Salvati i big della telefonia: rimangono i costi nascosti

N elle aule della commissione Affari costituzionali e Lavori Pubblici del Senato è andata in scena una (breve) battaglia sui servizi di telefonia e sulla trasparenza delle tariffe che ha visto la facile e solita vittoria delle compagnie a discapito degli utenti. I 4 emendamenti presentati dal Movimento 5 Stelle al decreto Semplificazioni per porre un freno ai continui cambi di contratto imposti dagli operatori per fare rincari di massa e bloccare i costi “nascosti” nei contratti sono stati dichiarati tutti inammissibili. Motivo ufficiale: il decreto non riguarda i rapporti dei cittadini con le imprese private, ma solo le “Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione”.

Decisione che ha sollevato più di un dubbio, visto che nel decreto sono comunque finiti diversi emendamenti che escono dalla sfera pubblica, e che “lascia l’amaro in bocca”, commentano dallo staff dei Cinque Stelle, perché gli emendamenti, se approvati, avrebbero rivoluzionato il mercato telefonico dando finalmente ai consumatori un’arma per difendersi contro lo strapotere dei big della telefonia.

“Ci deve essere stata qualche manina che, alla fine, ha fatto desistere da questi emendamenti che arrivano dalla maggioranza e che già erano stati vagliati dagli uffici competenti”, prosegue un addetto ai lavori. La manina, certo, ma non è mancata nemmeno la cara vecchia attività lobbistica con nome, cognome e logo: rimandare la trasparenza delle offerte pubblicitarie e cancellare i servizi nascosti e le modifiche unilaterali dei contratti è d’altronde un interesse primario delle compagnie. E infatti ai membri della maggioranza, e al presidente della commissione Lavori pubblici Mauro Coltorti, è arrivata un’accorata email ufficiale di Vodafone in cui vengono elencati i danni che quegli emendamenti avrebbero fatto ai big telefonici. “Tra gli emendamenti presentati – si legge – ce ne sono alcuni che destano gravi preoccupazioni a Vodafone e ad altri primari operatori nazionali e che impattano negativamente sulla libertà commerciale degli operatori”. Ed ancora: “Le sarei grato se potesse approfondire tali proposte, valutandone eventualmente un posizionamento contrario, al fine di evitare gravi impatti sul settore delle telecomunicazioni”.

Le compagnie continuano a lamentare bassi profitti, gestendo un mercato praticamente saturo con i ricavi della rete mobile in rallentamento (-2%) a causa dell’entrata nel mercato di Iliad, e dopo aver investito più di quanto preventivato nell’asta per le frequenze veloci 5G (6,55 miliardi di euro). E nel frattempo agli utenti che succede? Dovranno continuare a subire le attivazioni di servizi non richiesti (la chat erotica, l’oroscopo o l’abbonamento delle suonerie) e dei contenuti a sovrapprezzo rispetto al servizio base (si possono stimare in circa 2 miliardi) e, soprattutto, le modifiche contrattuali unilaterali che concedono al gestore la possibilità di apportare, a proprio vantaggio, dei cambiamenti alle condizioni iniziali, inviando semplicemente e a costo zero un sms o una mail al cliente (il quale, invece, ha solo 30 giorni per comunicare tramite una raccomandata da 5 euro l’accettazione o meno della modifica). Un abuso di queste modifiche che, negli ultimi anni, ha avuto un effetto a catena: un gestore inizia e gli altri a ruota si adeguano, proprio come accaduto con le bollette a 28 giorni che hanno portato nelle tasche dei gestori 1 miliardo di euro l’anno prima che la politica bloccasse il meccanismo.

Da anni le associazioni dei consumatori chiedono maggiori tutele nei servizi di telefonia, ma gli effetti più concreti sono solo le multe irrisorie che arrivano dalle Authority e che non hanno mai avuto effetti concreti. Ora, archiviata la possibilità di intervento nel decreto Semplificazione, per togliere questo potere agli operatori le strade da seguire sono due: una legge ad hoc o l’approvazione da parte dell’Agcom, cui spetta il compito di garantire la trasparenza nelle comunicazioni sui prezzi, di una delibera che vieti i costi nascosti e garantisca una comunicazione più semplice dei contratti. Finora, però, l’Authority non ha scritto neanche una riga.

