Ferrovie Nord, pena ridotta all’ex numero 1

Una buona notizia per l’imputato. Pessima per la lotta alla corruzione. È stata ridotta, in appello, la pena per Norberto Achille, ex presidente di Ferrovie Nord Milano holding (Fnm), accusato di aver sottratto alla società 429 mila euro da fondi che aveva a disposizione per il suo ruolo, ma che invece utilizzava per spese sue e della sua famiglia (multe, viaggi, alberghi, ristoranti, abbigliamento, arredi, scommesse sportive, pay-tv, film a luci rosse…). La pena è scesa dai 2 anni e 8 mesi inflitti in primo grado per peculato e truffa, ai 2 anni, con pena sospesa e non menzione nel casellario giudiziario.

Lo sconto è stato reso possibile dal patteggiamento in appello, dalla restituzione dei soldi alla società, ma soprattutto dalla derubricazione del reato principale di cui Achille era accusato: non più peculato, ma appropriazione indebita. Hanno vinto i suoi difensori, Gianluca Maris e Barbara Randazzo. D’accordo anche Fnm, già risarcita, che era parte civile rappresentata dal legale Massimo Pellicciotta. Ha vinto soprattutto lo studio di Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che ha firmato il “parere pro veritate” secondo cui Fnm, benché sia controllata da Regione Lombardia (57,57 per cento) e Ferrovie dello Stato (14,74 per cento), non può essere considerata società pubblica. Onida sostiene che Fnm, quotata in Borsa, svolge un’attività da holding finanziaria di controllo, con operatività privata che ha l’obiettivo di remunerare i soci azionisti; a differenza delle società operative (come le controllate Trenord e Ferrovienord), che svolgono invece attività pubblica perché sono titolari di pubbliche concessioni per gestire una parte del servizio ferroviario in Lombardia.

Achille, dunque, non può essere considerato “incaricato di pubblico servizio” e non può essere accusato di peculato, ma solo del più blando reato di appropriazione indebita. Un precedente che non fa bene alla lotta alla corruzione e alla trasparenza dentro la holding ferroviaria di Regione Lombardia e Fs.

Lo hanno subito rilevato i responsabili di Transparency international, che era parte civile nel processo: “Ciò che questa sentenza ha affermato”, dichiara il responsabile italiano Virginio Carnevali, “è che le regole e gli strumenti giuridici che si applicano nella pubblica amministrazione non hanno valore per la società di trasporto, a questo punto non più controllata dal pubblico, benché detenuta per oltre il 50 per cento da Regione Lombardia, e i cui vertici, incluso ovviamente Achille, sono tutti di nomina politica. Si apre una breccia nella lotta alla corruzione, fornendo un’arma in più per farla franca a corrotti e corruttori nelle aziende controllate”. Aggiunge il legale di Transparency Italia, l’avvocato Fabrizio Sardella: “Questa decisione può creare un precedente grave per la lotta effettiva contro la corruzione. Da domani costituire società di natura privatistica da mettere a capo delle società pubbliche potrebbe essere un mezzo sufficiente per evitare di incorrere in condanne per reati contro la pubblica amministrazione”.

Il primo a denunciare le “spese pazze” di Achille era stato Andrea Franzoso, che allora lavorava all’internal audit di Fnm e che poi ha raccontato la sua esperienza di whistleblowing nel libro Il Disobbediente (edito da Paper First del Fatto Quotidiano) e ora è protagonista del programma Disobbedienti (realizzato da Loft, la casa di produzione tv del Fatto).

Stangata sulle banche, soltanto i risparmiatori erano all’oscuro

Le azioni delle banche ieri sono risalite in Borsa dopo la débâcle di lunedì e martedì, scatenata dalle comunicazioni preliminari sugli esiti dell’esame patrimoniale Srep della vigilanza Bce. Le vendite erano scattate dopo il comunicato emesso l’11 gennaio, a mercati chiusi, con cui Mps rendeva nota la lettera del 5 dicembre nella quale la Bce chiede alla banca la copertura integrale dei crediti dubbi entro il 2026 e altre misure su raccolta redditività e patrimonio. Proprio il modo con cui ogni istituto comunica gli esiti Srep è sotto la lente perché coinvolge decisioni autonome delle banche, regole Ue e ruolo della Consob.

