Amianto sulle navi militari, assolti gli ammiragli accusati per la morte dei marinai

Tutti assolti gli ammiragli della Marina militare per i marinai morti di patologie connesse all’amianto sulle navi. Il dispositivo letto dal giudice Chiara Bitozzi, a oltre tre anni dall’inizio del processo per omicidio colposo, è stato una lunga sequela di assoluzioni “perché il fatto non sussiste” (in un solo caso “per non aver commesso il fatto”). Subito dopo, nell’aula del Tribunale di Padova è esplosa la rabbia dei marinai. “È una vergogna! Dicono che la legge è uguale per tutti, ma non è vero. I morti sono più di mille. Così li uccidete per la seconda volta” ha gridato Pietro Serarcangeli, dei Afea, un’associazione toscana che raccoglie centinaia di famiglie colpite. E Salvatore Garau, di Afeva Sardegna: “Siamo solo carne da macello. Chi ha ucciso i marinai? Chi non ha fatto nulla per evitarlo?”.

La sentenza era in parte attesa. Lo stesso pm Sergio Dini aveva chiesto l’assoluzione, ma con una formula diversa (“per non aver commesso il fatto”), e una motivazione che sosteneva la responsabilità della Marina nell’aver lasciato le navi imbottite di amianto (anche se il minerale è fuorilegge dal 1992). Salvava gli ammiragli perché non avevano la responsabilità di spesa, che è in carico al ministero della Difesa. Le colpe sarebbero, quindi, del sistema politico che ha ignorato il grave problema dell’amianto e non ha fatto nulla. Il giudice è andato molto più in là, probabilmente non ritenendo provato il nesso di causalità nella lunga catena dell’esposizione all’amianto, considerando che anche la comunità scientifica è divisa sulla possibilità di individuare il momento di innesco della malattia e il fattore di accelerazione causato dal permanere in ambienti contaminati. I 13 ammiragli rinviati a giudizio nel 2014 (tre sono poi deceduti) erano Francesco Chianura, Guido Cucciniello, Agostino Di Donna, Elvio Melorio, Mario Porta, Antono Bocchieri, Mario Di Martino, Umberto Guarnieri, Angelo Mariani, Luciano Monego, Sergio Natalicchio, Rodolfo Stornelli e Guido Venturoni.

Il consigliere leghista e il deputato FdI in visita agli ultrà arrestati per l’assalto

È il 5 gennaio, non ancora l’una del pomeriggio. Da poco il giudice Guido Salvini ha disposto gli arresti domiciliari per Luca Da Ros, il 21enne ultrà nerazzurro dei Boys arrestato per gli scontri del 26 dicembre e reo confesso. La sua collaborazione è stata utile alle indagine. Verso le 14.30 Da Ros uscirà dal carcere milanese di San Vittore. Fuori c’è il padre ad attenderlo. Nel frattempo in carcere entra un’altra persona. Si tratta di Carlo Fidanza attuale deputato di Fratelli d’Italia, in passato consigliere comunale di Alleanza nazionale, poi eurodeputato e tifoso interista. Fidanza, politicamente vicino alla corrente dell’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, entra in carcere per portare un saluto ai tre ultrà nerazzurri ancora dentro.

Sono Marco Piovella, detto il Rosso, accusato di essere l’organizzatore della guerriglia di Santo Stefano contro i napoletani, Francesco Baj e Simoncino Tira, questi ultimi membri attivi e quadri dirigenziali del movimento neofascista Lealtà e azione. Tanto che lo stesso Baj nel 2016 concederà gli spazi dell’agriturismo di famiglia a Rosate per celebrare la Festa del sole. Insomma un sigillo politico di orientamento chiaro. Che la presenza di Fidanza conferma. Sei giorni dopo la politica di destra torna a varcare il portone di San Vittore ancora una volta per un saluto agli ultrà accusati di rissa aggravata e omicidio volontario. È l’11 gennaio e a far visita ai tifosi nerazzurri è Massimiliano Bastoni per tutti Max, consigliere regionale della Lega, nonché figura molto vicina al movimento Lealtà e azione. Non a caso, lo stesso movimento Lealtà e azione, volto politico del movimento neonazista degli Hammerskin, al termine delle ultime elezioni regionali sul proprio profilo Facebook ha rivendicato il merito di aver fatto eleggere Bastoni al Pirellone. Si legge in quel post: “In questa tornata elettorale ci siamo impegnati per sostenere la candidatura di Max Bastoni. Un amico che in tempi non sospetti si è sempre esposto e battuto per temi a noi cari, portando avanti battaglie condivise in Comune a Milano e non solo”. Politica e tifo. Estrema destra e ultrà.

