Molière e Plauto? Basta “Hanno ucciso il teatro”

Sanremo 2018. La canzone si intitolava I migranti. L’aveva scritta Guccini per Iacchetti. Baglioni la scartò. “Ci dissero che, visto il tema e l’autore, l’avrei cantata non in gara, ma come ospite”, ricorda Enzino.

E invece?

Non ne sapemmo più nulla. Mi son chiesto se Francesco e Claudio avessero litigato da giovani, Questo piccolo grande amore contro L’avvelenata.

Ha seguito la polemica tra il direttore del Festival e il ministro degli Interni?

Un bisticcio che giova a tutti e due. Ma Salvini non può contestare a un cantante che da decenni si spende per l’accoglienza a Lampedusa di esprimere liberamente il proprio pensiero. Lo delegittimi per il mestiere che fa? È roba da dittatori, un atteggiamento che neanche Mussolini. Deve essere il ministro di tutti, non di una fazione. Mette a disagio vivere nella stessa terra di uno che si camuffa da eroe indossando la felpa della polizia e impiega il tempo a ridicolizzare i cittadini che hanno opinioni diverse dalla sua. A Salvini, si direbbe, interessano solo razze dalla pelle bianca e gli occhi chiari. Nel mio spettacolo dico: andiamocene tutti, noi italiani, e vediamo come si comporta chi vorrebbe solo l’immigrazione di badanti estoni bionde di vent’anni.

Iacchetti, la canzone sui migranti è parte di uno dei monologhi di “Libera nos Domine”, il suo recital che torna da stasera al Teatro Delfino di Milano.

Oggi e domani entreranno gratis i senzatetto e i disoccupati della città. Tutti devono poter partecipare al dibattito sulla libertà: il nostro meraviglioso Paese è afflitto da politici che ci rincretiniscono. In Francia, dove una rivoluzione l’hanno già fatta, quando sono incazzati scendono subito in piazza. Noi italiani, invece, che come ricorda Guccini in Libera nos Domine siamo andati a costruire il mondo e ci hanno sempre accolti, ci sentiamo smarriti e delusi.

E lei invoca sul palco l’intervento di Dio.

Sì, ma per questioni più cruciali della Finanziaria. Gli imputo l’errore di aver creato cose meravigliose che tra duecento anni non esisteranno più, che i nostri pronipoti non vedranno. Gli dico: Dio, scendi tu in persona, stavolta non mandare il fratello di Gesù. Non vorrai farti dare del vigliacco. Dubito che verrà, in ogni caso. Forse non esiste, se consente all’Isis di tagliare gole.

Se decidesse di farlo, Dio dovrebbe misurarsi con il potere dei social.

Mi chiedo se quei due presunti geni di Jobs e Gates non siano stati degli imbecilli. Ci hanno regalato una tecnologia fantastica, ma non hanno saputo arginare l’orrore delle chat dove un ragazzo bullizzato si butta dal balcone, e dove, nel deep web, puoi ingaggiare sicari o comprare armi nucleari.

E dove i politici costruiscono consenso.

L’ultimo che godeva della mia stima era stato Berlinguer, malgrado i compromessi con la Dc. Dopo, un disastro. Avrei frustato sulle chiappe tutti i leader del Pd, a cominciare da D’Alema. Mi sono entusiasmato per il Grillo dei Vaffa Day, l’ho emulato e poi gli ho chiesto il nome di un buon avvocato per le troppe querele. Beppe mi ha confidato: io di legali ne ho undici, mi sono costati i soldi di una carriera. I Cinque Stelle? Erano un movimento, ma quando vai al governo diventi subito un partito.

A proposito di Dc, Gaber era ferocissimo nell’invettiva di “Io se fossi Dio”, e proprio nei giorni traumatici del dopo-sequestro Moro.

Se i brigatisti avessero liberato Moro, quel sistema di potere sarebbe caduto molto prima. Anche stavolta in scena canto Gaber: Quando sarò capace di amare, una perla sui sentimenti traditi. E oltre alle mie, canzoni di Jannacci e Faletti. Maestri come non ne sono nati più, neanche a cercarli con il lanternino nei talent.

Questo è uno Iacchetti da teatro-canzone doc.

Si sorride, si piange. Non vedrete lo sciocco mascherato da donna dalla De Filippi, né il battutista di Striscia. Da Ricci è un’isola felice, ma anche Antonio sottolinea che sì, facciamo satira per avvicinarci alla verità, ma la tv non è verità. È un narcotico: ci nutriamo di programmi allucinanti dove mostri che ammazzano moglie e figli vengono trattati da star. E ci basta una partita della Champions per accantonare i nostri problemi. Ci sbraniamo davanti a una birra tifando e odiando.