L’esito preliminare degli esami Srep, come scritto da Mps, è giunto il 5 dicembre. Ma la nota con cui è stato reso noto è dell’11 gennaio: date separate da 38 giorni e 24 sedute di Borsa ma soprattutto da alcuni fatti. Il 6 dicembre il Messaggero scriveva “per oggi gli uffici della divisione intermediari (di Consob, ndr) avrebbero convocato i vertici delle banche quotate. Al centro del confronto le modalità di comunicazione al mercato dei risultati Srep”. Fonti della Consob confermano al Fatto che in quei giorni sulla materia vi sono stati contatti con le banche.

Il 2 gennaio la Consob comunicava che dal 31 dicembre ha avviato una consultazione con le banche comprese per definire entro fine mese una “raccomandazione” che stabilisca il modo in cui gli istituti decideranno di comunicare al mercato gli esiti Srep (o di rinviare la comunicazione). Insomma: l’ufficio d’igiene della Asl chiede agli osti se e come vogliono far sapere ai clienti se il loro vino è buono. La Commissione richiama “l’attenzione delle banche sulla necessità di valutare la natura privilegiata che, durante tutto lo svolgimento dello Srep, possono assumere le informazioni comunicate agli istituti stessi dalle autorità riguardo ai coefficienti patrimoniali, incluse quelle contenute nella draft Srep letter”: sono i dati preliminari ricevuti a inizio dicembre da Mps.

Quanto questi dati siano “price sensitive”, cioè in grado di muovere le azioni, lo dimostrano i pesanti ribassi di lunedì e martedì. Ma sulla loro trasparenza le società e le banche possono andare in ordine sparso, decidendo autonomamente quando e come comunicarli al mercato. Lo stabiliscono i commi 4 e 5 dell’articolo 17 della Market abuse regulation (Mar) della Ue che ha modificato il Testo unico della finanza. Le società possono ritardare l’informazione se “la comunicazione immediata pregiudicasse probabilmente i legittimi interessi dell’emittente”, e le banche anche nel caso sia necessario “salvaguardare la stabilità del sistema finanziario”.

Nel merito, Mps ha risposto al Fatto che “in conformità alla normativa vigente, non ha comunicato la draft srep decision in quanto non definitiva. La comunicazione di venerdì 11 dicembre si è resa necessaria in vista dell’imminente integrazione nel Prospetto relativo ai programmi di emissione internazionali della banca”, UniCredit ha detto che “aderisce rigorosamente a norme e regolamenti in materia di comunicazioni finanziarie e ovviamente condivide sempre con le autorità competenti ogni comunicazione che possa avere un impatto materiale”, mentre Intesa Sanpaolo “non ravvisa contenuti price sensitive nelle comunicazioni preliminari Srep”. Banco Bpm e Ubi non hanno commentato.

Ci sono però alcuni dati curiosi. Tra il 4 dicembre, ultima seduta prima dell’arrivo dei rilievi Srep, e l’11 gennaio, ultima seduta prima della nota di Mps, a Piazza Affari il titolo di Siena ha segnato -12,9%, Bper -11,7%, Banco Bpm -10,6%, Ubi -10,3% l’indice dei bancari “appena” -5,1% e quello generale -0,2%. Nelle 24 sedute di Borsa dal primo novembre al 4 dicembre, Mps segnava invece +15%, Bper +9,6%, Banco Bpm addirittura +29,2% e Ubi +1,8%, mentre l’indice delle banche cresceva del 2,9% e la Borsa dello 0,7%. I ribassi scattati per le azioni bancarie tra dicembre e gennaio sono stati dovuti solo alle tensioni dello spread dei titoli di Stato innescate dallo scontro sulla finanziaria tra Roma e Bruxelles?