Il quadro, già delineato nelle ore successive all’agguato che ha portato alla morte dell’ultrà varesino Dede Belardinelli, si chiarisce ulteriormente. Nota non ai più, poi, un foto dello stesso Bastoni proprio in curva Nord. Con lui alcuni ultrà e dirigenti di Lealtà e azione. L’immagine scattata qualche tempo fa immortala un gruppo di circa venti persone proprio nella zona degli Irriducibili. L’istantanea ritrae Bastoni in mezzo, vicino a lui il consigliere di zona 8 Stefano Pavesi, anche lui fedelissimo di Lealtà e azione, ma eletto tra le fila della Lega. Oltre a Pavesi due notissimi dirigenti lealisti come Stefano Del Miglio e Giacomo Pedrazzoli. A destra invece c’è Francesco Baj e un altro del gruppo ultrà gli Irriducibili, entrambi indagati per i fatti del 26 dicembre. Bastoni e Fidanza, dunque. Quest’ultimo poi, da tifoso interista, il pomeriggio dell’11 novembre 2007, a poche ore dall’omicidio del tifoso laziale Gabriele Sandri, partecipò al corteo di protesta degli ultras. Quel corteo finì con scontri e un assalto tentato al commissariato San Siro, pochi metri oltre il luogo dove 11 anni anni dopo sarà investito Dede. Fidanza, però, lasciò il gruppo di ultrà prima che scoppiasse la guerriglia.

“Sembra un orango”. Calderoli condannato per l’insulto a Kyenge

Il senatore leghista Roberto Calderoli è stato condannato dal Tribunale di Bergamo a un anno e sei mesi per diffamazione aggravata dall’odio razziale. La nota vicenda risale al 2013: il leghista insultò l’ex ministra di colore Cecile Kyenge (oggi europarlamentare del Pd) definendola “un orango” nel corso di una festa della Lega Nord di Treviglio. Per Kyenge non sono previsti risarcimenti economici, visto che all’epoca non si costituì parte civile. L’ex ministra ha comunque esultato su Facebook: “Abbiamo vinto un’altra volta. Evviva evviva evviva. Il razzismo la paga cara: Roberto Calderoli condannato in primo grado ad un anno e sei mesi per avermi rivolto insulti razzisti. Anche se si tratta del primo grado di giudizio, e anche se la pena è sospesa, è una sentenza incoraggiante per tutti quelli che si battono contro il razzismo”. Calderoli era stato indagato quattro giorni dopo aver pronunciato queste parole: “Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango”. In seguito si era scusato con la ministra. Troppo tardi.

Ambra & C. non saranno più parti civili nel Ruby ter

Nel terzo filone del processo Ruby, la difesa di Silvio Berlusconi porta a casa un successo prezioso: Ambra Battilana, Chiara Danese e Imane Fadil – le ragazze testimoni chiave sulle “cene eleganti” dell’ex premier ad Arcore – sono state escluse dai giudici e non saranno più parti civili nel dibattimento. Una decisione che accoglie un’istanza della difesa di Berlusconi, rappresentata dal legale Federico Cecconi. Restano parte civile, invece, la Presidenza del Consiglio e l’Avvocatura dello Stato.

Il collegio, in sostanza, ha deciso che le tre giovani non possono essere parti civili e pertanto non possono chiedere un risarcimento danni nel processo. Per una ragione tecnica: il reato di corruzione in atti giudiziari – attorno al quale è costruito il processo Ruby Ter, insieme alla falsa testimonianza – è “offensivo” nei confronti dello Stato soltanto e non di altre parti, come le ragazze appunto.

Secondo la procura, invece, Ambra, Imane e Chiara, sarebbero dovute restare parti civili perché “hanno sofferto un danno da stress di fronte ad un esercito di altre ragazze eteroindirizzato” da Berlusconi. Mentre le tre hanno parlato del “bunga-bunga” ad Arcore, tutte le altre ragazze riportano la stessa versione delle “cene eleganti”.

