“Non ho mai lavorato per la Russia”. Il presidente Usa Donald Trump nega ogni collaborazione con Mosca e si scaglia contro le rivelazioni del New York Times sull’apertura nel 2017 di un’inchiesta dell’Fbi per stabilire se avesse lavorato per conto di Mosca. “Chi ha lanciato l’inchiesta l’ha fatto perché avevo rimosso Comey”, ha detto Trump. Il Washington Post ha riferito anche che il presidente avrebbe tenuto i collaboratori all’oscuro delle proprie conversazioni private con Putin. “È una disgrazia anche solo che facciate questa domanda, è tutto una grande montatura”, ha dichiarato Trump ai giornalisti e ha aggiunto, a proposito di Putin di avere lo stesso “tipo di incontri con tutti i leader” e che “avere una buona relazione con quasi tutti è una buona cosa, non una cosa negativa”. Trump è al centro anche delle indagini del Russiagate del procuratore Robert Mueller che indaga sulla possibilità che il Cremlino abbia influenzato le elezioni presidenziali del 2016.
Pelosi vs AOC: la sfida nei Dem
Due leader. Una anziana borghese, ancora in forma e capace di manovrare il potere. L’altra giovane, spumeggiante, nata nella working class come ama dire di sé e che deve farsi ancora le ossa.
Nancy Pelosi, appena eletta presidente del Congresso Usa, bestia nera di Donald Trump nella dura trattativa sul budget che ha portato allo shutdown: 1,94 milioni di follower su Twitter. Alexandra Ocasio-Ortez, (AOC) 29enne di origine portoricana che rappresenta il nuovo socialismo americano: 2,38 milioni di follower. I social dicono molto della forza simbolica di queste figure che rappresentano due possibili strade per i democratici, con le corporation e quindi l’establishment dalla parte della prima, e la moltitudine di americani che sperano nel futuro con la seconda.
Il costume e il colore descrivono i fatti molto meglio delle analisi politiche. E così Nancy Pelosi ha guadagnato articoli e spazio su media e social grazie a un cappotto rosso. Uscendo da un incontro con Trump, infatti, la presidente del Congresso indossava una cappotto di Max Mara che le è valso una valanga di complimenti fino a descriverla come un “simbolo elegante di rivolta” secondo Vanessa Friedman sul New York Times. E il successo è stato così ampio che Max Mara, che nel 2013 aveva smesso di distribuire il modello Glamis, ha annunciato che lo riporterà nei negozi il prossimo anno.
La scena offerta da Alexandra Ocasio-Ortez è un po’ più movimentata. Per replicare ai Repubblicani che hanno diffuso un video di lei studente universitaria, che ballava sui tetti dell’università, con il chiaro obiettivo di infangarla, la giovane newyorchese non solo ha rivendicato il diritto a ballare, ma poi si è fatta filmare nei pomposi locali del Congresso americano mentre replicava quei passi di danza. Entrambi i video sono divenuti virali tanto che la scena si è ripetuta nel corso dell’incontro con il reverendo Al Sharpton, attivista dei diritti sociali, ministro battista e già consigliere di Barack Obama. Il cappotto borghese contro la danza ribelle, si potrebbe riassumere.
Appena eletta alla Camera dei Rappresentanti, in realtà, AOC ha subito annunciato di sostenere la presidenza di Nancy Pelosi votando per lei nonostante una fronda di circa 20 deputati all’interno del gruppo democratico. Ma lo scontro tra le due è decollato quando si è trattato di approvare il pacchetto di misure economiche e sociali approntato dalla Pelosi per affrontare la trattativa con Trump sul budget.
Ocasio-Ortez si è schierata contro per il tasso di austerity che quel provvedimento conteneva, lanciando una serie di proposte esplosive. La tassazione al 70% dei redditi sopra i 10 milioni di dollari, i super-ricchi, quelli presi di mira da Occupay Wall Street quando invocava politiche per il 99% contro l’1% della popolazione. E poi l’investimento in un New Green Deal, un massiccio piano di investimenti pubblici ad alto tasso ecologico a partire dalla scomparsa del carbon fossile in 10 anni.
