Il Tg2 “leghista” perde la sfida degli ascolti

Il “salvinismo” paga sui giornali ma non in tv. Almeno a vedere i dati Auditel del nuovo corso dei tg della Rai. Tg1 e Tg3, infatti, aumentano i loro telespettatori, mentre il Tg2 arranca. È ciò che emerge da una prima valutazione a due mesi dall’insediamento dei nuovi direttori, a inizio novembre, che ha visto Giuseppe Carboni prendere il timone del tg della rete ammiraglia, Gennaro Sangiuliano arrivare al Tg2 e Giuseppina Paterniti al Tg3.

Insomma, almeno per quanto riguarda i telegiornali, l’informazione più vicina ai giallo-verdi non sembra far male a mamma Rai. Anzi. Anche se c’è da registrare un pericoloso riavvicinamento del Tg5: se negli ultimi tempi la distanza dal Tg1 rasentava gli 8 punti di share, nelle ultime settimane si è notevolmente accorciata. Venerdì 11 gennaio, per esempio, alle 20 il Tg1 registrava un buon 24,6% contro il 18,8% del Tg5: circa 5 punti di distanza.

Ma tentiamoqualche confronto, prendendo come termine di paragone i primi cinque giorni di ottobre 2018, quando i tg Rai erano ancora guidati da Andrea Montanari (Tg1), Ida Colucci (Tg2) e Luca Mazzà (Tg3), i direttori della precedente gestione. Lunedì 1 ottobre il Tg1 delle 13.30 registrava 21,3% di share (pari a 3, 16 milioni di telespettatori), quello delle 20 il 24,4% (pari a 5.576.000); il Tg2 delle 13 il 15,9% e quello delle 20.30 il 7,2; il Tg3 delle 14.25, l’11,7% e quello delle 19, l’11,4%. Lunedì 7 gennaio, con i nuovi direttori, il Tg1 ha raggiunto il 22,2% (edizione diurna) e il 24% (serale); il Tg2 il 16,9 e il 6,9; il Tg3 il 12,9 e il 12. Sempre nei primi giorni di gennaio 2019, il Tg1 delle 20, l’edizione più importante, ha registrato il 22,7 (martedì 8), il 24,2 (mercoledì 9), il 24,7 (giovedì 10), il 24,6 (venerdì 11). Media: 24,04%. Se torniamo alla prima settimana di ottobre, la stessa edizione ha oscillato tra un minimo del 21,5% e un massimo del 23%, con una media del 22,8%. In aumento, dunque.

Passando al Tg2, quello delle 13 (l’edizione più importante) da lunedì 7 a venerdì 11 gennaio ha registrato una media del 15,6% contro il 15,7% della prima settimana di ottobre. Per quanto riguarda la sera, si va dalla media del 7% dei giorni di gennaio a quella del 7,4% di ottobre. Un sostanziale pareggio. Avanza invece il Tg3. Sempre da lunedì 7 a venerdì 11 gennaio registra una media del 13,3% delle 14.20 e del 12,1% alle 19, contro la media dell’11,3% nel diurno e dell’11,1% nel serale dei primi giorni di ottobre.

Siamo ancora in fase di assestamento, ma finora è proprio il Tg2 di Sangiuliano, nome della Lega ed ex vicedirettore di Libero, ad aver più cambiato veste e a fare fatica. Contrariamente a ciò che accade sulla carta stampata, dove testate come Libero e La Verità, schierati con Salvini, aumentano di copie. Ma siamo solo all’inizio e i numeri potranno migliorare. Specialmente se al Tg2 verrà offerto un traino adeguato per l’edizione serale. E in tal senso un programma di satira, annunciato da Carlo Freccero, potrebbe risultare utile, con o senza Daniele Luttazzi.

La novità è invece il contenitore in onda alle 10 del mattino ribattezzato Tg2 Italia. Nel frattempo, in attesa dell’allungamento del Tg2 serale in forma di talk (Freccero dixit), Carboni e Paterniti possono sorridere, Sangiuliano un po’ meno.

Truffati dalle banche, il Tesoro: “Così la Ue dirà no ai rimborsi”

Il giudizio è severo e risale al 16 dicembre scorso. Dagli uffici di vertice del ministero dell’Economia i tecnici stilarono una bocciatura pesante delle misure a favore dei cosiddetti “truffati” delle banche poi confluite nella manovra, sollevando il rischio di incorrere in una bocciatura della Commissione Ue per aiuti di Stato. Una beffa che avrebbe del clamoroso.

