“Il carcere non serve, copiamo Mandela: perdoniamo chi parla”

“Dopo tanti anni l’accanimento carcerario non serve a nulla. Ci vorrebbe una commissione per la verità storica e la riconciliazione nazionale. Come hanno fatto in Sudafrica dopo l’apartheid”. Potito Perruggini è il nipote di Giuseppe Ciotta, il brigadiere dell’ufficio antiterrorismo di Torino ucciso il 12 marzo 1977. “Era stato infiltrato tra gli operai della Fiat. Poi, imprudentemente, venne mandato a fare la scorta agli Agnelli nel giorno del matrimonio di Margherita, mettendo fine al suo anonimato. A poco servì spostarlo in servizi più ‘leggeri’, a sorvegliare licei e università”. Uno dei fondatori di Prima Linea, Enrico Galmozzi, gli sparò sotto casa: condannato a trent’anni, ne ha scontati in carcere circa la metà e oggi “predica liberamente su giornali e social”, per usare le parole di Perruggini. Eppure, non è vederlo “marcire in carcere” il sogno del nipote di Ciotta.

Cosa immagina quando pensa alla parola “giustizia”?

Prima che muoiano tutti i protagonisti di quella stagione – i terroristi, i testimoni, gli investigatori – c’è bisogno di aggiungere dettagli per capire cosa è successo davvero. Tra dieci anni non ci sarà più nessuno. Rischiamo di perdere tutte le possibilità di rimettere insieme i pezzi.

I processi non sono serviti?

La settimana scorsa ho sentito il procuratore generale di Caltanissetta appena andato in pensione, Sergio Lari, dire che sulla strage di via D’Amelio si è dovuta riscrivere la storia dopo 11 ergastoli (la revisione del processo dopo le false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, ndr). Io non dico che le sentenze sul terrorismo siano state condizionate da pentiti e collaboratori di giustizia, ma dopo tanti anni non serve a nulla l’accanimento di carattere carcerario.

Che impressione le ha fatto la cattura di Battisti?

La notizia dell’arresto mi ha reso felice, ovvio. Ma la spettacolarizzazione del suo rientro in Italia non ha aggiunto nulla alla verità storica. La ricerca dei latitanti è il lavoro ordinario di polizia e magistratura. La politica, invece, deve aprire un canale di dialogo costruttivo con i protagonisti di quella stagione.

Non le interessa vederlo “marcire in galera”, come ha detto il ministro Salvini?

A parte che la maggior parte di loro in galera già non ci sta più e che tanti sono latitanti. Chi è stato in carcere in questi anni siamo stati noi parenti delle vittime. Bisogna raccogliere testimonianze, finché sono ancora in vita. E concedere benefici, alla condizione minima che chi parla dia un contributo effettivo alla costruzione della verità.

Lei propone una pacificazione nazionale sulla scia di quella che Nelson Mandela mise in pratica dopo la fine del regime di segregazione dei neri.

Ho chiesto udienza al presidente Conte, al ministro Salvini, a quelli della Difesa e della Giustizia per mettere a disposizione la mia esperienza personale. Io, per dire, non avrei problemi a incontrare Enrico Galmozzi, nella speranza che possa aggiungere tasselli alla storia di mio zio. Chi lo ha mandato da Milano a Torino a uccidere uno che nemmeno conosceva?

L’amnistia per molti è una bestemmia. Lei la concederebbe?

Chiariamoci: l’amnistia sarebbe, semmai, la fine di un percorso. In Sudafrica, per esempio, ci furono vari livelli di benefici a seconda del contributo offerto. Ma se non iniziamo domani mattina a istituire a Palazzo Chigi o al Viminale un tavolo di lavoro con tutti i protagonisti di quelle vicende, la verità non la sapremo mai. Non è un’operazione che si fa dalla sera alla mattina.

Finora non ha ricevuto risposte al suo appello?