Inceneritori? Sì, a casa degli altri

Gli americani dicono: “Not in my backyard”. Suona così: è bello, bellissimo, meraviglioso, ma non fatelo sotto casa mia. Il principio si applica molto bene alla Lega, ultimamente ondivaga nei confronti del tema inceneritori. Prima no, poi forse, poi sì, adesso di nuovo no. Su queste pagine avevamo raccontato come qualche anno fa i leghisti locali si fossero opposti con forza agli inceneritori, dalla Brianza a Perugia, passando per Genova (sulle barricate c’era pure Edoardo Rixi, oggi viceministro). Poi però un paio di mesi fa Salvini aveva spiazzato tutti, dettando la giravolta in contrasto con gli alleati 5Stelle: “Gli inceneritori possono far bene a salute ed economia, non sono tossici”. E con questa, pur disorientati, pensavamo che per un po’ il Capitano, dall’alto del suo carisma, avesse messo un bel punto fermo alla faccenda. E invece in questi giorni, guarda un po’, a Ravenna i leghisti sono di nuovo sul piede guerra. Motivo? L’inceneritore del posto continua a bruciare rifiuti, nonostante sia “estremamente impattante (sic) per l’ambiente e la salute dei nostri cittadini”, come spiega Samantha Gardin, consigliera comunale. A questo punto, per uscire dall’angolo, suggeriamo la strategia a Salvini: inceneritori sì, ma dove la Lega non ha eletti in Comune. Per una volta potrebbe uscirne senza contraddizioni.

Ecco un’altra sanatoria per i balneari

Due emendamenti con uguale contenuto, forma diversa solo sui tempi di validità della norma ma firmati uno dai parlamentari della Lega (Marti, Augussori, Saponara, Campari, Faggi, Pepe e Pergreffi), l’altro da quelli del Movimento 5 Stelle (Croatti, Garruti, Dessì). Obiettivo della modifica al decreto Semplificazioni è sospendere tutti “i procedimenti amministrativi per il rilascio, la sospensione, la revoca e la decadenza di concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative… inerenti alla conduzione delle pertinenze demaniali, derivanti da contenzioso pendente alla data del 29 novembre 2018”.

Un favore ai balneari, per i quali si sospendono i contenziosi amministrativi per il pagamento dei canoni di concessioni sulle spiagge dello Stato e si blocca qualsiasi procedura (non penale) di decadenza e revoca delle concessioni per chi ha contenziosi per canoni non pagati.

Il leader dei Verdi Angelo Bonelli la definisce una sanatoria. “Un colpo di spugna – spiega – Ricordo che ad Ostia, il mare della Capitale, simbolo dell’illegalità nella gestione del demanio marittimo in virtù di questi emendamenti, se approvati, molti stabilimenti torneranno nella disponibilità dei titolari della concessione come ad esempio lo stabilimento Le Dune di Renato Papagni, leader di un sindacato dei balneari (già citato in giudizio per le accuse di abuso edilizio, ndr)”, denuncia Bonelli. Secondo i dati indicati nel bilancio dell’Agenzia del Demanio, lo Stato incassa dalle concessioni poco più di 103 milioni di euro all’anno con un tasso di evasione pari al 50 per cento. Il canone è di circa 1,27 euro metro al metro quadro all’anno per la parte non ricoperta da strutture.

La società di consulenza Nomisma parla di un fatturato, per le oltre 20mila attività turistico ricreative che insistono sul demanio marittimo, pari a quasi 10 miliardi di euro l’anno: “Per fare un esempio – spiega ancora Bonelli – l’albergo di lusso di Cala di Volpe, che ha in concessione a porto Cervo in Sardegna l’esclusiva spiaggia di Liscia Ruya, paga 520 euro l’anno”.

Già in legge di bilancio era arrivato il primo favore ai balneari: una norma che prorogava le concessioni esistenti di 15 anni con il via libera alle nuove concessioni. “Non tutti i balneari sono Papagni – spiega il senatore M5S Emanuele Dessì al Fatto – noi vogliamo revisionare tutto il settore. Cerchiamo di andare incontro a chi si prende cura delle nostre spiagge”. Guadagnandoci però anche molto.

Ora la Lega “punta”. Costa e le poltrone nei parchi naturali

Iparchi naturali sono belli, questo lo sanno tutti. Gli enti parco sono anche un mezzo di controllo del territorio e un bel bacino di voti: e questo lo sa chi abita all’interno delle riserve e i politici. Quelli della Lega, ad esempio, rivendicano la metà dei posti da presidente che si andranno via via liberando. Una richiesta presentata pure al ministro competente, cioè quello dell’Ambiente Sergio Costa, dalla sua sottosegretaria Vannia Gava, leghista friulana assurta anni fa agli onori delle cronache per aver commentato così l’uscita razzista di Roberto Calderoli su Cécile Kyenge (“orango”, che gli è costata una condanna): “Ha detto quello che pensano quasi tutti gli italiani”.

