memoria della defunta cagnetta di Susanna Tamaro e sopperire così (almeno spiritualmente) alla grave assenza, tra i tantissimi corsi offerti – da Moda, lusso e design al food, alla paideia dell’europeista perfetto – di un master animalista. Per Severgnini Academy, senza se e senza ma, punta – manco a dirlo – Beppe Severgnini che dalla tolda di 7, il settimanale del Corriere, raduna gli alunni. Certo, stranamente, tutti questi scolari della Severgnini Academy fanno di cognome Severgnini, leggono solo Severgnini, tagliano i capelli al modo di Severgnini – “frangetta e caschetto, europeista perfetto!”, è il motto – e vengono tutti da Crema, tutti quanti arrivati con i buoni taxi concessi dal presidente Urbano Cairo che di suo, un’idea sull’ateneo ce l’avrebbe: chiamarlo Gallo Belotti Academy. Così si fa sinergia con la squadra del Toro di cui è padron-presidente. Accademia che passione. Il megagalattico Cairo arriva là dove neppure Silvio Berlusconi, pur con tutte le sue corazzate editoriali, è riuscito. La famosa Università liberale del Cavaliere è rimasta lettera morta e non sembra sia possibile arrivare alla Pascale Academy. Ebbene sì, c’era anche l’ipotesi di intitolare un’università alla graziosa dottoressa Francesca – e non soltanto il dipartimento di politologia per come inizialmente chiedeva una petizione di neolaureati e di neomelodici in carriera – ma tutto si affumò. È l’Academy che traccia il solco, è Solferino che lo difende. Nei master di formazione dedicati al giornalismo, infatti, la libera docenza insegna come superare la fase dei comizi scritti e fare infine un vero Corriere. Non più cerchiobottista, come al tempo di Paolo Mieli – dove si accontentava prima l’uno e dopo l’altro – bensì “unionfusionista”. Il neologismo s’impone per descrivere quella che, nei fatti, nell’informazione politica, è una vera e propria rivoluzione copernicana. Non c’è da dare conto a chiunque ma solo pagine e pagine dedicate al Pd – mattina e sera – e pagine e pagine con interviste ad Antonio Tajani (mattina e sera). L’accademia sarà pure Academy ma la passione del Corriere per il presidente del Parlamento europeo è, a dir poco, sfrenata. A oggi, di colloqui col presidente del Parlamento europeo, nonché co-leader di Forza Italia, nel corso del 2018 se ne sono contati di ottomila e due. E già cinquemila e tre ne sono calcolati nel principiare del nuovo anno.

Quando l’Academy sarà in piena attività la voce di Tajani verrà trasmessa in filodiffusione – mattina e sera – per infondere negli alunni la certezza di conoscenza e crescita culturale. Festa, farina e Troika comunque, nella business school del Corriere della Sera. È la nuova Frattocchie dell’élite e come nella scuola formazione quadri del Pci andavano a studiare i migliori così – presso l’ateneo di Cairo – si presentano, ma per il ruolo di docenti, i campioni del new Journalism. Gianni Riotta detto Johnny, infatti, adagiato sul sofà, chiede di farne parte ma Cairo, spietato, si nega: “Preferisco Marcello Sorgi”.

Torna Che Guevara, le élite non capiscono

Quelli che stanno cambiando profondamente in questi anni, sotto i nostri occhi ma senza che noi quasi ce ne si accorga, sono gli assetti internazionali, e non solo, usciti dalla Seconda guerra mondiale. Grandi Paesi, come Cina e India, che a quella guerra non avevano partecipato, e quindi, a differenza dei vincitori, non ne avevano potuto cogliere i frutti, si sono affacciati con prepotenza sull’arengo mondiale accogliendo il modello di sviluppo occidentale che è riuscito a sfondare in culture antichissime che gli erano antitetiche, come appunto quella cinese e indiana. Ma se ciò ha aperto all’Occidente enormi mercati prima preclusi, praterie ancor più sterminate si sono presentate davanti a Cina e India che proprio in quell’Occidente una volta egemone si abbeverano mettendolo in gravi difficoltà.

Donald Trump, che è molto meno sprovveduto di quanto lo si faccia apparire fermandosi alle sue mise stravaganti, ha capito, e lo ha anche detto, che gli Usa non possono, e non vogliono, più essere i “gendarmi del mondo”. The Donald non farà mai guerre ideologiche, tipo Afghanistan o Iraq, per raddrizzare le gambe ai cani, per convincere, con le armi, certi Paesi riottosi ad adottare la democrazia, l’uguaglianza fra uomo e donna, il rispetto dei “diritti umani” che sono da sempre, almeno a partire dalla Rivoluzione francese, il core del pensiero occidentale. Ciò che interessa a Trump è conservare il primato economico o condividerlo con la Cina che al momento appare, su questo piano, l’avversario più pericoloso.

