5G, i conflitti d’interessi che delegittimano studi e comitati dell’Ue

“La salute è materia nazionale”, spiega la Direzione generale della Salute della Commissione europea a Investigate-Europe. Eppure l’esecutivo Ue, che sul 5G sta investendo 700 milioni, chiede agli Stati di fare in modo che entro il 2025 gli uffici pubblici (inclusi scuole e ospedali) siano dotati di tecnologia 5G. Ma perché sulle onde elettromagnetiche, specialmente su frequenze non ancora studiate (onde millimetriche), non si applica il principio di precauzione recepito dal Trattato di Lisbona e già usato per altre crisi?

“I politici provano a non applicarlo fin quando possono attenersi all’‘oltre ogni ragionevole dubbio’”, dice David Gee, ex capo della ricerca all’agenzia europea per l’Ambiente, che già nel 2007 aveva avvisato Bruxelles sul rischio onde, ma senza risposta. “Eppure la Commissione, in nome del principio, ha proibito gli antibiotici nei cibi per animali infilandosi in un processo con la multinazionale Pfizer, che poi vinse”. Con il 5G è diverso. “Il nostro comitato scientifico, lo Scenhir, ha pubblicato un rapporto nel 2015 (quindi prima del lancio del 5G, ndr) che mostra come al di sotto dei limiti fissati dalla Commissione Internazionale per la protezione dalla Radiazione non-ionizzante (Icnirp) non ci sono rischi per la salute umana”, ribadisce la Commissione Ue. L’Icnirp è un organismo privato di 13 membri, con sede a Monaco, che dal ‘92 detta legge sulle onde elettromagnetiche in Europa. Nel ‘98 ha pubblicato le linee guida sui limiti di esposizione, seguite da governi e istituzioni. Il problema è che sono stati presi in considerazione solo gli effetti termici dei campi elettromagnetici (Cem) e, soprattutto, solo i casi in cui la radiazione supera i 2 watt per chilo (di peso umano). Il suo attuale presidente, il biologo olandese Eric van Rongen, ha riconosciuto a Investigate-Europe che “esistono anche effetti non termici, solo che non siamo convinti che siano dannosi per la salute”.

Le linee guida, però, non vengono riviste da vent’anni ma intanto l’Icnirp ha criticato gli altri studi scientifici (come quello del National Toxological Plan americano e dell’Istituto Ramazzini, a Bologna) che provano il nesso tra radiazioni da onde elettromagnetiche e rari tumori al cervello e al cuore. “L’Icnirp nomina da solo i suoi membri, ha forti legami con l’industria. Ma sappiamo che sceglie membri che hanno già escluso i rischi delle radio frequenze per la salute umana”, dice Lennart Hardell, studioso svedese, tra i firmatari di un comitato, il Bio-Initiative, che avverte sul rischio di alterazione del Dna da onde elettromagnetiche. Sulla stessa linea, il biologo molecolare polacco Dariusz Leszczynski: “È un club privato. Approva limiti che vanno bene all’industria senza uccidere: una via di mezzo che piace a politici e industria”.

Comitati.Investigate-Europe ha incrociato i nomi dei rappresentanti dei comitati che esprimono posizioni sulle radiofrequenze, a livello europeo e internazionale: l’Icnirp, lo Scenihr (Commissione Ue), il comitato Oms sui Cem e la Iarc (agenzia Oms sui tumori). I risultati sono sorprendenti: dei 13 membri dell’Icnirp, 6 partecipano ad altre organizzazioni. Nell’Oms, la percentuale sale all’86%, 6 su 7. Quattro di questi sei esperti sono presenti in almeno altri due organismi di regolamentazione. La ricercatrice svedese Maria Feychting e il britannico Zenon Sienkiewicz siedono in quattro diverse commissioni. Il presidente dell’Icnirp, Eric van Rongen, quello del Ce-Scenihr, Emilie van Deventer, e il ricercatore Martin Röösli sono rappresentanti in tre diversi organismi. Cosa vuol dire? “Che c’è un monopolio dell’opinione – dice il ricercatore norvegese, ex impiegato del colosso della telefonia Telenor, Einar Flydal – riducendo le possibilità di apertura a diverse prospettive scientifiche”. Inoltre, il capo della Iarc, Joachim Schüz, che ha collegamenti con 13 tra comitati e associazioni di settore, ha partecipato agli studi di Interphone, Cosmos e Mthr, finanziati dall’industria, ed è consulente scientifico di Wbf, l’Austrian Telecommunications Association. Il greco Theodoris Samaras, membro per tre volte del comitato scientifico della Commissione Ue, non nasconde il suo legame con l’industria: Vodafone ha sviluppato nel suo laboratorio il programma Netpolis, per far familiarizzare i bambini con gli smartphone.

