È iniziato con una polemica il tour di Emmanuel Macron tra i comuni francesi per il dibattito nazionale dopo la crisi dei Gilet gialli. Il presidente francese infatti, durante il suo intervento a sorpresa al consiglio comunale di Gasny, nel dipartimento di Eure, ha spiegato che “le persone in situazione di difficoltà vanno maggiormente responsabilizzate perché ce ne sono alcune che fanno bene e altre che fanno cazzate” e ha sottolineato che devono essere “tutti attori” nel tentare di dare una svolta alla loro situazione, e vanno “considerati, responsabilizzati, aiutati a trovare una via d’uscita”. Parole che hanno suscitato indignate reazioni bipartisan. “Il presidente non ha capito niente. Il suo modo di stigmatizzare i più deboli è insopportabile”, lo ha attaccato il segretario socialista Olivier Faure. “Il 2019 inizia come si era concluso il 2018. Si aprono i dibattiti, ma sempre con lo stesso disprezzo per i francesi”, ha twittato Valérie Boyer (Les Républicains), mentre il deputato della France Insoumise, Ugo Bernalicis, ha invitato il presidente a starsene zitto.
Carabinieri scambiati per israeliani circondati da Hamas nella sede Onu
Una seria crisi diplomatica è in corso a Gaza e coinvolge l’Italia. Da lunedì pomeriggio tre carabinieri in forza al Consolato Generale di Gerusalemme sono bloccati in un compound dell’Onu nella Striscia di Gaza. L’impianto, uno dei numerosi che le Nazioni Unite gestiscono nella Striscia, è in stato d’assedio. Voci circolavano a Gaza già da ieri mattina, c’era stata un a sparatoria che aveva coinvolto italiani e forse la sicurezza di Hamas. Solo nella serata di ieri qualche ammissione e poi la conferma del ministero degli Esteri e della Difesa, dopo che la Radio Militare israeliana aveva dato la notizia: gli uomini di Hamas avrebbero cercato di bloccare l’auto diplomatica italiana nella convinzione che a bordo ci fossero invece che carabinieri “uomini delle forze speciali israeliane sotto mentite spoglie”. Un commando di Tel Aviv che si era infiltrato a Gaza per qualche missione sotto copertura.
Sulla vicenda grava ancora una seria nebbia, ma a quanto risulta dopo aver controllato diverse fonti nella Striscia, nel primo pomeriggio di lunedì un Suv blindato con targa del Corpo Consolare Italiano sta percorrendo alcune strade di Gaza City, nella sua periferia meridionale. A bordo ci sono tre carabinieri in forza alla scorta del Console Generale Fabio Sokolowicz in ricognizione per una possibile futura visita di qualche membro del personale diplomatico. Il fuoristrada ha attirato i sospetti di una delle tante auto “civetta” di Hamas che dragano le strade della città. Nonostante per convenzione le auto diplomatiche – anche nella Striscia – godono di immunità e non possono essere fermate, l’auto con gli uomini della sicurezza di Hamas ha cercato di bloccare il mezzo con i nostri carabinieri a bordo. Il Suv italiano ha però aggirato lo sbarramento ed è ripartito a forte velocità verso il centro città con l’auto della Security di Hamas all’inseguimento.
È a questo punto che contro l’auto italiana – per fortuna blindata – sono stati esplosi numerosi colpi di arma di fuoco. Ne è nato un inseguimento a folle andatura per le viuzze di Gaza City che si è concluso quando l’auto con i tre carabinieri a bordo è riuscita a varcare i cancelli di entrata di un compound con le bandiere azzurre dell’Onu. E da lunedì sera la Security di Hamas ha messo sotto assedio tutto il complesso. Con i nostri carabinieri dentro. Per tutta la giornata diplomatici sul posto, Farnesina e Comando Generale dell’Arma hanno mantenuto uno stretto riserbo sull’accaduto mentre si metteva in campo una strategia per disinnescare questa crisi. Fonti della Farnesina hanno fatto sapere che è priva di ogni fondamento la notizia secondo la quale l’ambasciatore italiano a Tel Aviv avrebbe incontrato il capo di Hamas per cercare di risolvere la questione e permettere ai militari italiani di rientrare a Gerusalemme. “Non c’è stata nessuna trattativa”, ribadiscono alcune fonti investigative.
