Mitterrand, Lévi, Vargas&C. Il tradimento degli intellò

È

dalla Francia che l’imbroglio è partito, e i pensatori mediatici locali vanno fieri del subbuglio provocato. Li ispira un superomismo middlebrow, un nietzschianismo deteriore e mal interpretato. Ma il caos che hanno in testa alimenta solo il caos esistente, l’attuale crisi della democrazia e una situazione internazionale sempre più tetra. Cesare Battisti, santificato da alcuni intellettuali francesi, è stato condannato all’ergastolo in Italia per quattro omicidi due dei quali eseguiti personalmente con colpi di pistola alla nuca. (…) Battisti fuggì in Francia clandestinamente approfittando della Doctrine Mitterrand che concede il diritto di asilo purché l’ospite non abbia commesso delitti di sangue. Dunque Battisti avrebbe dovuto essere subito arrestato e restituito all’Italia poiché di delitti di sangue ne aveva commessi ben quattro. Invece no, viene dichiarato “rifugiato politico”. La domanda fondamentale è: perché? La mia risposta coincide con quanto ha scritto il magistrato Bruno Tinti su Il Fatto Quotidiano dell’8 gennaio 2011: “Si entra nel campo delle ipotesi, ma potremmo definirle ipotetiche certezze perché alternative non ce ne sono: Battisti collabora con i servizi segreti francesi a cui vende tutto quello che sa sul terrorismo internazionale. Lo ammetterà anche lui raccontando di essere stato aiutato dai servizi francesi nella sua fuga in Brasile”.

I processi in contumacia a Battisti si sono svolti con le massime garanzie, perché l’Istituto giudiziario italiano, a differenza di quello francese, prevede che il fuggiasco sia comunque assistito da avvocati, beneficio di cui Battisti ha ampiamente goduto. Sottolineo che nel caso di terrorismo contro lo Stato, in Italia il reo è giudicato da un tribunale ordinario che emette una sentenza con motivazioni. In Francia, al contrario, in casi come questi opera un tribunale speciale, al chiuso, ed emette sentenze senza motivazioni.

Ma veniamo agli intellettuali. L’anziano “nouveau-philosophe” Bernard-Henry Lévy, che sul proprio blog ha messo l’immagine di Battisti accanto a quella diSakineh, dovrebbe riflettere sull’irresponsabilità di cui si fa carico, prima che in qualche altro luogo (in Corsica, per esempio), nasca un blog analogo con l’immagine della donna iraniana da lapidare accanto a quella di un terrorista in galera. Purtroppo B. H. Lévy ha delle convinzioni che si basano soprattutto sulle proprie convinzioni, e quando si lancia nella difesa di Battisti così esordisce: “Ignoro se Battisti abbia commesso o no i crimini che gli sono imputati” (Le Point, 19 febbraio 2009). Degli omicidi, a Lévy, non importa niente: gli interessa quello che lui pensa di Battisti. Ma non è il solo. Si tratta di una nuova dottrina dei nostri tempi: l’hanno già abbracciata Berlusconi in Italia, il ministro Hortefeux in Francia e, negli Stati Uniti, George Bush, quando Colin Powell anni fa all’Onu affermò che delle prove concrete degli osservatori dell’Onu sull’Iraq non gliene fregava assolutamente niente (…). Comunque non abbiamo bisogno dei paternalistici consigli di Lévy: che li venda alle anime semplici.

Questi intellettuali, nel riferirsi con arroganza alla magistratura italiana, ignorano il prezioso servizio che i magistrati hanno reso alla democrazia e alla Costituzione italiane [Non sanno che se il terrorismo (rosso e nero) non ha avuto derive autoritarie è grazie alla nostra magistratura]. Non sanno che la magistratura ha fatto arrestare in questi anni centinaia di mafiosi, di camorristi, di politici corrotti di tutti i partiti. E non sanno che molti di questi magistrati hanno pagato con la vita. Ed evidentemente non sanno che Berlusconi, fin dal suo arrivo al potere, ha definito la magistratura “un cancro da estirpare”. E dal suo punto di vista è davvero un pericolo, perché la magistratura in Italia è indipendente, non obbedisce al ministro della Giustizia come in Francia.