La rete social di Renzi aiuta Giachetti al congresso Pd

Matteo Renzi continua a ripetere che non si occupa del congresso del Pd e non ha un suo candidato, ma la cosa non pare essere del tutto vera: la sua rete social “personale” – quella che ha messo in piedi sul modello della galassia grillina fin dalle primarie contro Pier Luigi Bersani e, in maniera davvero massiccia, dopo la sconfitta al referendum costituzionale – è infatti da un paio di settimane tutta schierata con Roberto Giachetti, che si presenta alle assise democratiche in ticket con la collega Anna Ascani dietro l’hashtag renzianissimo #sempreavanti. Se a questo si aggiunge l’attivismo sottobanco di alcuni pasdaran, su tutti Maria Elena Boschi, nel contattare dirigenti “amici” sul territorio da schierare con Giachetti e Ascani non c’è da credere troppo all’atarassia congressuale dell’ex premier e spiega una certa freddezza nei rapporti con Luca Lotti, che sostiene invece Maurizio Martina (con Lorenzo Guerini e altri).

Partiamo dal lavoro sui social. Se si guardano le pagine Facebook che furono il cardine delle campagne dell’ex sindaco di Firenze, si scopre che tutte sono state arruolate per Giachetti-Ascani divenendone la principale dorsale propagandistica online. Parliamo di pagine Facebook molto seguite come “Matteo Renzi news”, gestita professionalmente e che ospita diversi contenuti nuovi ogni giorno, che piace a oltre 105 mila persone e che da fine anno ha iniziato a condividere interventi del duo dei “renziani senza Renzi”: questa pagina – che continua a essere una fanzine informale dell’ex segretario, anche per la sua nuova professione di conduttore tv – divenne famosa nel 2017 quando una memorabile gaffe digitale rivelò che tra i suoi animatori c’era Alessio De Giorgi, social media strategist di Matteo Renzi.

Matteo Renzi News non è che un esempio. Attive nel pubblicare i contenuti della campagna congressuale di Giachetti e Ascani ci sono anche “W IL PD” – “pagina pro Renzi” da oltre 50mila like – o gruppi come “Matteo Renzi insieme al Pd” (22 mila membri), “Informazione libera con Renzi e il Pd”, (13 mila), “Gioia e Rivoluzione” (che prima si chiamava “Pd per Renzi”, 19 mila membri), “PDavvero. Riformisti con Matteo Renzi” (16 mila), “Matteo Renzi presidente”, “Ritorno al futuro”, “Il popolo del Sì” e molte altre: un pulviscolo di pagine in cui oggi vengono condivisi in contemporanea – e, secondo il parere di un esperto sentito dal Fatto, in automatico e a volte grazie a profili fake – anche i contenuti congressuali del “ticket”.

Curioso notare come molte ex pagine dei Comitati per il Sì al referendum siano oggi trasformate in quelle dei Comitati civici di Renzi animati da Ivan Scalfarotto, vicino a Boschi, sostenitore di Giachetti al congresso e vero raccordo tra il candidato e il capo: “L’Italia che dice Sì – Il Comitato online”, ad esempio, da ottobre si chiama “Ritorno al futuro. Comitati di azione civile”.

D’altra parte la stessa campagna di Giachetti batte ormai esplicitamente su una sorta di revanscismo renziano: in un video di venerdì scorso, molto condiviso in questa rete social, il candidato segretario invita tutti a votarlo per “difendere fino in fondo il lavoro che è stato fatto in questi cinque anni da Matteo Renzi” e per “non lasciare il partito in mano a chi ha criticato e boicottato la linea politica di questi cinque anni”.

Una chiamata alle armi telematica dei pasdaran renziani che va di pari passo con l’attivismo telefonico di quei colonnelli renziani che hanno deciso di non appoggiare Martina. Maria Elena Boschi, su tutti, ha cominciato da qualche tempo – il 7 gennaio sono intanto iniziati i congressi nei circoli – a chiamare alcuni dirigenti locali d’area invitandoli a portare acqua al mulino di Giachetti-Ascani: lavoro certosino che – per non fare che qualche esempio – è passato dal sindaco di Sasso Marconi Stefano Mazzetti al presidente della VIII circoscrizione di Torino Davide Ricca, dal segretario provinciale di Taranto Giampiero Mancarelli al presidente della Direzione Pd di Bologna Piergiorgio Licciardello, dalla dirigente di Reggio Emilia Maura Manghi al deputato di Padova Alessandro Zan.

I risultati si vedono: come dato simbolico si può citare il risultato del circolo di Matteo Renzi, quello di Rignano sull’Arno (100 voti in tutto, 83 per Giachetti), ma anche ad esempio nella provincia di Varese il primo giro di voti assegna al “renzianissimo” un lusinghiero 17% anche grazie – si dice – a un pezzo della rete del consigliere regionale Samuele Astuti, renziano formalmente schierato con Martina (fermo al 29% per ora).