Per il governo italiano Hamas è un’organizzazione terrorista e non ci sono contatti dal 2007, quando la decisione venne presa a livello europeo.
Compito difficile quindi quello italiano che è dovuto passare attraverso le Nazioni Unite presenti sul posto. Fino all’ufficio del rappresentante speciale per la regione del segretario generale dell’Onu Nikolay Mladenov.
Stando alle, scarne, dichiarazioni si tratta di un evidente malinteso che poteva finire però nel sangue. Secondo il sito “Arabi21” Hamas “vorrebbe solo accertare la vera identità dei tre uomini”, che non siano israeliani sotto copertura.
Nella giornata di oggi si spera che il “malinteso” possa essere definitivamente chiarito intanto, però, il Consolato Generale ha sollecitato tutti gli italiani di Ong e Cooperazione ha lasciare quanto prima la Striscia.
Brexit, Parlamento boccia May Corbyn vuole il colpo di grazia
Sono stati 432 Nay contro 202 Aye. Il verdetto del Parlamento britannico sull’accordo di recesso raggiunto da Theresa May con l’Unione europea è nettissimo: bocciato con una maggioranza di 230 voti. Il peggiore precedente storico, nel 1924, era di 166 no.
Una sconfitta bruciante, definitiva, così pesante da sembrare inappellabile. Tanto che un minuto dopo l’annuncio ufficiale, Theresa May dichiara: “Questo voto dimostra che il Parlamento non vuole questo accordo, ma non ci dà indicazioni su cosa vuole”. Provata, tesissima, si alza in piedi nel centro dell’aula, sfida il dissenso e cerca di stanare il Labour di Jeremy Corbyn invitandolo a presentare immediatamente una mozione di sfiducia da mettere al voto oggi. Corbyn raccoglie la sfida e annuncia la mozione. La giornata più lunga di Theresa May non finisce mai, ma il suo tono di sfida tradisce la fiducia che per il suo esecutivo non sia ancora finita. Confida nel fatto che i parlamentari Tories che l’hanno “tradita”, più di un terzo, votando contro il suo piano non arriveranno a far cadere il loro governo. Non lo faranno di certo gli unionisti irlandesi, che hanno subordinato il loro sostegno alla bocciatura del deal. In sintesi, la May potrebbe essere tenuta al potere dai 10 parlamentari alleati che hanno sabotato ogni passo del suo negoziato.
Se dovesse sopravvivere al voto di fiducia, May avvierà immediatamente consultazioni bipartisan con tutti i partiti e presenterà all’Unione europea “qualsiasi idea che emerga da questi colloqui”.
“In office but not in power” è il commento a caldo di molti analisti, anch’essi sorpresi dalla gravità della sconfitta. A meno di 80 giorni dal 29 marzo, data ufficiale di uscita dall’Unione Europea, il Regno Unito è nel caos, e il caos prende le forme della paralisi.
Nel suo ultimo appello prima dello storico voto plenario, Theresa May aveva cercato di compattare tutti parlamentari dietro il suo accordo, ricordando la profonda responsabilità del momento, rivolgendosi agli spettatori a casa, e ricordando che l’esito di questo voto “è il momento per tutti noi in questa Camera di prendere una decisione che definirà il nostro Paese per i decenni a venire, determinerà il futuro dei nostri figli e nipoti, una decisione che ognuno di noi dovrà giustificar”. Un tentativo di contenere la portata di una sconfitta che si annunciava pesante, ma non fino a questo punto.
L’accordo su cui il governo e il paese hanno investito due anni di negoziato è politicamente morto, e l’alternativa di default è un no deal che la maggioranza dei Parlamentari non vuole ma che non sa come scongiurare. La strada accennata a caldo da Theresa May per evitare un salto nel vuoto è tutta da costruire. Due dati politici appaiono evidenti: il primo è l’impraticabilità politica di “aggiustare l’accordo” attendo dall’Unione Europea concessioni meno che sostanziali. Il secondo che, per provare ad uscire dall’impasse, la richiesta all’Ue di più tempo, cioè di una estensione dell’art 50 del Trattato di Lisbona, è ora inevitabile.