Il teatro è un rifugio?

A Milano ne chiudono tre all’anno. Per difendere la cultura anche gli autori dovrebbero svegliarsi. Basta con Pirandello e Plauto. Molière ha rotto i coglioni. Devono scrivere del nostro tempo, tirare fuori le unghie. E se voglio ridere vado a vedere Proietti. Sperando che non arrivi un politico che gli dica: Gigi fai il comico, non lanciarti in tirate sociali.

A Striscia ha fatto furore la gag di lei innamorato della Isoardi.

Elisa è stata al gioco. L’ho vista una sola volta alla sagra del tartufo di Alba, anni fa. Ragazza fantastica. Però a essere la fidanzata di un ministro fai una vita di merda. Le chiedo: ma come avevi fatto a innamorarti di quello, che non è neanche bello? Deve essere uno molto intelligente. Se alle elezioni prenderà davvero il 40 per cento vorrà dire che è stato astuto. E che gli italiani amano le sue felpe. O che sono impazziti.

“Ho visto morire i ragazzi schiacciati sotto di me”

C’è una foto, a distanza di un mese dalla tragedia di Corinaldo, che resta ancora l’immagine più cruda di quella sera: la balaustra all’esterno della discoteca è crollata, centinaia di ragazzi franano l’uno sull’altro diventando una montagna troppo pesante per gli adolescenti seppelliti alla base. Sei di loro non ce la faranno, alcuni rimarranno in coma per giorni.

In quella foto si distingue nitidamente il volto di un solo ragazzo. È sopra a decine di ragazzi come lui, schiacciato contro la seconda balaustra, quella che non è caduta. Sembra in piedi, e invece è sdraiato, solo che il suo corpo non si distingue, sepolto com’è da quell’enorme massa umana. Quel ragazzo si chiama Matteo Benigni, ha 18 anni, è sopravvissuto.

Quando si è visto in quella foto era stupefatto e ancora, quasi 40 giorni dopo quella notte, la guarda con incredulità, frastornato. Sa che uno dei ragazzi sotto di lui non ce l’ha fatta. “Quella foto me l’hanno mandata via WhatsApp, mi ha fatto impressione vedermi lì. So che se fossi rimasto sotto la gente qualche decina di secondi in più sarei morto”. Matteo è salito su un treno per incontrarmi, non era mai stato a Milano. Ha una vita semplice, frequenta l’istituto alberghiero, lavora come pizzaiolo in un locale vicino Jesi e non era mai stato in quella discoteca. “Era la mia prima volta alla Lanterna azzurra ed era anche la prima volta che prendevo la macchina per andare a ballare”.

Era la tua prima volta anche a un concerto di Sfera Ebbasta?

No, ero già stato a un suo concerto e anche lì qualcuno aveva spruzzato lo spray al peperoncino, ma era all’aperto, c’era stata un po’ di confusione ma nulla di grave. Io non sono neppure un suo fan. Due miei cugini più piccoli (15 e 16 anni) andavano al Lanterna Azzurra, e uno l’ho accompagnato io. Era per stare insieme.

Come è andata quella sera?

Sono entrato con la prevendita che mi aveva dato una ragazzina di 14 anni, senza alcun biglietto. Il locale era affollatissimo, ci si muoveva appena. Era pieno di ragazzini, tutti compravano alcol senza mostrare documenti, i miei cugini compresi.

Poi?

Cinque minuti prima che accadesse tutto ero uscito a fumare. Sono rientrato, ero vicino all’uscita con mio cugino più piccolo. L’altro, quello di 16 anni, era andato in bagno. A un certo punto ho sentito un odore strano, acre, non riuscivo a respirare. Tutti in un attimo si sono ammassati verso l’uscita, e d’istinto io e mio cugino li abbiamo seguiti. La balaustra ha ceduto subito, sono caduto, non ho capito cosa stesse accadendo.

Hai provato a liberarti?

Ero bloccato, hanno tentato di spostarmi in tre, non ce l’hanno fatta. Gridavo di togliermi la gente da sopra, qualcuno non reagiva, in tanti avevano bevuto, erano confusi, secondo me molti ragazzi non hanno neppure realizzato cosa stesse succedendo.

Tu sì però.

Io non avevo bevuto, dovevo guidare, mio cugino era già più frastornato. A un certo punto non mi sentivo più le gambe, faticavo a respirare. Pensavo che sarei morto, ero sicuro. Quando mi hanno liberato da lì, non me lo dimenticherò mai, ho visto una ragazza per terra bianca in volto. Poco dopo aveva un lenzuolo sopra.

Poi che hai fatto?

