“La salute è materia nazionale”, spiega la Direzione generale della Salute della Commissione europea a Investigate-Europe. Eppure l’esecutivo Ue, che sul 5G sta investendo 700 milioni, chiede agli Stati di fare in modo che entro il 2025 gli uffici pubblici (inclusi scuole e ospedali) siano dotati di tecnologia 5G. Ma perché sulle onde elettromagnetiche, specialmente su frequenze non ancora studiate (onde millimetriche), non si applica il principio di precauzione recepito dal Trattato di Lisbona e già usato per altre crisi?
“I politici provano a non applicarlo fin quando possono attenersi all’‘oltre ogni ragionevole dubbio’”, dice David Gee, ex capo della ricerca all’agenzia europea per l’Ambiente, che già nel 2007 aveva avvisato Bruxelles sul rischio onde, ma senza risposta. “Eppure la Commissione, in nome del principio, ha proibito gli antibiotici nei cibi per animali infilandosi in un processo con la multinazionale Pfizer, che poi vinse”. Con il 5G è diverso. “Il nostro comitato scientifico, lo Scenhir, ha pubblicato un rapporto nel 2015 (quindi prima del lancio del 5G, ndr) che mostra come al di sotto dei limiti fissati dalla Commissione Internazionale per la protezione dalla Radiazione non-ionizzante (Icnirp) non ci sono rischi per la salute umana”, ribadisce la Commissione Ue. L’Icnirp è un organismo privato di 13 membri, con sede a Monaco, che dal ‘92 detta legge sulle onde elettromagnetiche in Europa. Nel ‘98 ha pubblicato le linee guida sui limiti di esposizione, seguite da governi e istituzioni. Il problema è che sono stati presi in considerazione solo gli effetti termici dei campi elettromagnetici (Cem) e, soprattutto, solo i casi in cui la radiazione supera i 2 watt per chilo (di peso umano). Il suo attuale presidente, il biologo olandese Eric van Rongen, ha riconosciuto a Investigate-Europe che “esistono anche effetti non termici, solo che non siamo convinti che siano dannosi per la salute”.
Le linee guida, però, non vengono riviste da vent’anni ma intanto l’Icnirp ha criticato gli altri studi scientifici (come quello del National Toxological Plan americano e dell’Istituto Ramazzini, a Bologna) che provano il nesso tra radiazioni da onde elettromagnetiche e rari tumori al cervello e al cuore. “L’Icnirp nomina da solo i suoi membri, ha forti legami con l’industria. Ma sappiamo che sceglie membri che hanno già escluso i rischi delle radio frequenze per la salute umana”, dice Lennart Hardell, studioso svedese, tra i firmatari di un comitato, il Bio-Initiative, che avverte sul rischio di alterazione del Dna da onde elettromagnetiche. Sulla stessa linea, il biologo molecolare polacco Dariusz Leszczynski: “È un club privato. Approva limiti che vanno bene all’industria senza uccidere: una via di mezzo che piace a politici e industria”.
Comitati.Investigate-Europe ha incrociato i nomi dei rappresentanti dei comitati che esprimono posizioni sulle radiofrequenze, a livello europeo e internazionale: l’Icnirp, lo Scenihr (Commissione Ue), il comitato Oms sui Cem e la Iarc (agenzia Oms sui tumori). I risultati sono sorprendenti: dei 13 membri dell’Icnirp, 6 partecipano ad altre organizzazioni. Nell’Oms, la percentuale sale all’86%, 6 su 7. Quattro di questi sei esperti sono presenti in almeno altri due organismi di regolamentazione. La ricercatrice svedese Maria Feychting e il britannico Zenon Sienkiewicz siedono in quattro diverse commissioni. Il presidente dell’Icnirp, Eric van Rongen, quello del Ce-Scenihr, Emilie van Deventer, e il ricercatore Martin Röösli sono rappresentanti in tre diversi organismi. Cosa vuol dire? “Che c’è un monopolio dell’opinione – dice il ricercatore norvegese, ex impiegato del colosso della telefonia Telenor, Einar Flydal – riducendo le possibilità di apertura a diverse prospettive scientifiche”. Inoltre, il capo della Iarc, Joachim Schüz, che ha collegamenti con 13 tra comitati e associazioni di settore, ha partecipato agli studi di Interphone, Cosmos e Mthr, finanziati dall’industria, ed è consulente scientifico di Wbf, l’Austrian Telecommunications Association. Il greco Theodoris Samaras, membro per tre volte del comitato scientifico della Commissione Ue, non nasconde il suo legame con l’industria: Vodafone ha sviluppato nel suo laboratorio il programma Netpolis, per far familiarizzare i bambini con gli smartphone.
Il biologo Angelo Levis, professore in pensione di mutagenesi ambientale all’Università di Padova, da anni raccoglie dati sui conflitti d’interessi in questo campo: “Già Lorenzo Tomatis, fondatore e presidente Iarc dal 1969 al 1993, constatò un aumento della presenza della lobby industriale dal 30% negli anni 90, a oltre il 60% nei venti successivi”. Nel suo saggio L’ombra del dubbio (Sironi, 2008) scrisse: “Come è noto negli ambienti scientifici, il modo migliore per impedire, o almeno ritardare, una decisione in tema di salute pubblica è elevare il rumore di fondo con la pubblicazione di risultati contrastanti e contraddittori, in modo da iniettare dubbi sulla validità di dati scomodamente positivi”. Oggi presidente dell’Associazione per la Lotta e la Prevenzione dell’Elettrosmog (A.p.p.l.e.), Levis spiega come “sia fondamentale raccogliere il massimo di prove sui conflitti d’interessi. I giudici devono avere un quadro chiaro”. La Cassazione ha scritto, in una sentenza sull’amianto nel 2010, che “per il giudice l’identità, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, gli scopi per cui si muove, sono di importanza preminente”.
A fine 2017, l’Associazione australiana per le radio frequenze ha analizzato la letteratura pubblicata finora (come ripreso da Lancet a dicembre). Le conclusioni non lasciano dubbi: “Il 62% della ricerca finanziata dall’industria non ha provato effetti sulla salute umana, mentre lo ha fatto il 77% della ricerca finanziata da istituzioni pubbliche e oltre il 60% di quella finanziata dai governi”.