Molto improbabile che il primo ministro sia in grado di rispettare l’obbligo, imposto la scorsa settimana da un emendamento bipartisan, di presentare un piano B entro tre giorni, lunedì prossimo.
Intanto fuori, fra Parliament Square e Westminster Abbey, corteggiata dai giornalisti di tutto il mondo, una rappresentanza del paese reale, sempre più folta, rumorosa e agitata con il passare delle ore. Le due tribù che interpretano i poli opposti, ormai incompatibili, di una società lacerata da Brexit: i Leavers, di destra e di sinistra, spaventati da un’Europa vista come rapace e sempre più invadente, certi della necessità di recuperare una sovranità che accusano i politici di aver venduta, compatti nel liquidare come propaganda le molte, reiterate, autorevoli previsioni di catastrofe economica. E poi i Remainers, più organizzati, tutti ammantati della bandiera europea, spilline e adesivi Bollocks to Brexit (Fanculo a Brexit) e la convinzione che sia tutto un assurdo incubo: “Brexit è un’idea così stupida, così xenofoba. Chiediamo un altro voto, ora che le conseguenze del primo sono finalmente chiare” commenta Rachel.
L’unica cosa che li unisce tutti, indistintamente, è la feroce opposizione al deal.
“Con rammarico prendo nota del risultato del voto” ma “da parte Ue il processo di ratifica dell’accordo di recesso prosegue” fa sapere il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. “Il rischio di un’uscita disordinata è aumentata con il voto. Mentre non vogliamo che accada, la Commissione proseguirà il suo lavoro per assicurare che l’Ue sia pienamente preparata. Chiedo al Regno Unito di chiarire le sue intenzioni il prima possibile”.
Traffico illecito di rifiuti: 15 arresti e 57 indagati
C’è chi rovistava nei cassonetti e chi vendeva i rifiuti recuperati. È di 3 mila tonnellate di rifiuti metallici e un profitto di 500 mila euro il traffico illecito scoperto dai carabinieri che ha portato a 15 arresti per un totale di 57 indagati. I pm della Dda e del gruppo Ambiente della Capitale contestano, a vario titolo, il traffico illecito di rifiuti, associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, ricettazione di veicoli e truffa in danno delle assicurazioni, simulazione di reato, favoreggiamento personale. Sequestrati 25 tir e un impianto di autodemolizione. L’indagine prende il via da una serie di controlli finalizzati al contrasto dei “roghi tossici” nei campi rom di via Salviati e La Barbuta e legati alla gestione illecita di rifiuti operata in concorso con i titolari delle aziende di recupero, che acquistavano solo le componenti di valore come rame, bronzo e ottone. S’indaga anche per truffa: alcuni veicoli venivano portati in un autodemolitore che rivendeva i pezzi prima della denuncia di furto dei proprietari, truffando le assicurazioni. La sindaca Virginia Raggi ringrazia “le forze dell’ordine e magistratura per l’operazione” rivelando di avere negato autorizzazione a due autodemolitori coinvolti nell’inchiesta.
Emergenza freddo e non solo: quinto clochard morto da inizio anno, già dieci da novembre
Gli ultimi due clochard morti a Roma sono stati ritrovati rispettivamente lunedì a piazza Irnerio e martedì al Parco della Resistenza. Fanno parte di un lungo elenco che, a partire da novembre scorso, negli ultimi due mesi e mezzo conta già dieci decessi di persone senza fissa dimora nella Capitale. Freddo, malori, roghi e incidenti stradali le cause delle morti accertate finora.
Le loro storie di ordinaria sopravvivenza con pochissime risorse hanno spesso commosso i residenti dei quartieri dove erano soliti stazionare. Il primo caso di questa scia di decessi risale a l 29 novembre, quando un’uomo è stato trovato morto in viale dello Scalo di San Lorenzo, disteso accanto alla saracinesca di un negozio chiuso. Nessun segno di violenza, vicino i resti di un pasto frugale e di un cartone di vino. Il 30 dicembre è toccato a Davide, “clochard colto” di 53 anni, belga, amante dei libri e di Kerouac, conosciuto e rispettato nel quartiere Marconi. Il 7 gennaio invece un’auto pirata ha travolto su Corso d’Italia, vicino al centro, Gino Murari, detto Nereo o “il veronese”, un senza fissa dimora molto conosciuto nella zona di piazza Fiume: viveva con l’inseparabile cagnolina Lilla su un pezzo di marciapiede “arredato” con un vasetto di basilico e una pila di volumi.