L’obiettivo dell’operazione è dichiarato: portare il ticket di #sempreavanti al terzo posto nel congresso dei circoli con più del 5%. Come ha detto lo stesso Giachetti: “Se batto Francesco Boccia poi ci divertiamo”. È il deputato pugliese l’avversario diretto del duo renziano in questa fase (“ha una sua organizzazione”, dice Giachetti), quello da scavalcare per “divertirsi”: la fase del divertimento è quella che, eventualmente, partirà dal 2 febbraio, cioè quella delle primarie aperte a tutti, quando nel mirino dei renziani finirà il favorito per la vittoria finale, cioè Nicola Zingaretti.

L’obiettivo non è vincere, quella possibilità non esiste, ma tenere il presidente del Lazio – che incarna il partito che intende ricostituirsi in “Ditta” bersaniana – sotto il 50%, facendone un futuro leader dimezzato. Lo stallo nel Pd fino a dopo le Europee non dispiace a Matteo Renzi: tanto ha già deciso che il suo futuro non è in quel partito.

Mail Box

 

Ero in piazza per la Repubblica: morirò democristiano?

Ero un ragazzo quando un giorno di primavera romana mi sono trovato in piazza del Popolo e abbiamo proclamato la Repubblica, ma non si trovava chi lo dovesse fare. Un piccolo ma grande ministro dell’Interno del governo provvisorio, convocò i comizi e siamo andati a proclamare la Repubblica ma non solo in piazza del Popolo.

Via Nazionale, il Corso, via Cavour, piazza Venezia e la via Flaminia erano bloccate per la gente e le bandiere e quel ministro era il signor Giuseppe Romita del Comitato di liberazione nazionale. Il giorno dopo è tornata la realtà, il Paese era distrutto e noi non avevamo più niente! Ci siamo messi a lavorare, a risparmiare, a fare una nuova società. Abbiamo fatto molto: una nazione ricca e rispettata nel mondo. Ma non poteva durare, il fascismo cambiò il fascio di verghe e la scure con la croce, i cattolici obbedivano agli ordini che venivano da via Veneto etc. Il risultato è quello di oggi. Non leggo sempre il vostro giornale perché l’edicola del paese è chiusa e le altre sono lontane.

Vi esorto a mantenerlo come una bandiera alla cui ombra dovete chiamare la gente che vuole cambiare, non so quanto potrete fare, ma mettetecela tutta. Ho superato la vecchiaia, sono in fase di antichità, sto giungendo capolinea e mi dispiace morire democristiano!

Giuseppe Scorcetti

 

 

Le giravolte della Lega sulla linea Torino-Lione

Ormai Salvini è diventato un esperto di giravolte e ogni giorno che passa ne inventa sempre qualcuna nuova magari con triplo salto carpiato. Infatti avevamo lasciato il nostro come oppositore alla trivelle in tempo di referendum ma poi con una capriola in avvitamento è diventato difensore del sì alle trivelle.

Avevamo registrato la posizione contraria della Lega al Tav e ora la stessa scende in piazza e manifesta con i Sì Tav. Avevamo capito che Salvini vuole i ladri e corrotti in galera (o forse solo i poveracci) e in Senato la Lega insieme ai Forza Italia, Partito democratico e Fratelli d’Italia vota contro la concessione dell’autorizzazione ai magistrati per processare alcuni parlamentari.

Insomma con una serie di capriole e controcapriole “il Capitano” sconfessa a giorni alterni tutte le battaglie per il cambiamento che dice di intestarsi.

Leonardo Gentile

 

 

La classe politica non cambia e noi perdiamo la speranza

La diabolica formula elettorale chiamata “Rosatellum” che tanto ha offeso l’elettorato non ha però premiato i suoi inventori.

All’epoca si era voluto rovesciare il tavolo richiamando alla memoria qualcosa di simile a Tangentopoli, quando chi rubava non se ne pentiva, anzi.

Adesso non esce sconfitto il senso del privilegio – ovvero il senso elitario – del fare politica, cosa essenziale, e non essendo questo un problema generazionale ci accompagnerà ancora a lungo.