I tedeschi, con la copertura dei francesi, stanno cercando di ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu o quantomeno un seggio per l’Ue che sostituirebbe quello attualmente occupato dalla Francia. Cosa che era impensabile fino a pochissimi anni fa. E verrà anche il momento in cui sarà tolto alla Germania democratica il divieto di possedere l’Atomica, perché è fuori da ogni logica che quest’Arma, che è un deterrente decisivo per non essere spazzati via come fuscelli (Kim Jong-un insegna), ce l’abbiano oltre a Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna anche India, Pakistan, Israele, Corea del Nord e non il più importante Paese europeo. Del resto la Nato, che in teoria avrebbe dovuto garantire la sicurezza agli Stati membri, è in crisi come ha ammesso lo stesso Trump e l’Europa ha urgente bisogno di una difesa che non sia affidata solo alle armi convenzionali, che oggi stanno all’Atomica come un tempo la spada al fucile o la cavalleria ai carri armati. E l’Unione europea avrebbe dovuto cogliere al volo le incertezze di Trump sulla Nato per togliersi finalmente di dosso la pesante e pelosa tutela americana.

Ma, al di là di questo, il vero pericolo, per tutti, è un altro e si chiama Isis, ulteriore fenomeno nuovo che non era presente alla fine della Seconda guerra mondiale, che sconfitto a Raqqa e a Mosul risorge ovunque come un’Idra dalle mille teste, in Libia, in Mali, in Somalia, in Nigeria, in Pakistan, in Afghanistan e, sporadicamente, in alcuni centri nevralgici dell’Europa. Perché Isis è un’epidemia ideologica che potrebbe anche contagiare occidentali che non hanno alle spalle alcun retaggio islamico. Tutto il fenomeno dei foreign fighters è un segnale dell’angoscia di vivere in un modello di sviluppo che non è in grado di dare alla vita un senso che non sia puramente materiale.

Sono state le democrazie a uscire vincitrici dalla Seconda guerra mondiale. Si pensava quindi che questa forma di governo fosse non solo la più giusta ma anche la più efficiente. Così non è stato. Perché, salvo rari casi, le democrazie non sono mai state democrazie ma oligarchie o, come le chiamava pudicamente Sartori, poliarchie (“Democrazia e definizioni”). E queste élite, soprattutto economiche, non sono state all’altezza, come ha sottolineato Galli della Loggia in un editoriale sul Corriere (“Gli errori delle élite globali”, 10.1.19), facendo innanzitutto e soprattutto i propri interessi ai danni di quelli della popolazione. Tutti i cosiddetti “populismi”, pur così variegati e diversi fra loro, sono una rivolta contro le élite economiche e partitiche affinché il popolo si riprenda i propri diritti e la propria sovranità. Fino all’altroieri queste rivolte avevano calcato i solchi tradizionali, con ideologie riconoscibili e leader riconoscibili. Ma adesso queste rivolte sono diventate trasversali, non sono individuabili come appartenenti alla destra o alla sinistra, e tendono alla violenza. Non ci sono solo i Gilet gialli francesi ma anche i serbi che hanno dato vita a una rivolta contro il presidente Vucic, che non ha ancora un nome e che mette insieme categorie eterogenee. Siamo all’alba di un nuovo mondo? Siamo alla rivincita postuma di Ernesto Che Guevara che non era né di sinistra né di destra ma uno che si è sempre battuto per il riscatto degli “umiliati e offesi” di tutto il mondo?