La verità è che questa storia ormai non la conosce più nessuno. Già vent’anni fa, quando ci provò il presidente della commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, il Parlamento fu sordo. Figuriamoci adesso che la grandissima parte degli eletti quegli anni non li ha nemmeno vissuti. Però al tempo stesso credo che questa maggioranza abbia mani libere per affrontare questa materia senza pregiudizi, non ha vincoli con le decisioni dei suoi predecessori. Tutti parlano delle Europee di maggio. Però prima del voto, il giorno 9, c’è la giornata nazionale della memoria per le vittime del terrorismo. Voglio sperare che stavolta si veda qualcosa di concreto, non ulteriori prese in giro.

“Protestai per i suoi libri in catalogo, sola”

La notizia – era il 2012 – che un libro di Cesare Battisti, Face au mur (“Faccia al muro”) sarebbe stato pubblicato in Francia dalla casa editrice Flammarion (che ai tempi faceva parte della galassia editoriale Rcs) fece arrabbiare parecchio Carmen Llera Moravia. Tre volte indignata, disse al Corriere, “come scrittore, come italiana e come vedova di Moravia”. Sei anni prima aveva avuto una discussione con Bernard-Henri Lévy che aveva scritto una prefazione al libro di Battisti Ma cavale (“La mia fuga”), “Però in fondo quello lo pubblicava un altro editore, non mi aveva dato così fastidio”.

Perché s’irritò così tanto?

Mi sembrava insopportabile che Moravia, che in Francia è quasi più amato che in Italia, fosse nello stesso catalogo di un terrorista. E c’era un’aggravante: all’epoca Flammarion era italiana e la sua presidente, Teresa Cremisi, era una mia cara amica. La frequentavo e lo frequento ancora, molto: ero delusa.

Che effetto le ha fatto sapere della cattura di Battisti?

Ho avuto la sensazione che si fosse compiuta una vicenda sospesa e terribilmente dolorosa aperta da quasi quarant’anni. Certo, non amo Bolsonaro, ma ho sempre pensato che l’atteggiamento di Lula, osannato da più parti, fosse insopportabile. Sapere che Battisti finalmente sarebbe arrivato in Italia è stato un sollievo.

Si è parlato molto della “parata” in aeroporto con i ministri e la stampa…

Mi è sembrata un’inutile americanata, quasi grottesca. Non si festeggiano gli arresti, anche quando sono eccellenti. È una questione di misura, di senso delle istituzioni. E lo dice una persona che è da sempre ipersensibile al tema della violenza politica.

Perché?

Sono nata in Navarra sotto il franchismo, sono venuta in Italia negli anni 70, anni in cui si sparava e c’erano davvero i sacchi di sabbia alle finestre. In Patria di Fernando Aramburu, Premio Strega europeo 2018, ho ritrovato i luoghi e le atmosfere della mia giovinezza: Saragozza, Pamplona. E quegli anni, per molti versi terribili. Mio fratello, di dieci anni più grande di me, era avvocato e riceveva molte minacce. All’università spesso andavamo al cinema in Francia perché molti film da noi non uscivano. Una volta in auto ero con un compagno di università che mi disse: ‘Devo passare anche a portare delle cose ad alcuni amici’. Erano dei terroristi dell’Eta rifugiati in Francia: mi arrabbiai moltissimo e non lo rividi mai più.

Tornando al 2012, sul Corriere le rispose Pigi Battista: “Un catalogo non è un blocco monolitico, vive di voci diverse, anche opposte. Qualunque libro, anche il più impresentabile, scritto dall’autore più riprovevole. Poi ci sarà la libertà di non leggerlo, di ignorarlo, di dileggiarlo, se merita il dileggio. Perché il conflitto culturale, per essere aperto, non deve subire limitazioni preventive”. Insomma la libertà di stampa vale anche per Battisti.

Invece no. Un editore fa delle scelte, un editore italiano avrebbe potuto scegliere di non pubblicare il libro di un uomo condannato all’ergastolo per quattro omicidi, per rispetto delle vittime. Tra l’altro, Battisti si è sempre considerato protetto, al di sopra della legge: un comportamento quasi di derisione.