Torniamo ai parchi. La richiesta di fare a metà delle poltrone come buoni fratelli non è stata finora ricevuta da Costa e ieri la Lega gli ha rifilato il primo schiaffo parlamentare: nella commissione Ambiente del Senato i leghisti hanno votato contro il nome proposto dal ministro per la presidenza del parco del Circeo, cioè Andrea Ricciardi, sia detto en passant l’ennesimo generale dei carabinieri indicato per qualche ruolo governativo. Poco da dire sul curriculum, in ogni caso, anche da parte della Lega: “Non abbiamo condiviso il metodo”, dice il senatore Paolo Arrigoni. In realtà, è stata una ritorsione innescata da una telefonata di Matteo Salvini in persona poco prima del voto: così i leghisti, con l’opposizione, hanno bocciato Ricciardi.

Niente di che, il parere è consultivo e il generale ha già ottenuto anche il gradimento della Regione Lazio, il che peraltro rende abbastanza bizzarro anche il no dei senatori del Pd. Alla fine sarà il generale Ricciardi a dirigere il parco naturale in provincia di Latina, anche perché – spiegano fonti del ministero – al suo interno c’è un cospicuo insediamento della ex guardia forestale con cui è necessario raccordarsi, senza dimenticare che il Circeo è da tempo oggetto delle attenzioni della criminalità organizzata e, in verità, pure non organizzata. D’altra parte né Gava, né il suo partito hanno presentato nomi alternativi per la presidenza del parco del Circeo: si tratta di un avvertimento per le poltrone su cui stanno già facendo pressioni (il parco dei Monti Sibillini tra Umbria e Marche e poi quelli del Gargano, delle Dolomiti e dell’Aspromonte).

La guerra della Lega a Sergio Costa, però, è appena iniziata e non solo per l’attivismo della sottosegretaria Gava, che già si vede sulla sua poltrona dopo le Europee. La leghista ieri pomeriggio, in una sorta di controprogrammazione del suo stesso ministro, ha incontrato le imprese del settore petrolifero che puntano alla ricerca in mare: cioè quelli delle trivelle che il M5S vuole fermare con alcuni emendamenti al decreto Semplificazioni, concordati anche col ministero, che la Lega si rifiuta di votare (“ci aspettiamo una mediazione o il ritiro”, dice ancora Arrigoni). Lo stesso Salvini, ieri mattina dalla Sardegna, aveva aperto la partita ambientale: “Non si può dire no al carbone, no al petrolio, al metano, alle trivelle, mica possiamo andare in giro con la candela e accendere i legnetti”. Alle trivelle disse no in realtà lo stesso Salvini al referendum del 2016 (“il nostro petrolio è il paesaggio, non qualche buco nell’acqua”), ma tant’è: le idee cambiano e il Capitano le ha cambiate assai pure sugli inceneritori (“ne va della salute dei nostri figli”), che ora vorrebbe in ogni provincia.

Schermaglieche riguardano anche le leggi sui rifiuti. Partiamo dal cosiddetto end of waste, al cui centro c’è il nuovo “regime di vita” dei rifiuti che possono essere sfruttati a livello industriale. Molte imprese aspettano la norma dopo che una sentenza del Consiglio di Stato ha bloccato il settore: Costa ha deciso che le regole devono essere uniche a livello nazionale, la Lega spinge perché ogni Regione decida si quali rifiuti possono essere trasformati e quali no. Poi c’è in arrivo il cosiddetto ddl “salva-mare”, che in sostanza è contro le plastiche monouso e vede l’opposizione delle molte aziende, anche multinazionali, che campano assai bene con l’imballaggio e pure della Lega, sempre sensibile agli interessi delle imprese, tutte, anche di quelle che hanno interessi diversi: tanto nella vita si può sempre cambiare idea.

I costruttori: “Stop ai favori sulle gare ai concessionari”

“Non possiamo accettare che passi una norma che lede fortemente i principi comunitari e che viola ogni regola di trasparenza e concorrenza”, protesta il presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ange) Gabriele Buia, preoccupato per gli effetti distorsivi sul mercato che un emendamento della maggioranza al Decreto semplificazioni potrebbe avere se fosse approvato dal Parlamento. La norma, infatti, per come è scritta è un grande favore ai concessionari pubblici, in primo luogo quelli autostradali che potranno svolgere tutti i lavori in house e senza gara (mentre oggi c’è l’obbligo di mettere a gara almeno l’80 per cento degli importi). Così potranno di fatto stabilire quanto valgono i lavori che poi vengono remunerati dalle tariffe – i pedaggi, nel caso delle autostrade – senza che ci sia mai il confronto con il mercato e quindi la verifica della congruità dei prezzi.

Il presidente dell’Ance, Buia, si dice “sorpreso che la maggioranza possa sostenere una misura come questa che appare del tutto in contrasto con l’orientamento finora assunto dal governo nei confronti delle concessioni autostradali”.

