Si può viaggiare in tanti luoghi e modi diversi, anche leggendo un libro che percorre i territori insanguinati del terrore e del terrorismo. Partendo dalla Palestina del Primo secolo dopo Cristo, dove era attiva la setta integralista ebraica degli Zeloti, per arrivare sino al terrorismo globale dei giorni nostri, quello combattuto da “guerrieri transnazionali” in nome dell’islamismo jihadaista.
Nel corso del viaggio, si visiteranno la Francia del Terrore giacobino, l’India della rivolta dei Sepoy del 1857, la Russia zarista dei populisti e dei nichilisti, il fervore anarchico e dinamitardo della Belle époque europea, l’Algeria francese degli anni Cinquanta, l’Italia della strategia della tensione e del “Partito armato” degli anni Settanta, con una deviazione in Irlanda per incontrare la locale guerriglia indipendentista.
Questo viaggio di avventura e di sofferenza ha trovato una guida d’eccezione nello storico Franco Benigno, autore del libro Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica (Einaudi). L’autore affronta un tema antico che il nostro presente ha trasformato in un tabù ipocrita, ossia il nodo teorico e pratico della violenza politica come levatrice di storia. All’autore non interessa tanto il punto di vista del terrorista e le cause che lo possono muovere all’azione, quanto riflettere sul momento generativo, le modalità e le tecniche di costruzione di un discorso sul terrore e il terrorismo che, nella sua mortifera essenzialità, ha dimostrato una paradossale vitalità nell’edificare la realtà e fare la storia. Nel corso del suo viaggio il lettore avrà modo di scoprire almeno quattro metodi di terrorismo rimanendone sorpreso perché forse neppure ne sospettava l’esistenza. La prima maniera è quella del terrorismo rivoluzionario, originata nella Francia giacobina di Robespierre che, dal 1789 in poi, ha rivendicato il terrore come strumento terribile, ma necessario e persino positivo per realizzare la giustizia sociale, difendere le libertà conquistate, terrorizzare i nemici della rivoluzione e tenere in soggezione il popolo ancora troppo immaturo.
La seconda maniera, quella del terrorismo nazionalista, potremmo definirla irlandese perché nel 1882, a Phoenix Park, forse colpì per la prima volta. Questo tipo di terrorismo prevede il dispiegamento di campagne di boicottaggio che poggiano su un retroterra logistico e una società civile mobilitata, la pratica della guerriglia “mordi e fuggi” e l’uso di ordigni a scoppio ritardato che consentono la sopravvivenza dell’attentatore.
La terza maniera, quella del terrorismo populista e nichilista, è il “metodo russo”, che è valso però anche per l’India: qui l’attentatore cerca la morte con azioni armate, di solito in un contesto urbano, per riuscire a vincere una guerra asimmetrica contro l’idra zarista. Il populista russo si muove in nuclei clandestini compatti, fedeli alla causa sino all’estremo sacrificio con azioni esplosive che servono ad accelerare il tempo della rivoluzione sociale, in attesa del tanto sperato risveglio del popolo delle campagne. I rivoluzionari bolscevichi Lenin e Trotski criticheranno l’eccessivo spontaneismo di questi metodi, ritenendo che poco collimassero con la realizzazione del comunismo. Lo fece soprattutto quel trotskista di Trotski, come tanti trotskisti dopo di lui capace più di porre le giuste domande che di dare efficaci risposte, quando si chiese: “Se basta armare un revolver per arrivare allo scopo, perché dunque gli sforzi della lotta di classe? Se si possono intimidire degli alti personaggi col fracasso di un’esplosione, perché dunque un partito?”.
La quarta maniera è quella della “vendetta anarchica” e della “propaganda di fatto” che insanguinò i vent’anni della Belle époque grazie alla scoperta della dinamite e alla diffusione dei giornali che consentirono di esaltare quegli atti individuali di tipo giustizialista. L’idea di base è colpire in modo indiscriminato, perché non è vero che esistono bambini innocenti, se sono nati borghesi: la loro prosperità poggia sulla fame altrui. L’altra strada è lo scacco al re, una versione aggiornata del tirannicidio classico, ossia l’attacco mirato che, smembrando il sovrano, disarticoli anche il corpo dello Stato. Il prototipo di questo tipo di attentato fu quello di Felice Orsini contro l’imperatore Napoleone III, a Parigi, nel 1858, con le “bombe all’Orsini”. La Belle époque si rivelò un periodo d’oro anche per il terrorismo e un’età terribile per le sue vittime: è stato calcolato che, nel quarto di secolo precedente la Prima guerra mondiale, vi siano stati 220 morti e 750 feriti con una serie di delitti politici eccellenti: dall’assassinio, nel 1894, del presidente francese Marie-François Sadi Carnot all’attentato al re d’Italia Umberto I nel 1900 da parte dell’anarchico Gaetano Bresci.
Ma il viaggio guidato di Benigno non si direbbe completo senza una sua riflessione sul controterrorismo. Il riferimento è al terrorismo degli apparati di Stato che, per combattere il terrorismo, vivono, pensano e finiscono per agire come loro, organizzandosi in nuclei di ferro clandestini. Le tecniche del controterrorismo si perfezioneranno laddove esisteva il problema e, quindi, non stupisce che i due migliori laboratori saranno, nell’Ottocento, la polizia zarista e, nel Novecento, la “scuola francese”, che trovò nel modo con cui combatté la resistenza algerina, tra torture, controguerriglia militare e guerriglia psicologica, un punto di snodo per tutti i controterrorismi di Stato del mondo, a partire dalle dittature sudamericane degli anni successivi.
Se la storia dimostra che il delitto politico, che sia un omicidio mirato o una strage, è un atto che esiste e che appartiene di norma a una tradizione rivoluzionaria, esso può essere utilizzato, contemporaneamente, anche da altri soggetti, statali e parastatali, per fini differenti, se non opposti a quelli degli autori. In quest’ultimo caso, ci si trova di fronte all’applicazione alla lotta politica di una tecnica di combattimento che punta a ottenere effetti diretti (l’eliminazione di un avversario) o indiretti (terrorizzare, intimorire, condizionare l’opinione pubblica). E siccome la lotta politica è combattuta da gruppi diversi, portatori di differenti interessi, anche l’attentato politico – sotto copertura o per via di manipolazione – può divenire un’estensione estrema della competizione per il potere. Quanto più il fervore ideologico di un gruppo rivoluzionario è genuino, tanto più esso è manipolabile per secondi e terzi fini, senza che il soggetto che subisce quest’azione, nell’immediatezza degli eventi, sia in grado di rendersene conto.
Abbiamo parlato di un libro di storia e, dunque, di un’attività di ricerca laica per cui un terrorista è, anzitutto e sino alla fine, un militante politico e un combattente, non uno squilibrato paranoico assetato di sangue. Questa, infatti, è soltanto la scorciatoia che abbiamo scelto per provare a esorcizzarlo, così da illuderci di riuscire a tenerlo il più lontano possibile da noi, quanto più ormai egli è dentro di noi e le città che abitiamo.