Bollette della luce. La riforma tariffaria e l’ennesima stangata sulle seconde case

Mi accodo ai tantissimi italiani che si lamentano per l’esagerato aumento del costo della luce. Qualche anno fa ho cambiato gestore e questo mi ha garantito che per un buon periodo di tempo il costo sarebbe rimasto bloccato. Invece ho notato che le cose sono peggiorate. Sono residente a Monza e su questa casa (di residenza) gli aumenti potrei anche giustificarli, anche se sto molto attento ai consumi e uso lampadine al led. Ho però una casetta per le vacanze estive in Sardegna in cui abitiamo dalla fine della primavera a fine estate. Essendo la seconda casa, le bollette sono più elevate anche se qui non c’è il canone tv. Però fino a qualche anno fa le bollette luce erano di un costo elevato solo nei periodi in cui abitavamo in quella casa, mentre negli altri mesi i loro importi erano minimi o addirittura in bolletta c’era scritto: “Non c’è niente da pagare”. Ora i pagamenti arrivano puntualmente tutti i bimestri dell’anno, con quasi gli stessi importi di quando ci troviamo in quella casa, pur non consumando neanche un watt di energia elettrica. Eppure ogni volta che andiamo via da quella casetta, oltre a chiudere la casa a chiave, disinserisco il contatore generale della luce. Ma nonostante questo le fatture da pagare arrivano, senza interruzione, per tutto l’anno. Nella fattura dicembre 2017-gennaio 2018, periodo in cui nella casa non c’è stato nessuno, figura un pagamento di 46,10 euro, di cui 7,18 euro di spese per l’energia. Le fatture da pagare comunque arrivano tutto l’anno e, generalmente, di importo superiore a questo, come se abitassimo lì tutto l’anno. E non credo neanche che siano acconti presunti, perché c’è la telelettura. Qualche tempo fa avevano annunciato che ci sarebbe stato un aumento della luce e gas. Così, però, pare che l’aumento reale superi oltre il 100%!
Giuseppe Muredda

 

Gentile Muredda, benvenuto nel ginepraio delle tariffe elettriche che, anno dopo anno, continuano a dimostrare che vengono premiati solo i grandi consumatori energivori (le aziende) tra sgravi e bonus, mentre la stangata si abbatte sulle famiglie. E quella sulle seconde case, utilizzate solo per alcuni mesi all’anno e dunque con profili di consumo medio-basso, è andata in scena dal 2017 con alcune novità introdotte che hanno avuto gli effetti più pesanti lo scorso anno. Sulle bollette della luce pesa, infatti, la riforma delle tariffe e la diversa modalità di calcolo degli oneri di sistema che servono a finanziare, tra gli altri, la messa in sicurezza del nucleare, gli incentivi alle rinnovabili, il bonus sociale destinato alle famiglie meno abbienti, le agevolazioni per le imprese a forte consumo di energia e per il settore ferroviario. Nelle intenzioni c’è l’obiettivo di rendere più lineare ed equa la tariffa, ma in pratica la riforma si è trasformata in una mazzata sui proprietari delle seconde case. Una bolletta salatissima che potrebbe diventare ancora più salata, come nel suo caso, se nel passaggio dal mercato tutelato a quello libero si è scelta la tariffa sbagliata o se è scaduto l’anno in cui le società applicano gli sconti. Meglio, allora, armarsi di pazienza e cercare una tariffa che soddisfi le proprie esigenze, un po’ come si fa con le tariffe dei cellulari.

Patrizia De Rubertis

Cessione degli Npl di Etruria: indagati i due commissari

I due commissari di Banca Etruria, nominati da Bankitalia nel febbraio 2015 e in carica fino alla risoluzione del novembre successivo, sono indagati dalla procura di Arezzo per abuso d’ufficio, rivela La Stampa. I fatti: poco prima della crisi finale della banca, i vertici vendono un pacchetto di crediti del valore nominale di 301,7 milioni per 49,2 milioni con una plusvalenza per l’istituto di circa un milione. L’acquirente era Credito Fondiario, ora controllato dal fondo Elliot. Il contratto di cessione venne chiuso il 16 novembre 2015. Qualche giorno dopo, il 22, un decreto del governo Renzi stabilì la risoluzione per Etruria e altre tre banche commissariate: Banca Marche, Carife e CariChieti. Il prezzo di quella transazione verrà usato per stabilire il valore delle sofferenze di tutte le 4 banche, all’origine del successivo tracollo in Borsa, che avevano all’epoca coperture più basse. L’ipotesi di reato è abuso d’ ufficio, per una vendita “a prezzi, condizioni contrattuali e in tempi tali da violare quanto disposto”, cioè danneggiando la banca che i commissari dovevano tutelare. “Un nostro successo – dice l’Associazione Vittime del Salvabanche, dal cui esposto partì l’inchiesta – Ripaga i tanti sacrifici per i nostri associati”.