Viadotto della E45 chiuso: può crollare

Da ieri mattina l’Italia stradale è spezzata in due. Su ordine della magistratura è stato chiuso il viadotto Puleto, 200 metri di asfalto su 5 campate della E45 in provincia di Arezzo tra la Toscana e la Romagna. Camion e mezzi pesanti non hanno altra scelta che deviare su percorsi autostradali, le auto possono invece puntare sulle strade alternative locali scontando tempi di percorrenza molto più lunghi. La decisione della chiusura è stata presa dal giudice per le indagini preliminari della città toscana, Piergiorgio Ponticelli, su richiesta del Procuratore, Roberto Rossi a seguito di un’indagine partita quasi un anno fa dopo il crollo di una piazzola a Pieve Santo Stefano e le segnalazioni fotografiche del ponte messe su Facebook da un poliziotto. I tecnici incaricati dal tribunale di valutare le condizioni del viadotto hanno stabilito che è a rischio crollo. L’Anas che ha in gestione la strada è di parere diverso e pur non nascondendo le pessime condizioni dell’opera, sostiene che essa non rischia di cadere e ritiene sproporzionata la decisione di chiuderla. In una nota l’azienda stradale dice di aver già avviato i lavori di manutenzione per un valore di circa 2 milioni e mezzo di euro e mette a disposizione dei magistrati i risultati delle perizie dei suoi tecnici “al fine di valutare una possibile riapertura”.

La E45 è una delle più grandi strade nazionali. Unisce Lazio, Umbria, Toscana, Emilia e Veneto. Nel lontano 2001, piena era Berlusconi, la trasformazione della statale in autostrada fu inserita nel libro dei sogni delle Grandi opere. E se da allora lunghi tratti della E45 sono stati trascurati è proprio perché anche con quella statale hanno giocato al tanto peggio tanto meglio replicando sulla dorsale interna ciò che è stato fatto su quella tirrenica con l’Aurelia: lasciare che le cose peggiorassero di giorno in giorno in modo da far credere che si dovesse costruire subito una strada nuova, una grande opera appunto.

Sull’Aurelia aveva messo gli occhi Autostrade per l’Italia dei Benetton con il piano per una nuova autostrada da Civitavecchia a Rosignano di cui al momento sono stati realizzati solo 19 km tra Civitavecchia e Tarquinia. Sulla E45 si era tuffato l’ex sottosegretario e parlamentare democristiano e poi di Forza Italia Vito Bonsignore con un ambizioso progetto di nuova autostrada Orte-Mestre da una decina di miliardi di euro. La pratica era a buon punto, benvoluta da tutti, compreso il Pd emiliano di Pierluigi Bersani quando ancora contava qualcosa e pure il sistema delle coop di costruzione che vedeva tanti begli appalti. Ma tramontata l’era Berlusconi e finita anche quella Pd incarnata alle Infrastrutture da Graziano Delrio, il piano autostradale Orte-Mestre è finito in un cassetto. Con il governo giallo-verde dicono sia arrivato il momento dei grandi lavori di manutezione e l’Anas per quella strada le risorse ce l’avrebbe avendo ricevuto dallo Stato la bellezza di 1 miliardo e 600 milioni di euro. Si tratta di vedere se l’azienda ora affidata alla coppia Massimo Simonini (amministratore delegato) e Claudio Gemme (presidente) è capace di spenderli bene e in fretta, aprendo i cantieri e impedendo che i lavori si infilino nel solito girone infernale delle interruzioni e dei contenziosi infiniti.

Salvini vuole il “Tav piccolo”, ma l’analisi lo boccia lo stesso

I giornali l’hanno già ribattezzato “mini Tav”. Che di mini ha molto poco, ma tanto basta alla Lega per proporlo ai 5Stelle come alternativa a uno stop dell’opera che il partito di Matteo Salvini vuole scongiurare nonostante l’analisi costi-benefici sia negativa. Una via che i 5Stelle non vogliono seguire. “Non è la nostra volontà”, spiegano fonti vicine a Luigi Di Maio.

Sulla Torino-Lione è ormai in atto uno scontro a suon di indiscrezioni e suggestioni, in buona parte evocate dalla grande stampa su dati più o meno veri. L’ultima è presto spiegata: tagliare i costi del tracciato per ridurlo dal lato italiano, in sostanza, al solo tunnel di base, il traforo a due canne lungo 57,5 chilometri, tra le stazioni di Saint-Jean de Maurienne in Francia e Susa/Bussoleno in Italia, ma che per oltre due terzi è in territorio francese.

