I salva-Salvini

Non sappiamo se Matteo Salvini, dalle reazioni alla sua comica passerella aeroportuale in costume da poliziotto col collega Bonafede travestito da Bonafede, abbia capito di aver esagerato. E abbia temuto per un attimo di aver dilapidato, con quell’inutile carnevalata, una parte del consenso per un indubbio successo del governo come la cattura di Cesare Battisti dopo 37 anni di latitanza garantiti da ben 24 esecutivi che poco o nulla avevano fatto per assicurarlo alla giustizia. Ma, se così fosse, ieri dev’essersi un po’ rincuorato alla lettura di molti giornali che ce la mettono tutta per riportarlo dalla parte del torto a quella della ragione. Perché non si limitano a denunciare, com’è giusto, la gogna forcaiola e la bava alla bocca giallo-verde dinanzi a un atto dovuto –per quanto storico – che merita una soddisfazione più sobria e composta; né a rammentare che “marcisci in galera” può dirlo un cittadino comune, non un ministro che ha giurato sulla Costituzione e dunque sulla funzione (anche) rieducativa della pena (nessuno però obiettò nulla quando Salvini disse “marcisca in galera” di Filippo Morgante, boss della cosca Gallico di Palmi catturato il 21 ottobre). Ma si spingono a vittimizzare un pluriassassino impunito che dal 1982 si faceva beffe delle sue vittime innocenti, dei loro familiari superstiti, dello Stato e della Giustizia. E lo mettono sullo stesso piano di ministri che al massimo sparano cazzate, mai pallottole.

Lo fa su Repubblica Francesco Merlo, che scrive sempre lo stesso pezzo equiparando carnefici e vittime, censori e censurati, berlusconiani e antiberlusconiani, guardie e ladri per giochicchiare con paradossi barocchi che divertono solo lui: “Sono solidali di ghigno e di grugno, Cesare Battisti che si atteggia a vittima e Matteo Salvini che si atteggia a boia… Sembrano scritturati dallo stesso regista… Il delirio è lo stesso… i due sono compari… Battisti per 37 anni ha esibito la sua impunità come Salvini e Bonafede stanno ora esibendo la sua cattura… ridotta a parodia della guerra tra sceriffi e banditi”. Parafrasando un vecchio motto dell’ultrasinistra anni 70: né con lo Stato né con Battisti (perché lo Stato è rappresentato da chi non piace a Merlo). I due ministri sarebbero persino colpevoli di “ricoprirlo di insulti, con una valanga di aggettivi, delinquente, vigliacco… sino appunto a criminale comunista”, povera stella: come se non fosse davvero un delinquente vigliacco e comunista (dei Proletari armati per il comunismo e dei Nuclei comunisti per la guerriglia proletaria). Invece Merlo può insultare, dandogli del “mozzo”, un ragazzo dello staff di Salvini.

