Il primo passaggio è compiuto: la legge sulla legittima difesa, tanto cara a Matteo Salvini, oggi esce dalla commissione Giustizia della Camera e si avvicina all’esame in aula. Ieri sono stati bocciati tutti gli emendamenti (un’ottantina) al testo della Lega, mentre oggi dovrebbe sarà votato il mandato al relatore, ultimo passo prima dell’approdo a Montecitorio. Sempre oggi, a mezzogiorno e mezza, si riunisce la conferenza dei capigruppo della Camera, che deciderà il calendario delle prossime sedute, e quindi anche la priorità della legittima difesa. Intanto Salvini inizia già a festeggiare: “Enorme soddisfazione per il sì alla legge sulla legittima difesa – scrive il ministro dell’Interno –. Stiamo andando verso un’altra promessa mantenuta con gli Italiani”. Il tam tam leghista è alimentato da Giulia Bongiorno, ministro della Difesa e grande sponsor della legge: “Bene l’ok della Commissione Giustizia di Montecitorio alla legge sulla legittima difesa – commenta – . Provvedimento equilibrato e capace di tutelare in modo concreto le vittime delle aggressioni”.
Firenze, l’ex capogruppo candidata sindaco con FdI: “M5S flirta con Nardella”
Prima ha deciso di rinunciare alla corsa per diventare sindaco e poi ha lasciato il Movimento 5 Stelle per dar vita a “Firenze in Movimento”, lista civica di centrodestra che aderisce a Fratelli d’Italia. Protagonista della “mini-scissione” interna al M5S fiorentino è Arianna Xekalos, ex capogruppo in consiglio comunale e lanciatissima per diventare l’anti-Nardella alle elezioni di maggio. Lunedì Xekalos aveva annunciato il suo passo indietro dalla corsa a Palazzo Vecchio perché nel M5S “c’è qualcuno che flirta con il Pd di Nardella” e poi ieri ha presentato la sua lista civica accompagnata da due esponenti fiorentini di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli e Francesco Torselli. “Nel Movimento 5 Stelle ho visto che uno non vale uno – ha detto la consigliera comunale in conferenza stampa –, le decisioni vengono prese dall’alto”. Poi l’affondo: “Avevo proposto di stipulare un contratto di governo sul modello nazionale con la Lega per mandare a casa Nardella ma mi è stato risposto che dobbiamo andare da soli con coerenza. Poi ho saputo che ci sono incontri con il sindaco o chi per lui per cercare di aiutarlo alle elezioni e questo non è corretto”. Nel frattempo il M5S non ha ancora trovato un candidato per sfidare Nardella: al momento si fanno i nomi del filosofo Diego Fusaro e dell’ex candidato anti-Renzi, Nicola Cecchi.
La Casta masochista
Com’era fin troppo prevedibile, il centenario di Giulio Andreotti, caduto il 14 gennaio scorso, ha scatenato una corsa alla canonizzazione di uno dei peggiori politici dell’Italia repubblicana, se non il peggiore, che potremmo riassumere in un ossimoro ironicamente blasfemo: San Belzebù. L’ultima celebrazione ieri al Senato, alla presenza del presidente dei vescovi italiani, il cardinale Gualtiero Bassetti, e dell’immancabile Gianni Letta, l’uomo che ha esportato i mali dell’andreottismo alla corte di Silvio Berlusconi nella Seconda Repubblica.
E proprio l’iniziativa del Senato ha provocato l’indignata e amara reazione di Gian Carlo Caselli, il magistrato del processo Andreotti-mafia, che nel suo blog sull’Huffington Post ha ricordato per l’ennesima volta che il Divo Giulio fu colpevole fino al 1980 del delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra. Caselli parla di “masochismo istituzionale”, a proposito della celebrazione a Palazzo Madama, e la sua è un’intuizione che si può estendere anche ad altri aspetti di questo centenario. Perché Andreotti fu il peggior politico della Prima Repubblica non solo per quella zona nera e grigia che ha coperto scandali e stragi e cosche; non solo per quel metodo di gestire il potere in maniera cinica e spregiudicata (altro che fede, caro cardinale Bassetti).