A oggi, per la parte rilevante dell’opera, sono stati spesi 1,4 miliardi: ne mancano altri 10. Andare avanti costerebbe all’Italia almeno 3 miliardi (il 35% del tunnel di base, 8,6 miliardi secondo il costruttore italo-francese Telt) più i due per il collegamento finale da parte italiana. Ed è qui che si inserisce l’ultima indiscrezione. L’analisi costi-benefici, commissionata dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli a una task force di esperti capitanati da Marco Ponti, bolla l’opera come uno spreco di soldi, ma incorpora anche scenari alternativi sulle diverse componenti del tracciato. Uno di questi ipotizza che non vengano spesi i soldi per il collegamento dal lato italiano, da Avigliana al nodo ferroviario di Torino. Il risparmio è di circa 1,7 miliardi. Soldi che, nelle intenzioni della Lega, verrebbero dirottati su altri capitoli cari ai 5Stelle (dalla metropolitana di Torino agli investimenti in Val di Susa, alla riduzione dei tagli ai trasferimenti alle Ferrovie che colpiscono soprattutto il Sud).

Problema: in termini di analisi costi-benefici quella tratta non impatta in modo sostanziale e non è sufficiente a rendere il dossier positivo. Perché la decisione ridurrebbe sì i costi, ma anche i benefici visto che ridimensionerebbe l’opera – dal lato italiano – al solo tunnel, senza potenziare la tratta nazionale. E perché l’analisi non considera solo i costi a carico dell’Italia, ma anche quelli a carico della Francia (il 25%) e della Commissione Ue (il 40%). Che restano, almeno per la parte rilevante, di oltre 10 miliardi. E questo senza considerare che la tratta transalpina per collegare il tunnel a Lione – di cui il governo francese non ne vuole più sapere – farebbe lievitare il “prezzo” a 20 miliardi.

Esiste poi un altro spauracchio e riguarda i costi dello stop all’opera (per i quali servirà un voto parlamentare per modificare il trattato Italia-Francia) la cui quantificazione spetta all’analisi tecnico-giuridica del ministero da affiancare al dossier degli esperti di Toninelli. Ieri il Messaggero parlava di “rischio penali da 3,5 miliardi” evidenziati dall’Avvocatura dello Stato. Un numero curioso, che in realtà è quello indicato in mattinata in audizione alla Camera da Paolo Foietta, che da commissario governativo del Tav si comporta da lobbista della grande opera.

Il dato arriva, peraltro, dallo stesso costruttore Telt. Foietta in passato ha parlato di 2 miliardi e ammesso che non esistono “penali” (nessun grande appalto è stato firmato) e gli accordi bilaterali non prevedono clausole che compensino le spese per i lavori fatti oltre-confine. La strategia sembra insomma la stessa già usata per il via libera al Terzo Valico ligure, bocciato dall’analisi costi-benefici, che i 5Stelle hanno dovuto ingoiare. L’escamotage, in quel caso, era stato fornito dagli 1,2 miliardi di penali rilevati dall’analisi giuridica.

La pressione sui 5Stelle per ripetere lo spartito è fortissima. E passa anche dall’ipotesi strampalata di indire un referendum sul Tav. Ipotesi lanciata da Salvini e su cui la Lega anche ieri ha ribadito il suo favore per bocca del deputato Igor Iezzi (“nessuno abbia paura del popolo”).

Una linea che non piace ai 5Stelle. “I referendum meritano rispetto ma quella sul Tav è una battaglia identitaria del Movimento”, ha spiegato il presidente della Camera Roberto Fico. In questa guerra di logoramento, l’unica certezza è l’assedio ai 5Stelle. Anche per questo, Toninelli ha deciso di accelerare i tempi e pubblicare i documenti entro fine mese, al più entro metà febbraio.

La decisione, insomma, arriverà prima delle Europee. Stamattina la questione Tav verrà affrontata al vertice convocato a Palazzo Chigi tra Giuseppe Conte, Di Maio e Salvini che dovrebbe limare gli ultimi attriti sul decreto per Quota 100 e reddito di cittadinanza. In caso di via libera, finirebbe in un Consiglio dei ministri pomeridiano.