Il biologo Angelo Levis, professore in pensione di mutagenesi ambientale all’Università di Padova, da anni raccoglie dati sui conflitti d’interessi in questo campo: “Già Lorenzo Tomatis, fondatore e presidente Iarc dal 1969 al 1993, constatò un aumento della presenza della lobby industriale dal 30% negli anni 90, a oltre il 60% nei venti successivi”. Nel suo saggio L’ombra del dubbio (Sironi, 2008) scrisse: “Come è noto negli ambienti scientifici, il modo migliore per impedire, o almeno ritardare, una decisione in tema di salute pubblica è elevare il rumore di fondo con la pubblicazione di risultati contrastanti e contraddittori, in modo da iniettare dubbi sulla validità di dati scomodamente positivi”. Oggi presidente dell’Associazione per la Lotta e la Prevenzione dell’Elettrosmog (A.p.p.l.e.), Levis spiega come “sia fondamentale raccogliere il massimo di prove sui conflitti d’interessi. I giudici devono avere un quadro chiaro”. La Cassazione ha scritto, in una sentenza sull’amianto nel 2010, che “per il giudice l’identità, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, gli scopi per cui si muove, sono di importanza preminente”.

A fine 2017, l’Associazione australiana per le radio frequenze ha analizzato la letteratura pubblicata finora (come ripreso da Lancet a dicembre). Le conclusioni non lasciano dubbi: “Il 62% della ricerca finanziata dall’industria non ha provato effetti sulla salute umana, mentre lo ha fatto il 77% della ricerca finanziata da istituzioni pubbliche e oltre il 60% di quella finanziata dai governi”.

 

Il sospetto dello scambio al casello

Aspettate a festeggiare, automobilisti: gli aumenti annuali dei pedaggi sono stati congelati, ma le concessionarie presentano il conto in un modo laterale ma più efficace. Un conto che comunque pagheremo noi. A dicembre, il ministero dei Trasporti guidato da Danilo Toninelli (M5S) prima manda al Tesoro la proposta di concedere buona parte degli aumenti dei pedaggi richiesti dai concessionari autostradali, inclusa Autostrade per l’Italia dei Benetton. Poi, dopo un articolo del Fatto sul documento, chiede ai concessionari di “congelare” gli aumenti. Non si capisce bene se significa che gli aumenti non arriveranno mai o se, visto che le regole che danno diritto alle aziende di ottenere generose remunerazioni degli investimenti non sono cambiate, sono solo rinviati e prima o poi ci piomberanno addosso con gli interessi. Nell’attesa di scoprirlo, un emendamento firmato anche dal capogruppo del M5S al Senato, Stefano Patuanelli, al decreto Semplificazioni, in discussione nelle commissioni Affari costituzionali e Trasporti, vuole omaggiare i concessionari di un regalo dal valore molto superiore agli aumenti mancati: la cancellazione al limite del 20 per cento degli affidamenti in house dei lavori. Il concessionario stabilisce quali investimenti e manutenzioni deve fare per giustificare i pedaggi, poi li affida senza gara alle sue società controllate, così lo Stato non ha alcuna garanzia che i lavori siano fatti al costo minore per il concessionario e, in ultima analisi, per il contribuente. Oggi il concessionario deve fare gare europee per l’80 per cento delle somme, se passa l’emendamento potrà fare tutto in casa, ai prezzi che si decide da solo. Tanto pagano gli automobilisti. La sequenza degli eventi induce sospetti: i concessionari, Autostrade per prima, hanno lasciato al governo il successo mediatico di aver evitato gli aumenti, ma poi ottengono con discrezione una norma che vale miliardi. Una norma scritta male, come dicono fonti del ministero dei Trasporti, o uno scambio indicibile?

Etruria&C., ai revisori dei conti la Consob dà solo un buffetto

Molti tra i soci-clienti delle banche locali andate in default avranno (giustamente) gioito. O quantomeno accolto con soddisfazione la notizia. Quelle due multe della Consob, arrivate di recente, a sanzionare i revisori di bilancio della Cassa di risparmio di Ferrara e prima ancora, alla fine dello scorso anno, quelli di Banca Etruria hanno reso un po’ di giustizia a chi ha visto infrangersi i risparmi nei marosi della gestione scellerata delle loro banche travolte da malagestio e perdite colossali. Ma a guardar bene quelle sanzioni hanno il sapore dolce-amaro del loro puro valore simbolico. Per i lunghi tempi in cui è maturata la multa da parte dell’Authority e soprattutto per l’entità (modestissima) dell’onere da pagare.