Cioè a Leonardo Foa, reo di aver filmato l’arrivo di Battisti e soprattutto di essere “figlio del neopresidente Rai” (mica come quelli renziani di prima che ingaggiavano Merlo alla modica cifra di 240 mila euro l’anno). Passando alla stampa umoristica, il Foglio del rag. Cerasa è listato a lutto perché l’odiato governo sovranista ne ha azzeccata una: “La differenza tra vendetta e giustizia”, “Gli sciacalli”, “Vergogna”, “L’infame in ceppi e il paese marcio”, “La storia tradita”, “Uno Stato feroce”. Poi la parola passa all’esperto del ramo, Adriano Sofri, 22 anni mal scontati per il delitto Calabresi (anche se lui a sparare ci mandava gli altri). “Essere umani, essere Cesare Battisti” è il titolo della sua articolessa aperta da uno straziante pensiero per “Fred Vargas, scienziata e scrittrice” francese che “si impegnò senza riserve nella difesa di Cesare Battisti, convinta che un pregiudizio politico pesasse in modo determinante sui suoi processi… Immaginate di essere Fred Vargas” (cosa che non augureremmo al nostro peggior nemico) “e di leggere le parole di Salvini”: “avrei provato orrore e spavento e mi sarei confermato nella mia diffidenza verso lo Stato italiano”. Cioè: oggi Salvini insulta Battisti, ergo i processi di 30-40 anni fa contro Battisti li istruì Salvini e i 4 ergastoli per altrettanti omicidi non glieli inflissero decine di giudici di primo grado, appello e Cassazione, ma sempre Salvini, appena nato e già travestito con la toga al posto della felpa e della giacca della polizia.
Il nostro irenico difensore dei diritti umani prova a “mettermi nei panni di un parente o un amico di una vittima del terrorismo”, poi però indossa quelli più consoni dell’omicida: infatti professa l’“obiezione di coscienza radicale alla galera”. E definisce Battisti “responsabile provato o colui che credono il responsabile provato” (non gli bastano nemmeno 4 condanne definitive in 12 gradi di giudizio). Invece i ministri sono già colpevoli: “hanno già oltrepassato la soglia stessa della legalità formale”, sentenzia il noto giureconsulto pregiudicato. Che poi si scaglia contro i pentiti come un Riina o un Dell’Utri qualunque: “Le condanne di Battisti, sostiene qualcuno, si fondano sulla sola, e interessata e contraddetta, parola dei ‘pentiti’”, mentre i putribondi “magistrati di grido” come Spataro “dichiarano a suo carico che Battisti ‘non si è mai pentito’”. E ha fatto benone, perché collaborare con la giustizia dicendo la verità e ammettendo le proprie colpe è “delazione”. Una bella lezione di civismo e senso dello Stato: chi fa la spia non è figlio di Maria. Piero Sansonetti, al solito, confonde il garantismo (durante i processi) con l’esecuzione delle sentenze definitive: Battisti non era ancora entrato in cella e lui già invocava “un’amnistia”. Poi ci sono i salva-Salvini preventivi, i firmaioli del celebre appello pro-Battisti: chi se ne vanta, chi se ne pente, chi firmò a sua insaputa. Menzione d’onore a Christian Raimo, nientemeno che assessore alla Cultura del III Municipio di Roma e nostro idolo assoluto. Lui si accontenta di poco: “abolire l’ergastolo e le galere”. E Salvini prega ogni giorno il dio Po che glielo conservi in salute.

Il Corriere della Sera è il più prestigioso e venduto quotidiano d’Italia perché – grazie ai suoi potenti mezzi e alla bravura di molti giornalisti – è in grado di “coprire” il maggior numero di notizie. Tranne una: lo scontro al calor bianco fra il suo vicedirettore Federico Fubini e il suo corrispondente da Bruxelles Ivo Caizzi. Il quale, due settimane fa, in una lettera al Comitato di redazione rimasta senza risposte, accusava Fubini di aver diffuso il 1° novembre una “notizia che non c’è” a tutta prima pagina: “Deficit, pronta la procedura Ue. La decisione attesa il 21 novembre”. Negli stessi giorni Caizzi, dall’osservatorio privilegiato di Bruxelles, tentava invano di far sapere ai lettori che le cose stavano all’opposto: Commissione, Ecofin ed Eurogruppo lavoravano a una mediazione con Roma per scongiurare la procedura. Con tanto di conferme dei presidenti di Eurogruppo ed Ecofin. Ma i suoi pezzi venivano confinati in trafiletti semi-invisibili o addirittura smentiti da Fubini, sempre uso scambiare i suoi sogni per la realtà e sempre teso a incitare gli euro-rottweiler a non rammollirsi in inutili mediazioni e a sistemare gli odiati giallo-verdi con pene esemplari. Poi i fatti si incaricarono di dare ragione a Caizzi e torto a Fubini: la procedura d’infrazione non partì mai e Conte e la Commissione, prima fermi sulle linee del Piave del 2,4 e dell’1,6% di deficit-Pil, si incontrarono a metà strada sul 2,04. Fubini, schiumante di rabbia, provò a negare l’evidenza, incitando le euro-pappemolli a una strenua, disperata resistenza ed esponendo il Corriere ad altre epiche figuracce: “Nessun passo verso un compromesso, nessun vero negoziato”, “L’Ue all’Italia: così non basta, altri 3 miliardi di risparmi. Resta il rischio della procedura d’infrazione sin da domani. Lo spettro dell’esercizio provvisorio”. Poi, stremato, dovette arrendersi alla triste realtà: il suo Paese non sarebbe stato punito, peccato.

Lo scontro al Corriere sulle fake news (non quelle di Putin e dei giallo-verdi, ma quelle del Corriere) è esploso sul web e su due quotidiani (Fatto e Verità), mentre il resto della libera stampa lo occultava. E originato un’interrogazione del M5S su un’ipotesi di Caizzi: che cioè “le ‘notizie’ con annuncio della procedura e smentita della trattativa Ue-Italia possano aver influito – magari marginalmente e inconsapevolmente – sui mercati: favorendo di fatto mega-speculatori”. Ora Fubini si supera con una lunga replica a Caizzi (senza mai nominare Caizzi né citare la lettera di Caizzi, altrimenti chi legge si e gli domanderebbe: “Ma di che minchia parla?”).