Lettera del baby tifoso viola: “Non piangere, vincerai anche tu”

Il mondo del calcio che di recente ha occupato le pagine dei giornali per episodi di razzismo, violenza e polemiche, stavolta regala una piccole storia carica di umanità. Il piccolo Martino, tifoso di 6 anni della Fiorentina, era davanti alla tv insieme al padre e al nonno per seguire la partita di Coppa Italia contro il Torino (le due tifoserie, tra l’altro, sono legate da uno storico gemellaggio) e ha esultato per i gol della sua squadra. Ma qualcosa ha colpito la sua attenzione: sugli spalti dello stadio Grande Torino, tra i tifosi granata, c’era un bambino in lacrime. Commosso, lunedì mattina prima di andare a scuola, gli ha scritto una lettera affidata alla madre. Come riporta Repubblica Torino, la lettere dice: “Mi dispiace che la tua squadra abbia perso e mi è dispiaciuto vederti piangere. Anche se sono di Firenze, sono stato a Torino ed è una gran bella città. Ti vorrei dire che si vince e si perde e vorrei regalarti una figurina di Belotti. Ciao, Martino”.

Silvia, la mamma di Martino l’ha mandata ai media di Torino: “Mi ha detto – racconta la mamma – che quel bambino non deve piangere, perché succede di vincere e di perdere, e poi il Toro è più forte, ma questa volta è andata così”.

L’Arpa: “Trovato cromo esavalente nel cemento del gasdotto Tap”

È stata rilevata la presenza di cromo esavalente nel cemento utilizzato da Tap, che sta costruendo il gasdotto in Salento. Lo dichiara Arpa Puglia. Il cromo esavalente, cancerogeno, era stato rinvenuto nel luglio scorso nella falda acquifera e questo aveva indotto il sindaco di Melendugno (Lecce), Marco Potì, a sospendere i lavori, con un’ordinanza che in seguito è scaduta. Poi i livelli della sostanza nella falda sono scesi e ora la questione riguarda il cemento. Nel frattempo la Procura di Lecce ha chiuso l’indagine per i presunti reati ambientali a carico di sedici persone tra cui i vertici Tap.

Dal punto di vista amministrativo, a luglio, è stato istituito un tavolo tecnico in cui siedono Tap, la Provincia, il Comune, Asl e Arpa, che ha portato all’analisi del cemento. Ieri sono arrivati gli esiti: “Non si evincono superamenti delle concentrazioni di soglia di contaminazione per le acque sotterranee e per i terreni”. Si rileva, però, “la presenza di cromo, totale ed esavalente, nel cemento utilizzato per il pozzo di spinta”.

Tap si difende contestando la modalità di analisi: “Il cromo esavalente – fa sapere – diventa tale perché esposto a ossidazione durante il prelievo”.

Per il sindaco Potì, invece, questa è un’ulteriore criticità, peraltro segnalata anche al ministero dell’Ambiente. “I lavori – conferma l’ex direttore scientifico di Arpa Massimo Blonda – vanno fermati e il pozzo di spinta rimosso”. Ma i lavori invece proseguono. Durante la notte tra il 9 e il 10 gennaio, l’area da San Foca a Lecce è stata blindata per trasportare la talpa, con cui si costruirà il microtunnel di 3 metri di diametro. La zona rossa è stata notificata per email al sindaco quando era già in vigore. Numerosi i cittadini bloccati in entrata e uscita dal paese. Il 21 gennaio è fissata la contro-perizia sulla necessità di applicare la direttiva Seveso per la sicurezza dell’impianto.

“Uccisi per un ricatto sessuale”. Ma nell’inchiesta sui Maiorana compare anche Messina Denaro

Un ‘’importante boss trapanese’’, probabilmente il superlatitante Matteo Messina Denaro e l’imprenditore Antonio Maiorana, vittima con il figlio della lupara bianca dodici anni fa, avrebbero condiviso l’amore della stessa donna, l’argentina Karina Andrè, testimone reticente secondo la Procura di Palermo nell’inchiesta chiusa ieri con una richiesta di archiviazione che ha attribuito la scomparsa dei due Maiorana a un ricatto sessuale: in possesso di un video in cui si vedrebbe uno dei soci della sua società immobiliare fare sesso con una minore, Maiorana lo avrebbe ricattato imponendogli di trasferire le sue quote alla donna argentina.