Alla mancanza di informazione della scrittrice di polizieschi Fred Vargas (…) aveva risposto come si deve il magistrato Armando Spataro su le Monde del 14 novembre 2004. Per informazione dei lettori francesi, Spataro è un magistrato al quale si devono inchieste giudiziarie delicatissime e importantissime: mafia, corruzione di politici, servizi italiani “deviati”, illecite operazioni della Cia sul territorio italiano durante la presidenza Bush (…).

Anche la signora Vargas ha le sue “convinzioni”, e non spetta a me convincerla, lei che si è recata in Brasile per svolgere la propria opera di convinzione. Inseguendo il suo eroe e criticando le leggi sui collaboratori di giustizia del sistema italiano, ha però dimenticato la pentita Frédérique Germain, detta Blond- blond, che nel 1988 fece condannare i terroristi francesi di Action Directe, che non ha mai scontato la sua pena perché aveva collaborato con la giustizia. Le ricordo che il gruppo terrorista fu condannato all’ergastolo e lo Stato francese, che avrebbe potuto mostrare maggiore indulgenza, aveva praticamente buttato via la chiave. Nathalie Ménigon, emiplegica dal 1996 per due attacchi celebrali, ha atteso fino al 2008 nella prigione di Bapaume per ottenere la semi-libertà; e Georges Cipriani, impazzito in prigione e portato nel 2001 nel manicomio di Sarreguemines, ha avuto la semi-libertà solo nel 2010. La legge Kouchner sui prigionieri vecchi e malati li ha presi in considerazione in ritardo e ne ha beneficiato in priorità l’ex prefetto collaborazionista Papon.

Un altro intellettuale molto disinvolto su questa faccenda è Philippe Sollers. Ecco alcune sue affermazioni: “Poiché la Francia si è pronunciata sul diritto di asilo non ci deve essere estradizione, il diritto di asilo non consiste nel giudicare nel merito (…). In Italia c’è stato anche un terrorismo di Stato molto importante in quegli anni: è stata una vera guerra civile e sociale”. E conclude rivolgendosi al giornalista che lo intervista: “Per noi è solo una questione di diritto. Se lei fosse francese capirebbe facilmente” (Repubblica, 5 marzo 2004). Possibile che Sollers, al quale sta tanto a cuore il Diritto, non si sia reso conto che in Francia esiste ancora una legge arcaica, censurata per l’ennesima volta dalla Commissione europea dei Diritti umani, come la Garde à vue (oltre 24 ore di detenzione in celle del commissariato senza diritto a un avvocato e con visita corporale a discrezione dei poliziotti)?

Quanto alle sue altre affermazioni, devo smentirlo. Certo ci fu anche un terrorismo di Stato, ed è quello che ancora non conosciamo, ma non ci fu nessuna guerra civile. E le Brigate Rosse, che alcuni intellettuali francesi vedono come eroi romantici, erano assassini che sparavano alle spalle a magistrati, giornalisti, intellettuali e poliziotti. Ma trovo soprattutto offensivo che altri, che non hanno vissuto quello che hanno vissuto gli italiani, chiedano così superficialmente che l’Italia metta una pietra sopra la nostra storia tragica ancora non chiara. Ci potrà essere un perdono giuridico, ma prima la verità storica deve venire alla luce: gli italiani sanno ancora troppo poco. Scrivo questo articolo in Francia, paese che amo molto e dove spesso vivo. Ma amo la Francia perché conosco bene la sua lingua, la sua letteratura, la sua Storia. Ma questi intellettuali conoscono l’Italia? E l’italiano, lo conoscono? Non è una domanda oziosa. Per leggere le carte dei processi di un tribunale italiano bisogna sapere bene l’italiano.