Giustizia smart casual

Quando abbiamo letto la locandina del banchetto per “Una nuova giustizia”, anzi “Più giustizia, più crescita in nome del Pil”, apparecchiato da Annalisa Chirico di “Fino a prova contraria” per attovagliare in “dress code smart casual” un caravanserraglio di procuratori capi o aggiunti, imprenditori, prenditori, manager, magnager, faccendieri, lobbisti, ministri, senatori, deputati, imputati di ieri, di oggi e di domani, abbiamo pensato che la presenza di tanti magistrati preludesse a una bella retata. Un repulisti in grande stile, con un corteo di cellulari a sirene spiegate fuori dalla porta. Invece le meglio toghe del bigoncio erano lì per parlare e cenare, come gli altri invitati. E ci son tornati in mente i tempi in cui il termine “procuratore” significava Borrelli, D’Ambrosio, Caselli, Maddalena, Minale, Almerighi, Spataro. Gente che manco per sbaglio si sarebbe trovata in simile compagnia. All’epoca neppure i magistrati collusi e corrotti si strusciavano in pubblico con i rappresentanti del potere politico ed economico su cui avrebbero dovuto indagare. Lo facevano di nascosto, in salotti privati o in logge massoniche. Dress code: bavero rialzato o cappuccio in testa. Lo sapevano anche loro che certe ammucchiate a favore di flash e telecamere non stanno bene e salvavano, se non la sostanza, almeno l’apparenza. Diceva La Rochefoucauld che l’ipocrisia è la tassa che il vizio paga alla virtù: oggi si evade pure quella, perché nessuno sa più cosa siano il vizio e la virtù. Figurarsi i conflitti d’interessi, l’opportunità, l’eleganza.

Così, al Toga Party è capitato – secondo il cronista per nulla scandalizzato del Messaggero – anche questo: che il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e il suo ex indagato Matteo Salvini sedevano allo stesso tavolo e scherzavano amabilmente sull’indagine per sequestro di persona e altri reati appena archiviata. Salvini: “Sì, lui ha controfirmato il mio avviso di garanzia per la nave Diciotti, ma vabbè, sono atti dovuti…”. Lo Voi: “Ma vabbè, era soltanto una lettera…”. E tutti giù a ridere e a magnare. Naturalmente, tra i due, quello fuori posto era Lo Voi. Come tutti gli altri pm: quelli attovagliati (i procuratori di Palermo, Bologna e Catanzaro) e quelli che hanno aderito e poi sono fuggiti in extremis senza dare spiegazioni (solo De Raho ha detto: “Non mi è parso opportuno sedermi a un tavolo da 6 mila euro”). I loro conflitti d’interessi, reali o potenziali, non si contano. Qualcuno sperava di omaggiare il vicepresidente renziano del Csm Ermini, in vista di future nomine (magari a procuratore di Roma), salvo poi scoprire che anche lui s’era dato alla macchia.

Ma c’era comunque Salvini con i fidi Bongiorno, Fontana e Molinari, preziosissimi per garantire i voti dei leghisti al Csm. Altri sapevano di incontrare ex o attuali indagati propri (da quella di Roma sono passati Tremonti, Letta, Malagò e sono tuttora sotto inchiesta Lotito e sotto osservazione i vertici della fondazione renziana Eyu, ben rappresentata l’altra sera dal trio Bonifazi-Bianchi-De Carolis) o altrui (da Briatore, al desco con la Boschi, ai leghisti dei 49 milioni spariti, da Montezemolo a Tronchetti Dov’Era al Giglio magico). Anziché infuriarsi perché Salvini ha accettato l’invito, i 5Stelle dovrebbero vantarsi di non averlo neppure ricevuto. E porsi qualche domanda sul presunto alleato, ormai santo patrono e protettore dell’Ancien Régime. E del futuro Governo del Cambianiente che ha fatto le prove generali sabato in piazza a Torino. Lega, Pd e FI parlano la stessa lingua non solo sul Tav, ma anche sulla giustizia: non si vede perché costringerli ancora a lungo a questa separazione forzata.

L’ex ministra Severino, alla cena-ammucchiata, assicura che “gli imprenditori chiedono tempi certi e ragionevoli per i processi e certezza della pena”. E il presidente di Confindustria Boccia fa sìsì con la testa. Poi qualcuno gli spiegherà che, con pene e tempi certi, mezza Confindustria sarebbe (“marcirebbe”, per dirla col suo nuovo compare Salvini) nelle patrie galere. Infatti sono tutti contro la Bloccaprescrizione. Il procuratore bolognese Amato critica le “improvvide iniziative giudiziarie” di quei tre-quattro pm scavezzacollo che si ostinano a processare i potenti. La Boschi porge entrambe le guance ai bacioni di Salvini perché “saremmo felici se si convertisse al garantismo” (parla al plurale maiestatico, anche a nome del padre). Salvini tiene molto a “processi più veloci e tribunali più efficienti”: infatti ha appena ottenuto dall’efficientissima Procura di Genova la reateizzazione dei 49 milioni rubati in appena 81 anni e infilato nella Spazzacorrotti un codicillo per mandare in prescrizione i peculati di Rimborsopoli e i suoi imputati han subito chiesto un rinvio all’insegna della più vertiginosa rapidità. Alla fine, però, non s’è ben capito con chi ce l’avesse questo trust di cervelli e ganasce: se temono che i processi danneggino il Pil, possono stare tranquilli. Se sono tutti a piede libero, vuol dire che il pericolo di una giustizia uguale per tutti è definitivamente sventato. Mica siamo nel 1992: siamo nel centenario di Andreotti. Sì, purtroppo sopravvivono la Costituzione e il Codice penale, ma basta non applicarli, come fanno i pm moderni, ultima tendenza. Se, puta caso, Robledo indaga su Expo, il suo capo Bruti Liberati gli leva l’indagine e il Csm leva pure Robledo. E Napolitano e Renzi ringraziano. Se invece Renzi spiffera un decreto a De Benedetti che ci fa 600 mila euro in Borsa e si fa pure beccare, si processa la Raggi. E giù applausi. È la “legalità sostenibile” di una “magistratura genuflessa” di cui parlano due toghe démodé, Scarpinato e Davigo. La modica quantità di giustizia per uso personale. Omeopatica. Smart casual.