Antonio e Giuseppe Maiorana scomparvero la mattina del 3 agosto 2007, la loro Smart fu ritrovata nel parcheggio dell’aeroporto di Punta Raisi e i loro corpi non sono mai stati trovati. È stato un supertestimone, definito estraneo all’ambiente mafioso, che avrebbe deposto in preda al terrore, a raccontare al pm Roberto Tartaglia sia la relazione tra la donna argentina e il ‘’latitante trapanese”, sia i dettagli del ricatto sessuale seguito dalla cessione delle quote societarie. Nella vicenda, un altro protagonista di vicenda mafiose: Francesco Paolo Alamia, 82 anni, socio di Maiorana, a cui la Procura sequestrò tre anni fa un patrimonio immobiliare di oltre 15 milioni di euro. È uno degli indagati per cui i pm chiedono l’archiviazione. Nell’inchiesta sono stati sentiti numerosi collaboratori di giustizia uno dei quali, Andrea Bonaccorso, ha raccontato di avere appreso che la mattina dell’arresto dei boss di San Lorenzo Salvatore e Sandro Lo Piccolo, catturati il 3 novembre 2007, gli agenti avrebbero potuto arrestare anche Messina Denaro che con loro avrebbe fissato un appuntamento proprio per parlare dei due Maiorana. L’avvocato della famiglia, Giacomo Frazzitta, ha richiesto il fascicolo per valutare eventuali azioni.

Scomparso operaio 45enne: “Movente passionale, la causa è una donna contesa tra i due”

Una giornata intera di ricerche no stop. In strada, nei boschi e nelle abitazioni di un paese messo sottosopra per un rapimento a sfondo passionale. Ed è caccia all’uomo in provincia di Brescia dove nella notte tra martedì e mercoledì a Muscoline, nella zona industriale di un paese di poco superiore ai duemila abitanti, è stato sequestrato un operaio. Svanito nel nulla al termine del turno di lavoro alla Saf, azienda che lavora nel settore dello stampaggio di metalli. “Non è un sequestro a scopo di estorsione” precisano dal Comando provinciale dell’Arma quando la mente torna al 1997 e al sequestro dell’imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini, rimasto nelle mani dei rapitori per 237 giorni. Siamo davanti ad una storia diversa. Il movente in questo caso sarebbe passionale con una donna contesa tra i due protagonisti scomparsi. Il rapito è un 45enne di Gavardo, paese dell’hinterland, in Valsabbia lungo la strada che conduce al lago di Garda. A sequestralo è uno straniero della zona, un marocchino di dodici anni poi giovane già con precedenti, che conosceva indirettamente la vittima. Lo considererebbe infatti l’amante della moglie italiana, che avrebbe negato la relazione clandestina. Il magrebino ha agito armato. Ha infatti una pistola con sè con la quale tiene sotto minaccia il sequestrato portato nei boschi che dominano la zona della provincia di Brescia, ieri battuta di giorno e di notte dai carabinieri coordinati dalla locale Procura. Le ricerche, alle quali hanno partecipato anche militari arrivati da Milano, non hanno dato esito. A lanciare l’allarme è stato un amico dello straniero che avrebbe seguito il momento in cui il 45enne è stato bloccato con la forza e portato via. Lontano dall’azienda dove lavora e da dove sono state allertate le forze dell’ordine, già operative prima della mezzanotte di martedì. Sequestrato e sequestratore sembrano però svanitii nei boschi.

La guerra di Forcella lancia l’avvertimento. Ordigno contro la pizzeria di Gino Sorbillo