La lista dei 10 fiancheggiatori che hanno coperto Battisti

Il camioncino color verde bottiglia corre rapido. È partito dalla località di Cananéia a pochi chilometri da San Paolo del Brasile e ora si trova a Càceres, un Comune nello Stato del Mato Grosso. Due uomini sono a bordo. Poche ore dopo, attraversano il confine ed entrano in Bolivia. Passano la cittadina di San Matias e puntano verso Santa Cruz della Sierra. È il 16 novembre. In questo momento Cesare Battisti entra nello Stato del presidente Evo Morales. Da ore ormai è un latitante. Su di lui pesano gli annunci del futuro presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Arresto ed estradizione in Italia per scontare l’ergastolo. Il Tribunale federale però ancora deve esprimersi. Lo farà il 13 dicembre, ma già l’ex terrorista dei Pac (Proletari armati per il comunismo) si è dato alla fuga. Sceglie la Bolivia dove nell’ottobre del 2017 era stato fermato con oltre 5 mila dollari in contanti non dichiarati. E così, dopo la cattura del 13 gennaio, gli investigatori italiani ripartono da quel 16 novembre per tracciare attorno al terrorista la rete dei fiancheggiatori. Una rete che si compone oggi di dieci nomi. Saranno i loro profili i protagonisti dell’informativa che la Digos di Milano porterà al pm Alberto Nobili per dare benzina a un fascicolo aperto con l’ipotesi di favoreggiamento ma senza indagati. Solo in quel momento si potrà procedere alle eventuali iscrizioni. I nomi sono però top secret.

Si conoscono invece i loro identikit, tracciati già a partire dal 16 ottobre quando Battisti diventa “un sorvegliato speciale”. Del carnet dei dieci, fanno parte alcuni parenti di Battisti che vivono in Italia. Sono loro, secondo una fonte dell’intelligence, ad aver supportato l’ex terrorista sia economicamente sia fornendo contatti. Naturalmente per le responsabilità penali c’è da capire quale sia il grado di parentela e come il denaro sia stato fatto arrivare, direttamente o attraverso triangolazioni con terze persone. L’inchiesta ha evidenziato contatti “interessanti” con una cerchia di amici, tra loro anche vecchie conoscenze del terrorismo rosso degli Anni Settanta, alcuni compagni dello stesso Battisti, legati ai Pac e a Prima linea. E qui si chiude il capitolo italiano. L’inchiesta sui fiancheggiatori ha, per il momento, un campo di azione ristretto all’ultimo periodo di latitanza, dal 16 novembre al 13 gennaio. Sul fronte internazionale l’attenzione è puntata su Brasile e Bolivia. Priorità è dare nome e volto all’autista del camioncino. Si sa che la sua nazionalità è boliviana. Sarà lui ad accompagnare Battisti alla Casona Azul, l’alberghetto dove rimarrà fino al 5 dicembre. Sarà sempre lui a dare il suo nome alla reception, nonostante ad alloggiare sia l’italiano che si spaccia per un imprenditore arrivato a Santa Cruz per affari con il governo boliviano.

È sempre l’autista a fare da accompagnatore della latitanza boliviana di Battisti, probabilmente anche dopo il 5 dicembre, quando l’ex terrorista lascia la Casona Azul. Della lista dei dieci fiancheggiatori poi fanno parte alcuni criminali locali. E questo per un motivo preciso: l’utilizzo delle schede telefoniche. Nulla invece riguarda i documenti di Battisti, tutti regolari. Nella lista vi sono alcuni nomi collegabili alle istituzioni locali. Ma è un dato ancora da definire. Questo l’elenco con i primi dieci nomi che sarà consegnato alla Procura di Milano. Gli analisti però stanno lavorando anche su un altro elemento. Nel mese di dicembre è stato accertato che dal Brasile diverse persone vicine a Battisti hanno viaggiato verso Santa Cruz. Il dato è stato certificato dall’analisi delle celle telefoniche. Durante il suo soggiorno Battisti ha incontrato diversi soggetti. C’è poi da colmare un vuoto informativo che va dal 5 dicembre al 12 gennaio. Qui Battisti scompare dai radar. Ma resterà in Bolivia, forse spostandosi verso La Paz dove il suo cellulare aggancia il wi-fi dell’aeroporto. E che sia in Bolivia lo dimostrerebbe il fatto che il 21 dicembre invia una richiesta di asilo poi respinta il 26. Battisti intanto è in carcere. Quando è atterrato a Ciampino ha chiesto se poteva tenere la carta di credito: “Mi serve per le spese di mio figlio”. Richiesta rifiutata. Viaggio finito. E ora dovrà riflettere se continuare in silenzio o parlare per sperare di agguantare un ultimo brandello di libertà. Non è facile. Dei Pac tutto si è svelato. Ciò che resta sono le sue protezioni. Lo farà? Un investigatore ci sorride: “Bisognerebbe chiederlo a lui”.