Se vuole essere un deterrente affinché queste cose non debbano più ripetersi è un’arma del tutto spuntata. Nel caso di CariFerrara, la multa comminata a Deloitte&Touche riguarda il bilancio del 2012 e vale 80 mila euro. Nel caso della banca di Arezzo, la decisione di irrogare la sanzione è del novembre scorso e impone a PricewaterhouseCoopers di pagare 180 mila euro. Sempre per le irregolarità e le disattenzioni di chi doveva certificare il bilancio del 2012 di Etruria. Come si vede, sono passati dai fatti 6 anni e la sanzione, più che un pesante atto d’accusa, si riduce quanto a peso dell’onere da sborsare, a un banale buffetto. Quegli 80 mila euro imposti a Deloitte per le inadempienze sul crac di CariFerrara sono poco più del 15% dell’onorario che la Deloitte ha incassato per l’ok al bilancio truccato di quell’anno. Nel 2012, infatti, la società di revisione ha incassato dalla banca 535 mila euro per la prestazione. Nel caso di Etruria i dati non sono più disponibili, ma anche quei 180 mila euro di multa sono una percentuale piccola dell’onorario incassato. Del resto, basta mettere in sequenza le varie multe irrogate in passato sulle banche disastrate per rendersi conto della distanza siderale tra l’importo della sanzione e i compensi percepiti. I casi clamorosi sono le banche venete. A dicembre del 2017 arriva la sanzione a Kpmg per la revisione sui bilanci del 2014 della Popolare di Vicenza. Un lungo elenco di violazioni stilato nella delibera della Consob che si traduce in una multa di 300 mila euro. Ebbene, la Kpmg era revisore da tempo della banca (gli incarichi durano di prassi 8 anni) e per i suoi servigi ha incassato solo nel 2014 ben 3 milioni di euro. Nel 2013 i compensi sono stati di 1,97 milioni. L’anno successivo al bilancio multato (il 2015), Kpmg incassa altri 2,76 milioni e infine nel 2016, ultimo anno prima del liquidazione coatta, si alternano Kpmg e la Pwc al capezzale della banca per il modico incasso totale, suddiviso tra le due big della revisione, di 4,85 milioni. Quelle poche centinaia di migliaia di euro di sanzione sono ben poca cosa rispetto agli onorari.

Ed ecco Veneto Banca, stesso copione. Nel giugno dello scorso anno arriva la multa di Consob per 600 mila euro sul bilancio incriminato del 2014. Revisore ancora la onnipresente Pwc che fatturerà alla banca nel 2015 ben 3,87 milioni di euro di compensi. Piatto ricco quello della revisione quindi. Se poi ti capita di sbagliare, di non vedere, di certificare l’incertificabile, male che vada si paga un obolo irrisorio e voilà si continua a operare senza problemi. Del resto alternative alle Big Four non ce ne sono. Sulla falsariga delle agenzie di rating il mondo della revisione contabile è un gigantesco oligopolio perfetto. Sono in quattro a livello globale da Pwc a Kpmg a Deloitte a Ernst Young e certificano i bilanci di qualsiasi società ed ente. Negli Stati Uniti il 99% delle società quotate a Wall Street ricorre ai 4 colossi per la certificazione dei bilanci. In Italia, l’88% delle società quotate a Piazza Affari è cliente dei magnifici quattro. Un mercato garantito nel tempo, dato che ogni 8 anni si è costretti a cambiare revisore. E se non è Pwc è Kpmg e così via in una girandola di affari assicurata. Parliamo di colossi globali che fatturano decine di miliardi di dollari ciascuno. Un mercato globale da oltre 150 miliardi ad appannaggio dei big four.

In Italia i tassi di crescita dei ricavi sono ogni anno a doppia cifra. Pwc Italia ha superato il mezzo miliardo di ricavi e Kpmg nel 2017 fatturava oltre 600 milioni solo nella Penisola. Ma il vero punto dolente, oltre all’imbarazzante oligopolio perfetto, è nella contaminazione tra l’antico mestiere del revisore contabile e dello della consulenza a 360 gradi. Fiscale e tributaria innanzitutto.

Di fatto, la revisione diventa il grimaldello per piazzare, insieme alla certificazione dei conti, ogni genere di consiglio per il management.

I quattro colossi della revisione sono ormai divenuti dei Consiglieri del Principe. Seguono attività come le attestazioni e soprattutto la pianificazione e ottimizzazione fiscale. Parola pomposa per definire il miglior modo per pagare meno tasse possibili. Tanto per stare in casa nostra, sui 3 milioni di euro fatturati da Kpmg alla Popolare di Vicenza nel 2014, solo 670 mila euro riguardavano la revisione. Il resto era sotto la voce attestazione e consulenza. Idem per Veneto Banca.

Nel 2015 Pwc stacca fattura di 3,87 milioni, peccato che la revisione del bilancio valesse solo 1,2 milioni. Il resto erano parcelle per consulenze fiscali e di advisory.

Se finisci per guadagnare di più con la consulenza che non con la revisione, sorge il dubbio che una bocciatura del bilancio sia l’ultima delle cose che alle big four verrebbe in mente di fare.