(© Le Monde)

Mezzo Csm lavora per Rustichelli a capo dell’Antitrust

Rustichelli ha una sponda al Csm. Diversi consiglieri vorrebbero trovare un appiglio per dare il via libera al fuori ruolo del nominato presidente dell’Antitrust che ha un problema: è un magistrato, prima del 2013 è stato fuori ruolo per 11 anni e 5 mesi e la legge Severino nonché la circolare Csm hanno stabilito che il tetto massimo è di 10 anni. La competente Terza commissione presieduta da Michele Ciambellini, togato di Unicost, la stessa corrente di Rustichelli, ieri ha cominciato a discutere in vista della sua decisione sulla proposta di via libera o meno al fuori ruolo che dovrà votare il plenum, forse il 23. I consiglieri della Terza stanno verificando se possono stabilire che alcuni incarichi siano esclusi dal tetto massimo dei 10 anni e se la Severino, del 2012, si applichi retroattivamente sui fuori ruolo. Un dato a dire il vero, che sembra ormai pacifico ma sul quale potrebbe essere chiamato a esprimersi l’ufficio studi del Csm. L’aria che tirava ieri a Palazzo dei Marescialli è che i togati di Unicost, di MI e la maggioranza dei laici vorrebbero trovare una soluzione favorevole alla nomina anche se le normative sono chiare. I numeri perché passi il via libera ci sono.

Arrestato per corruzione l’ex pm che incontrò Lotti

“Un quadro caratterizzato da gravissime pressioni, omissioni, alterazioni di dati processuali, falsificazione di prove e di documenti, persino di interi fascicoli processuali nel contesto di uno stabile asservimento delle pubbliche funzioni ad interessi privati”. Sono le parole con le quali in gip Giovanni Gallo, in un’ordinanza di 900 pagine, descrive una realtà associativa di cui facevano parte due magistrati. Sono Michele Nardi e di Antonio Savasta, entrambi arrestati ieri per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Un’accusa terribile, per un magistrato figlio di quel giudice Nardi Capo degli ispettori inviato da Roma per controllare i magistrati del pool di mani pulite agli inizi degli anni 90. Nardi, secondo l’accusa, per aggiustare processi avrebbe ricevuto viaggi a Dubai, preziosi, opere di ristrutturazione per case a Roma e villini a Trani. Il suo atteggiamento, scrive il gip nell’ordinanza, in più occasioni ha rasentato la mafiosità, avendo “minacciato di morte l’imprenditore Flavio D’Introno di Corato che si rifiutava di consegnargli le somme pretese, millantando rapporti con massoneria e servizi segreti deviati”.

Un quadro fosco, che coinvolge anche un ispettore di polizia di Corato (Bari), Vincenzo Di Chiaro collocato da Savasta al “servizio” dell’imprenditore D’Introno e che fungeva da spola tra gli interessi corruttivi del pm e l’ufficio dello stesso che assicurava all’imprenditore di edulcorare le sue posizioni giudiziarie in procedimenti di usura e nel caso “Fenerator”. Sono stati invece interdetti dalla professione due avvocati pugliesi (Simona Cuomo e Vincenzo Sfrecola), ritenuti intermediari, e l’imprenditore fiorentino Luigi Dagostino, che in passato ha avuto rapporti d’affari con Tiziano Renzi, papà dell’ex premier.

Nardi, negli anni 90, prima che divenisse magistrato frequentava il liceo cittadino ed era spesso coinvolto in dibattiti in città, sempre a carattere ambientalista. Savasta invece era già incappato nelle maglie di diverse procedure del Csm fino al trasferimento a Roma da Trani. Proprio per questo, “consapevole della pendenza a suo carico di procedimenti disciplinari aveva urgente necessità allontanarsi al più presto da Trani e ottenere un incarico a Roma”. E strumentale era stato un incontro, fissato per il 17 giugno 2015, con l’ex sottosegretario Luca Lotti, organizzato dall’imprenditore Dagostino, il quale dal magistrato otteneva tutele per quei fascicoli che potevano rappresentare delle grane. “Nonostante le sollecitazioni della Finanza – è scritto nell’ordinanza – Savasta non procede nei confronti di Dagostino, omettendo sia di iscriverlo che di trasmettere gli atti alla Procura di Firenze”.

Interrogato dai pm il 13 aprile 2018, Dagostino spiega così l’incontro: “Siccome tramite Tiziano Renzi l’unico politico che avevo visto 3 o 4 volte era Lotti (…) decisi che lo potevo portare da lui. Effettivamente fissai con Lotti tramite Tiziano Renzi (estraneo alle indagini, ndr) un appuntamento dicendogli che volevo portare un magistrato che aveva interesse a mostrare una proposta di legge”. Così Dagostino con Savasta va a Palazzo Chigi: “Li presentai e me ne andai e non assistetti al colloquio che durò 30/40 minuti”.