Ci sono bombe e bombe, il “peso” varia a seconda di chi la subisce. Ad Afragola ci sono voluti otto ordigni di racket per indurre il ministro dell’Interno Matteo Salvini ad annunciare il suo arrivo domani per testimoniare la presenza dello Stato. A Napoli ne è bastato uno per scatenare un putiferio di reazioni, politiche e non solo: la vittima infatti è un simbolo della rinascita della città, Gino Sorbillo e la sua famosissima pizzeria in via dei Tribunali, colpita nel cuore della notte da una esplosione di matrice camorristica. Indaga la Dda coordinata da Giuseppe Borrelli, fascicolo al pm Celestina Carrano. Tutto lascia supporre – come conferma il questore Antonio De Iesu – che la bomba carta che ha danneggiato la saracinesca della pizzeria sia stata piazzata per intimidazione, forse per provare a imporre una tangente. L’avrebbe innescata, secondo la nostra ricostruzione, chi sta provando a vincere la lunga e spezzettata guerra di camorra per conquistare il potere tra Forcella e i Decumani. Luoghi dove da diversi anni la forza del clan Mazzarella è messa in discussione dai giovani eredi del clan Giuliano, la “paranza dei bambini” nata intorno ai gruppi Amirante-Sibillo-Brunetta. Ormai a Napoli geografie e gerarchie delle alleanze criminali si fanno e disfanno in pochissimo tempo, e nel caos c’è chi prova a farsi sentire con le stese (raid di spari ad altezza d’uomo, non sempre con un bersaglio preciso), e con il tritolo. Fatto esplodere anche contro chi, come Sorbillo, dice di non aver mai pagato e di non aver ricevuto ‘avvertimenti’. Sorbillo è un personaggio che ama sovraesporsi sui media: inventa pizze a tema su ogni evento di cronaca e le posta sui social, dove esibisce simpatie e amicizie politiche. Qualche anno fa era pronto a candidarsi a sindaco nelle primarie del centrosinistra e si ritirò in extremis. Ora promette che riaprirà presto il locale e non ha annullato il suo viaggio a Milano, dove ha aperto una filiale delle sue pizzerie di successo. A Radio Crc ha affermato che la bomba potrebbe “scoraggiare chi vuole investire in attività commerciali e far rinascere Napoli”, poi ha ricordato che subito dopo Inter-Napoli si è dipinto la faccia di nero per solidarietà a Kalidou Koulibaly e ha appeso il cartello “fuori i razzisti” all’ingresso della pizzeria. “Dopo – dice – ho ricevuto minacce e quindi inserisco anche questo tra le ipotesi dell’attentato”, ipotesi che però non trova credito tra gli investigatori. Unanime e di tutti i colori, a partire dal vicepremier Luigi Di Maio, la solidarietà della politica e della società civile (ha scritto una nota anche Amnesty International), sottolineando l’impegno di Sorbillo sui temi della legalità e dei diritti civili. Ieri il presidente della commissione antimafia Nicola Morra ha definito “vermi usi a strisciare” gli autori dell’attentato alla pizzeria e ha voluto incontrare a Napoli il procuratore capo Giovanni Melillo per discutere della recrudescenza delle estorsioni sul territorio napoletano. Più o meno nelle stesse ore il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia ha visto il questore. La bomba contro Sorbillo ha suscitato reazioni immediate nel governo e in maggioranza. Gli otto ordigni di Afragola, dove pure vive la sottosegretaria leghista Pina Castiello, non avevano fatto lo stesso rumore.

“La telefonata con l’uomo di D’Alfonso? Ma i pm non m’hanno convocato”

La sera del 18 gennaio 2017, con la tragedia di Rigopiano che era già avvenuta, il dirigente Anas Sandro Sellecchia è nella sala operativa e cerca di aiutare un’altra persona in pericolo di vita. C’è una slavina a Ortolano. Quando viene contattato da Claudio Ruffini, il braccio destro del presidente Luciano D’Alfonso, che sta gestendo la distribuzione delle turbine, si sente rispondere che il mezzo sta andando nel Comune di Bolognano.

Senza voler alludere a nulla, va segnalato che il sindaco di Bolognano è del Partito democratico, lo stesso partito di D’Alfonso. Sellecchia viene intercettato mentre reagisce così: “Capisco l’aspetto politico – dice a Ruffini – mo’ chiamo pure il sindaco di Bolognano e glielo dico io…”.

Sellecchia non è stato mai convocato dalla Procura di Pescara per spiegare il senso di quella telefonata. Il Fatto l’ha contattato.

Anche il sindaco di Bolognano aveva chiesto una turbina? Cosa intendeva dire con ‘Capisco l’aspetto politico…’?

Sì, l’aveva chiesta anche il sindaco di Bolognano. L’aspetto politico? Intendevo dire che capivo l’impegno delle persone che cercavano di coprire le esigenze di tutti. Noi, nelle sedi operative della Prefettura, volevamo però che le richieste venissero convogliate all’interno dei centri di emergenza e non gestite in maniera così estemporanea. Se ogni sindaco che difende il proprio territorio rappresenta le proprie istanze, le proprie esigenze… C’è un organismo che vaglia e cerca di utilizzare al meglio le risorse che sono sul campo… doveva essere il Core, la struttura dove in quel momento eravamo riuniti in Prefettura.