Brevi note sull’avventatezza nell’ultima opera di J. C. Juncker

Noi siamo da sempre convinti che Jean Claude Juncker – notoriamente “lambrusco di modi” come il Saragat di Fortebraccio – non sia affatto un gaffeur, ma un politico brutalmente sincero (e dunque non sincero in sé, ché il rapporto tra politica e sincerità è fatto complesso). Ieri, per dire, ha voluto celebrare i 20 anni dell’euro così: “Nel momento della crisi c’è stata dell’austerità avventata”. E poi così: “Mi sono sempre rammaricato per la mancanza di solidarietà al tempo della crisi greca. Non siamo stati solidali con la Grecia, l’abbiamo insultata e coperta di invettive”. E ancora così: “Mi rammarico di aver dato troppa importanza al Fondo monetario internazionale. All’inizio della crisi molti di noi pensavano che l’Ue avrebbe potuto resistere all’influenza del Fmi. Se la California è in difficoltà, gli Usa non si rivolgono mica al Fondo”. Ora, a parte che il Fmi ad Atene sembrava Madre Teresa rispetto a Ue e Bce, queste frasi così sincere e autocritiche raccontano soprattutto lo stadio terminale della carriera di Juncker e, una volta di più, la sua coerenza: un tempo disse “noi sappiamo cosa fare, ma non come essere rieletti dopo averlo fatto” e oggi essere rieletto non è più un suo problema. Forse tra alcuni anni sentiremo dire pure che certe letterine “avventate” di Francoforte su crediti deteriorati accumulati in larga parte con l’austerità “avventata” di cui sopra hanno avventatamente aiutato l’arrivo di una nuova crisi in Europa. Per ora, però, è come fossimo nel 2011: “Quando si fa seria, bisogna mentire”. Chi l’ha detto? Ma Juncker.

Perché i Gilet gialli piacciono tanto dalle nostre parti

Da nove settimane i Gilets Jaunes protestano, così tanto e così in tanti che il presidente Emmanuel Macron è stato costretto a più miti consigli: nei giorni scorsi ha scritto una lettera ai francesi che sarà la cornice in cui s’inscriverà un grande dibattito nazionale imperniato su 32 punti, dalle politiche economiche a quelle migratorie. “Trasformare la collera in soluzioni” è l’obiettivo di Macron, che deve sentire la sedia assai poco salda sotto le presidenziali terga visto che la “collera” è parecchio diffusa. Anche da noi, del resto. Solo che c’è una sostanziale differenza tra l’incazzatura che si manifesta qui e dall’altra parte delle Alpi. Si dice che i francesi sanno fare le rivoluzioni e noi no (e questo è verissimo), ma contemporaneamente loro hanno appena votato un candidato che è l’espressione plastica del sistema contestato e qui invece hanno vinto le forze anti-sistema che hanno indirizzato su di sé tutto il malcontento nel modo più fisiologico in una democrazia (cioè attraverso il voto).

Eppure agli italiani i Gilets Jaunes (nonostante si tenti di farli passare per teppisti), piacciono. E piacciono assai. Su Repubblica, due giorni fa, Ilvo Diamanti spiegava il sondaggio realizzato da Demos un mese fa: soltanto 2 italiani su dieci si dicevano “contrari” alle manifestazioni perché “è meglio fare opposizione in Parlamento”. Mentre oltre il 60% esprimeva sostegno alla protesta. Tra questi, il 16% profetizzava che si sarebbe estesa altrove, in altri Paesi. Dunque, presumibilmente, anche da noi… Non è successo, almeno non ancora. Molto interessante, seppur prevedibile, la distribuzione dei giudizi in base alle intenzioni di voto: i Gilets Jaunes sono molto sostenuti dagli elettori di 5Stelle e Lega (59 e 51%), abbastanza da quelli di Forza Italia (41%), poco da quelli del Pd (35%). Dato, quest’ultimo, che ha smesso di suscitare stupore molti anni fa. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, il minor sostegno ai Gilet si rileva al Nord est (comunque 50%), seguono il Nord ovest (62%), poi il centro Sud (66%), poi sud e Isole (71%). Sarà per questi sondaggi che il capo politico dei 5 Stelle ha lanciato l’amo di una possibile alleanza ai francesi, in vista delle elezioni europee?

L’iniziativa di Di Maio ha fatto storcere il naso a più di un commentatore. “A memoria di diplomatico non si era mai visto un governante di un Paese dell’Unione europea sostenere apertamente un movimento che si batte per rovesciare il governo di un altro Stato membro” (Le Monde). È incredibile come i democratici non si rendano conto di come sia facile diventare antidemocratici in un attimo: basta dire che le ragioni degli altri sono sovversive… Eppure è così facile comprendere le ragioni del tentativo dei 5 Stelle: ritrovare – come ha sottolineato il professor Revelli al nostro giornale – un po’ dell’innocenza perduta andando al governo con la Lega, che ha con estrema rapidità cannibalizzato in parte il consenso e l’identità stessa dei 5 Stelle. Ma quest’alleanza è utopica e solo non perché ai francesi stiamo molto sulle scatole come popolo. Ma soprattutto perché non si fa politica senza una bussola di valori che indirizzi le scelte davanti alla realtà, una cosa che non si può ingabbiare in contratti dal notaio: è su questo terreno che i 5 Stelle hanno grossi problemi di orientamento. Che l’alleanza con Salvini non ha contribuito a guarire, anzi.