L’ex ministro, da parte sua, ai magistrati dice di non ricordare di cosa si parlò durante quell’incontro: “Dagostino aveva preso appuntamento con me e mi disse che avrebbe portato il commercialista Franzè. Non ricordavo che volesse portare anche altre persone. (…) – spiega Lotti ai pm sentito come persona informata sui fatti – Non ricordo se Savasta mi chiese qualcosa per sé perché non ricordo bene come si svolse tale incontro”. Sull’incontro è stato sentito, il 13 aprile 2018, anche l’avvocato Sfregola che fornisce un’ulteriore versione: “Savasta espose a Lotti del problemi delle norme ambientali che aveva rilevato in una sua indagine sull’Alta Murgia, Lotti si complimentò per l’esposizione tecnica e disse che si sarebbe segnato le lacune segnalate”. Quando i pm gli fanno notare che si tratta di una circostanza poco credibile, Sfregola raddrizza il tiro: “Alla mia presenta non fu chiesto nulla di esplicito a Lotti. Ma in realtà Savasta esponendo le problematiche della normativa ambientale si era messo a disposizione di Lotti, laddove avesse avuto bisogno di comporre una qualche commissione di studio a Roma”.

Ma gli incontri romani non sono finiti. Il 6 dicembre 2016 Savasta partecipa ad una cena a casa del giornalista Luciano Tancredi, che in passato “ha rivestito il ruolo di ‘consulente responsabile della comunicazione del Sottosegretario Giovanni Legnini”. Il 25 settembre 2018, lo stesso Savasta racconta: “C’era anche Legnini, il quale mi trattò molto freddamente. Io pensava che li avrei avuto anche opportunità di incontrare di nuovo Lotti”.

Lo dice pure Cerasa: I mattei sono vicini

Se lo scrive anche il rag. Cerasa sul Foglio, allora non c’è più alcun motivo per dubitarne: Pd e Lega si somigliano e sembrano fatti per stare insieme (con quel che resta di Berlusconi e Forza Italia). Cerasa racconta la visione illuminante nel suo ultimo editoriale: i gialli e i verdi litigano sulla giustizia, sui termovalorizzatori, sul decreto dignità, sul reddito di cittadinanza, sulle trivellazioni, sulle grandi opere. Tutti argomenti su cui il partito di Matteo Salvini e quello distrutto da Matteo Renzi hanno molto più in comune rispetto all’alleanza spuria con i Cinque Stelle. “Emerge un quadro politico – osserva Cerasa – che ci dice una cosa precisa per quanto impossibile da ammettere: in questo Parlamento, l’unica maggioranza possibile per realizzare le riforme che la Lega non riesce a realizzare con il Movimento cinque stelle è una maggioranza in cui oltre a Forza Italia c’è anche il Pd”. Peccato, scrive il direttore del Foglio, che “non succederà mai, non lo vuole nessuno, non lo pensa nessuno, non lo desidera nessuno”. Ma la visione di Cerasa è concreta: “Sui temi economici più aumentano le distanze tra la Lega e il M5S e più diminuiscono le distanze tra il centrodestra e il Pd”. Caro Cerasa, benvenuto tra noi.

La Lega tentata dall’asse pro Tav con il Pd

“Aspettiamo l’analisi costi-benefici del Tav, poi si valuterà”. Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega in Senato, la mette così sull’eventuale voto alla mozione presentata dal Pd per chiedere al governo di proseguire i lavori della Torino-Lione. Non è un sì, ma non è neanche un no. La Lega non ha nessuna intenzione di cadere nella trappola che gli ha preparato Matteo Renzi, via Andrea Marcucci, e votare con i Dem contro l’alleato di governo. Ma va anche detto che a un certo punto potrebbe essere costretta a farlo, se i Cinque Stelle rimangono sul no (ieri, su tutti, sentire Luigi Di Maio: “Se dei tecnici ci dicono che quell’opera non sta in piedi, ditemi che senso ha farla”). Non è un caso che Matteo Salvini ci tiene a far passare il concetto che si tratta di una scelta dei senatori.