Fintantoché il nostro mondo politico non acquistera una speranza verso il domani. In questa democrazia parlamentare gli eletti sono dei guasconi che riescono a vivere spudoratamente sulle spalle dei cittadini caricando su di essi un costo abnorme ma resteranno i detentori del potere e protagonisti sui media. Mantenendo i loro propri interessi privi di una visione. Allora viene da chiedersi: si deve continuare a cercare una moralizzazione della vita pubblica o meglio lasciarsi trascinare dalla corrente?

Mauro Faggi

 

 

Ogni anno, dal 1961, diamo 25 milioni ai cappellani militari

Segnalo una spesa che costa allo Stato 25 milioni di euro ogni anno. Si tratta dei cappellani militari, figura già presente da prima della nascita dallo Stato italiano che nel 1925 istituiscono l’Ordinariato militare poi riconosciuto dai Patti lateranensi. In più nel 1961, con la 512, costoro vengono equiparati economicamente agli ufficiali dell Forza armate con tanto di attribuzione dei gradi militari. Anche loro fanno tutta la trafila da tenenti a in su, nonostante qualche hanno fa papa Francesco ha sostenuto che non occorrono i gradi per assistere spiritualmente i militari nelle caserme e nelle missioni all’estero. Tra le loro principali attività, come riporta i loro sito Internet, sono i pellegrinaggi, da Lourdes alla Sindone, corsi prematrimoniali per militari, messe di commemorazione militari e un giornalino.

Roberto Matalone

 

 

Una precisazione sul testo di Corrado Stajano

In riferimento al testo di Corrado Stajano pubblicato dal Fatto Quotidiano il 13 gennaio col titolo “L’Italia di Turone. P2, servizi e golpisti”, si precisa, a beneficio dei lettori, che il medesimo è tratto dalla prefazione al libro di Turone, Italia occulta, edizione Chiarelettere.

Lorenzo Fazio

 

 

I nostri errori

L’intervista immaginaria al ministro Salvini pubblicata ieri nella rubrica “Sold Out” è risultata più immaginaria di quanto desiderassi: il tema era la partita Genoa-Inter che si svolgerà, per disposizione del Viminale, lunedì 21 alle ore 15, e non ieri, come si desumeva dall’incipit, essendo il campionato ancora sospeso. Me ne scuso con i lettori.

P. Z.

Esodati. Il decreto quota 100 discrimina gli ex dipendenti ora liberi professionisti

 

Visto che mi riguarda personalmente, ho letto con attenzione la bozza che è circolata del decreto sulla riforma delle pensioni quota 100. È chiaramente discriminatorio perché applica le nuove condizioni più favorevoli solo e soltanto a coloro che sono iscritti a gestioni Inps. Non si capisce perché chi ha un’anzianità contributiva da lavoratore dipendente iscritto all’Assicurazione generale obbligatoria (Ago) Inps e attualmente svolga attività di lavoratore autonomo e versi alla gestione separata Inps, può accedere a quota 100, mentre un altro cittadino, con la stessa anzianità contributiva da lavoratore dipendente iscritto all’Ago Inps che oggi svolge attività di lavoratore autonomo ma versa a una cassa di previdenza privata, non può accedere a quota 100. Per questo i primi due commi dell’articolo 14 del decreto devono essere modificati, per eliminare il riferimento esclusivo agli iscritti alle gestioni Inps. La Finanziaria 2017, con un emendamento identico a quello che servirebbe oggi al decreto di quota 100, alla legge istitutiva del cumulo contributivo aveva previsto di estendere la facoltà di cumulo gratuito, ai fini della pensione di vecchiaia e della pensione anticipata, anche agli iscritti agli enti di previdenza privata: cioè sostanzialmente a tutti i liberi professionisti.

Ettore Candia

 

Gentile Ettore, il governo continua a rinviare la versione finale del decreto su quota 100 perché è facile fissare un principio generale ma è poi molto complicato applicarlo senza discriminare, cioè senza trattare in modo uguale situazioni diverse e in modo diverso situazioni uguali. È chiaro che qualche paletto bisogna metterlo, non si può applicare quota 100 a tutti gli iscritti alle casse private perché molte di queste applicano da anni regole autonome, purché compatibili (e questo non è sempre chiaro) con la propria sostenibilità finanziaria. È evidente però la rilevanza della sua obiezione: chi negli anni della crisi ha perso il lavoro da dipendente dopo una vita di contributi versati e si è reinventato libero professionista in attesa della pensione, ora non può vedersi di nuovo beffato dallo Stato. Quando la Lega voleva riformare la legge Fornero per tutelare gli esodati – sospesi nel libro tra lavoro e pensione – almeno il progetto era chiaro. Ora che lo scopo dichiarato è far entrare i giovani nel mercato del lavoro al posto dei pensionandi, gli esodati sono stati di nuovo dimenticati. I soldi necessari per evitare questa discriminazione infondata non dovrebbero essere molti.