Espulso in Senegal l’egiziano fuggito a piedi da Malpensa

È stato imbarcato su un volo ed espulso verso il Senegal Elsaid Gamal Eladasy, il 30enne egiziano che due sere fa sera si era gettato dal portellone di un aereo in partenza dall’aeroporto di Malpensa per evitare il respingimento. La sua fuga lungo la pista aveva provocato la chiusura dello scalo internazionale per un’ora, con i conseguenti disagi per il trasporto aereo dello scalo di Varese. Eladasy era stato fermato dai carabinieri nella notte tra martedì e mercoledì, mentre si aggirava a un paio di chilometri di distanza dallo scalo aereo, ed era stato denunciato per interruzione di pubblico servizio. Ieri l’uomo è stato dunque mandato a Dakar, la capitale del Senegal, perché da lì era arrivato a Malpensa domenica scorsa. Il giovane si trovava in Italia, senza documento di riconoscimento, nel tentativo di dirigersi in Egitto. Bloccato dagli agenti di polizia per un controllo e poi per la procedura di respingimento, si era dato alla fuga, prima di essere rintracciato grazie al riscontro sulle immagini di sicurezza dell’aeroporto di Malpensa.

“Corriere” e duello Italia-Ue, esposto ai pm

Milano

Dell’annuncio della procedura europea contro l’Italia, comparso il 1 novembre 2018 sulla prima pagina del Corriere della sera, dovrà ora occuparsi anche la Procura di Milano. È Elio Lannutti, ieri paladino dei risparmiatori rovinati dalle banche e oggi senatore del Movimento 5 stelle, a inviare un esposto alla Procura milanese in cui ipotizza una “eventuale manipolazione dei mercati” provocata dagli articoli pubblicati sul quotidiano di via Solferino.

Nell’esposto, Lannutti riprende il testo dell’interpellanza parlamentare presentata il 15 gennaio da una trentina di senatori del M5s, della Lega e del gruppo misto del Senato. Lo invia al procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, “affinché possa verificare se le notizie enfatizzate dal vicedirettore del Corriere Federico Fubini” abbiano potuto “alterare i mercati e contribuire al rialzo dello spread”.

Lannutti ricorda che Fubini fa parte “della task force della Commissione Ue contro le fake news” e del “board dei consiglieri di Open Society Europe, il ramo europeo dell’associazione di George Soros, lo speculatore internazionale che nel 1992 attaccò la lira facendola deprezzare e svalutare del 30 per cento, con conseguente manovra lacrime e sangue del governo Amato di circa 100 mila miliardi di vecchie lire, con il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti bancari, postali e libretti di risparmio”.

L’ipotizzato aggiotaggio sarebbe stato compiuto attraverso gli articoli pubblicati il 1 novembre, in cui si annunciava in prima: “Deficit, pronta la procedura Ue”; e il 7 novembre, in cui Fubini scriveva in un articolo che “non c’è stato nessun passo avanti verso un compromesso fra Commissione Ue e Italia, né alcun vero negoziato”.