Sotto gli occhi di tutti c’è un dettaglio non secondario sfuggito a vari autorevoli commentatori che si sono cimentati nel discernimento dell’andreottismo, per giungere infine a uno scontato giudizio assolutorio della sua parabola. Quel dettaglio è l’Italia di oggi e la sua evoluzione o involuzione, dipende dai punti di vista, in senso populista e sovranista. La rabbia, il rancore, il sentimento anti-Casta sono i frutti dell’Italia di Andreotti indi ereditata da Berlusconi, ché l’ex Cavaliere, come ha sostenuto qualche anno fa Aldo Giannuli, è molto più figlio di Belzebù che di Bettino Craxi.
Andreotti, per esempio, fu il tappo maggiore che impedì alla Dc di rinnovarsi (contro il correntismo e le mazzette) negli anni Ottanta dell’era demitiana, simboleggiata in Sicilia dalla contrapposizione tra la Dc mafiosa degli andreottiani (Ciancimino e Lima) e quella della Primavera di Leoluca Orlando. Il Caf, Craxi più Andreotti più Forlani, fu il ritorno dell’Ancien Régime che preparò la fine della Prima Repubblica, a colpi di monetine, cappi, Roma ladrona e retate. Ecco perché oltre al masochismo istituzionale ce n’è uno politico, con la Casta che lo celebra (ieri c’erano pure Carfagna e Gelmini), inconsapevole che l’andreottismo è un propellente formidabile per il populismo. Il Sistema continua a farsi del male, felice di farselo.
Il ritorno di Letta (che è stato sereno)
Èricordato come lo sberleffo supremo quel tweet di Matteo Renzi nel febbraio 2014 “#enricostaisereno” pochi giorni prima di sfilare la guida del governo a Enrico Letta. Il quale, assicura oggi, è poi stato davvero sereno. “Non è che mi toccherà ringraziare Matteo Renzi?”, scrive Letta in un libro che esce oggi: Ho imparato (Il Mulino).
Letta ha imparato a stare sereno: lui che era un politico di professione si è inventato un mestiere a cui tornare, così gli consigliava il suo maestro Beniamino Andreatta, per essere libero di dire qualche no. E il mestiere – invidiabile – è quello di dirigere uno dei master più prestigiosi di Sciences Po, in relazioni internazionali. Grazie al contatto con studenti di tutto il mondo che arrivano a Parigi per frequentare l’università dell’élite francese ed europea, Letta racconta di aver sviluppato un atteggiamento di distaccata ma attiva partecipazione alla politica italiana. Certo, deve spesso difendersi da critiche a certe sue scelte di governo (l’operazione Mare Nostrum dei salvataggi in mare di migranti), ma è sfuggito alla trappola in cui cadono molti ex potenti, quel misto di nostalgia per il potere e di critica acida dei successori.
Letta ha messo a fuoco tre priorità della sua vita post-politica: i giovani, la ricostruzione di una élite e l’Europa. “Io penso che le classi dirigenti italiane si siano suicidate per via dell’ottuso, egoistico e avvilente obiettivo di autotutelarsi”, scrive l’ex premier. Che parla anche, ma non solo, del Pd. Quel tentativo di sopravvivenza è fallito e ora non ci sono i barbari al potere ma “semplicemente un’altra élite, che magari non vuole farsi definire così ma che lo è nei fatti”.
E allora Letta sta provando a costruire una sua élite alternativa, con la Scuola di politiche, che raduna giovani molto brillanti (e ambiziosi) da tutta Italia ma che offre solo idee, esperienze e network. A differenza di VeDrò, la storica associazione lettiana che nella convention estiva era un turbinio di biglietti da visita e ambizioni in cerca di sbocco.