Nel campo da gioco entra anche Forza Italia, che ha presentato la sua mozione. “Noi vogliamo il sì al Tav di tutta la coalizione di centrodestra, che è storicamente a favore dell’opera. Il Pd è sul sì al Tav dell’ultimo momento, non vogliamo mescolare i nostri voti ai loro”, chiarisce Annamaria Bernini.

Oggi la capigruppo di Palazzo Madama deve decidere quando mettere le mozioni in calendario. Marcucci chiederà che sia al più presto. Ma su questo, i Dem sono destinati a rimanere isolati. La Lega aspetta la relazione e Forza Italia asseconderà questa esigenza. Certo, dopo può succedere qualsiasi cosa. Perché la questione resta in movimento. Per dirla con Danilo Toninelli alla Reuters, “se si farà, vorrà dire che vale la pena farla e io comunque avrò verificato che non si sprecano i soldi dei cittadini. Dunque, avrò operato al meglio”. Frase decisamente non definitiva.

Nel frattempo, i contatti tra Forza Italia e Pd proseguono nell’ombra: se i contenuti delle mozioni pro Tav saranno sovrapponibili, neanche gli azzurri escludono che possa farsi un unico testo. A quel punto, la Lega sarà costretta a dire di sì. La questione Tav è il secondo “piattino” che Matteo Renzi offre a Matteo Salvini. Nell’intervista al Sole 24 Ore di domenica aveva annunciato il sì del Pd al salvataggio di Banca Carige. Mosse a doppia valenza: da una parte l’ex segretario dem sfida Salvini a smarcarsi dal- l’alleato e cerca di metterlo in difficoltà, evidenziandone le contraddizioni. Dall’altra, pone le condizioni per intestarsi un’operazione: nel- l’ipotesi che Lega e Cinque Stelle non reggessero, con Sergio Mattarella che non ha alcuna intenzione di sciogliere la legislatura, l’ipotesi più plausibile resta quella di un governo di centrodestra. Salvini sa che non gli converrebbe riesumare Silvio Berlusconi, lasciando ai Cinque Stelle la palma dell’opposizione. Ma già si ragiona su un modo per bypassare l’ostacolo: ovvero, continuare a non fare il premier. Renzi, dal canto suo, potrebbe posizionarsi, garantendo qualche responsabile alla nuova coalizione. Che consideri Salvini più “potabile” di Di Maio non è un mistero. E potrebbe così muoversi verso il partito di centro che per ora non c’è (e non ci sarà fino alle Europee).

Si vedrà. Da segnalare che c’è un unico senatore che non ha firmato la mozione del gruppo: si tratta di Tommaso Cerno, critico con il partito che lo ha eletto dal giorno dopo le elezioni. E che in questo caso contesta le giravolte sul Tav.

Salva-Rixi, i legali provano a usare il nuovo “316 ter”

Gli avvocati affilano le lame. Invocano la nuova legge. E i processi per le Rimborsopoli rischiano di andare a gambe all’aria. Ieri e oggi erano previste due udienze per i diversi filoni dell’inchiesta ligure che vede imputato tra gli altri il viceministro Edoardo Rixi (con quasi mezzo consiglio regionale). E subito si è capito che le difese dei politici intendono invocare l’applicazione del nuovo articolo 316 ter – contenuto in un emendamento leghista alla legge Anticorruzione voluta dal governo giallo-verde – che potrebbe permettere di derubricare il reato da peculato a indebita percezione di erogazione o di fondi pubblici. Risultato, se i magistrati sposassero la tesi: pena ridotta e soprattutto prescrizione.

Lo si è visto ieri nel primo processo che vede imputato anche Rixi: Pietro Bogliolo e Andrea Corradino, difensori di due imputati, hanno chiesto, seppure in via subordinata a un’assoluzione, la riformulazione del reato.

Oggi, appunto, tocca al secondo filone. E Alessandro Vaccaro, difensore di Matteo Rosso (FdI), ha già avvertito la Corte di essere intenzionato a sollevare la questione, forte di una recente pronuncia della Corte d’Appello di Milano, in parte però rovesciata dalla Cassazione.