La vicenda riguarda i 300 mila piccoli investitori coinvolti nel crac delle banche (da Etruria & C. alle due popolari venete). In manovra il governo ha stanziato 525 milioni l’anno fino al 2021 per indennizzarli: potranno accedervi ex azionisti e detentori di bond subordinati (per i primi il rimborso è al 30%, per i secondi al 95%, entro i 100 mila euro). Problema: nella prima versione del provvedimento, approvata alla Camera, era previsto l’obbligo di dimostrare di essere stati spinti ad acquistare i titoli dalle banche in violazione delle norme a tutela dei risparmiatori con una sentenza favorevole del tribunale o dell’Arbitro finanziario Consob (Acf).

Al termine di un lungo negoziato tra le associazioni dei risparmiatori – spaventate dal rischio che la trafila burocratica avrebbe precluso a molti l’indennizzo – e i due alleati di governo, in persona dei due sottosegretari Alessio Villarosa (M5S) e Massimo Bitonci (Lega), la norma è stata modificata. Si è deciso di concedere il rimborso in maniera generalizzata in virtù di “violazioni massive degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza, buona fede oggettiva e trasparenza” (misselling) indicati dal Testo unico della finanza. Il “misselling”, insomma, non verrà più verificato caso per caso e riguarderà anche chi ha acquistato i titoli non direttamente dalle banche. All’indennizzo potranno accedere poi anche Onlus e microimprese.

La modifica viene decisa il 15 dicembre e confluisce in un emendamento dei 5Stelle, poi ripreso nel maxiemendamento al Senato. Il 16 dicembre, però, arrivano i rilievi del Tesoro. Il documento, visionato dal Fatto, viene inviato all’Ufficio legislativo del ministero dall’Ufficio di coordinamento del Tesoro (Ucadt), struttura di supporto del direttore generale Alessandro Rivera, l’uomo che per il governo gestisce i rapporti con Bruxelles, specie per le materie bancarie. Il testo boccia le due modifiche. “L’eliminazione della condizione dell’accertamento e del relativo danno e la conseguente automatica corresponsione dell’indennizzo, in ragione di criteri vaghissimi e non qualificanti – scrivono i tecnici di Rivera – non possono essere considerati compatibili con i limiti imposti dall’Ue”. Anche perché, annotano, l’indennizzo riguarderebbe soprattutto gli azionisti che, a differenza degli obbligazionisti, “posseggono strumenti di capitale di rischio e non di debito”. Anche l’eliminazione del vincolo di aver acquistato i titoli direttamente dalle banche e l’apertura ai rimborsi a Onlus e microimprese viene dipinto come foriero “con ogni probabilità di arrivare all’apertura di una procedura di infrazione Ue”. I tecnici spiegano che la prima versione del testo aveva avuto il via libera di Bruxelles e avvisano che ora servirà un nuovo passaggio. E nell’attesa dubitano che “si possa procedere a dare applicazione alla norma”, cioè a versare i rimborsi, per il rischio “di imputazione di danno erariale”.

Come è possibile che il Tesoro abbia dato allora lo stesso il via libera? Dal ministero spiegano che i rilievi dei tecnici sono stati superati “dalla decisione politica di Lega e M5S di varare la norma”, ma che, “al momento, non ci sono rilievi di Bruxelles”. “Avevamo segnalato il rischio da tempo, ora ci sono rischi concreti che i fondi vengano congelati – attacca l’ex senatore Andrea Augello (Fdi) – È urgente che il governo intervenga già nel decreto Carige. Ma, nel caso Bruxelles contesti le norme sarà impossibile che a dialogarci sia un dg che ha già dichiarato la legge meritevole di sanzione. C’è un limite al ridicolo”.

Rider, ministero: “Norma entro marzo. Avranno più tutele”

”È pronta la norma che regolerà il contratto di lavoro dei moderni ciclofattorini. Entro marzo ai lavoratori che effettuano consegne per conto delle app di food delivery saranno assicurati tutele su malattie, infortuni e paga minima. L’Italia si prepara ad essere la prima nazione europea a normare questa professione”. L’assicurazione arriva dal ministero del Lavoro a tre giorni dalla sentenza con cui la Corte d’Appello di Torino ha sancito il diritto di cinque ex collaboratori di Foodora a vedersi riconoscere tredicesima, ferie e malattie pagate. Ma Cgil, Cisl e Uil rispondono picche: “Non ci convincono ipotesi di regolazione normativa diretta da parte del governo relativamente alle regole da applicare ai rider, che tradirebbero lo spirito della sentenza di Torino e che, senza un ampio confronto con le parti sociali, rischierebbero di costituire un intervento improprio del soggetto pubblico nella libera regolazione contrattuale”. Quel che serve, scrivono in una nota congiunta, è “un accordo collettivo” da raggiungere riconvocando il tavolo con le aziende riunito per la prima volta lo scorso giugno. Il tema dei rider, e più in generale quello della gig economy, sarà al centro della manifestazione unitaria del 9 febbraio