Letta auspica una politica di competenti, per emanciparsi dalla dittatura dei tecnici, ma competenti empatici, capaci di ascoltare le persone che devono governare, senza contrapposizioni frontali tra migliori e peggiori che esasperano le tensioni. Per questo non gli piace l’idea del fronte anti-populista di Carlo Calenda, un altro che ha scritto un libro di analisi su come salvare le élite da se stesse. L’ex premier è convinto che servano proposte radicali per rispondere a domande nette che arrivano dagli elettori: per esempio bisogna portare i lavoratori nei consigli di amministrazione delle imprese e fare elezioni più frequenti, con legislature di tre anni invece di cinque, perché la democrazia deve adeguarsi alla velocità dei tempi.
Questo Letta così sereno ma anche così attivo è un intellettuale o un politico? Una via di mezzo: userà il libro per un tour di incontri in Italia che racconterà in un “Instabook”, cioè su Instagram. Poi chissà. Ci sono poltrone europee che si liberano e, se è vera l’analisi di fondo del libro, c’è la domanda di un’altra politica diversa da quella gialloverde che prima o poi avrà bisogno di interpreti.
Salvini saluta Lo Voi, il procuratore che gli mandò l’avviso
C’era un tempo in cui magistrati e politici si incontravano a cena lontani dai riflettori. La scena ripresa ieri dalle telecamere del Corriere all’interno del ristorante La Lanterna a Roma segna la fine di un’epoca. Il procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Lo Voi, è attovagliato in compagnia di vari ministri e ex ministri alla cena organizzata dall’associazione “Fino a prova contraria”.
A un certo punto arriva il ministro Salvini. Sotto i flash dei fotografi l’organizzatrice della serata, Annalisa Chirico, amica di Salvini e fustigatrice di alcuni magistrati (solitamente quelli che indagano sui politici salvinian-renzian-berlusconiani) sospinge Lo Voi verso il ministro. Il procuratore sorride, felice di stringere la mano al vicepremier della Lega Nord davanti alle telecamere. Allora un giornalista dice quello che a molti viene in mente: “Salvini, ma Lo Voi le aveva mandato un avviso di garanzia…”. Effettivamente il 7 settembre del 2018 il ministro aprì in diretta Facebook la busta gialla proveniente da Palermo.
Era il procuratore Lo Voi a informare il ministro che era indagato. Lo Voi in realtà aveva fatto poco più che girare le carte provenienti da Agrigento al Tribunale dei ministri. Poi martedì alla Lanterna, sempre sotto le telecamere, finalmente si è chiuso il ciclo. Salvini ha sorriso al giornalista impertinente: “Tutto bene quel che finisce bene”. L’inchiesta è stata infatti archiviata. Lo Voi è stato al gioco. Ha stretto la mano perché “è un ministro dell’Interno, ci mancherebbe altro”. Quanto all’avviso di garanzia “era per lettera… stasera ci siamo incontrati”, vuoi mettere…
Le cene romane tra imprenditori, ministri, generali, procuratori e generoni vari non sono una novità. La novità è che ora si fa dopo un dibattito veloce, sotto le telecamere. Certo ieri i tre procuratori (oltre a Lo Voi c’erano anche Nicola Gratteri di Catanzaro e Giuseppe Amato di Bologna) hanno condito la cena con un bel discorsetto sui mali della giustizia. La sensazione però è che la loro presenza sia servita più agli organizzatori per ottenere una legittimazione agli occhi degli invitati che a indottrinare i presenti.