Il negoziato era invece in corso, come scritto in quegli stessi giorni, ma con molta meno evidenza sulle pagine del quotidiano, da un altro giornalista del Corriere della sera, il corrispondente da Bruxelles Ivo Caizzi, che poi ha segnalato la contraddizione in una lettera inviata il 31 dicembre 2018 ai colleghi del Corriere e al comitato di redazione. Nella lettera sosteneva che il giornale aveva dato in prima “una notizia che non c’è” e aveva sottolineato che “la procedura d’infrazione Ue contro l’Italia era inesistente e tecnicamente impossibile in quella data”. La trattativa tra Europa e governo italiano invece c’è stata, come dimostrato dall’esito della vicenda, il varo della finanziaria scendendo dal 2,4 al 2,04 del deficit.

Lannutti chiede alla Procura di Milano di aprire un fascicolo per verificare se “le reiterate e inesatte informazioni propalate e ripetutamente pubblicate dal Corriere” non abbiano “negativamente influenzato i mercati, favorendo gli speculatori, che in quei giorni, in assenza della piena operatività della Consob priva di presidente, scommettavano sul crac dell’Italia, configurando i possibili reati di aggiotaggio e manipolazione dei mercati (articolo 501 del codice penale)” e di “attentato contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato (articolo 241)”. La “notizia che non c’è”, si legge nell’esposto, potrebbe aver contribuito a determinare “l’aumento dello spread di quasi 100 punti, con una perdita (teorica) per l’Erario di circa 1,7 miliardi di euro”.

Coppa d’Arabia. E giocarono tutti felici e contenti

Juventus e Milan in campo, qualche tifosa sugli spalti e la polvere sotto al tappeto. Dimenticato l’omicidio Khashoggi, trasformate le polemiche sulle donne discriminate in storie edificanti di donne emancipate, la Supercoppa italiana (anzi, saudita) si è giocata regolarmente. L’ha vinta la Juve, tanto per cambiare, con gol di Cristiano Ronaldo. Gonzalo Higuain, grande escluso, era forse alla sua ultima in rossonero.

Ma il risultato contava relativamente: del resto non è certo per sport che la Serie A si è sobbarcata una trasferta di 5 mila chilometri. Contano i soldi: i 7 milioni di euro incassati (record assoluto per una partita di calcio italiana), che diventeranno 22 fino al 2024, visto che il contratto prevede tre edizioni nei prossimi cinque anni sul suolo saudita. E poi la geopolitica, la diplomazia, perché come ha ribadito il presidente della Lega calcio, Gaetano Miccichè, “Abbiamo più volte parlato con le autorità italiane per capire la situazione e ci è stato confermato che i rapporti con l’Arabia Saudita sono eccellenti”.

Per celebrare l’intesa, i padroni di casa hanno allestito alle porte dello stadio intitolato a Re Abdullah una piccola “little Italy”, con il solito omaggio al cibo italiano (vino no: niente alcol da quelle parti) e ai più importanti monumenti del Belpaese. Tutti felici e contenti. La Lega non aveva mai venduto così bene il suo prodotto. Milan e Juve incassano e spalancano le porte a nuovi mercati: i bianconeri stanno lanciando una serie di “academy” in Medioriente, ieri per promuovere quella in Arabia c’era l’ex campione David Trezeguet. La partita è un affare per tutti. Anche per gli organizzatori: i ricavi vanno alla società araba Sela, che si occupa di marketing e business sportivo, ma in ballo per i sauditi c’è persino di più. “L’evento è molto importante per l’immagine dell’Arabia Saudita”, ha ammesso il principe Faisal. Siamo sempre lì, all’utilizzo dello sport come strumento politico. I sauditi non sono certo i primi né gli ultimi, ma possono pagare più di molti altri. Certo, resta un filo di disagio a prestarsi a questi giochini, trascurando il dettaglio dei diritti umani violati dal Paese ospitante. Il nostro governo, ad esempio, non c’era. Non c’è mai stato nelle precedenti Supercoppe all’estero, figuriamoci in questa, censurata anche dal vicepremier Matteo Salvini, tifosissimo rossonero ma pronto a cavalcare l’onda dell’indignazione popolare. “Io non guarderò la partita”, ha ribadito per l’ennesima volta. Allo stadio a rappresentare l’Italia solo il console e il n. 2 dell’ambasciata. Anche i due club hanno gestito l’evento con discrezione: il presidente del Milan Paolo Scaroni ha incontrato solo il principe Abdulaziz bin Turki Al-Faisal, ministro dello sport saudita, assente lo juventino Andrea Agnelli. Per fortuna ad evitare imbarazzi eccessivi ci ha pensato una sapiente strategia di comunicazione. Dopo lo scandalo iniziale, media e istituzioni hanno aggiustato il tiro. Le squadre hanno incontrato una parlamentare locale (ovviamente non eletta ma nominata) che gestisce una polisportiva.