Segue a pagina 24

Il fuggiasco in cella a Oristano, il carcere che ospitò Carminati

Cesare Battistisconterà la sua pena in Sardegna, nel carcere “Salvatore Soro” di Oristano nella sezione As2, il circuito di massima sicurezza per terroristi. Per i primi sei mesi sarà in isolamento diurno. La sua destinazione doveva essere Rebibbia ma per “valutazioni legate alle condizioni particolari di sicurezza”, ha spiegato il Guardasigilli Alfonso Bonafede, si è deciso di trasferirlo sull’isola. Il “Soro” è un istituto dove l’85% dei 262 detenuti attuali è in regime di massima sicurezza. Battisti non è il primo detenuto “illustre” della casa circondariale di Oristano, dove è già passato il terrorista nero Massimo Carminati oltre a camorristi, mafiosi e ‘ndranghetisti come Vincenzo Sinagra, Alfonso Caruana (ritenuto il vice di Buscetta), Pietro Calvo che era il braccio destro di Provenzano e Francesco De Vita, vicino a Matteo Messina Denaro. All’ex terrorista dei Pac sarà applicato un ergastolo ostativo per la sua condanna definitiva per gli omicidi con finalità di terrorismo senza possibilità di accesso ai permessi, al lavoro esterno e liberazione anticipata. Se poi Battisti si pentisse, seguisse il percorso di rieducazione e decidesse di collaborare, potrebbe accedere ai benefici carcerari.

Il Capitano organizza la cena con Bolsonaro, Picchi vede Bannon

Per dirla con una semplificazione, l’internazionale sovranista è in movimento. Matteo Salvini, dopo la cattura di Cesare Battisti, sta lavorando per una cena con Jair Bolsonaro. Il presidente del Brasile è più che favorevole. Tanto è vero che la cosa dovrebbe avvenire a breve: il presidente del Brasile sarà al Forum di Davos in Svizzera (22-25 gennaio) e andando dovrebbe fare probabilmente tappa in Italia per cenare con il ministro dell’Interno.

Un’altra cena abbastanza importante è quella che si è svolta ieri sera a New York. Presenti Steve Bannon e il “ministro degli Esteri” di Salvini, Guglielmo Picchi, in missione personale (ovvero non per conto della Farnesina) negli States, dove giovedì Salvini incontrerà Donald Trump. Alla cena di Picchi e Bannon, c’erano anche alcuni miliardari americani, pronti a finanziare il progetto dell’ex guru del presidente Usa in Europa, per le prossime elezioni dell’Ue. Per Picchi sono previsti oggi una serie di incontri, sia con istituzioni americane, sia con organizzazioni private.

Aperta l’indagine sulle coperture: punta ai bonifici e a chi lo ospitava

La Procura di Milano ha aperto un fascicolo e attende un’informativa della Digos sui soggetti che dall’Italia, o anche in Brasile e poi in Bolivia, potrebbero aver favorito la latitanza di Cesare Battisti. Per il momento è solo un fascicolo conoscitivo, cioè senza ipotesi di reato e senza indagati. Nel corso delle indagini la polizia ha individuato diverse persone che erano in contatto con l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo, ora dovranno segnalare chi gli avrebbe consentito di far perdere le sue tracce prima in Brasile e poi in Bolivia, dove è arrivato il 16 novembre scorso, un mese dopo l’annuncio che il nuovo presidente d’estrema destra Jair Bolsonaro l’avrebbe estradato. Da allora ha vissuto in un piccolo hotel di Santa Cruz de la Sierra, il Cason Azul. Gli investigatori italiani l’hanno scoperto il 13 dicembre ma Battisti se n’era andato il 5. Non è chiaro chi l’abbia ospitato da allora, non aveva chiavi addosso, non ha voluto rispondere alle domande rinunciando anche ad andare a recuperare i suoi effetti personali. Aveva però un telefonino che è stato sequestrato e da lì, dall’analisi dei suoi contatti, è ripartita l’indagine. L’obiettivo è individuare chi gli abbia fornito eventuali documenti di copertura o risorse attraverso bonifici.