Alla fine la scena della Lanterna non fa bene all’immagine della magistratura come ordine autonomo e indipendente e potrebbe essere controproducente anche per il procuratore Lo Voi. Nei prossimi mesi si giocherà una partita importante sulla nomina del procuratore capo di Roma. Giuseppe Pignatone, amico di Lo Voi da decenni, a maggio lascerà l’incarico. Si dice che quella poltrona valga due ministeri. Pignatone in sette anni ha dimostrato perché: dal caso Consip al caso Raggi fino a Mafia Capitale, le sue scelte dietro le inchieste, le archiviazioni e i rinvii a giudizio hanno pesantemente inciso sulla vita politica non solo romana ma italiana. Tra due settimane si saprà chi sono i candidati alla successione. I nomi più accreditati sono quelli del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo (membro di Unicost, anche lui ha inizialmente aderito alla cena di martedì poi ha dato forfait) e del procuratore aggiunto di Roma Giuseppe Prestipino, al fianco di Pignatone a Palermo, poi a Reggio Calabria e infine a Roma.
Lo Voi è considerato il candidato più forte. Se presentasse la domanda sulla carta potrebbe contare sui 5 voti della sua corrente, Magistratura Indipendente. I giochi si apriranno a maggio e la partita di Roma è connessa a quella di Palermo. Se Lo Voi liberasse la poltrona, potrebbe tornare in Sicilia proprio Prestipino garantendo continuità in una delle Procure più importanti. La Lega di Salvini nel Csm conta solo su due consiglieri laici. Pesano molto più i togati e non tutti hanno apprezzato le immagini della cena.
Così i manager pubblici pagano la cena dell’inciucio
Poste, Eni, Enel e Fincantieri hanno sponsorizzato ‘una cena da ancien regime’, definizione di Alessandro Di Battista che aveva tuonato: “chi parla di cambiamento farebbe bene a starne lontano”. Invece i manager delle aziende pubbliche si sono fiondati sull’evento della Lanterna nonostante la fatwa del Dibba. Eni e Poste hanno acquistato un tavolo spendendo almeno 6 mila euro ciascuna, Enel e Fincantieri invece hanno presenziato con i loro vertici. Eppure il clima non era proprio da assemblea di Confindustria.
“Con il cibo e il vino bianco, i bacini rumorosi, le strette di mano, gli abbracci avvolgenti, è finita con la solita romanata. Ci mancavano i cardinali e le telecamere di Sorrentino”, confida un imprenditore di comprovata esperienza all’indomani della serata- convegno- passerella organizzata dall’associazione garantista “Fino a prova contraria” della giornalista Annalisa Chirico.
Al ristorante la Lanterna, nello sfarzo disegnato da Fuksas all’ultimo piano di un palazzo del centro di Roma, s’è radunato un gruppo misto di politici, magistrati, dirigenti, finanzieri, lobbisti, avvocati. Il Parlamento ha risposto con una partecipazione da maggioranza costituzionale, unici assenti di rilievo i 5Stelle. Così sorprende la presenza più o meno discreta delle aziende pubbliche, in un momento di tensione sul tema giustizia tra i partiti di governo: con gli azionisti principali del Movimento assai ostili all’evento e con gli azionisti di minoranza del Carroccio assai compatti al seguito di Matteo Salvini. Giuseppe Bono di Fincantieri, boiardo di lungo corso, ammette che un po’ ci ha riflettuto: “Vado o non vado, mi sono detto, certo che vado. Perché Bono dialoga con tutti e sempre. In passato con Renzi, ieri con la Chirico, domani – se ritiene – con Alessandro Di Battista. Ho pagato la quota di tasca mia (minimo 600 euro a posto, tavolo 6.000 euro) e non col denaro di Fincantieri. Certo, non mi nascondo: la faccia è una, quella di Bono e quella di Fincantieri. Al mio fianco c’era il presidente Giampiero Massolo e altri ospiti, tra cui un giornalista, che neanche conoscevo. Io sono convinto che l’apertura verso gli altri sia un modo per lavorare bene”.
Poste Italiane ha prenotato un tavolo, ma non c’erano dirigenti e – spiegano – la società ignorava la portata politica di una cena. Enel ha schierato il presidente Patrizia Grieco e anche Eni ha occupato un pezzo di platea.