La FederCalcio ha lanciato l’idea di portare in Arabia il ritiro premondiale della Nazionale femminile. Su tutti i giornali la vergogna medievale della vendita dei biglietti separati per genere è diventato un “trionfo” sulla via dell’emancipazione (ma le donne in Arabia allo stadio ci entravano già da un anno, anche senza la nostra Supercoppa). Alla fine sugli spalti secondo i dati ufficiali c’erano circa 15 mila tifose (rigorosamente velate) su 62 mila spettatori, tutte concentrate nel settore famiglia: le telecamere non le hanno quasi mai inquadrate, men che meno intervistate. D’altra parte, ci sono altre due edizioni da giocare e un ricco contratto da onorare. Inutile far troppo gli schizzinosi.

Banche popolari, i pm: “A processo il broker di Carlo De Benedetti”

La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per il broker di Carlo De Benedetti, Gianluca Bolengo. È la conseguenza dell’imputazione coatta decisa dal gip Gaspare Sturzo che a dicembre scorso aveva imposto alla Procura capitolina, che chiedeva l’archiviazione, di procedere per ostacolo alla vigilanza contro il broker per non aver comunicato alla Consob il contenuto della telefonata del 16 gennaio 2015, durante la quale Carlo De Benedetti sulla riforma delle Popolari, affermava: “Passa, ho parlato con Renzi ieri”. In quella telefonata, quindi, fu decisa un’operazione che consentì all’ingegnere di guadagnare, con la sua Romed, 600 mila euro. Sentiti come persone informate sui fatti, sia De Benedetti che l’ex premier negano di aver trasmesso o ricevuto informazioni riservate. E hanno convinto la Procura che non ha mai ravvisato alcun reato. L’unico indagato era quindi Bolengo, per il quale per due volte i pm romani hanno chiesto l’archiviazione. Non condivisa dal giudice Sturzo che ha deciso per un’imputazione coatta del broker. Adesso è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio.

Lupacchini vs Gratteri. Tra i due colleghi volano stracci al Csm

C’è uno scontro al vertice delle toghe di Catanzaro finito in Csm, Procura generale della Cassazione e ministero della Giustizia. In segreto, sono stati ascoltati l’estate scorsa dalla Prima commissione del Csm il procuratore generale, Otello Lupacchini, e il procuratore antimafia, Nicola Gratteri. Lupacchini ha contestato a Gratteri, con una nota interna, di non rispettare regole di coordinamento con altri uffici giudiziari e di aver fatto il furbo non inviando, come prevede il codice, elementi di indagine alla Procura di Salerno su magistrati calabresi non appena sono emersi spunti ma, in sostanza, solo dopo una prima inchiesta. Gratteri non ci sta a passare per disonesto e si è rivolto al Csm. Palazzo dei Marescialli dovrà decidere se qualcuno deve lasciare il posto per incompatibilità ambientale o se lo strappo si possa ricucire. Lupacchini ha assicurato che non vuole ostacolare le indagini contro la ’ndrangheta che Gratteri, sotto minaccia quotidiana, conduce, ma il procuratore sembra essere convinto che, al di là delle parole, Lupacchini gli sia ostile.