E quindi: voi eravate riuniti al “Core” ma bisognava chiamare Ruffini per le turbine?

E che le devo dire? Chiedevamo che le richieste arrivassero al centro operativo.

Ruffini le dice: la sala operativa deve attenersi alle direttive di D’Alfonso, non è né al di sopra né al di sotto. È così?

Assolutamente no. E infatti io gli risposi male. Avevamo un’emergenza su Ortolano: era necessario attivarsi.

Ruffini le dice ancora: mi hai già creato un problema… adesso te la vedi con D’Alfonso. Come l’ha presa?

Se sente il tono della mia risposta… Stavo seguendo emergenze che avevano priorità, eravamo tutti quanti tutti in Prefettura, non c’erano altre possibilità di raggiungere il luogo.

La risposta di Ruffini era corretta o no?

No. Né a norma di legge, né di regolamento, né di buon senso. Avevamo attivato un’azione di aiuto per una persona che stava bloccata nella bufera nella notte, poteva perdere la vita, ferma, dietro una stalla, praticamente all’aperto, senza finestre, perché aveva trovato rifugio lì.

Però le tocca discutere a lungo con il braccio destro di D’Alfonso…

Gli ho risposto per le rime. Posso capire che lui abbia avuto le spinte di qualcuno, che abbia cercato di fare al meglio il suo lavoro, forse erano risposte dettate dalla pressione del momento. Io in quel momento non rivesto né un ruolo politico, né decisionale, cerco di far comprendere al meglio quello che stiamo facendo. Il nostro dialogo sicuramente non era corretto.

Alla fine come avete risolto?

Con tanta difficoltà, in mattinata siamo arrivati con due turbine.

Arrivarono da D’Alfonso e Ruffini?

Non me lo ricordo.

2 anni da Rigopiano: la controindagine

Iprotagonisti dei soccorsi furono intercettati proprio nelle ore della tragedia. Eppure quelle intercettazioni – che potevano essere utili alle indagini – restarono in un cassetto per ben 8 mesi. Un’informativa dei carabinieri del Noe di 34 pagine più 30 allegati, finì relegata al cosiddetto modello 45, ovvero un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato. In quel documento, gli investigatori segnalavano alla Procura di L’Aquila, che correttamente inviò poi a quella di Pescara, una “sequenza di contatti” di “particolare interesse investigativo”: denunciavano la “sottovalutazione dell’emergenza”, il “mancato coordinamento delle operazioni di soccorso alla popolazione” e, soprattutto, i “criteri utilizzati per la distribuzione di mezzi idonei per liberare la strada dalla neve”. Un’accusa grave: a giudicare dalle intercettazioni – segnalava il Noe – i criteri non parevano “correlati alle effettive emergenze”. Ma se la distribuzione delle turbine non era collegata alle “effettive emergenze”, quale fu il criterio seguito in quelle ore? Riepiloghiamo quel che accadde a Farindola e a Rigopiano in quei giorni. Nel gennaio 2017, delle due turbine presenti nella zona di Rigopiano, ne è rimasta soltanto una. La settimana prima della tragedia si rompe anche quella: la riparazione costa troppo, la Provincia sceglie di cercare un altro preventivo. Nel frattempo, il 16 gennaio, abbiamo due turbine funzionanti sulla Maiella. La sera del 17 alle 19.32 il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, scrive all’allora governatore Luciano D’Alfonso, che sta gestendo la distribuzione delle turbine, spiegando che, dei 6 mezzi spazzaneve comunali, 3 non possono operare. E chiede uno “sgombraneve”. Il 17, Farindola resta isolata. Lacchetta chiede una turbina anche al presidente della Provincia, Antonio Di Marco. Ma la turbina non arriva. La mattina del 18 gli operatori riescono ad arrivare fino al bivio con Rigopiano, ma la strada è bloccata e non possono proseguire. Viene individuata un’altra turbina a cento chilometri, ma non c’è chi la guida. Altre turbine però vengono inviate nel frattempo sulla Maiella e su Atri. Fino alle 15.30 del 18 gennaio non è stato ancora implementato il coordinamento regionale previsto dalla Protezione civile.