L’occhio attento di Carlo Rossella ha registrato un momento topico: “Verso le 23 è prevalso il lodo Malagò. Giovanni s’è alzato, avrà sospirato annamosene , in molti hanno imboccato l’uscita e la festa è finita. Tanti complimenti alla signora Chirico con tante amiche simpatiche”. Ospiti tra gli ospiti Luca Cordero di Montezemolo, Urbano Cairo, Flavio Briatore. Un tavolo, invece, per Marco Tronchetti Provera, numero uno di Pirelli.
Ma la vera attrazione della serata era politica: Matteo Salvini. Si è detto e scritto dell’incrocio con i renziani e del bacio affettuoso con Maria Elena Boschi, ma il profilo del leghista, quasi come un animale esotico, era il più ricercato dal demi-monde di potenti e industriali raccolti dalla Chirico.
Lui non si è concesso più di tanto e ha trascorso buona parte del tempo in terrazza con Flavio Briatore, oppure a fare da tramite tra Lucio Presta – supermanager tv – e una terza persona dall’altro capo del telefono.
Taxi e Ncc, Antitrust sul decreto: “È contro i consumatori”
Il decretolegge che punta a disciplinare l’attività di taxi e Ncc (noleggio con conducente) “non tutela abbastanza i consumatori”, “rafforza ingiustificate restrizioni concorrenziali” e “non coglie la necessità di una visione più ampia, collegata all’evoluzione della mobilità urbana ed extra-urbana, pubblica e privata, e soprattutto ai benefici degli utenti”. La bocciatura arriva dall’Antitrust e dall’Autorità di regolazione dei Trasporti che sottolinea la necessità di eliminare dalla norma il divieto di rilascio di nuove autorizzazioni per i servizi di ncc fino alla piena operatività dell’archivio informatico e l’obbligo, previsto di nuovo solo per gli ncc, del rientro in rimessa per ogni singolo servizio. Le critiche arrivano durante audizioni in commissione Trasporti della Camera, fra le proteste dell’opposizione che contesta la volontà del governo di inserire queste misure nel dl Semplificazioni. A valutare positivamente il testo sono i sindacati dei tassisti. Mytaxi condivide invece la posizione dell’Antitrust sulla necessità di alleggerire la regolamentazione del settore. Uber punta l’attenzione sull’obbligo di ritorno in rimessa: “Si rischia la chiusura di migliaia di aziende e una procedura d’infrazione europea”.
Manzione senza requisiti: oggi si decide
Matteo Renzi ha ragione ad accarezzare sogni di rivincita. Del resto ha dimostrato di potere tutto o quasi. Ricordate Antonella Manzione, già capo dei vigili urbani di Firenze quando sindaco della città era proprio Renzi? L’ex presidente del Consiglio, una volta scalato il Pd e approdato a Palazzo Chigi la volle con sé a Roma, a capo del Dipartimento degli affari giuridici. Poi l’aveva ulteriormente premiata indicandola per un posto di consigliere di Stato. Nonostante la Manzione avesse appena 53 anni, quando è fissata a 55 l’età minima prevista per avere il posto, manco a dirlo prestigiosissimo, che dal 2017 occupa a Palazzo Spada. Una magia degna del migliore Harry Potter.
Oggi sarà lo stesso Consiglio di Stato a decidere se la nomina era legittima. Compreso il barbatrucco anagrafico e tutti gli altri esercizi di contorsionismo che ha dovuto fare l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa pur di dare via libera all’indicazione venuta da Palazzo Chigi. Certo, quel giorno a Palazzo Spada volarono quasi le sedie: alcuni addirittura gridarono all’attentato contro l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Messa alla prova dalla arroganza del governo che aveva imposto un nome addirittura privo dei requisiti minimi che garantiscono la piena idoneità al ruolo. Alla fine però, sebbene tra le polemiche e solo a prezzo di sudare sette camicie nell’interpretazione acrobatica di codici e codicilli, si era deciso di chiudere un occhio. Anzi tutti e due: sulla faccenda dell’età e pure sulle competenze, dato che la norma prescrive di scegliere tra i curriculum degli alti dirigenti dello Stato, avvocati o magistrati ma di lungo corso e professori universitari di un certo livello.