Ho cercato mio cugino, abbiamo aiutato, trasportato gente verso l’ambulanza. L’altro mio cugino, che era in bagno, è uscito e ha trovato la discoteca vuota, una cosa surreale. Sono andato via quando è arrivato il papà di una delle ragazze morte che chiedeva di lei. Non ce l’ho fatta.

Quando sei tornato a casa cosa hai fatto?

Ho svegliato mia mamma e le ho spiegato cosa era successo. Lei si è arrabbiata, mi ha detto le cose che dicono le madri, che non sarei dovuto andare in discoteca. Non ha capito bene la gravità della situazione e io stesso ero confuso. Poi il giorno dopo abbiamo realizzato. Ho cominciato a avvertire dolori alle gambe e sono andato in ospedale dove mi hanno diagnosticato un trauma toracico e uno schiacciamento alle gambe. Mi è andata bene.

I carabinieri ti hanno convocato?

Sì. Sono andato a testimoniare, ho consegnato un audio, un video, quello che avevo.

Che conseguenze ha avuto tutto questo?

Psicologiche tante. Continuo a rivivere quelle scene, vedo i morti. Tre giorni dopo sono andato alla Lanterna per rivedere il posto, per capire che effetto mi avrebbe fatto.

Cosa farai da un punto di vista legale?

Mi ha contattato l’avvocato Canafoglia. Chiederò un risarcimento come tante altre persone, ma so che il locale non aveva neppure un’assicurazione. Non lo faccio per i soldi, lo faccio perché voglio giustizia e credo che qualcuno voglia coprire la verità, che abbia paura.

Chi?

Si dice che qualche adulto dello staff sia scappato quella sera, per esempio.

Cosa pensi di chi dà la colpa ai testi di Sfera Ebbasta?

La colpa è stata della mancanza di uscite di sicurezza aperte, dei gestori del locale e della quantità di gente che hanno fatto entrare.

E delle polemiche sulla pagina Instagram di Sfera, con le sue foto allegre?

Secondo me a Sfera di quello che è successo a noi che eravamo lì non è fregato niente. Si è tatuato queste sei stelline per fare bella figura, ha fatto un post dispiaciuto e poi come se non fosse successo nulla, ha messo le foto del suo pacco. Io dico: anche quella sera, perché non è venuto sul posto? Doveva venire qui a vedere con i suoi occhi cosa era successo, a portare conforto. Quei ragazzi sono morti per vedere un suo concerto. Per non parlare di quando ha scritto che il 2018 per lui è stato un anno bellissimo. Quindi quello che successo a Corinaldo fa parte dell’anno bellissimo? Io non dico che non deve andare avanti, ma un po’ di rispetto, cazzo.

Questo secondo te avrà ripercussioni sui suoi fan?

Sento tanti ragazzi delusi da lui. Sfera non immagina quello che è successo. Non immagina quello che è successo a chi come me non è morto. La ragazzina che mi ha venduto le prevendite ha pianto ininterrottamente, mio cugino per lo choc quella sera non è riuscito per ore a camminare, nonostante non avesse nulla di fisico. È ancora difficile smettere di parlare di quello che ci è successo.

Ti senti fortunato?

Certo. Quel ragazzo sotto di me che si vede nella foto è morto. Mi ha salvato il caso.

Sei più andato a ballare?

Venerdì scorso. È stato bello tornare a fare cose normali con i miei amici, ma anche brutto perché ero attento a tutto. Mi scattava l’allarme per qualsiasi cosa. Però c’erano persone in divisa nella discoteca, mai visti prima. E la discoteca era semivuota, mai successo. Chiedevano perfino i documenti per il drink e non c’era prevendita. Speriamo che questa cosa non sia un’attenzione solo del momento. Che quei ragazzi non siano morti per niente, almeno.

La frattura sociale: da dove viene davvero la disuguaglianza

Il sottotitolo identifica per questo volume un obiettivo ambizioso: “Guida per risolvere la disuguaglianza sociale”. l contenuto è insieme un’analisi, una discussione, la ricerca di una soluzione di quella che viene definita una “frattura” in crescita tra le persone. È “The divide”, il divario economico tra ricchi e poveri del mondo: 4,3 miliardi di persone vivono con meno di 5 dollari al giorno mentre gli otto uomini più ricchi del pianeta possiedono lo stesso patrimonio della metà più indigente della popolazione globale.
Economisti, politici, agenzie per lo sviluppo hanno raccontato che l’origine del problema “è tecnica, legata a difficoltà interne dei paesi più poveri, e che tutto potrebbe essere risolto se questi adottassero istituzioni politiche e piani di intervento adeguati. Che, anzi, con l’aiuto dell’Occidente la povertà sarà sconfitta nel 2030”. Belle parole. Nei fatti, raccontati da Hickel, la situazione è ben diversa.