Invece Mattia Crucioli, avvocato e senatore del M5S, si dice sicuro che la novità non cambierà i processi. Una presa di posizione che, però, susciterà ulteriori polemiche perché a giudicare il secondo filone è Riccardo Crucioli, magistrato e fratello del senatore. Il parlamentare M5S non ha dubbi: “Quella modifica non porterà vantaggi a chi è accusato di peculato. E quindi, a mio avviso, Raffaele Cantone (il presidente dell’Anticorruzione aveva detto che “il rischio per i processi c’è, ma senza automatismi”, ndr) ha preso una cantonata”, dice Crucioli. Aggiunge: “Non ho idea se i parlamentari della Lega che hanno presentato l’emendamento avessero delle intenzioni recondite. Quel che è certo è che, se c’è stata malizia, hanno fatto male i calcoli. La distinzione tra peculato e indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato resta: nel primo caso – sostiene Crucioli – deve trattarsi dell’appropriazione di un bene di cui il pubblico ufficiale sia in possesso per ragioni del suo ufficio. Il 316 ter invece continuerà a punire chi si adoperi per ottenere i fondi, magari attraverso false dichiarazioni. Ma a prescindere da chi sia a compiere l’uno o l’altro, i due reati restano diversi. Con buona pace di chi parla di grimaldelli utilizzabili per derubricare l’accusa di peculato” sottolinea il senatore-avvocato Crucioli citando le pronunce della Cassazione che sui consiglieri regionali si è espressa negli ultimi anni distinguendo tra le varie condotte.

Una questione di lana caprina. Una cosa, però, è certa: la nuova norma dell’anticorruzione complica, e non poco, i processi e potrebbe di fatto azzerarli. La vecchia legge infatti diceva: “Chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti…”. Proprio la prima parola, chiunque, lasciava spazio all’interpretazione che il reato fosse stato concepito soprattutto per il cittadino comune, mentre a pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio si sarebbe dovuta applicare la norma specifica del peculato. Ma ecco arrivare la Spazzacorrotti che ha capovolto i giochi grazie a un emendamento firmato da dieci leghisti e votato tra l’altro da Lega e M5S: “La pena è della reclusione da 1 a 4 anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri”. Un’aggravante che, però, rischia di ottenere l’effetto opposto: l’impunità. Il 316 ter, a detta di diversi esperti di diritto, ora si può applicare più agevolmente agli imputati delle spese pazze. Ma i pm di Torino e Palermo, interpellati dal sito del Fatto, sono di diverso parere: il comma potrebbe non valere per chi è accusato di peculato: quel reato è comunque una fattispecie diversa rispetto all’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. Anche quando è commessa da pubblici ufficiali.

Acqua pubblica, la proposta di legge è in Commissione

È stato depositato alla Camera a marzo del 2018, dato il via libera alla discussione (con 278 voti a favore di M5S e Lega, 89 voti contrari Forza Italia e 124 astenuti da parte di Pd e Fratelli d’Italia) a ottobre 2018: è il progetto di legge del Movimento 5 Stelle di cui ha parlato ieri il presidente della Camera e a prima firma Federica Daga, che prevede – ancora una volta – la completa gestione pubblica dell’acqua e che è in discussione in commissione Ambiente (“Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque”) assieme a un altro, proposto dalla deputata del Pd Chiara Braga. Negli ultimi mesi si sono susseguite le audizioni di decine di esperti che si sono espressi su entrambi i testi e ora i membri della commissione si prenderanno una settimana per analizzare dati e informazioni e decidere come procedere. I due testi potrebbero tanto essere unificati in un unico, quanto poter essere messi ai voti per scegliere quello da sottoporre all’iter parlamentare. Si tratta comunque di una legge che viene da lontano, che nasce dal referendum sull’acqua pubblica del 13 giugno del 2011, quando 27 milioni di cittadini si espressero contro la privatizzazione.