Chi è “Ciso” Manenti, latitante da 40 anni in Francia, che il governo rivuole in Italia

Poco prima delle 19.30, due giovani armati e incappucciati entrano nell’ambulatorio del dottor Piersandro Gualteroni, 54 anni, forse con l’intenzione di rapire il medico, che esercita anche nel carcere locale. L’appuntato dei carabinieri Giuseppe Gurrieri (50 anni), che aspetta con il figlio il suo turno di visita, li affronta. Uno dei banditi uccide a colpi di pistola il carabiniere, subito dopo i due fuggono a bordo di una motoretta”.

Il primo take dell’agenzia Ansa è delle otto di sera del 13 marzo 1979. Bergamo è nel caos. La caccia è appena iniziata. La mattina dopo ancora l’Ansa aggiorna: “Un volantino dell’organizzazione terroristica Guerriglia proletaria rivendica l’omicidio”. I fatti si chiariscono con le ore: il vero obiettivo era Gualteroni che lavorava come medico nel carcere di via Gleno. Vista l’intrusione nello studio, Gurrieri non estrae la pistola ma tenta di disarmare uno dei due. Partono tre colpi, il carabiniere muore davanti agli occhi del piccolo Mauro, figlio di dieci anni. Il bambino aveva la tosse e così Gurrieri dopo aver finito il turno nella caserma di via Masone lo aveva portato dal dottore. A sparare fu Narciso Manenti detto Ciso, studente, come il suo compare Enea Guarinoni. Entrambi legati a Guerriglia proletaria, piccolo gruppo della galassia di Prima linea.

Saranno condannati entrambi, Guarinoni a poco più di 20 anni, Manenti all’ergastolo. Pena che “Ciso” non ha mai scontato perché dopo il delitto è subito scappato in Francia dove tutt’ora vive nel paesino di Châlette-Sur-Loing, regione del Centro-Valle della Loira. Qui di mestiere fa l’elettricista a domicilio.

Nel 1986, dopo la condanna all’ergastolo, fu fermato in Francia e poi rilasciato. Dopo l’arresto in Bolivia di Cesare Battisti, ora è lui il most wanted numero uno. O così appare a sentire i proclami della Lega. Poche ore dopo la notizia dell’arresto di Battisti, il deputato del Carroccio Daniele Belotti ha annunciato una mozione per chiedere l’estradizione di Manenti. Non una completa novità. Lo stesso Belotti nel 2009 già aveva chiesto di riportare in Italia il terrorista con una lettera al ministro della Giustizia Angelino Alfano e al capo del Viminale Roberto Maroni. Tra poche settimane saranno 40 anni da quel fatto drammatico, che il gruppo terroristico così rivendicò in un volantino dopo una telefonata anonima all’Eco di Bergamo: “Un nucleo di Guerriglia proletaria ha giustiziato nel corso di un’azione che era diretta contro il boia Gualteroni un appuntato dei carabinieri. Ciò non sarebbe successo se lo sbirro in questione, nel tentativo di bloccare l’azione, non avesse cercato di sparare contro i compagni mettendo a repentaglio la loro vita”.

Gurrieri non estrasse mai la pistola. All’epoca aveva da poco compiuto 50 anni. Originario di Monghidoro nel Bolognese, il carabiniere lo faceva da oltre vent’anni. Si arruolò negli anni Cinquanta e a Bergamo ci arrivò nel 1972. L’indagine sulla morte di Gurrieri andò veloce. Dopo un arresto per falsa testimonianza fu scoperto un covo in via Moroni. Subito dopo si arriva ad Enea Guarinoni all’epoca studente di Ingegneria. L’arresto scatena una contro-informazione che parla di giustizia sommaria. Manenenti è già all’estero. Voci tutte messe a tacere dopo la confessione di Guarinoni.

La moglie di Gurrieri, poi premiato con la medaglia d’argento al valor militare, non vorrà costituirsi parte civile. Negli anni spiegherà: “Sono solo morte tante persone care e gli assassini sono tornati in giro. Io non sono andata nemmeno al processo, ho preferito badare ai figli. Sono stata ferita più volte da chi diceva e non diceva, e nascondeva i fatti”. Suo figlio nel 2012 durante il ricordo per la morte del padre confiderà: “L’onestà è il valore principale che mi ha trasmesso e ha trasmesso a tutta la mia famiglia. Per me un valore che è rimasto come guida”.

Non è colpa di Matteo se la sinistra firmaiola gli ha lasciato la scena

Domenica sera, ospite di Non è l’Arena, Matteo Salvini imperversava, gonfio di soddisfatta protervia, senza sosta e senza limiti.