Infermieri in appalto al Policlinico. Via in 700 per la gara irregolare

Da un lato ci sono 700 infermieri e ausiliari che rischiano il posto di lavoro dopo aver operato per anni, tramite una cooperativa in appalto, nel Policlinico Umberto I di Roma. Dall’altro ci sono oltre 800 persone che, dopo aver passato il concorso del 2017, sono entrate nella graduatoria e aspettano di essere assunte. Il pasticcio combinato nell’ospedale capitolino ha innescato uno scontro tra poveri e al momento non si vedono soluzioni all’orizzonte. Tanto che i sindacati del pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil hanno proclamato uno sciopero per il primo febbraio.

Il problema è nato per la pratica dell’esternalizzazione, molto diffusa anche nel settore pubblico: per anni il nosocomio, vista l’impossibilità di fare assunzioni, si è servito di una coop per garantire i servizi ai pazienti. La società Osa lavora per il Policlinico Umberto I dal 2003 e alle sue dipendenze ha 550 infermieri e 150 ausiliari. Si tratta però di un metodo irregolare: di fatto è una fornitura di manodopera e non di servizi. A ottobre 2017, il Tribunale di Roma ha dichiarato nullo quell’appalto, che tuttavia non è stato immediatamente revocato perché altrimenti non sarebbe stato possibile assicurare i livelli essenziali di assistenza sanitaria. Già dal 2016, il Policlinico aveva comunque avviato l’iter per assumere nuovi infermieri tramite un concorso. La selezione si è conclusa nel 2017 e sono stati reclutati i 40 vincitori. Altri 838 sono stati dichiarati idonei, e attendono la chiamata che sta per arrivare per i primi 200. Qui sorge il problema: queste assunzioni comporteranno il progressivo smantellamento della cooperativa Osa, che ovviamente perderà la commessa e sarà costretta a licenziare. Sul piano legale, quindi, rientrerà tutto nella normalità e si porrà fine a un’illegittima forzatura. Sul piano sociale, però, l’impatto sarà pesante: 700 disoccupati.

Marco è un infermiere che lavora dal 2008 nella cooperativa: “Anche la mia compagna è una mia collega – racconta – se chiudiamo, tutta la nostra famiglia resterà senza reddito”. A queste fanno da contraltare le rivendicazioni di chi ha superato un concorso e da mesi aspetta di iniziare a lavorare. I sindacati aspettano che la Regione Lazio dia un cenno per sbrogliare questa situazione complicata. Intanto sono pronti a incrociare le braccia tra due settimane: “Una mobilitazione che ha anche l’obiettivo di sbloccare la contrattazione integrativa per i dipendenti diretti del Policlinico – sostiene Francesco Frabetti della Fp Cgil Roma e Lazio – Quest’ospedale è in grande difficoltà, la produzione è ai minimi storici e i costi sono alti. Ci dicano se intendono rilanciarlo o rischiare di farlo chiudere”.

Inps, la grande partita oltre quota 100 e reddito

Tra le molte nomine del governo una pesa più delle altre: quella del presidente dell’Inps. Il successore di Tito Boeri dovrà gestire il reddito di cittadinanza – l’esame delle domande e l’erogazione dipendono dall’istituto di previdenza – e “quota 100”, cioè il pensionamento anticipato di qualche centinaia di migliaia di persone. Il decreto con le due misure da cui dipende il destino politico di Lega e Cinque Stelle alle elezioni europee di maggio è atteso in questi giorni, così come la decisione sul futuro presidente dell’Inps, che dovrebbe insediarsi a metà febbraio, allo scadere del mandato di Boeri. In assenza di un nuovo vertice, si andrà al commissariamento, scelta politicamente rischiosa perché i dirigenti Inps saranno assai meno collaborativi con una figura transitoria che con un presidente dai pieni poteri.

Dietro alla partita politica, però, sull’Inps se ne giocherà anche una gestionale, almeno altrettanto rilevante. L’Inps non è soltanto un pezzo della politica economica del governo, è anche una colossale macchina amministrativa che intermedia miliardi di appalti. La gestione Boeri si è aperta con un esposto all’Autorità anticorruzione il 31 dicembre 2014 dell’allora direttore generale Mauro Nori e si chiude ora con il videomessaggio del presidente Anac, Raffaele Cantone, per i 120 anni dell’ente che plaude alla collaborazione dell’Inps di Boeri. Nori, fuori dall’ente da cinque anni, ora è in corsa come nuovo presidente. Sulla base di quell’esposto, un bellicoso saluto di benvenuto di Nori che era in procinto di andarsene, l’Anac ha indagato nel dettaglio il modo in cui l’Inps gestiva molti appalti, soprattutto in campo informatico. In una delibera di luglio del 2018, l’Anac ha riscontrato che all’Inps – fino al 2014 – si registravano “carenze nelle attività di programmazione e di controllo” che potrebbero “aver agevolato fenomeni corruttivi”.