Grillo a Oxford, scontro con gli studenti

Non aveva voluto giornalisti, ma alla fine il corpo a corpo è stato con gli studenti. Democrazia interna, linea politica del Movimento, rapporto con la scienza. Grillo arriva a Oxford, ospite del prestigioso tempio universitario dove da secoli si forma la classe dirigente inglese, e uno speech a porte chiuse si trasforma presto in un confronto duro. Lo annunciano come “actor, comedian and political activist”. Lui entra col drappo nero sugli occhi: Oxford come un palco 5 stelle, metafora “di ciò che stanno diventando l’America, l’Europa, il mondo”. Parla prima di Inghilterra (“ignorare il referendum sulla Brexit non è democrazia”), se la prende con la stampa (“il vero pericolo populista”) e poi risponde alle domande degli studenti, che tentano di riportarlo alla concretezza della politica italiana di tutti i giorni.

Sul tema del Tav, per esempio: “Bisogna decidere in base alla relazione costi benefici”. Tradotto: un No secco.

Grillo snocciola lessico e temi cari ai 5 Stelle: loda la piattaforma Rousseau (“la stiamo esportando in tutto il mondo”), cita il reddito di cittadinanza, parla di “rivoluzione antropologica”, rivendica di aver “reintroddoto l’onestà”.

Poi però arriva la domanda diretta sulla scienza e sulle presunte simpatie per i no-vax, e l’incontro si scalda: “Un farmaco è scienza, renderlo obbligatorio è politica. Nessuno si è mai sognato di andare contro i vaccini, per noi ci vuole un’informazione capillare, non l’obbligo”. Uno studente lo accusa di essere contraddittorio, il pubblico applaude e lui si difende: “Sono contento di essere contraddittorio, è segno di curiosità. La linea politica la dà Luigi Di Maio, io sono un uomo libero con le mie contraddizioni”. Non basta.

Arrivano le domande sulle espulsioni dei dissidenti, Grillo assicura che “ci sono delle regole che vanno rispettate, ma nessuno manda via nessuno”. Poi il comico prova a riportare dalla sua i ragazzi: “Voi avete abbandonato un Paese e siete qua. Che cos’è per voi la politica se non una rivolta? C’è un vaffanculo in questo”. La frase fa arrabbiare gli studenti, che gridano di non avere abbandonato l’Italia e iniziano a andarsene.

Poi qualcuno lo incalza sull’accordo con la Lega: “Come commenti l’alleanza con la Lega, populista, nazionalista, con tutti gli ingredienti per il fascismo?”. Grillo risponde dopo l’applauso dei rimasti: “Per portare risultati abbiamo firmato un accordo su 20 punti. La nostra natura è diversa dalla loro, è un’alleanza contrattuale con gli italiani”.

Il tempo è finito, dopo circa un’ora e quarto di dibattito. Iniziato come uno show, è finito come in un’agorà. Grillo esce. Qualche applauso, qualche fischio e qualcuno che grida “buffone!”. “Non siete cortesi”, si congeda lui. Forse Oxford se la aspettava diversa.

Ue, Di Maio fa il Di Battista: “Ora chiudiamo Strasburgo”

Alessandro Di Battista conta, e soprattutto serve, nella partita che vale quasi tutto. Così ecco le dirette dall’auto e la conferenza stampa per strada, di fronte al Parlamento di Strasburgo che i 5Stelle ora vogliono chiudere, “perché è la marchetta francese che costa 200 milioni di euro all’anno”: e l’insulto vale come lotta ai presunti sprechi ma pure come morso al nemico simbolico, a Emmanuel Macron.

Ecco Luigi Di Maio che usa i codici e il linguaggio di Di Battista, nel blitz in Francia con cui i due lanciano la campagna per le Europee. “Alessandro sta incidendo molto, Luigi lo ascolta” assicurano dal M5S. Quindi niente aerei e niente moderazione, ma parole d’ordine e toni del Movimento che fu, quello scamiciato. La ricetta per non perdere nel corpo a corpo con Salvini, ossia per recuperare consensi e convinzione.