Stefano Feltri

Sandro Veronesi, uno che dà il sangue (per Berlusconi)

Lo scorso giugno, Sandro Veronesi ha rilasciato una splendida intervista a Candida Morvillo per il Corriere della Sera. Era piena di vita, sincerità e acume. Del resto Veronesi è bravo, come lo è suo fratello: i loro genitori dovevano avere geni assai performanti. Durante quella chiacchierata, Veronesi ha raccontato anche la sua battaglia (vinta, per fortuna) contro il cancro: “Due anni fa, ho avuto un tumore. Quando mi hanno comunicato la diagnosi, ho pensato di essere troppo giovane per morire. Che avevo i figli troppo piccoli per morire. E che, quindi, non sarei morto”. Veronesi aveva parlato anche di quel Pd a cui è dichiaratamente vicino: “Mi ero entusiasmato quando Walter Veltroni l’aveva fondato. In quel 2007, partecipai a una lista a Prato di soli extracomunitari e me. Walter fu eletto segretario, mi aspettavo che tutto sarebbe cambiato, ma non andò così perché non aveva un suo esercito. Aveva la forza delle idee, ma non di occupare il partito. Massimo D’Alema e Matteo Renzi sì. Dopo di lui, tutto è successo per motivi vili”.

Pochi giorni fa, Veronesi è tornato a parlare. Negli ultimi tempi è assai ciarliero, specie sui migranti, e su Twitter non manca di sfanculare (corrisposto) leghisti e grillini. Così sabato: “Comune di Roma, sei una testa di cazzo”. Da buon toscano, Veronesi ama risultare fieramente antipatico pur di suscitare una reazione: lo fa quando interpreta (benissimo) la parte dello juventino saccente, lo fa quando da tifoso di Federer parla di Nadal come se fosse un peracottaro. Stavolta però ha deciso di parlare da solo, cioè col Foglio. Nel lungo monologo, Veronesi ha detto molte cose sensate: “Ci sono persone che (quando vengono attaccate sui social, ndr) si deprimono oppure, se sono popolari, hanno paura di perdere consenso. Anche io ci ho pensato al fatto di perdere tempo o il mio aplomb, mettendomi lì a questionare nella fanga. Ora che ci sono onestamente non mi fa né caldo né freddo”. Veronesi ha poi indovinato non pochi affondi su Salvini: “Non ha fatto niente per cambiare il trattato di Dublino, che ci penalizza. Per 22 volte non si è presentato alle riunioni per modificarlo, la Lega si è astenuta quando c’era da cambiarlo (…). Enrico Letta, che è stato una meteora, oggi fa conferenze, insegna nelle migliori università d’Europa. Dopo l’espulsione qualcosa la fa. Salvini cosa fa? L’influencer dei prodotti alimentari?”. Poi, dopo avere dato tragicamente ragione a Giuliano Ferrara, Veronesi ha battuto a lungo su un tasto che (ora) gli sta a cuore: “Bisogna esporsi”. Sacrosanto. E a farlo devono esserlo anzitutto artisti e intellettuali. Sacrosanto.

Certo, magari questa voglia di esporsi il buon Veronesi poteva esibirla anche prima, quando la sedicente sinistra italiana a lui cara ammazzava la sinistra reale e preparava il campo a Salvini & sovranisti. Ma evidentemente chiedergli toni critici contro Renzi era troppo. Sopravvivremo tutti serenamente, per carità. Solo che così si rischia il cortocircuito. Passi esser d’accordo con Mara Carfagna, che in confronto a Boschi è Rosa Luxemburg. Passi sostenere che Marcello Pera “aveva un pensiero profondo”. Poi però Veronesi è andato oltre, ripetendo quanto già sostenuto a novembre: “Salvini è più pericoloso di Berlusconi perché non ha nulla da perdere (…). Fa paura perché è disposto ad andare fino in fondo”. Quindi? “Lo ribadisco: ho detto e lo ridico che firmerei con il sangue per far tornare Berlusconi al posto di Salvini”. Ecco, Sandro: parla per te. E di sangue, per parafrasare Boris Vian, vai a dare il tuo. Il mio, no di sicuro.