Fca, l’alibi ecotassa e i dubbi sul piano: “Con le nuove misure andrà rivisto”

La minaccia viene reiterata oltreoceano. Nel suo primo Salone di Detroit, Mike Manley, l’amministratore delegato di Fca, torna sulla questione della tassa sull’acquisto di auto di cilindrata medio-alta e diesel e degli incentivi per quelle a basse emissioni e annuncia che la ex Fiat, oggi a trazione statunitense, “sta rivedendo il piano di investimenti per l’Italia da 5 miliardi di euro alla luce della nuova normativa”. A inviare il primo segnale esplicito di disappunto al governo era stato già il responsabile delle attività in Europa del gruppo, Pietro Gorlier, lo scorso 12 dicembre: “Il sistema di bonus-malus inciderà sulla dinamica del mercato modificando il nostro piano industriale”.

E ora che la manovra è legge, Manley non si è lasciato sfuggire l’occasione per ribadire che “il piano di Fca deve essere necessariamente rivisto: in questo momento è in fase di revisione”, rimandando a data da destinarsi una comunicazione riguardo alla strategia per l’Italia. Ma l’ad del Gruppo – che ha escluso la cessione al momento di Comau e Teksid, dichiarandosi ottimista per il 2019 sull’aumento della capacità produttiva e risultati attesi come il milione di esemplari venduti a livello mondiale da parte di Jeep – ha anche spiegato che “il piano resta sul tavolo e che non sarà bloccato nonostante le misure previste dalla manovra”. Del resto i 5 miliardi di euro che Fca ha messo sul piatto nel periodo 2019-2021 oltre al lancio di 13 nuovi modelli e restyling di alcuni già esistenti, prevede nello stabilimento di Mirafiori la produzione della nuova Fiat 500 elettrica, a Pomigliano d’Arco un nuovo suv compatto a marchio Alfa Romeo, mentre a Melfi, con tecnologia ibrida, verrà prodotta la Jeep Compass. Vale a dire proprio quei modelli ai quali sono destinati gli incentivi (fino a 6 mila euro per rottamare un’auto acquistandone un’altra con emissioni 0-20 grammi/km di Co2). Dichiarazioni che sembrano un alibi per l’attuazione dello stesso piano eriditato da Sergio Marchionne – dopo il flop di quello 2014-2018 – che risulta, allo stato attuale, difficile da attuare con gli stabilimenti ancora fermi e gli operai in cassa integrazione.

Le parole di Manley hanno messo in allarme i sindacati. “Se Fca bloccherà gli investimenti in Italia, la Fiom si dichiara pronta alla mobilitazione”, avverte il segretario nazionale, Michele De Palma. “Non siamo disposti a mettere in discussione il piano. Faremo il possibile per evitare che ciò accada”, commenta il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella.

La lettera della Bce fa crollare Mps e gli istituti italiani

La Bce boccia Mps e il Tesoro, suo primo azionista dal 2017: con un’impressionante retromarcia, impone a Montepaschi regole patrimoniali talmente drastiche da far crollare in Borsa tutto il comparto. Ieri l’azione Mps ha chiuso in calo del 10,19% e trascinato al ribasso Bper (-3,85%), Banco Bpm (-2,39%), Ubi Banca (-2,34%), UniCredit (-1,91%), Intesa Sanpaolo (-1,45%) e Mediobanca (-1,08%).