L’Autorità anticorruzione ha analizzato nel dettaglio 19 contratti per un valore di 227 milioni di euro negli anni 2012-2014 e ha osservato che non risultava “alcuna indagine di mercato finalizzata a dimostrare l’oggettiva esistenza di un unico operatore in grado di offrire quanto richiesto dalla stazione appaltante”. In pratica, si firmavano contratti per milioni con società come Ibm o Microsoft a cui l’Inps si legava in un “perdurante lock in tecnologico”, condannandosi cioè a pagare per anni, senza neppure informarsi se un concorrente poteva offrire servizi migliori a prezzi inferiori. Come rivelato dal Fatto l’estate scorsa, l’Anac ha poi passato i risultati delle sue ispezioni alla Procura e alla Corte dei Conti, prima o poi conosceremo il risultato di queste indagini.

Boeri ha prorogato alcuni di quegli appalti contestati ma ha anche cercato di applicare una discontinuità nella gestione dell’Inps in un modo che gli è costato pochi applausi e molti nemici. Ha perfino cacciato il direttore generale che si era scelto, Massimo Cioffi, per nominarne nel 2017 uno nuovo, Gabriella Di Michele (che aveva in curriculum il precedente di essersi autorizzata da sola un mutuo agevolato da 300.000 euro, quando era dirigente della Regione Lazio). L’economista della Bocconi scelto dal governo Renzi – e da esso presto rinnegato – ha cercato di riformare l’Inps con una centralizzazione delle decisioni, soprattutto su contratti e appalti. Prima c’erano stazioni appaltanti in ognuna delle 20 direzioni regionali, oltre che nelle strutture centrali e nella direzione generale con sovrapposizioni e responsabilità opache. Boeri ha introdotto una stazione unica appaltante per ambito territoriale, operativa dal 2018. Sulle forniture informatiche, secondo dati Inps, porta a risparmi fino al 114 milioni su un singolo contratto. A sei grandi strutture regionali è stata lasciata autonomia di spesa, ma solo per acquisizioni sotto i 40.000 euro, quando non scatta l’obbligo di gara. Poi Boeri ha ridotto le procedure “non concorrenziali” anche a livello centrale, tipo gli affidamenti diretti senza bando, e ha limitato le “proroghe tecniche”, un altro dei trucchi usati a lungo per evitare di rimettere in discussione il rapporto tra Inps e fornitori di servizi. Nella gestione dei software, per fare un altro esempio, l’Inps è passato da un sistema a “lotti esclusivi” – ogni società poteva ottenere un solo lotto, schema che incentivava la spartizione tra concorrenti invece che la competizione – a una gara più aperta: ogni azienda può competere per tutti i lotti.

Tutte queste novità hanno avuto come denominatore comune la centralizzazione delle decisioni e del potere: poiché Boeri non poteva cambiare tutti i dirigenti di cui non si fidava o che erano responsabili delle pratiche censurate dall’Anac, ha ridotto il loro numero e ha razionalizzato la divisione dei compiti. A livello centrale, cioè, a Roma come unico centro decisionale forte è rimasta la presidenza (con la direzione generale), con le competenze residuali affidate al territorio. Queste scelte hanno determinato proteste e rivolte interne – alcune più motivate di altre –, ma secondo l’Anac di Cantone hanno funzionato nel ridurre i rischi di corruzione. Il problema è che non sembrano destinate a sopravvivere al presidente che le ha volute.

Il governo è determinato a smontare il modello dell’uomo solo al comando: all’Inps, come all’Inail, tornerà un consiglio di amministrazione e già questo renderà difficile mantenere la centralizzazione decisionale della fase Boeri. Una governance e una trasparenza che si reggono sulle decisioni del presidente vacilleranno con un vertice non più monocratico. Nel vuoto di potere o nel moltiplicarsi dei centri decisionali le aziende fornitrici troveranno più appigli. Il ritorno al passato incombe.