Lo zen e l’arte di Salvini di svicolare

Dopo tante ore di televisione sorbite e innumerevoli stringhe di testo sottoposte a attenta esegesi, domenica sera ci è parso di essere giunti al segreto della tecnica comunicativa di Matteo Salvini.

Da Giletti su La7, dove è andato principalmente a officiare il rito dell’ostensione del Cesare Battisti catturato, la temperatura è subito alta e la narrazione manichea come una puntata di Dragon Ball: Giletti parla di “sacrificio” dei “nostri uomini”; Salvini rilancia con “quello schifoso”, “quel vigliacco”, “quel soggetto”, “quel fenomeno”; Giletti si emoziona per “preso!”, come da comunicazione dei servizi; Salvini rilancia con “assassino comunista”, “italiani perbene”, “marcire in galera”. Questa variante climatica dell’ospitata salviniana, ormai un sottogenere del talk show politico, rivela come al tornasole che parte della facilità con cui il coltello di Salvini è entrato nel burro dell’Italia mentale deriva dal fatto che sulle questioni precise Salvini non risponde mai nel merito, ma fa una finta e dribbla l’avversario, aprendo un altro fronte tematico utile a lui. Un trucco dialettico vecchio come il mondo, giocato con tanta naturale maestria che quasi non ci se ne accorge.

“Perdonami, ho il cellulare acceso, perché quel soggetto lì dovrebbe salire in aereo verso le 10”, dice a scusante della sua distrazione, come se i servizi segreti non sapessero che in quel momento Salvini è in diretta Tv; da qui, il copione seguìto potrebbe adattarsi a qualsiasi scenario. Le domande di Giletti sono ascoltate, ignorate e bypassate; sono solo una pausa nella partitura preconfezionata e intercambiabile del rispostario salviniano, di solito ruotante attorno a un vortice: il conflitto tra la sua persona, dotata di qualità morali d’altri tempi (integrità, semplicità, genuinità), e la difficile contingenza di gestire un’immigrazione rapace e incontrollata.

Giletti lo provoca sull’epilogo della vicenda delle 49 persone lasciate in mare per 19 giorni: “Si dice che lei abbia ceduto sull’immigrazione”. “Guardi, io bado ai fatti: penso che gli italiani mi riconoscano concretezza, coerenza, serietà. I fatti dicono che nel 2018 sono sbarcati quasi 100mila immigrati in meno rispetto al 2017”, ed è ovvio che la risposta non c’entra niente con la domanda. Sulla minaccia di non identificare i migranti, ipotesi che creerebbe folle di clandestini in giro per l’Europa, ribatte: “Buono sì, scemo no”; poi inscena il noto teatrino parassitario: “Sono 30enni più robusti di me, col telefonino, le cuffiette, le scarpe da tennis”. Assicuratasi l’attenzione emotiva del pubblico, vira sul climax: “Spacciano, scippano, stuprano!”. Boato catartico del pubblico, lieto che qualcuno di autorevole osi quello che esso si permette solo dopo qualche bicchiere.

“Ma Conte si è sentito superato?”, insiste Giletti. Salvini: “Qual è la questione importante, di fondo?”, fa Salvini. “Che finché si fa capire agli scafisti che coi soldi che incassano comprano armi e droga… In Italia si arriva chiedendo permesso e per favore”. L’applauso è al pugno di ferro che il ministro nasconde sotto il pullover e ha il merito di far dimenticare a tutti la domanda, che riguardava i rapporti dentro il governo e non gli scafisti. Giletti: “Ma non si può applicare un protocollo valido sempre?”. Risposta: “Anche perché ci sono delle Ong che fanno i furbetti”.

Salvini sa che i telespettatori non sopportano le polemiche dei saccentoni (perciò hanno nausea di Renzi). Lontani i tempi in cui entrava in studio con l’iPad e sciorinava numeri e percentuali, oggi semplifica, porta la discussione al livello della chiacchiera da pianerottolo. L’unico strappo lo fa parlando di sbarchi, usando numeri spesso in conflitto con quelli del suo ministero, e di povertà: “Ci sono 5 milioni di italiani che vivono in Italia da poveri”, il che è falso: nei 5 milioni rientrano anche gli stranieri.