Secondo una nota comunicata venerdì a mercati chiusi dal Monte, il 5 dicembre la vigilanza europea ha consegnato a Siena “una bozza di decisione che stabilisce i requisiti prudenziali basati sul processo di revisione e valutazione prudenziale Srep” sui conti 2017. La versione finale della decisione è prevista entro fine marzo, quando anche ad altre banche arriveranno gli esiti dello Srep. La Vigilanza raccomanda a Mps di aumentare nei prossimi anni (entro fine 2026) i livelli di copertura sullo stock di crediti deteriorati esistenti a fine marzo 2018 secondo “una logica complementare alle indicazioni fornite nell’addendum alle linee guida della Bce sugli Npl generati da aprile 2018”. In soldoni, entro otto anni il Monte dovrà svalutare completamente non solo i nuovi flussi di crediti deteriorati ma anche lo stock a bilancio. Gli accantonamenti complessivi secondo alcuni analisti peseranno tra 1,1 e 8,7 miliardi, a fronte di una banca che in Borsa ne vale appena 1,73. Non a caso venerdì Mps ha reso noto di aver completato la vendita di crediti deteriorati per 3,5 miliardi. Ma l’aumento di capitale della nazionalizzazione 2017 è quasi del tutto bruciato: sui 5,39 miliardi investiti, il Tesoro ne perde 4,35 (oltre l’80%) con le azioni che ormai valgono 1,35 euro. Un falò che porta il conto della distruzione a 40 miliardi dall’acquisizione AntonVeneta a oggi. La Bce chiede a Mps anche di “affrontare” altri punti preoccupanti: migliorare la redditività inferiore agli obiettivi del piano di ristrutturazione (al 30 settembre il gruppo aveva ricavi per 2,52 miliardi, -21,9% sul 2017), la posizione patrimoniale, indebolita dall’impossibilità di emettere la seconda tranche di bond subordinati entro il 2018 e dagli impatti dello spread BTp-Bund (il gruppo ha a bilancio titoli di Stato italiani per 21 miliardi) e la raccolta. Così già da questa settimana Mps potrebbe iniziare a sondare il mercato per una possibile emissione di titoli subordinati.

La Vigilanza europea impone dunque a Mps le pesanti misure contenute nella prima bozza dell’addendum sui crediti deteriorati che aveva cercato di lanciare al settore nella scorsa estate, quando il Parlamento europeo le bloccò accusandola di sconfinare nel campo legislativo e si decise di applicarle solo al futuro stock di crediti deteriorati. Nel caso di Mps le norme riguardano invece lo stock esistente. Secondo Mediobanca “il mercato dovrà valutare se questo approccio caso per caso sia qualcosa che si applica solo a Mps o anche ad altre banche in Italia o fuori dall’Italia”. Se queste misure riguardassero tutti gli 85 miliardi di sofferenze e incagli netti delle banche italiane, entro fine 2026 queste dovrebbero accantonare una ventina di miliardi. Da qui i ribassi generalizzati.

Si riaffaccia così il tema delle possibili aggregazioni per mettere in sicurezza il settore bancario. Mirko Sanna dell’agenzia di rating S&P spiega che in Italia fusioni bancarie difficilmente si realizzeranno “perché siamo ancora in una fase di emergenza”, “oggi il contesto è più difficile sia per l’aumento del costo del funding sia per l’incertezza economica” e di certo appaiono improbabili acquisti dall’estero. La notizia di Mps getta in una luce inquietante le ultime uscite arrivate dai palazzi romani. Nei giorni scorsi il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha messo a verbale n un incontro pubblico: “I costi economici e sociali di fenomeni di instabilità finanziaria sistemica sono divenuti a tutti evidenti e portano a considerare sotto una luce diversa l’opportunità di interventi pubblici non solo per le banche illiquide ma solvibili, ma anche nei casi in grado di pregiudicare il funzionamento del sistema finanziario”. Domenica il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti (Lega) aveva ammesso che “oltre Carige, ci sarà forse un problema con Mps. Auspico che risolva i problemi, ma se non sarà così, il governo dovrà farsene carico. Entro due mesi saremo chiamati a fare delle scelte”. Tra le banche malconce c’è poi la Popolare di Bari. Ieri il ministro del Tesoro Giovanni Tria ha spiegato che i problemi “pecifichi con uno o due istituti bancari di taglia piccola o media a volte diventano più grandi perché lo Stato non può intervenire”.

Il prof dei misteri, il boss e le chiamate dimenticate dai pm

Ci sono giorni in cui la giustizia è cieca e si ferma sulla soglia della verità. È accaduto nel 1994 quando i carabinieri e i pm di Palermo hanno avuto tra le mani le telefonate di un professore misterioso, Pietro Di Miceli, morto pochi anni fa. Il professore parlava con tante persone importanti. Per esempio, il 7 dicembre 1994, si felicita con una donna non identificata che lo chiama per dirgli di essere appena stata nominata segretaria di un ministro. Tutti i giornali scrivevano in quel momento dei suoi rapporti con senatori e ministri e delle indagini per mafia che lo riguardavano. Poi sarà assolto. Ma non è questo il punto. Il punto è: perché i pm e i carabinieri si disinteressarono di quelle chiamate?

Eppure Di Miceli non usava la sua utenza ma quella di Cesare Lupo, il braccio destro di Giuseppe Graviano. Lupo oggi è al 41-bis, condannato per mafia mentre il suo capomafia è stato condannato anche per le stragi di Capaci e via D’Amelio e per quelle del 1993 a Milano e Firenze oltreché per le bombe di Roma. Nonostante in quel momento la Procura di Palermo indagasse già per mafia e per una fuga di notizie sul professore Di Miceli, quelle telefonate finirono in un armadio.