“Africani”, “terroni” e altre trovate di Feltri: libertà d’insulto pagata (anche) da tutti noi

L’ultima bravata di Vittorio Feltri l’abbiamo pagata tutti noi. Quel “Comandano i terroni” che campeggiava sulla prima pagina di Libero costa ai contribuenti italiani 3,5 milioni di euro. È il contributo pubblico che la testata di proprietà degli Angelucci ha incamerato nell’ultimo bilancio. Come avviene da anni.

Nel 2016 i soldi dello Stato a Libero sono ammontati a 3,7 milioni e se sommiamo gli ultimi 4 anni ecco che gli italiani hanno sovvenzionato il giornale diretto da Feltri con 13,7 milioni. Senza quei soldi, Libero forse non esisterebbe dato che negli anni ha chiuso con perdite medie di circa 1 milione. Diverrebbero 4 milioni di rosso all’anno senza la stampella pubblica, costringendo la famiglia Angelucci o a chiudere il giornale o a ricapitalizzarlo, come avvenuto nel 2014 quando la famiglia romana è entrata nel capitale del giornale sborsando 4 milioni per il 40% delle quote. L’altro 60% è di fatto loro, schermato dalla Fondazione San Raffaele (sempre degli Angelucci). La Fondazione è il grimaldello che consente da più di un decennio l’accesso ai soldi pubblici. Nella sua scomposta battaglia – oggi ci sono i terroni, ieri c’erano “africani”, pacifesse e la “patata bollente” della Raggi – Feltri non bada al buon gusto. Titoli urlati, sguaiati (“Renzi e Boschi non scopano”. È la libertà di stampa, replicano Feltri e i suoi redattori. Nel caso di Libero, sono però tutti gli italiani a pagare questa possibilità. Quegli oltre 3 milioni che il giornale incamera paga tre volte i costi della diffusione nelle edicole. Oggi Libero vende poco più di 25 mila copie, la metà di quanto vendeva qualche anno fa. I ricavi (quelli di mercato) sono di 9,5 milioni dalla vendita delle copie più altri 4 dalla pubblicità. Fattura solo 13,5 milioni. Ne fatturava 22 nel 2012 e solo dal 2016 al 2017 ha perso il 20% dei ricavi totali.

Feltri pensa con il suo (cattivo) stile di solleticare qualche lettore in più, arrestando il declino della sua creatura. Che ha subito l’attacco del suo amico-nemico storico, quel Maurizio Belpietro che con La Verità gli ha sottratto una parte del suo antico lettorato. Le copie sono più o meno al livello del 2017 quando il suo giornale finì per perdere un quinto dei suoi acquirenti rispetto al 2016. E il fatturato è crollato tra il 2016 e il 2017 da 16,3 a 13,5 milioni. Ora gli Angelucci vogliono comprare la Gazzetta del Mezzogiorno. Chissà che Feltri non si ritrovi i “terroni” in redazione a comandare.

Carige, la vendita segreta dei crediti dietro la mossa Bce

“Discussioni preliminari con Sga” già avvenute per la cessione di 2,8 miliardi di crediti deteriorati (Npl). Sarebbe nato da qui il terremoto che ha portato alle dimissioni di membri del cda Carige e al commissariamento della banca. Perché, sostengono fonti interne alla banca, “quell’operazione strategica sarebbe stata avviata senza parlarne prima in assemblea e nemmeno, ci risulta, con il cda. Una scelta che sembra stendere un tappeto rosso all’acquisto di Carige da parte di una grande banca italiana, magari Unicredit”.

Ecco i timori dentro la banca, e tra piccoli e grandi azionisti: non tanto, dicono, l’ipotesi Sga (“che potrebbe essere anche vantaggiosa”), cioè la società che si occupa di crediti marci controllata dal Tesoro, ma il fatto che sia stata imbastita in tempi record e senza procedura competitiva. E infine che ora sia gestita dai commissari, un po’ come avvenne per la vendita dei crediti deteriorati di Banca Etruria.

Andiamo con ordine. Il 20 dicembre scorso si tiene un animato cda di Carige. Il presidente Pietro Modiano e l’ad Fabio Innocenzi mettono sul tavolo una bozza (draft) di decisione della Bce. Il Fatto ha potuto consultarla: contiene prescrizioni che il consiglio deve discutere entro 15 giorni. Si parla tra l’altro di “una discussione preliminare iniziata con Sga” per la cessione di tutti gli Npl (i non performing loans, crediti deteriorati) per un valore di quasi 3 miliardi. E qui scoppia il caso: possibile, chiedono diversi consiglieri, che una scelta così strategica non sia stata sottoposta al cda? E perché non c’è stata una procedura competitiva?