La vicenda

Nel dicembre 2014, il governo Renzi nomina l’economista della Bocconi, Tito Boeri, presidente Inps. Boeri, nei suoi editoriali su Repubblica
e su LaVoce.info, era stato già critico verso Matteo Renzi e le occasioni di scontro con l’esecutivo non mancano. Anche con Cinque Stelle e Lega i rapporti oscillano tra le affinità su alcuni temi (vitalizi) e lo scontro aperto su altri (quota 100, reddito di cittadinanza, effetti del decreto Dignità). Il mandato di Boeri scade
il 14 febbraio 2019

Entrate tributarie, aumento del 2%: +12 miliardi di euro rispetto al 2017

Da gennaio a novembre del 2018 le entrate tributarie e contributive sono aumentate del 2% (+12,4 miliardi) rispetto all’analogo periodo del 2017: è quanto riporta il “Rapporto sulle entrate tributarie e contributive di gennaio-novembre 2018” del ministero dell’Economia. Il dato, si spiega, tiene conto dell’aumento dell’1,2% (+4,9 miliardi) delle entrate tributarie e della crescita delle entrate contributive del 3,7% (+7,5 miliardi). Il totale delle entrate tributarie (che comprendono gli incassi dello Stato, le entrate da accertamenti e controllo, gli incassi degli enti territoriali e le poste correttive) ammonta a 427,1 miliardi di euro, in aumento dell’1,2% rispetto ai primi 11 mesi del 2017. In crescita sia le imposte dirette che arrivano a 199 miliardi (+0,1%) e le imposte indirette che registrano 179,7 miliardi di gettito (+2,1%). Sugli incassi contributivi, il gettito ammonta a 208,5 miliardi di euro (+3,7%), aumento dovuto alla crescita delle entrate contributive del settore privato (+4,1%) e pubblico (+3,4%).

Buoni del Tesoro a quindici anni Vendita record per 10 miliardi

Dopoun anno, il Tesoro torna a fare un’operazione di mercato aperto con un Btp a 15 anni (scadenza marzo 2035), collocato per circa due terzi all’estero, con il doppio record – se confrontato con emissioni analoghe precedenti con collocamenti sindacati, della raccolta di 35 miliardi e dell’ammontare di 10 miliardi contro il precedente record di 9 miliardi. Una modalità che il Mef riserva alle scadenze lunghe o ai Btp Italia, cui si alternano con frequenza molto più fitta le aste per rinnovare i titoli in scadenza. La finestra temporale cade in un momento in cui i grandi investitori tornano a puntare sui titoli di Stato e riesce a contenere anche il costo: il Btp 2033 paga, in due cedole, un tasso annuo del 3,35% e offre un rendimento lordo annuo del 3,41%. È andata bene in confronto al benchmark, il Btp settembre 2033 (tasso con coupon al 2,45 e rendimento 3,23%) collocato quando lo spread era a 150 punti contro gli oltre 260 attuali.

Non solo Tap: il gas dell’Est all’assalto della Puglia

Non si è ancora sopita la polemica contro il Tap, che porterà il gas azero in Salento, che già si profilano altri gasdotti in Puglia. I consumi in Italia sono in calo, gli scienziati auspicano un rapido abbandono delle fonti fossili, eppure la strategia energetica dell’Ue punta al gas per sostituire il carbone. E si paventa una lunga fase di transizione, in cui la Puglia giocherà un ruolo chiave.

Tre i gasdotti previsti, due dichiarati di interesse comunitario dall’Ue (PCI) e beneficiari di fondi europei. “I progetti – dice al Fatto Anna-Kaisa Itkonen, portavoce della Commissione europea – sono stati valutati per soddisfare gli obiettivi su clima ed energia e rientrano nella cosiddetta Rivoluzione verde dell’Ue. Puntiamo a diversificare le fonti di approvvigionamento di gas per aumentare la sicurezza energetica”.

In Salento, oltre al Tap, è previsto l’arrivo del Poseidon a Otranto. Avrà una portata di 15 miliardi di metri cubi di gas annui. Il progetto risale al 2002. Connette la Grecia all’Italia ed è la prosecuzione di Eastmed, il più grande gasdotto sottomarino proveniente da Israele. Attraverserà siti di interesse comunitario, come gli Alimini. A sponsorizzarlo è stato Matteo Salvini, durante la visita a Tel Aviv. L’Ue ha già investito 100 milioni per lo studio di fattibilità. Realizzerà l’opera Igi Poseidon, per metà di Edison e per metà di Depa, l’azienda statale greca in procinto di essere privatizzata come per la sua ex-controllata Desfa, che gestisce la rete dei gasdotti in Grecia e che è stata acquisita in buona parte dai soci del Tap, ovvero Enagas, Fluxys e Snam. Quest’ultima detiene la quota maggiore ma si dice estranea a Igi Poseidon, che ha già ottenuto le autorizzazioni (anche se la Valutazione di impatto ambientale risale al 2010).