I due, davanti alla Prima commissione, in luglio presieduta dal laico di Ncd Antonio Leone, non si sono risparmiati bordate. Secondo quanto risulta al Fatto, il primo a essere stato ascoltato è stato il pg Lupacchini, il 25 luglio. Durante l’audizione secretata, esordisce caustico: “Non sto qui a ricordare l’atteggiamento ostile manifestatomi sin dal momento della mia presa di possesso a Catanzaro, solo lui era il verbo non solo nel distretto di Catanzaro, ma probabilmente in tutta Italia, nell’universo e forse anche in altri siti”. Secondo Lupacchini, Gratteri non riconosce nessun altro: “Tutti sono farabutti all’infuori di lui, nessuno capisce nulla, perché il verbo giuridico è lui a possederlo”. Gratteri avrebbe un’interpretazione disinvolta delle regole, Lupacchini gli imputa di non aver trasmesso immediatamente le carte a Salerno sui magistrati finiti sotto inchiesta, ma anche di non essersi coordinato con la Procura di Castrovillari su un’indagine parallela, almeno fino a quando non aveva gli elementi di indagine da passare a Salerno su quell’ufficio (vedi articolo sopra). Dice Lupacchini al Csm: “Se l’esigenza di trasmettere gli atti insorge immediatamente, mentre io sto indagando, devo spogliarmi di tutto, non devo aspettare che si verifichi un passo falso” e affonda: se Gratteri dovesse agire con questo criterio allora “ogni magistrato del distretto si sente in pericolo o dovrebbe sentirsi in pericolo”.

Il giorno dopo, il 26 luglio, è il turno di Gratteri al Csm. È un fiume in piena. Ribadisce, quanto già scritto a Lupacchini e cioè che non poteva coordinarsi con Castrovillari perché c’erano dei sospetti sugli inquirenti e che ha mandato le carte a Salerno al momento giusto, come da codice. Gratteri racconta che c’è un passaggio di una nota di Lupacchini in particolare che lo ha preoccupato: “Mi si dice che io ‘furbescamente’ non ho trasmesso gli atti a Salerno. Di me accetto tutte le critiche del mondo, che sono ignorante ecc., ma sull’onestà no”. Gratteri sottopone all’attenzione dei consiglieri anche un fatto per lui “strano”, ovvero la partecipazione di Lupacchini a una conferenza stampa del procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla: “Il pg che partecipa a una conferenza stampa di un’operazione, qualunque essa sia, non l’ho mai visto. Noi abbiamo arrestato 169 persone, non è venuto nessuno”, e in terra di ’ndrangheta, ragiona, “i comportamenti hanno messaggi, i comportamenti sono pietre”. E fa una richiesta al Csm: “Vorrei non avere ostile il pg. Non sottovalutate questa cosa. Se esce fuori la notizia che con il pg non ci sono più rapporti, dietro la porta della Procura generale faranno la fila per trovare il tallone d’Achille di Gratteri, per questo ho fatto quell’esposto”. Rivela che “ogni settimana c’è un’intercettazione ambientale dove si discute come mi devono ammazzare”. Ma la mancanza di coordinamento? Gratteri spiega che quando è necessario si sente con tutti gli uffici, pure tutti i giorni, ma non ha tempo “per parlare del sesso degli angeli o andare a baciare l’anello a nessuno. Mi annoio a parlare di indagini di 40 anni fa, ogni volta con il pg Lupacchini parliamo della Banda della Magliana. Sono uno concreto, voglio sentire del futuro, al massimo del presente”. Cioè, vorrebbe far capire “che ci sto dando l’anima e la cosa che mi interessa è la serenità dei miei colleghi e della polizia giudiziaria”.