Suo, annunciava, l’esclusivo merito politico della cattura ed estradizione in Italia di Cesare Battisti. Suo il merito “tecnico”, come ministro degli Interni a capo della struttura di polizia che ha reso possibile la difficile operazione. Sua l’amicizia personale con il presidente brasiliano di destra-destra, Jair Bolsonaro, autore del “regalino” all’amico Matteo (come da tweet trionfante). Suo il successo della linea denominata “la pacchia è finita”, applicata all’immigrazione ed estendibile, da Battisti in poi, alla cinquantina di terroristi latitanti all’estero (“assassini comunisti, andiamo a beccarli uno per uno”).

Il tutto condito da espressioni di scherno verso Claudio Baglioni (“pensi a cantare”), colpevole di aver un’opinione diversa da quella del Ku Klux Klan sui disperati lasciati a marcire per settimane a bordo di una barca. In realtà, la gestione politica e l’esito positivo del caso Battisti si deve al governo tutto e dunque anche (e soprattutto) all’attività del premier Giuseppe Conte, del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e di quello degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. In realtà, i vertici dell’Aise, l’agenzia di sicurezza esterna protagonista tra Brasile e Bolivia delle indagini più sofisticate, riferiscono in prima battuta non al Viminale ma al presidente del Consiglio.

In realtà, merito del presidente Bolsonaro è di aver sbloccato la situazione ma il “regalino” si deve soprattutto al presidente boliviano, di sinistra, Evo Morales, che ce lo ha rispedito senza passare direttamente dal Brasile (la cui estradizione non prevede la pena dell’ergastolo). Ma Salvini tutto questo non l’ha detto perché nessuno glielo ha chiesto. Anche perché nella comunicazione politica ogni vuoto tende a essere riempito da chi è più svelto (e sveglio).

Non è colpa di Salvini se per 37 lunghissimi anni, Battisti è rimasto un ciarliero uccel di bosco. E se nessuno dei governi precedenti è riuscito a riportarlo in Italia. Non è colpa di Salvini se, grazie alle dottrine de sinistra di Mitterrand e di Lula, l’illustre scrittore condannato in via definitiva per quattro omicidi ha potuto beneficiare della gradita ospitalità di Francia e Brasile. Non è colpa di Salvini se, come ha dichiarato a Repubblica il magistrato Armando Spataro che quarant’anni fa catturò il terrorista del Pac, “rispetto alla Francia, vi è stata una passività incomprensibile, nel senso che non rammento proteste da qualsiasi governo”.

Lo stesso vale per Lula, verso il quale l’atteggiamento dei nostri governi “fu tiepido”. Tanto che, ricorda Spataro, “qualcuno sostenne che non dovevamo fare l’amichevole Italia-Brasile, ma non mi pare sia successo nulla, peraltro giocammo e perdemmo 2 a 0”.

Non è colpa di Salvini se la latitanza del pluriomicida fu sostenuta e celebrata (con qualche apprezzabile ripensamento) dall’intellettualità firmaiola di sinistra.

Non è colpa di Salvini se da quel mondo, impegnatissimo a spaccare il capello in otto quando si trattava di mettere in dubbio le accuse (convergenti) dei pentiti contro Battisti, invece non si udirono parole di rispetto per il dolore delle famiglie delle vittime e di solidarietà per la pena indicibile che quelle cartoline di impunità da spiagge assolate, per 37 anni, hanno provocato.

Non è colpa di Salvini (tantomeno di Bonafede) se ieri a Ciampino un ministro comunicava il senso di una giustizia arrivata finalmente al suo compimento.

Mentre voce, parole e linguaggio del corpo dell’altro ministro erano un rude messaggio alla nazione, dalla nazione assai apprezzato: “il clima è cambiato, chi sbaglia paga”. Oggi lo grida la destra perché ieri non fu capace di dirlo (e di farlo) la sinistra.

Non è colpa di Salvini se lui si è preso tutta la scena. Ma di chi gliel’ha lasciata.

Battisti: Conte e Bonafede marcano a uomo Salvini

Il tavolino a bordo pista colmo di microfoni è un manifesto elettorale. Ma anche la milionesima trincea, dove gli alleati per forza si marcano. Con i Cinque Stelle a tamponare il ministro dell’Interno che voleva andarsela a prendere in Brasile, la preda, e invece no. L’uno accanto all’altro, il ministro dell’Interno Matteo Salvini in maglione e giubbone della Polizia e il Guardasigilli Alfonso Bonafede in cappotto e completo scuro sono i volti molto diversi dello Stato che ieri mattina hanno atteso l’arrivo all’aeroporto di Ciampino dalla Bolivia di Cesare Battisti, l’ex terrorista. Mandato poche ore dopo nel carcere di massima sicurezza di Oristano, senza transitare per quello romano di Rebibbia. Perché si è cambiato all’ultimo per Battisti, apparso con una smorfia quasi di sfida tra una folla di agenti, osservato a distanza da Salvini e Bonafede.