Babbi e banchieri, è l’esito a fare la differenza

Avete notato? Come per i babbi, anche per Carige la strategia dell’opposizione Pd è stata quella dello specchio riflesso: saltano fuori Renzi e Boschi e, in un ritorno ai litigi infantili, puntano il dito cantilenando “Chi lo dice lo è, mille volte più di me”. Così, di fronte al decreto del governo per salvare la banca genovese, commissariata il 2 gennaio dalla Bce, sono partiti i “vergogna, per anni ci avete insultato”.

Abbiamo sperato che, imputandoli agli altri, finalmente ammettessero errori commessi, invece niente. Gettato il sasso, sono ri-scomparsi. Forse si sono resi conto che, intignando, rischiavano di rinverdire il ricordo delle loro gesta bancarie, complicando la gastrite degli italiani. Stesso schema per papà Di Maio: prima l’amarcord “vedete che anche voi… chiedete scusa”, poi – di fronte alle accuse di lavoro nero e abusivismo delle Iene per babbo Renzi – l’oblio e la minaccia di querele per chi osi metterli insieme nella stessa frase (l’inciso vale come punto, ok?).

Strategie kamikaze a parte, breve promemoria sulle presunte somiglianze con il passato. Al momento, nel decreto Carige c’è una garanzia pubblica per 3 miliardi sulle nuove obbligazioni e un impegno fino a 1,3 miliardi per un’eventuale “ricapitalizzazione precauzionale”, che il presidente-commissario Modiano definisce “ipotesi teorica estrema, più che residuale, non necessaria”.

Quindi, per ora, abbiamo solo una garanzia e nessun soldo pubblico speso; nel caso lo fosse, ci vorrebbe l’ok della Commissione Ue (per non incorrere in aiuti di Stato) e il governo prevede la nazionalizzazione, ossia l’ingresso dello Stato nella proprietà della banca.

Il decreto sarà pure un copia-incolla di quello del governo Gentiloni su Mps e banche venete, ma il finale è molto diverso (l’impegno pubblico rendeva possibile l’acquisizione delle venete da parte di Intesa Sanpaolo, “a condizioni assai generose”).

Quanto alle (tristi) reminiscenze di Banca Etruria, qui non si prevedono bail-in, che hanno fatto pagare il conto del dissesto agli obbligazionisti subordinati, mandando sul lastrico migliaia di risparmiatori; e non risultano vicepresidenti babbi di ministri, che poi incontrano banchieri per evitare il crac, né “soffiate” ad amici investitori. Anzi, secondo il sempre ben informato Ferruccio de Bortoli, “i legami incestuosi con la politica” di Carige erano con “gli Scajola, Grillo (Luigi, ex dc, non il comico genovese guru dei 5Stelle), Bonsignore”.

Sul presunto conflitto d’interessi, il premier Conte ha chiarito di “non aver mai avuto uno studio associato insieme ad Alpa” – suo mentore e nel cda di Carige fino al febbraio del 2014 (cinque anni fa) – ma di essere stato solo suo “coinquilino, condividendo la segreteria”. E di “non essere mai stato consulente del finanziere Mincione, né di averlo incontrato o conosciuto”, solo “aver espresso un parere per una sua società da avvocato, prima di diventare presidente del Consiglio”. Nulla a che vedere con le vicende aretine…

Invece di insistere sugli specchi, bene farebbe il Partito democratico a sostenere un decreto che ci riporta sì al passato, ma solo per interrogarci sulle responsabilità – perché non si è intervenuti prima, per Carige e le altre banche salvate? – e magari ringraziare per il fondo da 1,5 miliardi per i risparmiatori truffati che c’è in manovra (Renzi e Pd che ringraziano Di Maio e Salvini? Ammetto, mi sono fatta prendere la mano…).

Burioni e Silvestri: tranello, non patto

Epistemologia è il ramo della filosofia che studia come procede il progresso scientifico, quali sono la natura e i limiti della conoscenza. Per parlarne occorre scomodare mostri sacri, da Galileo a Khun, ma la settimana scorsa due scienziati italiani, Roberto Burioni e Stefano Silvestri, hanno proposto un Patto Trasversale tra scienziati e politici dando per certezze alcune congetture che invece rappresentano tuttora il nucleo principale del dibattito internazionale. Dopo di che, hanno sottoposto i loro dogmi a Matteo Renzi e Beppe Grillo che ne hanno ingenuamente certificato la validità. Come si sa, i contributi di Renzi e Grillo all’epistemologia sono paragonabili ai contributi che io ho dato all’atletica leggera. Ma siccome si tratta di due persone intelligenti, è probabile che, firmando il documento Burioni-Silvestri, essi intendevano semplicemente dire che non sono (o non sono più) contrari ai vaccini. Burioni e Silvestri, invece, intendevano lucrare da quelle firme un vantaggio ben più tangibile. Praticamente, 400 anni or sono fu il potere politico-religioso di Bellarmino a ottenere l’abiura dello scienziato Galileo; oggi è il potere scientifico di Galileo, rappresentato da Burioni e Silvestri, a ottenere l’abiura di Bellarmino, rappresentato dai politici Renzi e Grillo.