La Caritas diocesana di Roma denuncia che il numero dei clochard in città è in aumento, così come il fenomeno del “barbonismo domestico”, ovvero l’isolamento e l’abbandono della cura di sé vissuto dentro il proprio appartamento. Mentre la Croce Rossa romana sottolinea che “è urgente trovare soluzioni, a partire da quella che la nostra città si doti di altre strutture di ricovero permanenti”. Il Campidoglio da parte sua ricorda che il piano freddo, operativo dal 10 dicembre fino al 10 aprile, mette a disposizione ogni giorno 1.661 posti letto – oltre 1.400 pasti nelle apposite mense e 600 a domicilio – tra strutture di accoglienza, stazioni della metropolitana e ferroviarie.
Racket, ottavo ordigno in poche settimane: “Ministro Salvini, qui non pensa di dover venire?”
E ora ad Afragolamolti si chiedono dove sia Matteo Salvini e perché non viene anche qui a indossare il giubbino della polizia. A dire che lo Stato c’è e vincerà di fronte all’escalation di terrore di queste ultime settimane: con quella piazzata alle 23.30 circa di lunedì scorso davanti alla concessionaria Tremante Auto, sono salite a otto le bombe di camorra e di racket fatte esplodere nelle ultimissime settimane a cavallo delle feste natalizie, come raccontato nei giorni scorsi da Il Fatto. Stavolta la deflagrazione è stata potentissima: è stata sentita anche nei comuni limitrofi e ha divelto la saracinesca. Nei giorni scorsi, polizia e carabinieri hanno perlustrato palmo a palmo il quartiere delle Salicelle, dove si anniderebbero i capi clan emergenti che starebbero dietro al proliferare di attentati. Sequestri di armi e droga e alcuni arresti nel corso di tre blitz succedutesi in pochi giorni. L’ultimo si era concluso lunedì sera. Tre ore prima dell’ultimo ordigno. Che secondo fonti investigative, per la natura dell’attentato e il contesto in cui è avvenuto, non sarebbe collegabile ai precedenti episodi di chiara matrice estorsiva.
Da paladini anticlan al concorso esterno: la parabola discendente degli imprenditori “modello”
Da testimonial dell‘antimafia, con tanto di Fondazione che assegna borse di studio a giovani svantaggiati, all’arresto per concorso esterno in associazione camorristica. È la parabola di tre imprenditori di Casapesenna (Caserta), ovvero Armando Diana e i nipoti Antonio e Nicola Diana, questi ultimi figli di Mario, ritenuto vittima innocente 30 anni fa di un agguato di camorra. I Diana sono originari dello stesso paese di Michele Zagaria, e secondo le indagini coordinate dalla Dda di Napoli e condotte dalla Mobile di Caserta avrebbero stretto con il boss del clan dei Casalesi un patto criminale per godere di protezione e tranquillità. Fino a raggiungere il successo con la Erreplast, specializzata nel riciclaggio della plastica, leader di un gruppo con 170 dipendenti e ramificazioni sino a Napoli e Milano. Nel racconto dei pentiti, tra cui l’altro superboss Antonio Iovine, Zagaria avrebbe “protetto” i Diana (“erano intoccabili”, dicono i collaboratori di giustizia Misso e Lucariello), mentre loro gli cambiavano assegni e gli donavano denaro, “30.000 annui a Natale”, dice Iovine. Soldi che Nicola Diana ammette di aver pagato, fino al 2009, ma come vittima di una estorsione, e senza denunciare.