Lo aveva fatto notare pure l’attuale presidente del consiglio Giuseppe Conte, all’epoca membro dell’organismo che decise sulla nomina. E che infatti votò contro, ma finendo in minoranza.
Per lui il curriculum di Manzione non pareva offrire “garanzia di elevata competenza professionale”, ma soprattutto “della ferma indipendenza di giudizio”. Proprio per l’esperienza al Dagl a Palazzo Chigi, un ruolo a cui aveva avuto accesso grazie al rapporto meramente fiduciario con Renzi. Ma nulla Conte aveva potuto contro le alte gerarchie di Palazzo Spada: pur di perorare la causa della Manzione si era scomodato Alessandro Pajno in persona. Che proprio Renzi in precedenza aveva indicato come presidente del Consiglio di Stato, anche a costo di rompere schemi e prassi consolidate.
Ma la nomina della Manzione era stata davvero troppo. Contro la violazione alle regole minime, quale è quella del requisito anagrafico, l’Associazione nazionale magistrati amministrativi ha presentato ricorso. Per rispedirla a Firenze da dove era venuta. E più in generale per tentare di cancellare la legge che consente al governo di mandare i suoi consiglieri a Palazzo Spada. “Il Consiglio di Stato ha l’occasione, rimettendo la questione alla Corte Costituzionale, di decidere se preferisce essere all’ombra del potere. Ovvero affermare a tutto tondo la sua dignità di giudice indipendente, liberandosi dal rapporto con il Governo di cui è chiamato a sindacare la legittimità degli atti. Il giudice, infatti, non solo deve essere imparziale, terzo ed indipendente, ma anche apparire tale. La nomina governativa, ancorché pro quota, dei Consiglieri di Stato rende, invece, opaco un profilo qualificante ed essenziale di chi esercita la funzione giurisdizionale” dice l’avvocato Enrico Folliero che ha curato il ricorso per l’Anma.
Fatto sta che negli ultimi due anni Antonella Manzione è rimasta dove Renzi l’ha voluta: a marzo si sposterà dalla sezione consultiva sugli atti del governo addirittura a quella giurisdizionale. Sempre a Palazzo Spada. Un bel parcheggio, altro che fischietti a Palazzo Vecchio.
Cellulari, il Tar: “I ministeri devono informare sui rischi”
Non se l’aspettavano. Erano già pronti ad andare in appello. E invece il Tar del Lazio ha accolto in primo grado il ricorso dell’associazione per la Prevenzione e la Lotta all’Elettrosmog, A.P.P.L.E, obbligando tre ministeri a informare correttamente la popolazione sui rischi di telefonini e cordless. La misura è già esecutiva: entro sei mesi i ministeri dell’Ambiente, della Salute e dell’Istruzione dovranno adottare una campagna informativa sui rischi per la salute e per l’ambiente connessi all’uso improprio dei telefonini. Soprattutto verso le fasce più deboli della popolazione, bambini e adolescenti.
“È una sentenza storica – dice il professor Angelo Levis, fondatore dell’associazione APPLE, da decenni attento osservatore degli studi scientifici in materia di radiofrequenze –. Il lento cammino dei giudici va avanti”. Levis nel 2017 ha vinto, in primo grado, la causa d’Ivrea in cui l’Inail è stato condannato a versare un’indennità a vita al dipendente di Telecom Roberto Romeo, per il tumore al nervo acustico prodotto – hanno scritto i giudici di Ivrea – dall’uso prolungato del cellulare.