Il sintetico documento proposto da Burioni e Silvestri, composto da un prologo e cinque punti, procede con estrema sicurezza mettendo da parte la raccomandazione di Karl Popper: “Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria, né il problema che si intendeva risolvere”.

Il Patto Trasversale tra scienziati e politici vuole impegnare questi ultimi (e solo questi ultimi) in alcune azioni di volta in volta ovvie, inesatte o interessate. È ovvio, ad esempio, che i politici debbano adoprarsi per bloccare i ciarlatani, anche se spesso una fazione di scienziati considera ciarlatana la fazione avversa ed è impossibile capire chi delle due abbia ragione. È altrettanto ovvio che i politici debbano adoprarsi affinché si realizzi fin dalla scuola una corretta informazione dei cittadini circa la Scienza.

È invece inquietante che in tutto il testo la parola “Scienza” sia scritta con una reverente S maiuscola, quasi a conferirle una sacralità che contrasta con la sua natura laica, empirica e positivista. Può darsi che Renzi e Grillo restino folgorati da questa presunta sacralità ma uno scienziato di razza non cadrebbe mai nella tentazione di alimentare questo equivoco.

Il primo punto del Patto Trasversale è inesatto: “Tutte le forze politiche italiane si impegnano a sostenere la Scienza come valore universale di progresso dell’umanità, che non ha alcun colore politico e che ha lo scopo di aumentare la conoscenza umana e migliorare la qualità di vita dei nostri simili”. In realtà l’epistemologia è tutt’altro che unanime circa il fatto che la scienza non abbia alcun colore politico. È anzi in totale disaccordo se si passa dalla scienza pura a quella applicata e dalla small science alla big science. Una cosa è esplorare com’è fatta la struttura del Dna e un’altra cosa è partire da quella struttura per modificare le cellule di un feto; una cosa è considerare il lavoro solitario di Newton, che non comporta finanziamenti statali, un’altra cosa è considerare il Cern, dove migliaia di scienziati sono finanziati con miliardi di dollari da 22 paesi per studiare la fisica delle alte energie.

Come ha ben dimostrato l’epistemologo Imre Lakatos, dal momento che il mondo scientifico chiede al mondo politico ingenti finanziamenti e che le realizzazioni scientifiche incidono in misura determinante sulla sfera socio-politica dell’intero pianeta, la scienza non può che procedere in base ai programmi decisi dalla politica. Si pensi al caso limite della ricerca condotta a Los Alamos per realizzare la bomba atomica: fu decisa dalla Presidenza degli Stati Uniti e sarebbe stato assurdo che Oppenheimer o Enrico Fermi avessero preso l’iniziativa autonomamente.

Il punto conclusivo del Patto Trasversale svela l’intento reale di Burioni e Silvestri: “Tutte le forze politiche italiane s’impegnano affinché si assicurino alla Scienza adeguati finanziamenti pubblici, a partire da un immediato raddoppio dei fondi ministeriali per la ricerca biomedica di base”. Non si sa in base a quali criteri si chiede di raddoppiare (e non di triplicare o quintuplicare, ecc.) i fondi ministeriali. Meno ancora si capisce perché questo raddoppio dovrebbe cominciare proprio dai fondi per la ricerca biomedica di base. Forse il fatto che Burioni sia microbiologo e Silvestri immunologo non è estraneo a questo sbocco del loro Appello, che inizia col proclamare principi universali per poi planare italianamente su interessi smaccatamente particolari.

Mail Box

 

Per richiamare a sé i delusi il Pd si schieri contro il Tav

Gentile Zingaretti, se vuole veramente dialogare con gli elettori del Movimento 5 Stelle o con gli astenuti deve cominciare a trattare gli argomenti che interessano i delusi del Partito democratico. Al primo posto metterei il rispetto dell’ambiente. Oltre al nefasto atteggiamento del Pd a favore delle trivelle nel mare, al Tap, ora vi è anche l’indegna posizione di una parte del partito a favore del Tav, opera notoriamente inutile, costosa e devastante per l’ambiente. La foto di un Martina sorridente con il cartello Sì Tav, insieme alla Lega e agli imprenditori che vogliono arricchirsi devastando l’ambiente, è veramente intollerabile. Se vuoi i voti dei delusi dal Pd devi prendere una posizione netta contro il Tav. Ovviamente questo è solo l’inizio ma sarebbe già un importante passo avanti.

Albarosa Raimondi

 

La vicenda Caizzi vs “Corriere” sta passando inosservata

Come sempre ascolto Prima Pagina la mattina su Radio 3 sperando di sentir leggere o commentare qualche editoriale del direttore dal giornalista di turno, ma sempre speranza vana e senza che la redazione, da me più volte sollecitata, ne prenda atto. Per puro caso tutto questo è stato confermato stamane da Pierluigi Vercellesi del Corriere della Sera, il giornalista di questa settimana. L’editoriale di oggi del direttore del Fatto “I Fubini del Corriere” ha avuto non dico una lettura completa ma almeno un accenno alla vicenda tra il Corriere e il suo giornalista ? Nient’affatto, una sequela di editoriali e commenti dei soliti noti presenti sui soliti “giornaloni” con una toccata e fuga sul manifesto. Naturalmente “sempre critici” per il bene del Paese, come una libera stampa deve fare, nei confronti del governo gialloverde. Poi vado all’edicola, compro il Fatto Quotidiano, leggo il pezzo del direttore che mi conferma le sensazioni avute qualche ora prima.