Iovine ha parlato dei Diana sin dal suo primo interrogatorio, nel luglio 2014: “Mario Diana era uno degli imprenditori che avevano un rapporto privilegiato con il clan Bardellino e Armando Diana aveva buoni rapporti con il clan, anche se a volte da vittima, con Vincenzo e Michele Zagaria”. Secondo Iovine, i Diana erano soprannominati ‘i Repezzati’ “per le loro difficoltà economiche del tempo in cui lavoravano come dipendenti di mio padre Oreste”, poi “la situazione è completamente cambiata”. Parallelamente alle fortune imprenditoriali, i Diana hanno costruito nel tempo con la Fondazione ‘Mario Diana’ un costante impegno sul fronte della legalità. Nel 2010 Legambiente ha nominato Antonio Diana ambientalista dell’anno e nella loro azienda è stato assunto Massimiliano Noviello, figlio di Domenico, ucciso nel 2008 dall’ala stragista del clan di Setola perché aveva fatto arrestare i suoi estorsori.
“Ho sentito la ragazza gridare. ‘No, cosa stai facendo?’”
“Un rapporto sessuale con violenza, senza il consenso, approfittando di una situazione psicofisica di inferiorità ma soprattutto a fronte del dissenso ben espresso dalla ragazza”. Per questo lo scorso 11 ottobre l’ex appuntato dei carabinieri, Marco Camuffo, è stato condannato in abbreviato dal Tribunale di Firenze a 4 anni e 8 mesi per aver violentato una studentessa americana di 21 anni. L’episodio, che aveva fatto il giro del mondo, risale alla notte tra il 6 e il 7 settembre 2017: quella sera i due carabinieri in servizio Camuffo e il collega Pietro Costa, erano stati mandati alla discoteca Flò di Piazzale Michelangelo per sedare una lite notturna e proprio all’uscita del locale avevano intercettato due ragazze americane di 19 e 22 anni, studentesse per un breve periodo a Firenze.
Quindi avevano offerto loro un passaggio sulla gazzella per tornare a casa in Borgo Santissimi Apostoli e, una volta entrate nello stabile, i due carabinieri in divisa le avrebbero violentate rispettivamente nel pianerottolo e nell’ascensore. Dopo la denuncia delle due studentesse lo scorso 13 maggio i due erano stati destituiti dall’Arma dei carabinieri. Camuffo ha poi deciso di optare per il rito abbreviato mentre il collega Costa ha scelto il processo ordinario: prima udienza il prossimo 10 maggio. Per questo a ottobre è arrivata la sentenza nei confronti del primo: “Il rapporto sessuale c’è stato ed è stato ‘contro’ la volontà della donna” scrive il gup Fabio Frangini nelle motivazioni della sentenza. Poi il giudice smonta pezzo per pezzo la difesa dell’ex carabiniere, secondo cui i due uomini in divisa non si erano accorti che le ragazze avessero bevuto (secondo le analisi in ospedale avevano un tasso alcolemico di 1.59 e 1.68): “Sostenere – continua il gup – come hanno fatto Camuffo e Costa, che non si sono accorti che avessero bevuto è un falso, tanto evidente quanto ingenuo. Non vi possono essere dubbi sul fatto che le ragazze avessero bevuto e parecchio”. Ma non per questo, scrive il giudice, “le stesse devono essere colpevolizzate” o il loro racconto “può definirsi inattendibile”. Poi, continua: “Nel momento in cui i due militari fanno salire le ragazze a bordo della vettura, non solo sono consapevoli del loro stato, ma verosimilmente già immaginavano come condurre i momenti successivi”. Di fronte ai pm fiorentini, Camuffo aveva anche provato a difendersi raccontando che, una volta entrati nell’androne di casa, capì “che si era realizzata un’occasione di sesso” e che a quel punto i due si erano “comportati da maschietti”. Ma anche questa versione dei fatti viene puntualmente smentita, stavolta dalla testimonianza fornita ai pm dal collega carabiniere: “Costa fa dichiarazioni che inchiodano Camuffo dicendo di aver sentito i ‘no.. no’, ‘no.. cosa fai’ della ragazza” conclude il gup nelle motivazioni della sentenza. Oltre alla sentenza di ottobre, il 6 novembre scorso i due ex carabinieri erano stati condannati a sei mesi di reclusione dal Tribunale militare di Roma per il reato di “violata consegna”: avevano usato impropriamente l’auto di servizio per riaccompagnare a casa le due studentesse.