Questa storia sarebbe rimasta sepolta per sempre se la trasmissione Sekret della piattaforma Loft, con l’aiuto dell’avvocato Fabio Repici, non l’avesse tirata fuori. Il difensore di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, dopo aver letto le trascrizioni delle telefonate di Di Miceli, chiede l’apertura di un’indagine: “Solo oggi scopriamo un fatto così sconvolgente. Paolo Borsellino si era interessato al ‘Corvo due’, l’esposto anonimo che citava Di Miceli poco prima di morire per mano del gruppo guidato da Giuseppe Graviano. Ci fu un sonno della ragione da parte degli investigatori. Dopo la sentenza Trattativa e dopo quella del Borsellino quater, è doveroso per i magistrati fare luce su quello che è accaduto allora con queste intercettazioni”.

La storia si può vedere su www.iloft.it: la serie sulla Trattativa Stato-mafia dedica l’ottava puntata dello speciale I Gravianos proprio alle telefonate ‘dimenticate’ del professor Pietro Di Miceli.

La storia risale a 24 anni fa. I carabinieri del Nucleo Operativo di Palermo, guidati allora da Davide Bossone, intercettano alla fine del 1994, su delega dei pm Lorenzo Matassa e Luigi Patronaggio, il braccio destro di Giuseppe Graviano. Lupo, quando uscì di galera dieci anni fa, divenne il reggente del mandamento. Oggi è recluso in regime di isolamento e si è laureato con 104 e tesi sull’estorsione mafiosa. Allora era l’alter ego di Graviano. Per il pentito Tullio Cannella, diceva di conoscere persino i rapporti presunti di Graviano con Marcello Dell’Utri.

Giuseppe e Filippo Graviano sono stati arrestati a Milano il 26 gennaio 1994 con un loro favoreggiatore che era lì per portare il figlio calciatore (già raccomandato da Dell’Utri nel ’92) al Milan per un provino. Il costruttore finisce così intercettato con la rete dei favoreggiatori e l’ascolto del cellulare della Immobiliare Building srl parte il primo novembre 1994. Presto i carabinieri si accorgono che ascoltando il numero 0337/8906.., teoricamente in uso a Lupo Cesare, si sente parlare Pietro Di Miceli, commercialista, nato nel 1938, consulente della sezione fallimentare, con ufficio in via Roma a Palermo, nello stesso palazzo dove aveva sede il servizio segreto Sisde. “È solo una coincidenza”, diceva lui.

Di Miceli eseguiva per conto del Tribunale le perizie sui patrimoni dei boss. Divenne famoso nell’estate 1992 per l’anonimo cosiddetto del ‘Corvo bis’. In quell’esposto di otto pagine, recapitato a molti giornalisti e magistrati, era indicato come il protagonista della prima ‘Trattativa’ tra la politica e Cosa Nostra. Secondo il Corvo bis, Pietro Di Miceli aveva organizzato un incontro nella Chiesa di San Giuseppe Iato, tra l’allora ministro della Dc Calogero Mannino e il capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. L’incontro – sempre secondo l’anonimo – mirava a creare un nuovo ‘patto’ che sostituisse gli andreottiani e Lima con la sinistra Dc di cui Mannino era un esponente.

Al processo Trattativa il vecchio esposto è stato rievocato e Mannino ha avuto modo di ricordare che non ci furono riscontri a quelle affermazioni. Non solo: Mannino e Di Miceli vinsero anche le cause per diffamazione intentate contro chi aveva dato credito all’appunto. L’esposto viene rivendicato il 3 luglio 1992 con una telefonata all’Ansa della misteriosa sigla ‘Falange Armata’ con tanto di registrazione, che annuncia: “segnali forti, chiari, devastanti necessariamente si impongono”. Due settimane dopo, il 19 luglio 1992, salta in aria via D’Amelio. L’indagine sul Corvo bis era stata affidata proprio a Paolo Borsellino. Un collega raccontò al giudice che dietro l’anonimo poteva esserci il capitano del Ros dei carabinieri Giuseppe De Donno, che ha sempre negato. Borsellino chiese allora al tenente Carmelo Canale di fissare un incontro il 25 giugno 1992 nella caserma Carini con De Donno. Partecipò anche il colonnello Mario Mori. Seppure non riscontrato e diffamatorio, quindi, l’anonimo fu una delle ultime questioni seguite da Borsellino.