Dopo l’autorizzazione unica e una proroga, ora i lavori dovrebbero partire a giugno 2019 e finire nel 2021. Il sindaco di Otranto, Pierpaolo Cariddi, è favorevole. “Un comune salentino – ha dichiarato – avrebbe dovuto fare il sacrificio di ospitare un gasdotto. Non ce la siamo sentiti di giocare allo scarica barile”. Chiave il ruolo del Pd nel rilancio del Poseidon. A firmare l’accordo con Israele, Grecia e Cipro è stato l’ex ministro Calenda. I gasdotti però non finiscono qui. Nel 2017 il governatore Michele Emiliano lanciò, come alternativa al Tap, il gasdotto Eagle Lng del gruppo Falcione: una nave-rigassificatore in Albania e un gasdotto sottomarino fino a Lendinuso (Brindisi), con una portata di 8 miliardi di metri cubi annui. Sul sito della società si legge che l’Ue lo considera un progetto di interesse per la comunità dell’energia. Ma la Commissione nega. Emiliano oggi dubita che verrà realizzato, ma trova “delirante il caos che si sta creando in Puglia”. “Siamo prigionieri delle lobby del gas – dice – i 5S volevano eliminare i combustibili fossili, ora invece ci teniamo tutto”. A Brindisi il movimento NoTap ha stimato – con le tre opere – l’arrivo di 45 miliardi di metri cubi di gas. Snam dichiara di non esserne al corrente, mentre il sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, si dice contrario: “i consumi di gas tenderanno a decrescere”. Brindisi è anche nel mirino di Edison, che vorrebbe realizzare nel porto un deposito di gas naturale.

Sorte simile è toccata a Manfredonia, in provincia di Foggia, dove il comune si batte contro il deposito costiero di gpl di Energas. Nel 2016 il referendum aveva messo ko l’azienda. Di Maio aveva detto no. Un mese fa, però, è arrivato il parere positivo dei ministeri dell’Interno e dei Beni culturali mentre c’è chi vocifera già che Taranto sia papabile come destinazione per il gasdotto dal giacimento scoperto da Eni in Egitto. Per la Puglia insomma si prospetta un futuro a tutto gas. Senza, per ora, azioni concrete per decarbonizzare l’Ilva.

Coop, sono sparite le norme per limitare il prestito soci

Il tempo è già scaduto. Il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (Cicr) avrebbe dovuto definire le nuove e più stringenti regole per il prestito sociale delle coop entro luglio 2018. Ma la delibera attuativa non è mai arrivata. Annunciata come imminente un anno fa, la nuova regolamentazione avrebbe dovuto proteggere i soci prestatori, che a fine 2017 totalizzavano circa 9 miliardi in deposito presso le coop a titolo di prestito sociale. Da allora è cambiato solo, in peggio, lo stato di salute delle coop, come testimonia l’ultima crisi della Cmc, il colosso delle costruzioni di Ravenna.

Una vicenda che riporta all’ordine del giorno i rischi di un sistema di finanziamento che, come in un gioco di vasi comunicanti, negli anni scorsi ha spinto le coop con le spalle più larghe a farsi carico di parte dei buchi delle sorelle minori, indennizzando i soci, per evitare il rischio di una fuga di massa dopo i clamorosi crac delle coop Carnica e Operaie di Trieste, che hanno lasciato a piedi decine di migliaia di soci prestatori, tanto che le sorelle maggiori riunite in Alleanza 3.0 sono dovute intervenire per tamponare la falla. Della quale sarebbero state le prime vittime: ad Alleanza 3.0, che ha appena annunciato 700 esuberi, a fine 2017 faceva capo poco meno della metà dei prestiti sociali in essere: 3,9 miliardi.

Il governo Gentiloni aveva messo in pista nuove tutele, che però sono rimaste lettera morta. Interpellato sul punto, il Tesoro, che presiede il Cicr, non ha fornito alcun chiarimento. Nell’attesa le coop possono quindi continuare a raccogliere denaro dai soci per un ammontare pari al triplo del loro patrimonio. E anche derogare alla soglia arrivando “fino al quintuplo in presenza di una garanzia del 30% dell’ammontare complessivo del prestito sociale offerta da un soggetto vigilato (banca, intermediario finanziario, assicurazione) o mediante adesione della società cooperativa a uno schema di garanzia del prestito sociale”, ricordano da Bankitalia.