Ministri e quindi (pure) duellanti, nella grammatica giallo-verde. Perché anche questo raccontano le interviste a pioggia del Guardasigilli, il numero due del Movimento, che tra domenica e lunedì ha marcato il territorio, a impedire che il leghista facesse della cattura del latitante un trofeo personale. E per evitarlo è stato decisivo il filo diplomatico di Giuseppe Conte con la Bolivia e il Brasile, per far rientrare subito in Italia Battisti senza passaggi intermedi nel paese di Bolsonaro, fresco sodale di Salvini nel nome del sovranismo mondiale. Il ministro dell’Interno però si mostra composto, quasi sereno. E dal Viminale “mostrano grande collaborazione su tutto”, notano i 5Stelle.

Ma poi Salvini ottiene, perché è sempre il vicepremier, quello che nei sondaggi viaggia sopra il 30 per cento. Così si guarda bene dal passare all’incontro di mezzogiorno e mezza con l’Anci a Palazzo Chigi sul suo decreto sicurezza. Lascia che siano Conte e la sottosegretaria a 5Stelle all’Economia Laura Castelli a promettere circolari interpretative del testo e soprattutto più soldi ai sindaci. Ma zero modifiche al decreto, o meglio “nessuna norma di rango primario”, come dirà poi in conferenza stampa il premier, con termini da professore che vogliono attutire l’evidente. Ossia che non si può toccare nulla, sennò sarebbe guerra con Salvini. E non la vuole, il M5S.

Per questo alle 14 di Battisti, decreto sicurezza e migranti in sala stampa si presentano a riferire in tre, il premier e i due ministri già visti in aeroporto. Ed principalmente è Conte a parlare, soprattutto di immigrazione, visto che in mattinata lui e Salvini, separamente, hanno incontrato il commissario alle migrazionidella Ue, Dimitris Avramopoulos. Usando toni e modi diversi. Ma la linea sull’immigrazione è una, giura il presidente del Consiglio: “Ad Avramopoulos abbiamo rappresentato quello che fa l’Italia, siamo stati lasciati soli e ora facciamo da soli, con una linea compatta che ci ha gratificato”. Però l’Europa ora deve ascoltare il governo, “perché se si continua a tergiversare senza una via condivisa rischiamo di fare cadere edificio europeo, e l’ho detto al commissario”. Salvini annuisce e rilancia: “Io ad Avramopoulos ho anche dato una lista di 670 persone ora in Italia da ricollocare nei vari Paesi, magari l’ho fatto in modo poco ministeriale…”. Conte coglie la fuga in avanti, e precisa subito che anche lui ha mostrato “una lista analoga” all’ospite. Ed è sempre marcatura incrociata, nonostante i sorrisi, i “Matteo” e i “Giuseppe”. Così premier e vice fanno intendere che per ospitare 15 delle 49 persone che erano sulle due navi al largo di Malta l’Italia si aspettano che la Ue ricollochi almeno parte dei migranti della lista. Giocando di sfumature.

Tranne quando Salvini risponde sul suo decreto: “Oggi i sindaci sono stati aiutati a capire alcuni passaggi, e se hanno capito bene meglio, repetita iuvant. Ringrazio il premier per la pazienza”. Invece di pazienza nel timbro del vicepremier ce n’è poca, e Conte abbassa gli occhi per un attimo. Ma si riparte, con il premier ad assicurare alla Ue che “l’Italia non è Alice nel Paese delle meraviglie”. Da fuori, una fonte di governo del M5S commenta: “Da qui a maggio tra noi sarà battaglia tutti i giorni, è il gioco. Ma la Lega non punta a elezioni a breve: piuttosto vuole il rimpasto dopo il voto”.

Il nodo prossimo venturo, che Conte nega davanti ai cronisti: “Non esiste”. Ma il Carroccio ha mirato due ministeri a 5Stelle, le Infrastrutture e la Salute. Anche se per pretenderli serviranno molti più voti dei coinquilini. L’ossessione di Salvini, che a conferenza finita si avvicina a Conte e scandisce: “Ottimo e abbondante”. E il premier abbozza l’ennesimo sorriso. Meccanico.