Il Corvo bis uscì presto dai radar del Ros. Di Miceli vi rimase. Nel 1993-94, a seguito anche delle dichiarazioni sul commercialista di alcuni collaboratori di giustizia, Di Miceli fu indagato per i suoi rapporti con la mafia sia a Palermo (pm Luigi Croce e Nino Napoli) sia a Caltanissetta (pm Fausto Cardella e Ilda Boccassini). Le indagini furono aperte sulle dichiarazioni dei pentiti e chiuse definitivamente su richiesta dei pm, Maurizio Della Lucia e Michele Prestipino, perché non si trovarono riscontri. L’inchiesta ripartì a Caltanissetta e fu chiusa con la sentenza del giudice Paolo Fiore nel 2006. I pentiti raccontarono i rapporti di Di Miceli con il boss della Noce, Raffaele Ganci, braccio destro di Totò Riina e un pranzo con Angelo Siino e Giovanni Brusca. Però non c’era prova che Di Miceli avesse aiutato Cosa Nostra. Il commercialista negava tutto. Anche i rapporti con i Ganci. Nella sentenza di assoluzione il giudice afferma di non credere sul punto alle parole di Di Miceli. Però ritiene che “non sia ravvisabile la condotta di partecipazione nell’organismo criminale che costituisce elemento costitutivo del delitto di associazione mafiosa”.

Nel 1993 e 1994 quindi Pietro Di Miceli era intercettato sulle utenze a lui intestate dal Ros su delega dei pm di Palermo e Caltanissetta. Di Miceli incontrava e sentiva personaggi come il ministro dell’Interno Nicola Mancino e – il 7 aprile dopo la vittoria di Berlusconi ma prima della sua nomina a ministro della Difesa – anche Cesare Previti. Quando la notizia dei contatti uscì sui giornali, a difendere Pietro Di Miceli intervennero personaggi al di sopra di ogni sospetto come il cognato di Giovanni Falcone: Alberto Cambiano, titolare dell’Italnautica. Intervenne per lui anche Pina Maesano, titolare della Sigma e vedova di Libero Grassi, l’imprenditore ucciso dalla mafia. Entrambi dissero ai giornali che il commercialista era consulente delle loro società: aveva incontrato Mancino su input di Pina Grassi e Previti su input di Cambiano, marito di Anna Falcone.

Nel dicembre del 1994, Di Miceli era quindi al centro di un caso enorme. Non solo, il suo nome divise anche la Procura di Palermo e il ministero della Giustizia del governo Berlusconi, retto da Alfredo Biondi. I pm di Palermo scoprirono un fax con una richiesta di raccomandazione a Di Miceli per far promuovere un ispettore inviato a Palermo per controllare il Tribunale.

Nel settembre del 1994, il ministero inviò un secondo ispettore a Palermo e questi si interessò delle intercettazioni su di Miceli e del fax a lui indirizzato, intercettato in precedenza dai pm. Nel dicembre del 1994 i giornali dedicavano quindi pagine intere all’inchiesta del Procuratore Gian Carlo Caselli e dell’aggiunto Luigi Croce per individuare la gola profonda. I giornali ipotizzavano una rete di protezione massonica ma Di Miceli negò tutto, compresa la sua appartenenza alla massoneria. Quando i carabinieri del Nucleo di Palermo intercettano il cellulare di Lupo e ascoltano Di Miceli, il commercialista è quindi al centro di uno scandalo politico-giudiziario. Inoltre le telefonate erano difficili da dimenticare. La segretaria di un ministro del governo Berlusconi chiama, sul numero di Lupo, il commercialista il 7 dicembre 1994 e gli dice: “Le fa piacere sapere che il ministro ha cambiato idea e mi ha nominato capo della segreteria? (…) quindi non mi troverà più lì a via Buoncompagni ma sarò direttamente dal ministro. Venerdì vado a prendere possesso”.

Dopo quella telefonata, il Capitano Bossone chiede al pm il 15 dicembre di estendere le intercettazioni in tutta Italia perché “Lupo è solito effettuare frequentemente trasferte fuori Palermo”. Patronaggio e il procuratore aggiunto Luigi Croce girano la richiesta al Gip Alfredo Montalto (poi presidente del processo Trattativa) che firma il 24 dicembre 1994. La telefonata con la segretaria ignota è allegata alla richiesta ma il nome dell’interlocutore non è “Lupo Cesare”, bensì “Noto soggetto”. Solo il 28 gennaio 1995 la telefonata sarà trascritta dai carabinieri Alberto Melis e Mario Tomasi e l’interlocutore sarà finalmente scritto: “Pietro Di Miceli”.