Terremoto sui magistrati della Calabria: 15 indagati

Almeno 15 magistrati calabresi sono indagati dalla Procura di Salerno per vicende diverse e per reati diversi, alcuni gravi, come il favoreggiamento mafioso, corruzione in atti giudiziari e corruzione. I pm salernitani, competenti per il distretto di Catanzaro, stanno indagando dall’estate scorsa con carte trasmesse dalla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. A finire sotto inchiesta, magistrati requirenti e giudicanti, pure con ruoli apicali, degli uffici di Catanzaro, Cosenza e Crotone. Se le indagini porteranno la Procura salernitana – che da settembre ha un reggente, il procuratore aggiunto Luca Masini – a chiedere processi, la Calabria potrebbe essere squassata da un terremoto giudiziario dentro la magistratura. Al Fatto risulta che tra gli inquisiti ci sia il procuratore di Cosenza, Mario Spagnuolo, indagato per corruzione e corruzione in atti giudiziari. Secondo un’ipotesi accusatoria, tutta da verificare da parte dei pm salernitani, nel 2016 Spagnuolo avrebbe favorito l’indagato Giuseppe Tursi Prato in cambio del suo silenzio sul fratello: Tursi Prato, noto ex consigliere regionale socialdemocratico ed ex presidente della Asl di Cosenza, avrebbe favorito in precedenza Ippolito Spagnuolo per il suo trasferimento dal reparto di psichiatria dell’Asl di Cosenza al servizio territoriale. Ma le diverse indagini sviluppate da Salerno toccano anche l’ufficio di Gratteri, il procuratore che ha trasmesso atti ai colleghi campani. È indagato, infatti, il procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto, che secondo un’ipotesi, anche questa tutta da verificare, è accusato di rivelazione di segreto d’ufficio e abuso d’ufficio. L’accusa di violazione del segreto d’ufficio riguarda notizie su un’operazione di polizia che Luberto avrebbe rivelato all’ex vicepresidente della Calabria, Nicola Adamo (Pd) che si trovava in compagnia di Giuseppe Tursi Prato. Per quanto riguarda l’ipotesi accusatoria di abuso d’ufficio, è connessa a un arrestato per mafia nel marzo del 2016. Un fascicolo riguarda pure il procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, accusato dai pm salernitani di abuso d’ufficio. Nei mesi scorsi, il procuratore è stato chiamato in causa dal maresciallo Carmine Greco, comandante della Forestale di Cava di Melis (Cs), ufficiale di polizia giudiziaria, fatto arrestare per mafia il 7 luglio scorso dalla Procura di Catanzaro. Greco sostiene che con il presunto avallo del procuratore Facciolla avrebbe manipolato degli atti di un’indagine. Ora i magistrati di Salerno devono verificare se ci siano riscontri alla chiamata in correità del maresciallo Greco. È bene specificare che i fascicoli di indagine su magistrati calabresi finora non hanno portato ad alcuna richiesta di misura preventiva né a richieste di rinvio a giudizio. Le indagini della Procura di Salerno continuano e il Csm fa le sue valutazioni su eventuali incompatibilità ambientali.

Emilio Fede a teatro: curerà un ciclo di dibattiti politici

Emilio Fede è tornato. Non in tv, ma al teatro Bolivar di Napoli, dove ieri ha presentato il format “La politica a teatro”, una serie di incontri e dibattiti su tematiche di attualità politica a cura dell’ex direttore del Tg4. In attesa del dettaglio del calendario, ieri Fede ha sparato le cartucce migliori, annunciando la presenza a Napoli di molti protagonisti della politica: Matteo Salvini, Luigi Di Maio, Massimo D’Alema, Matteo Renzi e l’immancabile Silvio Berlusconi. “Sarà un salotto aperto a qualsiasi problematica – ha spiegato Fede – e non solo quelle di natura strettamente politiche”. Senza dimenticare i temi che stanno a cuore a Napoli: “È una città che porto nel cuore non solo perché mia moglie, Diana De Feo, è napoletana: qui sono molto amico dei tassisti con i quali parlo sempre della vita quotidiana e dei tanti problemi che affliggono il Paese”. Ospite d’onore della conferenza, seppur in collegamento, è stato Paolo Brosio, ex inviato di Fede e adesso in procinto di imbarcarsi per l’Honduras tra i concorrenti de L’Isola dei Famosi.