Ultimo scandalo d’Arabia: partite tv a sbafo

Gaetano Miccichè, il presidente di quella Lega di Serie A che ha portato la Supercoppa Juventus-Milan a Gedda, in Arabia Saudita (fischio d’inizio alle 18.30 ora italiana), non più tardi di due mesi fa, dopo un incontro a Roma col presidente dell’Agcom, Antonio Martusciello, aveva lanciato un accorato grido d’allarme contro la piaga della pirateria televisiva nel calcio: “È un crimine che non solo danneggia club e tifosi – aveva detto –, ma priva il movimento delle risorse necessarie per crescere. L’evoluzione tecnologica fornisce sempre nuove armi ai pirati: è assolutamente indispensabile trovare nuove soluzioni anche dal punto di visto normativo”.

Voi direte: okay, ma che c’entra ora la Supercoppa in terra d’Arabia con il “pezzotto”? A spiegarcelo è il Ceo di BeIn Media Group (network globale di canali sportivi), Yousef Al-Obaidly, che qualche giorno fa ha indirizzato una lettera aperta ai mammasantissima della Lega Calcio italiana mettendoli di fronte alla loro doppiezza. “L’Arabia Saudita – ha scritto Al-Obaidly – sta supportando attivamente la piaga della pirateria nel mondo dello sport da oltre 18 mesi, cosa che sta minando le prospettive commerciali a lungo termine della Serie A e i proprietari dei diritti in tutto il mondo”. E ancora: “Il signor Miccichè ha detto che la partita a Gedda promuoverà il Made in Italy e i suoi valori; in realtà servirà semplicemente a promuovere il ‘Rubato in Arabia Saudita’ e a sostenere la quotidiana infrazione delle norme internazionali e della legge. Tra tutti i Paesi nel mondo che avreste potuto scegliere per ospitare la vostra partita, avete deciso proprio per quello che sta supportando il furto dei vostri contenuti su scala industriale e che è sotto investigazione da parte della World Trade Organization. E la cosa più allarmante di tutte è che ne siete perfettamente consapevoli”.

Insomma: se le polemiche per la scelta di far giocare Juventus e Milan al cospetto del principe ereditario Mohamed bin Salman, sospettato di essere il mandante del mostruoso omicidio del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi, ucciso e fatto a pezzi nel consolato arabo a Istanbul, non bastavano; se non bastava aver portato, per lucrare 7 milioni di euro, lo show made in Italy in uno stadio, il King Abdullah di Gedda, dove le donne entrano solo se accompagnate per poi essere sistemate in un settore a parte, ghetto nel ghetto; se non bastava la scelta di usare a mo’ di palcoscenico un Paese che fa scempio sistematico di ogni più elementare diritto umano, ecco il tocco di classe: il calcio italiano, che sopravvive coi soldi delle tv, va a inchinarsi là dove si lavora alla morte delle pay-tv, quindi alla propria morte. Killing me softly, dice quella canzone. Oggi, a Gedda, CR7 contro Higuain o se volete Gattuso-Davide contro Allegri-Golia. Se qualcuno ha ancora voglia di entusiasmarsi, buon divertimento.

Rocky si è “fatto furbo”, contro l’amico Putin non si combatte

Fosse per Rocky, i guantoni con il figlio di Ivan Drago Adonis Creed non li incrocerebbe. Glielo dice chiaro e tondo, “fatti furbo”. Ma l’erede di Apollo non ci sente, “quell’incontro lo farò con o senza di te”. Balboa fa spallucce, e viene rimbrottato: “Almeno non sarai tu a gettare la spugna”.