Abbiamo chiesto lumi a Bossone, Patronaggio e all’altro pm inizialmente delegato: Lorenzo Matassa. Tutti hanno detto di non ricordare. Il procuratore Gian Carlo Caselli è certo che nessuno gli fece menzione di questa vicenda. Però almeno Patronaggio qualcosa doveva sapere. Il 28 gennaio 1995 le telefonate sono trascritte dai carabinieri con il nome Di Miceli. Il 3 febbraio 1995 il capitano del Nucleo, Carmine Furioso, chiede a Patronaggio di chiudere le intercettazioni dopo l’arresto di Lupo perché “nell’occasione militari di questo Nucleo, provvedevano a porre sotto sequestro il telefono cellulare avente utenza 0337/8906… intestato all’Immobiliare Building”. Il 15 febbraio 1995 Patronaggio interroga Lupo in cella e gli chiede conto di quel telefonino. Lupo risponde di avere usato il numero 0337/8906… con tre apparecchi diversi. Poi aggiunge: “Il cellulare è stato usato esclusivamente da me o da membri della mia famiglia. Conosco il commercialista Pietro Miceli e non già tale Pietro Di Miceli. Il predetto Miceli Pietro è il commercialista della mia azienda sin dalla costituzione. Non ho mai prestato il telefono a Pietro Miceli e che io sappia non è coinvolto in inchieste sulla massoneria”. Su questa strana omonimia l’indagine sul cellulare si ferma. Eppure dalle telefonate è chiaro che l’interlocutore sia quel Pietro Di Miceli, non un tal Miceli.

Perché Luigi Patronaggio fece quelle domande sul telefonino prestato e su Di Miceli? “In quell’interrogatorio – spiega il procuratore di Agrigento – mi sono lanciato con il fiuto. Solo dopo ho capito che il gioco era grande. Se avessi capito, avrei subito riferito a Caselli. Non avevo la visione d’insieme e il coordinamento spettava a Luigi Croce”. L’ex aggiunto spiega: “Sono passati tanti anni, ma una cosa così importante me la ricorderei. Nessuno – spiega Croce – mi ha mai detto nulla di queste telefonate. Io sono in pensione ma se voi pubblicate questo articolo, la Procura di Palermo o la Commissione Antimafia potrebbero fare un’inchiesta per capire cosa è accaduto”.

Il Gassman artista bipolare e il docufilm dell’Italia che fu

Forse il miglior modo di raccontare Vittorio Gassman è anti gassmaniano: asciutto, preciso, classico. Questo veniva da pensare vedendo Sono Gassman! Vittorio Re della commedia, il docufilm di Fabrizio Corallo passato su SkyArte dove si mettono in fila 50 anni di una personalità dominante fino all’ultimo respiro. Raccontare Gassman – e farlo raccontare dalla famiglia allargatissima dei suoi affetti – significa raccontare l’Italia dal dopoguerra al boom, dalla contestazione al riflusso. Questo vale anche per Alberto Sordi; ma mentre Sordi è l’attore– e dunque l’italiano – in purezza, il biopic di Corallo svela la bipolarità di un artista tanto consapevole quanto segretamente fragile, in definitiva, così poco “attore”. Gassman ha incarnato la bipolarità della commedia all’italiana, il suo riso amaro, la capacità di trasmigrare dall’euforia al dramma. È comico o tragico il personaggio di Bruno Cortona? Non potrebbe essere l’uno senza essere l’altro. In Vittorio! si rivedono lampi degli anni d’oro del nostro cinema (Risi e Monicelli in testa, Scola, Salce, Pietrangeli, Comencini…), e una volta di più ci si chiede perché la commedia all’italiana sia così poco presente nella programmazione televisiva dominata dai mediocri titoli made in Usa (ho perso il conto di quante volte è passato Il diario di Bridget Jones). Nessuna voglia di rivedere come eravamo, paura di imbarazzanti confronti col passato? Sono Gassman! Vittorio Re della commedia è un ottimo antidoto contro la rimozione.