Il caso prosegue in assemblea “quando dell’ipotesi Sga non abbiamo sentito parlare”, spiega un socio al cronista. Ecco le rimostranze degli azionisti: “Noi non siamo pregiudizialmente contrari alla scelta, ma dovevamo essere informati perché questa operazione è strategica, ne va del futuro della banca. Secondo, ci chiediamo il perché di tutta questa fretta visto che altre banche come Mps e Unicredit avranno anni per disfarsi degli Npl. La vendita è fissata entro febbraio, prima della comunicazione del piano industriale. Poche settimane per imbastire un percorso tanto complesso”. Il nodo Sga – di fronte ad azionisti e consiglieri sul sentiero di guerra – avrebbe portato quattro consiglieri (tra questi Modiano e Innocenzi) a dimettersi aprendo le porte al commissariamento. E qui, i critici dell’operazione hanno puntato il dito su alcune circostanze. Sga, Società per la Gestione di Attività, è specializzata nella gestione del credito deteriorato ed è detenuta dal ministero dell’Economia. L’ipotesi era quella di comprare in blocco (e senza gara) gli Npl di Carige, garantendo condizioni più favorevoli di quelle del mercato. Ma qualcuno dentro Carige fa notare che Marina Natale, ad di Sga, è stata con Innocenzi in Unicredit, la stessa banca da cui proveniva anche l’ex ad Carige, Paolo Fiorentino. Natale, ricordano le cronache, in Unicredit lavorò anche con Modiano. Niente di illegale, ovviamente. Gianni Barbacetto sul Fatto ha rivelato un altro elemento: c’è un comma della legge di Bilancio 2019 approvata il 30 dicembre che sembra fatto su misura per Carige. Dice che “il ministero dell’Economia è autorizzato ad apportare, con propri decreti, per l’anno finanziario 2019, variazioni compensative tra le spese per la partecipazione italiana a banche, fondi e organismi internazionali” e “le spese connesse con l’intervento diretto di società partecipate dal ministero all’Interno del sistema economico, anche attraverso la loro capitalizzazione”. Insomma, i soldi già stanziati per le banche, per proteggere il sistema finanziario potranno essere spostati per capitalizzare società partecipate dal ministero dell’Economia: come la Sga che avrà nuove risorse per comprare gli Npl Carige.

Ma perché vendere così di corsa 2,8 miliardi di crediti deteriorati? I commissari procedono a tutto vapore nell’operazione: “Carige ha l’obiettivo di ridurre il peso dei crediti deteriorati senza impatti significativi sui ratio patrimoniali”. Ma il timore soprattutto dei piccoli azionisti è quello che il patrimonio di vigilanza possa scendere al punto da spingere Carige tra le braccia di un acquirente per una manciata di euro (volatilizzando gli aumenti di capitale da oltre 2 miliardi sostenuti per un miliardo dai piccoli azionisti). Chi potrebbe essere il cavaliere bianco? Non un fondo di investimento, si dice, che vorrebbe tenere gli Npl. Piuttosto una banca che punterebbe a una Carige già ripulita. Una banca italiana, perché gli istituti nostrani si devono liberare degli Npl. A quel punto acquistare per pochi spiccioli Carige sarebbe un affare. La banca si ritroverebbe ripulita e con 10 miliardi di depositi, 850 milioni di immobili e 1,5 miliardi di crediti fiscali.

Bundesbank, pronto il rinnovo per Weidmann

Il presidente della Bundesbank Jens Weidmann potrebbe avviarsi verso un rinnovo del suo mandato alla guida della banca centrale tedesca per altri otto anni. Lo apprende l’agenzia francese Afp. “Il governo federale conta di proporre la proroga del mandato di Weidmann alla guida della Bundesbank”, ha indicato il ministro delle Finanze tedesche, precisando che questa proposta deve ancora passare all’esame del Consiglio dei ministri. L’attuale mandato del governatore (49 anni) scade a maggio del 2019. L’eventuale rinnovo non pregiudicherebbe una corsa alla successione a Mario Draghi alla guida della Bce che scade a novembre. Il candidato alla Bce viene infatti sempre scelto tra i governatori in carica nei singoli Paesi. In questi anni Weidmann si è sempre schierato all’opposizione delle scelte di politica monetaria espansiva incoraggiate da Draghi. Angela Merkel sembra però aver rinunciato a prenotare la Bce per la Germania, appoggia un candidato tedesco per la Commissione (Manfred Weber) ma i giochi sono aperti.