Il voltaggio geopolitico di Rocky – la saga e i due spin-off: il primo Creed del 2015 e questo dal 24 gennaio in sala – non lo scopriamo di certo oggi, basti pensare proprio a Rocky IV, licenziato in piena Guerra Fredda nel 1985, con “Io ti spiezzo in due” per spauracchio. Il sovietico Ivan Drago mandava al tappeto e al padreterno Apollo Creed; Rocky metteva ko Drago a Mosca; nel successivo discorso inneggiava alla pace e si guadagnava il tiepido applauso del Segretario generale dell’Urss e nomenklatura tutta.

Ma allora regnava – sì, regnava – Ronald Reagan, oggi c’è Donald J. Trump, i cui rapporti con la Russia sono tacciati di desistenza e connivenza, comunque più che controversi: solo negli ultimi giorni, il New York Times ha rivelato l’esistenza di un’indagine di controspionaggio dell’Fbi sul 45° presidente, mentre il Washington Post ne ha stigmatizzato gli sforzi – inediti alla Casa Bianca – per tenere riservati i propri colloqui con l’omologo Vladimir Putin.

Scritto da Juel Taylor con Stallone, diretto da Steven Caple Jr., Creed II annusa l’aria che tira e la sublima (brinamento) sul ring: Rocky coi russi non si vuole battere, nemmeno per interposto pugile. Quando s’incontra con Ivan Drago (Dolph Lundgren) non si può non pensare agli addebiti del Post: dove finisce Balboa e dove inizia The Donald? Sicché all’echeggiare di “riscriviamo la storia, la nostra storia” il brivido è caldo: la guerra non è più fredda, la glasnost ha cambiato passaporto, l’isolazionismo stelle & strisce fa capolino.

Sarà pure “una trama shakespeariana”, saranno anche “due figli legati da una tragedia”, ma la verità sta nell’angolo, anzi, all’angolo: infine costretto a rioccuparsi del suo figlioccio Adonis (Michael B. Jordan), non lo aizza mai contro Viktor Drago (Florian Munteanu), viceversa, lo esorta a incassare, a prenderne il più possibile, giacché “il dolore ti piace, lo sopporti”. Reagan, ovvio, si rivolterà nella tomba. Non bastasse, Viktor e il padre Ivan, che ha perso patria, moglie (Ludmila Drago, ovvero Brigitte Nielsen, ora accompagnata a un alto papavero dell’amministrazione) e lavoro, li troviamo trattati alla stregua di “cani randagi” in Ucraina, che è plasticamente raffigurata quale Russia di serie B, il rifugio-prigione di chi non ce l’ha fatta, la terra dei perdenti: che dite, Putin avrà mandato dei fiori agli sceneggiatori Sly e Taylor?

Cantava Fiorella Mannoia “come si cambia per non morire”, e Stallone a 72 anni pugilescamente suonati è vivo e vegeto: dopo aver combattuto un’ultima volta in Rocky Balboa nel 2006, le primavere passate e l’intelligenza affinata – gli viene accreditato un QI di 160 – gli hanno suggerito un approccio più laterale al quadrato, e dopo l’inaspettato successo di Creed (35 milioni di dollari di budget e 173 al botteghino) per il sequel ha preso posto anche al tavolo di scrittura.

La mole più ingombrante che imponente, il volto segnato, le mani gonfie e il vestiario comodo se non sciatto, Rocky barcolla ma non molla, lotta ancora per sé però insegna a fare altrettanto: “Chiediti, ‘sono qui per dimostrare qualcosa agli altri o per dimostrare qualcosa a me stesso?’”.

Certo, oramai parla più con i morti (Adriana) che con i vivi (il figlio Robert), tradisce preoccupanti priorità da umarell (il lampione guasto davanti casa) e quando si assopisce all’ospedale fa temere il peggio, ma è una leggenda, e lo sa: se Creed II emoziona, ed emoziona fino alle lacrime, il merito è sopra tutto suo, capace di creare il personaggio di Balboa ex nihilo nel ’76 e farne mitologia moderna (qui messa in abisso con Drago padre e figlio a Philadelphia esterrefatti sulla “scalinata di Rocky”…).

Già forte di 166 milioni al box office, Creed II ricompensa gli occhi (superlative le parentesi stile videoclip), ritempra il fisico (le sequenze d’allenamento sono adrenalina pura) ed eleva i cuori: quando accenna Gonna Fly Now, è una seduta di film-analisi collettiva. E pensare che Rocky è solo un corno della Stalloneide: Michael Sylvester Gardenzio il 19 dicembre porterà in sala la quinta e ultima avventura di John Rambo, sottotitolo Last Blood. Per nemesi, un cartello della droga messicano: aspettando il muro di Trump?