Maxitamponamento, coinvolti 50 mezzi. L’Anas sotto accusa

Auto incastrate una nell’altra, o finite ruote all’aria dentro un fossato, scivolate a causa di un perfido filo di ghiaccio formatosi di prima mattina. Sette ore di disagi pesanti vissute ieri sulla trafficata Statale 47 della Valsugana, a causa di un maxi tamponamento che ha visto coinvolti una cinquantina di mezzi, auto e camion, con 16 feriti e il blocco della strada che collega la provincia di Vicenza a quella di Trento. L’incidente si è innescato in più punti, fra Primolano (Vicenza) e Grigno (Trento). Già nelle ultime settimane in quel punto si erano verificati numerosi incidenti, ma non di questa portata. A causare la carambola, il ghiaccio che ha tradito automobilisti e camionisti, che hanno perso il controllo dei mezzi, nemmeno dopo essere usciti dai veicoli riuscivano a stare in piedi. Tra i danneggiati del maxitamponamento figura anche Nicola Finco, capogruppo della Lega Nord al Consiglio regionale del Veneto, il quale punta il dito contro l’Anas. “Su questa strada – ha detto – la brina si trova da novembre a maggio, non serve chissà quale capacità di predizione per capire che a gennaio c’è un concreto rischio ghiaccio”. L’Anas ha nominato una commissione interna per verificare le eventuali responsabilità.

“Desirée Piovanelli è stata uccisa perché rifiutava rapporti sessuali”

Si allargano le ombre su un caso che sembrava finito agli archivi della cronaca nera e che ora potrebbe clamorosamente riaprirsi.

Un altro nuovo esposto, dopo quello dei mesi scorsi del padre della vittima, è stato infatti inviato in Procura a Brescia per chiedere di riscrivere la vicenda processuale del delitto di Desirée Piovanelli, la quattordicenne uccisa nell’autunno del 2002 a Leno, paese della Bassa bresciana, da tre amici minorenni e da un adulto, Giovanni Erra, che con i suoi avvocati sta studiando la possibile richiesta di revisione del processo.

Un residente in paese si è messo a disposizione degli inquirenti bresciani raccontando di sapere molto su quanto ci sarebbe dietro al delitto della ragazzina, ammazzata – stando alle sentenze ormai definitive – per aver rifiutato un rapporto sessuale con i suoi tre coetanei.

L’esposto, firmato e già depositato, andrebbe nella stessa direzione della ricostruzione fornita mesi fa da Maurizio Piovanelli, il padre di Desirée. “È stata uccisa – aveva detto – perché aveva scoperto un giro di pedofilia. Gente che avrebbe voluto coinvolgere anche lei in festini hard a base di droga. Lei aveva saputo tutto e per questo è stata uccisa”. Questa la versione del genitore che al suo esposto ha allegato anche la registrazione della testimonianza di un imprenditore locale che aveva fornito un nome: quello del possibile mandante del delitto.

Anche la denuncia depositata nelle scorse ore al palazzo di giustizia di Brescia contiene un’indicazione precisa. Un nome e un cognome che rimanderebbero a vecchi episodi di pedofilia già finiti sotto l’occhio della magistratura anni fa.

Mazzette all’Archivio edilizio del Campidoglio: tre arresti. Sospesi architetti e geometri

A Roma, per cercare negli archivi comunali un progetto edilizio o un atto autorizzativo, occorre fare richiesta e attendere almeno 30 giorni. Ma se si conosce l’uomo giusto al posto giusto, basta pagare al massimo 200 euro per ottenere ciò che si vuole in un paio di giorni. È una storia di diritti trasformati in privilegi garantiti solo a chi era disposto a pagare, quella scoperta dai finanzieri del Comando provinciale della Capitale. L’inchiesta ieri ha portato il gip di piazzale Clodio, Claudia Gallo, a emettere un’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari per tre impiegati o ex dipendenti dell’Archivio edilizia di Roma Capitale (Pietro Di Geronimo, Antonio Di Pietro, Guido Federico) e di un indagato che lavorava per Risorse per Roma (Fabio Piccioni), società interamente partecipata dal Comune. Il giudice ha anche interdetto dall’esercizio della professione, per un anno, nove tra architetti, ingegneri e geometri. Tra il settembre e l’ottobre scorso gli arrestati avrebbero venduto la loro funzione pubblica, svolgendo “a richiesta – si legge negli atti – ricerche di archivio relative a progetti edilizi e atti autorizzativi o certificativi al di fuori delle procedure ufficiali che prevedono pagamento di reversali e inserimento in liste di attesa”.

La vicenda nasce dalla denuncia di un dirigente che, dopo essersi accorto che l’impianto di allarme dell’Archivio progetti edilizi era stato manomesso, aveva sospettato che qualcosa non andasse. Del resto un utente si era lamentato spiegando che bastava pagare 200 euro a un geometra per velocizzare i tempi. In realtà, per ottenere un certificato di agibilità occorrevano appena 40 euro. Le successive indagini hanno portato alla luce l’esistenza di “un vero e proprio mercato parallelo, un secondo lavoro che i dipendenti esercitano all’interno dell’ufficio, con i mezzi dell’ufficio e in contrasto con le regole interne ad esclusivo beneficio dei professionisti che li hanno assoldati”.