Scalzone: “Giornata terribile”. Persichetti: “Esibito come trofeo”

“ La prima impressione a caldo è il senso di angoscia rispetto al vedere un uomo, un essere umano preso, catturato, avviarsi verso quella che alcuni vorrebbero fosse la sua tomba anticipata”. Così Oreste Scalzone, già cofondatore di Potere operaio rifugiato a Parigi, oggi libero, ha commentato le immagini dello sbarco a Ciampino di Cesare Battisti, atteso dai ministri Alfredo Bonafede e Matteo Salvini. “È una giornata per certi versi terribile”, ha detto Scalzone all’Ansa. Toni simili usa Paolo Persichetti, ex brigatista delle Ucc, condannato per concorso morale nell’omicidio del generale Licio Giorgieri, riparato anche lui a Parigi ma estradato dalla Francia nel 2002: “C’è una costruzione del mostro, del personaggio – osserva Persichetti, sociologo –. La birra, il ghigno, il sorriso strafottente, la barba finta che finta non è… Lo hanno descritto come uno che si godeva la vita, la bella gente… Ma Battisti viveva in una soffitta e faceva il portiere. Lavorava in un sottoscala dove c’era un computerone su cui scriveva, però nell’immaginario era uno che viveva nei salotti francesi. Ha pensato di salvarsi con la scrittura ed è finito intrappolato nella figura dell’intellettuale da salotto”.

Casimirri, Pietrostefani e gli altri tra la Francia e l’America Latina

Sono oltre 50 i latitanti italiani ricercati nel mondo. Uno è rientrato in Italia, Cesare Battisti, gli altri aspettano che divenga realtà l’auspicio del presidente della Repubblica: “Siano assicurati alla giustizia italiana anche tutti gli altri latitanti fuggiti all’estero”. Almeno una trentina sono in Francia, gli altri sono fuggiti in mezzo mondo, Svizzera, Regno Unito, Nicaragua, Perù, Argentina, Cuba, Algeria, Libia, Angola.

Il più noto dei fuggitivi è Giorgio Pietrostefani. Tra i fondatori di Lotta continua insieme con Adriano Sofri, è stato condannato in via definitiva a 22 anni per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. È dal 2000 in Francia, protetto dalla cosiddetta “dottrina Mitterrand”, che offre asilo a una nutrita comunità di terroristi e ricercati italiani, nel presupposto che siano accusati ingiustamente e perseguitati dallo Stato. In realtà la giornalista francese Marcelle Padovani ebbe a puntualizzare che il presidente Mitterrand, da lei intervistato, aveva precisato che l’asilo politico in Francia poteva essere concesso ai latitanti italiani a tre condizioni: che non avessero commesso delitti di sangue, che la loro condanna non fosse definitiva e che si fossero impegnati a non commettere reati in Francia. Condizioni che per molti dei ricercati certo non ricorrono.

Tra i terroristi riparati in Francia ci sono Narciso Manenti, militante del gruppo Guerriglia proletaria, che nel 1979 a Bergamo uccise il carabiniere Giuseppe Gurrieri, e i brigatisti rossi Sergio Tornaghi, Enrico Villimburgo, Marina Petrella, Simonetta Giorgieri, Carla Vendetti, Roberta Cappelli. Per Petrella, coinvolta nel rapimento di Aldo Moro, l’estradizione è stata bloccata per motivi umanitari dal presidente Nicolas Sarkozy. Condannato all’ergastolo per il suo coinvolgimento del caso Moro e negli omicidi Bachelet, Minervini e Galvaligi, il br Villimburgo è in Francia dal 1982. Come Simonetta Giorgieri, detta “la primula rossa”, che faceva parte del Comitato rivoluzionario toscano. Tornaghi era un appartenente alla colonna milanese delle Br “Walter Alasia”, è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo.

Due militanti delle Brigate rosse condannati in via definitiva per il sequestro Moro, ma non più estradabili in Italia, sono Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Entrambi facevano parte del commando che il 16 marzo 1978 entrò in azione il via Fani uccidendo la scorta dell’ex presidente della Dc. Lojacono, che partecipò anche all’assassinio del giudice Tartaglione, è diventato cittadino svizzero, acquisendo il cognome della madre, Baragiola, cittadina elvetica. Casimirri, condannato in contumacia a sei ergastoli, è dal 1988 in Nicaragua, dove si è sposato acquisendo la cittadinanza di quel Paese. Ha aperto un ristorante a Managua.