Michele Lenti

 

La lotta all’evasione fiscale deve essere una priorità

Luciano Cerasa ci ha illuminati sul Fatto del 13 gennaio con il suo articolo sulle troppe sanatorie fiscali che – contrariamente alla vulgata dei “giornaloni” – ridurrebbero addirittura le entrate fiscali. Ne deriva che andrebbe incentivata la lotta all’evasione fiscale. Ho votato Cinquestelle principalmente perché nel loro programma di governo avevano posto questo tema tra le priorità. A oggi, nonostante apprezzabili riforme sociali, non c’è traccia di un reale progetto di recupero dell’evasione fiscale. Per contro il governo è stato costretto, per contenere il deficit, a tagliare gli investimenti pubblici che soli, data la contrazione degli investimenti privati, possono permettere al nostro Paese di arginare la decrescita dell’economia. Assistiamo invece ad un duello tra i due contrattisti di governo su tagli e taglietti a poste di bilancio che riducono la qualità della vita dei cittadini nella sanità, nel sistema pensionistico ed in altri settori del sociale. Cosa aspettano questi paladini del cambiamento ad incrementare le entrate fiscali?

Gian Carlo Lo Bianco

 

Ci fanno causa per i migranti, ma è l’Europa che non decide

Nell’articolo del 13 gennaio Marco Lillo riporta che la Global legal action network & Association for juridical studies on immigration, con il supporto degli studenti di Yale, ha fatto causa all’Italia alla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’episodio del 6 novembre scorso – il naufragio di un gommone di migranti – a nome dei 17 sopravvissuti all’intervento dei libici. Ma la Cedu non è l’emanazione di quell’Europa che ha discusso per da giorni per collocare 49 migranti? Che esito avrà quella causa promossa col fragore di quella sequela minacciosa di sigle? Forse non si sono accorti che al confine col Messico ci sono interi popoli che vogliono entrare negli Stati Uniti d’America. Pensano di fare causa alla Casa Bianca?

Adriana Rossi

 

Il vocabolario di Salvini sempre carico di violenza

Il ministro Salvini, con il suo vocabolario da capo branco, cerca a pie’ sospinto di esprimersi in sintonia con il suo popolo. Lo ha fatto anche in occasione dell’arresto dell’assassino Battisti. Tantissime parole per descrivere la propria soddisfazione usando aggettivi con una carica violenta per mostrare al popolo quanto sia “maschio alfa”. Non è assolutamente mia intenzione difendere qualche delinquente né tantomeno Battisti, però penso che come il premier Conte abbia espresso il proprio pensiero in merito dando risalto al dolore dei familiari, ai merito delle forze di polizia concludendo con una condanna di tutti gli atti di terrorismo, non mi capacito del perché Salvini usi sempre quel linguaggio, quelle parole violente. Ma bisogna sempre essere cattivi per forza? Per il cambiamento servono l’intelligenza e l’educazione.

Gianni Dal Corso

 

Noi cittadini abbiamo sfiducia nella giustizia di questo Paese

Come si può avere fiducia nella giustizia italiana quando si legge che un pubblico ministero e un giudice sono stati arrestati con le accuse di associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso perché avrebbero garantito esiti processuali positivi in diverse vicende giudiziarie e tributarie in cambio di denaro, gioielli e diamanti?

Marino Bertolino

Vaccini. Non confondiamo scienza e politica, prevenzione, salute e obbligatorietà

 

Non concordo del tutto con quanto leggo nell’editoriale del direttore “Scienza e Fantascienza”. In particolare, con la posizione espressa sull’obbligatorietà dei vaccini. Come medico ritengo necessaria la somministrazione dei 10 vaccini, ora obbligatori, in un Paese dove la coscienza civica e la partecipazione al bene collettivo non brillano. Il direttore cita come modello le politiche sanitarie adottate in materia vaccinale da altri Paesi europei. Concordo sulla validità del modello, ma in quei Paesi l’adesione ai programmi di screening e di vaccinazioni promossi dal sistema sanitario nazionale raggiungono partecipazioni molto elevate. In Italia non è così; l’Italia non mi sembra “ancora” matura. A mo’ di esempio: gli screening organizzati dal Sistema sanitario nazionale per la prevenzione delle principali neoplasie prevedibili sono ancora lontani dal raggiungimento delle coperture soddisfacenti; la recente vaccinazione gratuita e non obbligatoria contro il papilloma virus umano (HPV) sta registrando una partecipazione non esaltante. Ritengo necessario conservare l’obbligatorietà dei vaccini proposti perché maggiore è l’adesione alle iniziative di salute pubblica, maggiore è il beneficio per l’intera popolazione.