E allora ieri mattina il capo parte da Milano con l’ex deputato romano su un mini-van, per arrivare nel pomeriggio a Strasburgo. E in mezzo c’è la frontiera con la Svizzera, dove alla dogana bloccano l’auto guidata dal vicepremier. “Ci hanno fermato per i controlli, ci vediamo dopo” ride Di Maio. Ma tra una risata e una verifica la coppia da urne picchia su tutti e tutto. “O in Europa cambiano i Trattati o se crolla l’Europa non è colpa del M5S, bisogna modificare i Trattati” scandisce Di Battista. “Dobbiamo fare quota 41 che è il vero superamento totale della Fornero e per farlo abbiamo bisogno che quest’anno, con le Europee, cambino alcune regole Ue”, gli fa eco Di Maio. Insomma, serve un’Europa diversa “per fare una legge di Bilancio più importante nel 2019”. È solo clava, dal van dove viaggiano con Sergio Battelli, il presidente della commissione per le Politiche Ue alla Camera. E Di Battista torna sul tema che ripeterà per tutta la campagna: “Il taglio della concessione ad Autostrade si può fare, il governo su questo è compatto”. Poi la coppia arriva a Strasburgo, di fronte al Parlamento, e l’ex eletto cala il simil-annuncio: “Questa sede va tagliata, costa ai cittadini europei un miliardo a legislatura. Solo per fare una marchetta ai francesi”. Ed è l’obiettivo grosso (e intoccabile) da mirare per spiegare a tutti che il M5S in campagna elettorale punterà sul “taglio degli sprechi”.

Uno dei dieci punti del manifesto per l’Europa, il programma da sottoscrivere per i partiti che aderiranno al gruppo a guida 5Stelle. Di Maio e Di Battista non incontrano nessuno in terra francese. Ma il capo politico giura che “abbiamo una buona base per costruire un gruppo che non sia né di destra né di sinistra”. E fonti del Movimento assicurano che sono in corso contatti anche con partiti “che ora fanno parte di altri gruppi”. Però servono accordi, in fretta.

Così Di Maio tende di nuovo la mano ai Gilet gialli, che pure sabato da Roma gli avevano sbattuto la porta in faccia: “A breve avremo contatti e avremo un incontro”. E se il vicepremier insiste è anche per aggredire sempre e comunque Macron, come predica il suo compagno di viaggio. Di Maio pare quasi rinfrancato. Quindi fa muro sul Tav, in linea con Di Battista e soprattutto con il Roberto Fico di ieri sul Fatto: “Se per i tecnici non sta in piedi la blocchiamo, e poi non ho capito come si dovrebbe fare questo referendum…”. E quasi provoca Matteo Salvini, sulla depenalizzazione della cannabis: “Non è nel contratto, ma è una buona proposta”. Eppure giorni fa Di Maio si era infastidito per la pdl presentata dal senatore ligure Matteo Mantero, movimentista della prima ora. Ma ora è in campagna elettorale con Di Battista, che in serata incontra gli europarlamentari. Invece Di Maio torna a Roma: in aereo.

Resa dei conti su Tim tra Elliott e Vivendi: assemblea il 29 marzo

Il consiglio d’amministrazione di Telecom Italia ha convocato per il 29 marzo l’assemblea degli azionisti nella quale sarà approvato il bilancio 2018 e sarà messa all’ordine del giorno la proposta dell’azionista Vivendi di revocare cinque consiglieri d’amministrazione (il presidente Fulvio Conti, Alfredo Altavilla, Massimo Ferrari, Dante Roscini e Paola Giannotti De Ponti) per sostituirli con Franco Bernabè, Rob van der Valk, Flavia Mazzarella, Gabriele Galateri di Genola e Francesco Vatalaro. Con questa mossa Vivendi punta a riprendere il controllo dell’azienda dopo essere stata messa in minoranza nell’assemblea del 4 maggio dello scorso anno.

Vivendi aveva chiesto la convocazione dell’assemblea per il tentativo di contro-ribaltone, ai sensi del codice civile, “senza ritardi, e ha protestato per il rinvio della resa dei conti di oltre 70 giorni. Il gruppo guidato da Vincent Bolloré ha già annunciato che se perderà l’assemblea del 29 marzo ne chiederà un’altra in estate. Il fondo americano Elliott, che nove mesi fa ha realizzato il ribaltone con l’aiuto del governo italiano attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, ha invocato ieri “stabilità” per il colosso telefonico italiano.