È in Nicaragua anche Manlio Grillo, militante di Potere operaio condannato per il rogo di Primavalle in cui persero la vita Virgilio e Stefano Mattei, 22 e 8 anni, figli di Mario Mattei, segretario locale del Msi. Condannato a 18 anni, l’accusa è caduta in prescrizione. Vive a Managua, dove è conosciuto come Christian De Seta.

In Perù si è nascosto Oscar Tagliaferri, militante di Prima linea, ricercato per omicidio, associazione sovversiva, rapina, armi. In Argentina, a Buenos Aires, vive Leonardo Bertulazzi, militante delle Brigate rosse.

Franco Coda, uno dei fondatori di Prima linea, accusato di aver ucciso l’agente di polizia Fausto Dionisi, è scomparso nel nulla e su di lui c’è una dichiarazione di morte presunta. Richiesta (dal nipote che voleva intestarsi il suo appartamento milanese, ma finora respinta) anche per Maurizio Baldesseroni, fuggito in Sudamerica senza più dare notizie di sé.

Vive a Londra da oltre trent’anni Vittorio Spadavecchia, neofascista dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, e amico di Massimo Carminati che è andato a trovarlo in Inghilterra. È stato condannato a 15 anni nel 1989.

Ci sono poi gli “incondannabili”, che non possono essere toccati anche se vivono in Italia. È il caso del neonazista Franco Freda, che l’ultima sentenza su piazza Fontana indica come l’organizzatore della strage nera del 1969. Non può più essere più processato e condannato, perché è diventata definitiva la sua assoluzione nel primo processo sull’attentato, quando testimoni e prove furono sottratti ai magistrati da apparati dello Stato. Oggi vive ad Avellino e fa, come negli anni Sessanta, l’editore di ultradestra.

È venerato dai suoi camerati, che lo considerano un grande pensatore, padre “preveggente” del “razzismo morfologico” che deve contrastare la “mostruosità della società multietnica”.

 

 

Enrico Villimburgo Francia

Ex militante delle Brigate Rosse, è Oltralpe dal 1982. Condannato all’ergastolo nel processo Moro ter e per gli omicidi Bachelet, Minervini, Galvaligi

 

Alessio Casimirri Nicaragua

Ex brigatista, membro del commando di via Fani che sequestrò Aldo Moro e uccise gli uomini della sua scorta. Condannato in contumacia a 6 ergastoli, a Managua si è sposato e ha aperto un locale

 

Manlio Grillo Nicaragua

Ex militante di Potere Operaio, condannato a 18 anni per il rogo di Primavalle, nel quale morirono i fratelli Mattei. A Managua si fa chiamare Christian De Seta. L’accusa è caduta in prescrizione

 

Achille lollo Brasile

Potere Operaio, assieme a Grillo condannato per il rogo di Primavalle. Nel 1993, il Tribunale supremo federale in Brasile ha rigettato la richiesta di estradizione presentata dall’Italia

 

Giorgio Pietrostefani Francia

Tra i fondatori di Lotta continua, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Calabresi insieme ad Adriano Sofri, la pena andrà in prescrizione nel 2027. Vive a Parigi

 

Narciso Manenti Francia

Di Guerriglia proletaria, uccise a Bergamo nel ‘79 l’appuntato Giuseppe Gurrieri

 

Simonetta Giorgieri Francia

“Primula rossa”, del Comitato rivoluzionario toscano, un ergastolo per il delitto Moro

 

Carla Vendetti Francia

Irreperibile dal ‘94, condannata nel Moro-ter, si parla di lei per i delitti D’Antona e Biagi

 

Alvaro Lojacono Svizzera

Partecipò al commando di via Fani e all’uccisione del giudice Tartaglione

 

Marina Petrella Francia

Coinvolta nel rapimento Moro, l’estradizione venne bloccata da Sarkozy per motivi umanitari

 

Vittorio Spadavecchia Gran bretagna

Nar, a Londra dal 1982, assaltò con un gruppo di camerati la sede dell’Olp a Roma

 

Sergio Tornaghi Francia

Colonna milanese delle Br “Walter Alasia”, un ergastolo per l’omicidio di Francesco Di Cataldo

 

Roberta Cappelli Francia

Colonna romana delle Br, coinvolta nell’ uccisione del generale Calvaligi e nel sequestro Cirillo

 

Leonardo Bertulazzi Argentina

Militante delle Br, latitante per 22 anni, fu arrestato e rilasciato a Buenos Aires, dove oggi vive

 

Oscar tagliaferri Perù

Ex militante di Prima Linea, è ricercato per omicidio, rapina, associazione sovversiva