Giletti gli chiede dell’emendamento pro-Rixi, la modifica al codice penale che consentirebbe ai pubblici ufficiali di invocare l’indebita percezione e non il peculato, che ha pene più severe e una prescrizione più lunga. Salvini non ha idea di cosa sia il comma Rixi. A malapena sa che Rixi è il sottosegretario ai Trasporti. Le “manine” non concorrono alla sua epopea. Scarta di lato: “Sull’onestà mia non transigo, e anche su quella dei 5Stelle”, che nulla c’entrano visto che Rixi è della Lega. Poi fa il trucco zen del “Non pensare all’elefante bianco”: “Per carità, ci possono essere leggi fatte meglio. Stiamo lavorando alla riforma del processo civile e penale. Non è giustizia quella che ti dà una sentenza dopo 10 anni, magari sei fallito o sei sotto terra”, ovvietà che cancella dalla mente di chi ascolta l’eventuale favore all’imputato Rixi che egli chiama “fratello”. Poi si alza ed esce salutando con le mani giunte, come il Dalai Lama.

Il referendum sul Tav non ha senso

Nell’economia di mercato decide chi paga. Il consumatore è libero di comperare tutto ciò per cui è disposto a spendere e il produttore di realizzare tutto ciò per cui è disponibile a pagare i fattori produttivi necessari. Anche in democrazia decide chi paga, o almeno così dovrebbe essere. Nel ’700 gli americani delle colonie reinventarono la democrazia, un paio di millenni dopo l’esperienza di Atene, proprio con lo slogan “No alla tassazione senza rappresentanza”, non essendo disponibili a pagare le alte tasse di re Giorgio d’Inghilterra senza aver voce in capitolo sulle relative decisioni.

Proprio nei giorni scorsi, quasi due secoli e mezzo dopo, i numerosi amministratori locali italiani che hanno aderito e forse anche promosso le manifestazioni Sì Tav, hanno completamente rovesciato lo slogan della rivoluzione americana, scendendo in piazza sotto l’insegna della “Rappresentanza senza tassazione”. Chiedono infatti che lo Stato centrale, straordinario Deus ex machina della democrazia contemporanea, realizzi il Tav Torino Lione, così come altre opere che interessano altri territori, senza tuttavia che le comunità locali che ne traggono beneficio siano chiamate a partecipare ai relativi costi.

Chi se la sentirebbe tuttavia di dire ragionevolmente di no a una decisione che realizza vantaggi, bassi o alti che siano, ma che non costa nulla?

Il test di validità sulle grandi opere non può essere semplicemente basato sui benefici che procurano, presenti evidentemente in maggiore o minor misura. Deve essere invece in grado di dimostrare che le opere in oggetto valgono di più dei soldi necessari per costruirle. Ma il test non può funzionare se risponde alla domanda solo chi trae vantaggio senza essere chiamato a pagare. I politici locali sostenitori delle grandi opere chiedono infatti a gran voce che la scelta sia sottoposta a referendum, tuttavia limitato agli elettori del territorio, proprio quelli toccati dai benefici ed esentati dai costi di realizzazione. Essi sono inoltre insofferenti verso l’analisi costi-benefici condotta dal governo nazionale, condizionati dal fatto che per il loro territorio l’analisi costi-benefici, non essendoci costi locali di realizzazione, per definizione viene sempre positiva.

Solo chi paga effettivamente per le grandi opere avrebbe titolo per dire se è d’accordo, tuttavia esse sono finanziate non con incremento di tassazione ma di debito pubblico. Pertanto gli unici abilitati a esprimersi in un eventuale referendum sono gli italiani delle prossime generazioni, ai quali lasceremo in eredità le nuove opere da un lato e il maggior debito contratto per realizzarle dall’altro.

Sembra così irragionevole richiedere, tanto ai politici nazionali quanto a quelli dei territori, che il saldo debba essere positivo, che le maggiori opere debbano valere di più, e possibilmente molto di più, del maggior debito? Le riflessioni precedenti dimostrano che non ha alcun senso che si decida con referendum, né locale né nazionale, e dimostrano anche che compete solo al governo nazionale farsi carico di decisioni che producono effetti di benessere più sui cittadini di domani che su quelli di oggi.

I politici locali, i quali desiderano che le comunità territoriali siano più ampiamente coinvolte nei processi decisionali sulle opere pubbliche, chiedano anche, coerentemente, che esse siano chiamate a compartecipare significativamente ai loro costi, come avviene ad esempio nella vicina Francia. Lo slogan dei Padri fondatori degli Stati Uniti funziona infatti nelle due opposte direzioni: nessuna tassazione senza rappresentanza e nessuna rappresentanza senza tassazione.