In un’altra indagine del Noe, spunta una telefonata sulla gestione di quelle ore

Nelle stesse ore il Noe intercetta, per un’altra inchiesta, chi sta coadiuvando D’Alfonso in questo frenetico “giro” di turbine: è il suo braccio destro Claudio Ruffini. Il 18 gennaio, alle 23.31, viene intercettato mentre contatta il dirigente dell’Anas Sandro Sellecchia. L’intercettazione non riguarda direttamente Rigopiano. Ma racconta la gestione di quelle ore. C’è una turbina che da Campobasso sta andando verso il Comune di Bolognano. Ma Sellecchia dice che serve in un altro posto, a Ortolano, perché c’è stata una slavina, e qualcuno rischia la vita: “Abbiamo avuto un’emergenza, c’è gente sotto una slavina”. Ruffini spiega che decide tutto D’Alfonso – “non se ne frega niente D’Alfonso, queste sono le sue disposizioni…” – e polemizza con Sellecchia che gli risponde: “Se diamo tutti di matto i problemi non li risolviamo… io capisco l’aspetto politico…”. Segno che, per Sellecchia, c’è una gestione “politica” nella distribuzione delle turbine. “D’Alfonso – scrive il Noe – già prima di aver convocato il C.o.r. (Comitato operativo regionale di protezione civile) ha delegato Claudio Ruffini alla gestione dei mezzi spazzaneve e delle cosiddette ‘turbine’”. I carabinieri riscontrano “numerose e gravissime interferenze e incomprensioni causate proprio da Ruffini e dalle spesso confliggenti disposizioni date in ordine alla gestione dei mezzi”. Eppure queste intercettazioni non entreranno subito nel fascicolo d’inchiesta. Anzi. L’informativa sarà oggetto d’indagine solo nel settembre 2017, e senza produrre comunque effetti sulla posizione investigativa su D’Alfonso: la Procura chiederà infatti la sua archiviazione (mentre Ruffini non è mai stato indagato).

Il 10 febbraio 2017, il sostituto procuratore di L’Aquila Antonietta Picardi, ricevuta dal Noe l’informativa in questione, la invia alla collega Cristina Tedeschini, procuratore capo a Pescara: “Trasmetto – le scrive – per le valutazioni di sua competenza i due modelli 45 inerenti l’emergenza sisma e maltempo del gennaio 2017”. E delega il Noe per la consegna. La Procura di Pescara non ritiene che gli atti in questione – incluse le 30 intercettazioni allegate – debbano essere oggetto di approfondimento. Vengono così relegate in un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato. E lì restano finché la difesa del sindaco di Farindola, che viene a scoprirne l’esistenza, non chiede di conoscerne il contenuto. È a quel punto – 7 mesi dopo – che l’informativa entra nel fascicolo principale e il nuovo procuratore di Pescara, Massimiliano Serpi, con il suo sostituto Andrea Papalia, li invia al Gruppo carabinieri forestale di Pescara, che sta svolgendo le indagini.

La procura chiede “approfondimenti investigativi” e di “individuare gli interlocutori e contestualizzare le conversazioni”. Il gruppo carabinieri forestale convoca Ruffini, l’11 luglio 2018, per chiedergli conto di due telefonate intercettate dal Noe: “Nei giorni dell’emergenza neve – esordisce Ruffini – il mio ruolo non era gestionale o operativo. Acquisivo e trasmettevo esclusivamente informazioni al Presidente. Mi fu chiesto dal presidente di trovare delle turbine. Telefonai all’Anas, a Strade dei Parchi e Autostrade d’Italia, perché sapevo che questi mezzi li avevano. Non ricevetti un riscontro soddisfacente alla mia richiesta”. “D’Alfonso – chiedono gli investigatori – ebbe a ricevere comunicazioni sull’isolamento di Rigopiano?”. “Non sentii mai parlare in quei giorni di Rigopiano”, risponde, “quindi credo che non ne sapesse nulla”. Non gli viene chiesto il senso, però, di un’altra telefonata, quella in cui parla con il dirigente dell’Anas Sellecchia. “Ascoltami – dice Sellecchia – abbiamo avuto un’emergenza, c’è gente sotto a una slavina!”. Ruffini risponde: “Non se ne frega niente D’Alfonso! Queste sono le disposizioni! È un problema di D’Alfonso, non è un problema vostro! E né della sala operativa…”. E ancora: “Ma di quale slavina parli tu?”. Sellecchia: “C’è la slavina a Ortolano!”. Sul punto Ruffini è stato invece sentito nelle indagini difensive degli avvocati Cristiana Valentini, Goffredo Tatozzi e Massimo Manieri: “Su ordine di D’Alfonso mi stavo accertando che l’Anas avesse inviato la turbina disponibile in Val Fino, dove, secondo le indicazioni del presidente, era destinata. La mia irritazione era legata al fatto che invece l’Anas l’aveva destinata a Ortolano perché, a quanto pare, c’era un’’emergenza che io ignoravo. Ricevevo ordini da D’Alfonso che non potevano essere discussi”.