Cesare Gentili

 

Caro Gentili, rispetto la sua autorevole opinione, ma mantengo la mia: più informazione, meno costrizione. In ogni caso, il mio articolo non intendeva sostenere la facoltatività dei dieci famosi vaccini contro l’obbligatorietà imposta dal decreto Lorenzin. Ma distinguere ciò che è Scienza (con la S maiuscola, per citare l’appello promosso dei prof. Burioni e Silvestri e firmato, fra gli altri, da Grillo e Renzi) da ciò che è politica. La Scienza studia la validità o meno dei vaccini e – aggiungo io – dovrebbe anche informare più compiutamente e liberamente i pazienti sulle possibili reazioni avverse. La politica invece decide, discrezionalmente, sulla obbligatorietà o sulla facoltatività dei medesimi. La caccia alle streghe che si è scatenata dopo il dl Lorenzin confonde i due piani, scomunicando chiunque dubiti non dei vaccini, ma dell’obbligatorietà di tutti e dieci. Medici e anche professori espulsi dall’Ordine per lesa Lorenzin e leso Renzi. Politici bollati come No Vax, mentre si limitavano a contestare l’atto politico dell’obbligatorietà. Per fortuna l’appello per la Scienza è stato promosso anche dal prof. Silvestri, che sostiene i vaccini ma contesta la loro obbligatorietà. A riprova del fatto che un conto è la scienza, un altro la politica.

Marco Travaglio

“Nuove elezioni vicine, ma neanche il Labour è favorito”

Analista politico e ccostituzionalista fra i massimi esperti di processi e comportamenti elettorali, il professor John Curtice è stato fra i pochissimi a prevedere correttamente il risultato delle elezioni politiche britanniche del 2005, 2010 e 2015.

Professore, cosa succede ora?

Lo scenario più probabile è che la May vada immediatamente a Bruxelles dicendo: ‘Non posso far passare questo accordo in Parlamento senza garanzie legali scritte sui limiti temporali della backstop nord-irlandese’. Se le ottiene, ripresenterà l’accordo con queste modifiche. Se fallisce, sarà posta di fronte al bivio: no deal o no Brexit. In entrambi i casi il governo rischia di cadere perché le opzioni comportano una profonda spaccatura del suo partito. E non dimentichiamo che questo è un governo che si regge sul turbolento appoggio esterno del DUP, i dieci parlamentari unionisti irlandesi, ed è quindi estremamente vulnerabile alle dinamiche interne.

Quindi all’orizzonte vede nuove elezioni?

Probabile, ma non ora, perché per la sfiducia, vista l’aritmetica e le dinamiche parlamentari in questo momento, è necessario che un numero consistente di Tories voti contro il proprio governo, e questo è molto diverso dal votare contro l’accordo concluso con Bruxelles. Potrebbero però cambiare idea presto se May prendesse decisioni considerate incompatibili con il loro mandato. O peggio, la continua ricerca di un compromesso interno al partito può portare a un nuovo impasse, con il governo che resta in carica ma non può muoversi in nessuna direzione, paralizzato dai veti incrociati.

Quali sono le probabilità che il Labour vinca le elezioni?

La brutale verità? Nessun sondaggio suggerisce un vantaggio elettorale decisivo per nessuno dei partiti maggiori. Si ricordi che nel 2017 Theresa May convocò le elezioni per avere un chiaro mandato popolare su Brexit, e il risultato è stato un parlamento bloccato. Temo che nuove elezioni porterebbero a un risultato ancora più incerto, magari con gli indipendentisti scozzesi o i Lib-Dem ago della bilancia al posto degli unionisti irlandesi.

E con pochissimo tempo prima della Brexit.

Un altro dei segreti che è venuto il momento di rivelare è che è virtualmente inconcepibile che il Regno Unito esca dall’Unione Europea il 29 marzo. Non possiamo in nessun caso essere pronti in tempo, ed è inevitabile chiedere a Bruxelles un’estensione dell’articolo 50, che dovrebbe essere approvata dai 27 stati membri.

Quali sono le possibilità che ci sia un secondo referendum?

Al momento per questo, come per le altre alternative a questo accordo, non c’è la necessaria maggioranza parlamentare. Perché avvenga deve avere l’avallo o della May o di Corbyn, che però rischiano di spaccare i propri partiti.

Quale sarebbe il probabile risultato?

Nessuna certezza. Gli ultimi sondaggi vedono un lieve vantaggio per Remain al 54% contro Leave al 46%. Punto cruciale: i Leavers non hanno cambiato idea. L’unica ragione dello scarto è chi non ha votato la prima volta ora sembra essere pro Remain. La domanda è: stavolta andrebbero davvero alle urne? L’idea che oggi da un voto, che siano elezioni politiche o referendum, possa emergere una risposta chiara è un’illusione.

Come se ne esce?

Molto difficile, perché all’origine di questa impasse c’è il fatto che sia May che Corbyn stanno facendo una politica di compromesso per tenere insieme le diverse anime dei propri partiti. E questo non è lo specchio del paese reale, che è invece estremamente polarizzato.