La sentenza del Tar va oltre, accusa il governo attuale, ma anche tutti quelli degli ultimi 18 anni, di non aver attuato la legge 36 del 2001 sulla protezione dai campi elettromagnetici (Cem) che prevede, appunto, d’informare correttamente la popolazione sui rischi legati alle esposizioni da cem. “Niente è stato fatto, nè nelle scuole, nè in televisione, nè il ministero dello Sviluppo economico ha chiesto ai produttori di telefonia – com’è in suo potere – d’informare gli utenti sulla pericolosità dei telefonini”, spiega l’avvocato Stefano Bertone, dello studio Ambrosio & Commodo di Torino, che ha seguito sia la causa d’Ivrea che questa del Tar.
In effetti, il ministero della Salute, rispondendo a un parere del Consiglio Superiore di Sanità (CSS) aveva dichiarato nel 2011 che una campagna d’informazione era “in preparazione”. Ma da allora “niente è stato fatto” scrivono i giudici amministrativi del Tar. “Gli effetti nocivi sulla salute pubblica ormai accertati sono tanti, supportati da studi scientifici di grande serietà: tumori rari al cervello e al cuore, leucemie e infertilità negli uomini”, spiega Laura Masiero, Presidente di APPLE. L’Agenzia sui tumori dell’Oms, la Iarc, ha d’altronde già collocato le onde elettromagnetiche tra i “possibili cancerogeni” nel 2011. “Gli adolescenti non devono tenere il cellulare in tasca, perchè a contatto per molte ore con i genitali – dice la Masiero – Poi, a scuola i telefonini dovrebbero stare in un armadietto di metallo. E ancora, un ragazzo non deve addormentarsi ascoltando musica con l’auricolare”.
E se nel 2017 sul nesso casuale uso prolungato del telefono-tumori si è espresso il Tribunale di Ivrea, già nel 2012 l’aveva scritto la Corte di Cassazione in un processo a Brescia. “Ci sarebbero tante persone che hanno perso un parente o sviluppato un tumore, che vorrebbero un processo – spiega Bertone – . Ma è difficile trovare vittime che abbiano risorse per fare causa a un produttore di telefonia o a un’agenzia del lavoro. Bisogna creare una rete di associazioni e un fondo per le vittime”.
In serata, ieri i tre ministeri hanno fatto sapere di “recepire con favore la decisione, convinti della necessità di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema e di promuovere misure di prevenzione”. Promettono di “essere già al lavoro per la costituzione di un tavolo congiunto che darà seguito a quanto deciso”. Quindi il governo non farà appello. Resta da vedere, nel pieno delle sperimentazioni sul 5G in cinque città italiane, se la campagna d’informazione coprirà tutti i rischi, anche per la troppa vicinanza ad antenne che il 5G richiederà ogni 100 metri.
Carboni rivendica il “panino” del tg: “Fanno tutti così”
“Non sono figlio di nessuno e ho fatto tanta gavetta. Tra un po’ farò 40 anni di Rai, di cui 16 da precario”. Si presenta così, alla sua prima audizione in commissione di Vigilanza, il neo direttore del Tg1 Giuseppe Carboni. Che poi rivendica anche i suoi buoni ascolti. “Dal 7 novembre, giorno del mio arrivo alla direzione, a oggi abbiamo una media del 23,2%, esattamente la stessa dello scorso anno nello stesso periodo di riferimento”, afferma il giornalista. Che ieri ha inaugurato un nuovo metodo: rispondere alle domande dei parlamentari una per volta, e non alla fine tenendo insieme tutti gli argomenti. In questo modo le risposte sono più complete e incisive, ma si allungano i tempi: così salta l’audizione del direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano. “Se tutti sono scontenti, maggioranza e opposizione, significa che stiamo andando bene. Allontanare i partiti dalla Rai è una mission enorme che non può toccare solo me…”, osserva Carboni. Che poi aggiunge: “Nel mio Tg do il 30% del tempo al governo, 30% alla maggioranza, 30% alle opposizioni e 10% alle istituzioni… Hanno fatto tutti così… Non sono certo io il primo”.