Il punto è che, negli anni, le coop hanno investito i soldi dei soci in attività che hanno poco a che vedere con i supermercati o l’edilizia e che oggi sono una mina vagante. Parte dei quali oggi garantisce il prestito sociale. Si è parlato molto delle fantasiose valutazioni dei titoli Unipol Gruppo che sono quotati, ma ogni coop azionista li ha in bilancio a un valore diverso. Nella maggior parte dei casi molto più alto di quello riconosciuto dalla Borsa (3,7 euro ieri), ma c’è chi addirittura valuta le azioni della finanziaria in due modi diversi. Come Alleanza 3.0 che prezza una parte dei titoli 11,93 euro l’uno e l’altra 2,51 euro. Il caso Carige, poi, riporta alla ribalta quello di Coop Liguria, che nel 2017 ha puntato quasi 10 milioni sulla banca genovese oggi commissariata per tenere salda la presa sull’istituto di cui ha l’1,8%. Pochi mesi dopo però la partecipazione è stata svalutata di 6,5 milioni. Non solo. A bilancio la quota nel 2017 valeva 40,89 milioni, ma la stessa coop riconosceva che il fair value sarebbe stato di oltre 30 milioni in meno visto che in base ai prezzi di Borsa di dicembre la quota valeva 9,76 milioni. La coop però per la quota aveva scelto una valutazione basata sul patrimonio della banca “coerente con la natura di partecipazione stabile”. Per avere un aggiornamento bisognerà aspettare i conti 2018, ma nel frattempo Carige è stata sospesa dalle contrattazioni. L’ultimo prezzo in Borsa, a fine 2018, era di 0,0015 euro, che valorizzerebbe la quota circa 1,5 milioni. Se confermato, significherebbe una perdita virtuale di oltre 38 milioni. Per fortuna Coop Liguria, che a fine 2017 aveva in deposito quasi 600 milioni a titolo di prestito soci e ha chiuso i conti in utile e fatto altri investimenti. A partire da quello in Unipol Gruppo, di cui ha direttamente l’1,43% a 0,975 euro per azione contro i circa 3,7 euro del mercato. Resta da capire come verrà messo in bilancio il 2,14% ereditato da Finsoe: la scatola che riuniva le coop socie di Unipol da poco sciolta, lo ha passato a 152 milioni di euro, che significa circa 10 euro per azione.

Intanto a Roma si continua a ragionare, senza agire, sulla creazione di un fondo di garanzia analogo a quello che tutela i depositi bancari.

Huawei, la difesa del fondatore: “Comunista sì, ma non c’è spionaggio”

È passato un mese da quando sua figlia, Meng Wanzhou, è stata arrestata in Canada. E ieri, il fondatore di Huawei, Ren Zhengfei, ha rotto il silenzio per smentire qualsiasi ruolo del colosso delle tlc in operazioni di spionaggio per conto del governo cinese attraverso i dispositivi e le reti. Ren parla per la prima volta, incontra la stampa a Shenzhen, il cuore tecnologico dell’azienda, e dice di non avere “mai ricevuto alcuna richiesta da nessun governo per fornire informazioni improprie”. Nel giorno in cui emana l’allerta per cinesi in Canada per “detenzione arbitraria” di un cittadino, l’imprenditore 74enne ha anche parole buone per Trump (un “grande presidente” che “osa fare tagli di tasse massicci, che faranno bene agli affari”) ed esclude qualsiasi nesso tra il suo credo politico e gli affari di Huawei. “Amo il mio Paese, sostengo il Partito comunista, ma non farò mai nulla che possa danneggiare qualsiasi Paese del mondo”. Sempre a Trump ricorda che ”bisogna trattare bene le società e i Paesi in modo che vogliano investire negli Usa e che il governo possa raccogliere abbastanza tasse”. La figlia, arrestata il 1° dicembre a Vancouver su mandato Usa, si trova attualmente in Canada in attesa di essere estradata con l’accusa di avere mentito sugli affari della società con l’Iran. Da allora Huawei, che sta vivendo una grande crescita globale e si sta espandendo nelle nuove tecnologie del 5G, è stato bloccato da diversi mercati chiave. La scorsa settimana un suo dipendente, Wang Weijing, è stato arrestato in Polonia con l’accusa di spionaggio per conto della Cina e la società lo ha licenziato prendendo le distanze.

“Nessuna legge in Cina impone ad alcuna società di installare obbligatoriamente delle backdoor” ha precisato Ren riferendosi alle accuse più comuni rivolte di recente che parlano di veri e propri cavalli di troia nei sistemi per consentire lo spionaggio. E sui blocchi subiti da alcuni Paesi (Gran Bretagna e Austria, ad esempio, per la sua partecipazione allo sviluppo 5G) ha minimizzato: “Non si può lavorare con tutti: sposteremo la nostra attenzione nel servire meglio i paesi che accolgono Huawei” tra cui l’Italia, dove l’azienda è coinvolta nelle sperimentazioni.