Coni, oggi l’incontro Malagò-governo agli Stati generali
Una giornata di lavori, riflessioni (forse anche qualche polemica). Per fare il punto sul movimento italiano ma soprattutto sulla riforma governativa, che punta a togliere soldi e potere al Comitato olimpico in favore della nuova società “Sport e salute” controllata da Palazzo Chigi. Si terranno oggi al Coni gli Stati generali dello sport: Giovanni Malagò ha convocato a Roma tutti i principali dirigenti sportivi per capire come affrontare la rivoluzione in arrivo. Si comincia alle 10 di mattina nel salone d’onore di Palazzo H e in agenda ci sono dieci tavole rotonde su ogni aspetto del complicato mondo dello sport, dalle Olimpiadi alle Federazioni, passando per atleti e discipline associate: “Coni: futuro segnato e/o futuro sognato?”, il titolo dell’evento, che già dice molto. Al Foro Italico, però, ci sarà anche il governo: confermata la presenza del sottosegretario Giancarlo Giorgetti e del Cinquestelle Simone Valente. E chissà che proprio dalla giornata di oggi non possa arrivare qualche indicazione su cosa succederà nei prossimi mesi.
Caro prof, renderemo trasparenti i concorsi
Carissimo professor Gruner, ho seguito con attenzione la vicenda che l’ha vista parte in causa, e ho letto con interesse la Sua lettera, che della vicenda riassume i passi salienti.
Come certo saprà, da quando ho ricevuto l’incarico di sottosegretario e poi di viceministro con delega all’Università, mi sono impegnato affinché si facessero ulteriori passi in avanti per garantire trasparenza e meritocrazia nel reclutamento e nell’attività di ricerca.
Voglio approfittare della richiesta che mi porge per chiarire una cosa che dovrebbe essere chiara a tutti una volta per tutte, e che dopo alcuni mesi di lavoro al Ministero, per me è vieppiù evidente: il mondo dell’università in questo paese è eccellente, ed è in larga parte animato da persone di altissimo valore, che lavorano duramente e onestamente, ovviando con la passione, la fatica e la creatività alle carenze strutturali ed economiche cui sono stati costretti negli ultimi venti anni. Mi preme sottolineare questo fatto essenziale, perché non voglio che qualcuno pensi (o strumentalmente interpreti) che interessarsi a vicende come quella che ha vissuto Lei significhi giudicare negativamente l’intero sistema universitario. Anzi, per me significa il contrario: salvaguardarlo e rafforzarlo.
Fatta questa doverosa premessa, Le dico subito che non ho nulla da aggiungere dal punto di vista legale ed amministrativo alla sentenza che l’ha vista avere ragione, e che lei espone con chiarezza nei dettagli e nelle possibili implicazioni. Credo nello stato di Diritto, e Lei mi insegna da amministrativista che una sentenza definitiva non può che essere accolta, esprimendo fiducia nel lavoro dei magistrati preposti al giudizio. Dunque mi permetto di complimentarmi con il suo lavoro e la sua pervicacia nel rivendicare un diritto (quello di partecipare ad un concorso per professore associato avendone tutti i requisiti) che è due volte sacrosanto: in linea di principio generale (io sono convinto che quanti più ricercatori partecipino ad una selezione tanto più qualificato sarà il vincitore), ed in punto di diritto, dopo una sentenza che lo certifica senza lasciare spazio a dubbi. Credo altresì sia stato giusto per l’Ateneo di Tor Vergata difendersi, perché è un diritto democratico in qualunque controversia e non mi permetto di entrare nel merito né dell’esposizione delle Sue ragioni né di quelle dell’ateneo: ci hanno già pensato i giudici del Consiglio di Stato.
Come già detto pubblicamente in altre circostanze, ribadisco che ritengo invece deprecabile e incompatibile con la mia idea di gestione di un ateneo pubblico, l’atteggiamento tenuto nei suoi confronti dal Rettore, che emerge chiaramente dalle registrazioni che Lei ha prodotto e la stampa ripreso. L’autonomia del ricercatore e la certezza dei suoi diritti sono per me valori fondativi del mondo della ricerca, mondo nel quale le intimidazioni non possono avere diritto di cittadinanza (…).