Non sappiamo se una diversa organizzazione dei soccorsi avrebbe consentito al Comune di Farindola di ottenere in tempi più rapidi una turbina e di evitare quindi la tragedia dell’hotel Rigopiano. Dobbiamo anzi ricordare che la Procura ha chiesto per D’Alfonso l’archiviazione e, quindi, deve essersi fatta un’idea contraria. Anche alla luce della informativa del Noe acquisita nel settembre 2017. Resta il fatto però che Ruffini, con nessuna esperienza nel campo della protezione civile, era il braccio destro di D’Alfonso nella ricerca delle turbine. Eppure non era al corrente di quel che accadeva a Rigopiano, né a suo avviso lo era il governatore, e della slavina di Ortolano. La difesa del sindaco di Farindola ha chiesto l’imputazione coatta di D’Alfonso e la prosecuzione delle indagini: se dovrà essere indagato, anche alla luce di questi atti, lo deciderà il gip.

Area e Camere penali, tutti contro il video di Bonafede

Tutti contro Alfonso Bonafede: il vicepresidente del Csm, i togati al Csm di Area, la corrente progressista, gli avvocati penalisti, diversi esponenti politici della sinistra. Sono accomunati dalle critiche per il video del ministro della Giustizia che – compiacendosi per l’arresto dell’ex terrorista e omicida Cesare Battisti – indossa una giacca della polizia penitenziaria e manda sui social le immagini anche del fotosegnalamento dell’ex militante dei Nap. “Io non avrei fatto quel video”, ha detto il vicepresidente del Csm David Ermini. D’accordo con lui i consiglieri del Csm che appartengono ad Area, criticano anche il palchetto a Ciampino con i ministri Salvini, con giacca da poliziotto e Bonafede, all’arrivo di Battisti: “Quanto accaduto” dopo l’arresto di Battisti “finalmente assicurato alla giustizia” esprime ”un’idea primitiva di giustizia, indifferente al rispetto della dignità umana” e “allo stato di diritto”. La Camera penale di Roma sta preparando un esposto relativo al video di Bonafede per “pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica” mentre l’ordinamento penitenziario prevede che “sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità”. Già martedì l’Unione delle Camere Penali aveva parlato, rispetto a quanto successo a Ciampino, come una delle pagine “tra le più vergognose e grottesche della nostra storia. È inconcepibile che due Ministri di un Paese civile abbiano ritenuto di poter fare dell’arrivo di un detenuto, pur latitante da 37 anni e finalmente assicurato alla giustizia, una occasione, cinica e sguaiata, di autopromozione propagandistica”. Anche il Garante per i detenuti, Mauro Palma, ricorda quanto stabilito dall’ordinamento penitenziario e si augura che il video del Guardasigilli venga rimosso. La vicepresidente del Senato Anna Rossomando, Pd, con una interrogazione chiede se gli stessi agenti penitenziari ripresi nel video non siano ora “esposti a rischi per la loro sicurezza e incolumità”. Uno di loro si copre il viso, ma non è, come volevano le voci circolate ieri, un agente sotto copertura. Roberto Speranza, coordinatore di Mdp, dopo quel video vorrebbe le dimissioni di Bonafede