Ha anche proposto ai Democratici di creare un comitato ad hoc alla Camera, ma la sua iniziativa è stata fatta fuori bruscamente proprio da Pelosi che le ha preferito un più soft Comitato sulla Crisi climatica il cui compito è stato limitato a delle raccomandazioni sul cambiamento climatico.
A capo del Comitato, Pelosi ha piazzato Kathy Castor, deputata della Florida, che ha subito inviato le più ampie rassicurazioni all’industria del carbon fossile. Niente a che vedere con le proposte “scandalose” di AOC che, in tempi di shutdown, ipotizzano che i congressisti congelassero il proprio stipendio esattamente al pari dei dipendenti pubblici. “Chiamatemi pure estremista. Anche Lincoln e Roosevelt lo erano” dice AOC: “Lo sono state tutte le grandi figure storiche che hanno generato enormi cambiamenti: dall’abolizione della schiavitù al New Deal”
La coerenza, del resto, ha fatto la forza finora della giovane deputata che ha battuto alle primarie newyorchesi l’ala liberale (e non liberal, nel senso statunitense) del partito democratico. Lei preferisce ancora essere aderente all’immagine offerta nel video della sua campagna elettorale, prodotto dalla Means of production (Mezzi di produzione, un rimando a Marx) e che la vede immersa nella realtà della working class, cambiarsi le scarpe mentre va al lavoro, credere che un futuro “per i molti” sia possibile, stare in mezzo alla sua gente. Il volto ideale per tirare la volata al candidato socialista Bernie Sanders contro la leadership dal cappotto rosso. O, chissà, per essere proprio lei a correre per la presidenza.
L’ultima minaccia di Theresa May: “O questo accordo o si resta in Europa”
“Per il bene del Paese, sostenete il mio piano”. Per il suo ultimo appello popolare, a 24 ore dal voto di ratifica parlamentare dell’accordo di divorzio dall’Unione europea, Theresa May ha scelto una fabbrica di porcellane a Stoke-on-Trent, cittadina epicentro della Middle England, dove il Leave al referendum del 2016 aveva superato il 70%. Ha evocato il rischio che, nell’eventualità di bocciatura del suo piano, non ci sia nessuna Brexit; ed è arrivata a un passo dal giocare col fuoco delle divisioni, citando chi, a Westminster, lavora contro la Brexit, cioè contro il mandato popolare. “La fiducia del popolo nel processo democratico e nei politici subirebbe un danno catastrofico” ha commentato, prima di raggiungere proprio la House of Commons per le ultime ore di dibattito. Ha ammesso che il suo accordo è un “compromesso” ma ai parlamentari ha chiesto di dargli “una seconda occhiata”. A garanzia, la lettera con cui Juncker e Tusk – presidenti rispettivamente di Commissione e Consiglio europei – hanno ribadito di voler procedere rapidamente con la seconda fase di negoziati, quella sugli accordi commerciali, per concluderli entro la fine della fase di transizione.
Si eviterebbe così l’applicazione della controversa backstop, la clausola di salvaguardia dell’accordo che eviterebbe il ritorno di un confine tra le due Irlande mantenendo però la Gran Bretagna in una forma di unione doganale con l’Ue. “In alternativa saranno presi in considerazione accordi di facilitazione e nuove tecnologie” si legge nella lettera. Per l’Avvocato generale dello Stato Geoffrey Cox, “è improbabile che l’Ue voglia procedere con l’implementazione della backstop”. A questo proposito May ha fornito “rassicurazioni che le conclusioni del Consiglio hanno valore legale”. La mossa non sembra aver smosso numeri in Parlamento. Da Bruxelles arriva la disponibilità a una proroga, anche se il presidente del Pe Tajani avvisa che “comporterebbe dei problemi giuridici”.
Macron prepara il dibattito nazionale Mélenchon: “È un grande diversivo”
Macron lancia oggi un “grande dibattito nazionale” nel tentativo di uscire dalla crisi dei Gilet gialli. Si comincia da Grand-Bourgthroulde, un paesino della Normandia, dove insieme a 600 sindaci della regione, apre uno dei primi incontri che si terranno fino a metà marzo su temi come la fiscalità e la transizione ecologica. Basterà a frenare la protesta? I francesi sono scettici. Secondo OpinionWay il 52% non intende partecipare al dibattito e solo il 4% pensa che servirà a mettere fine al movimento. La lettera che Macron ha scritto ai francesi, in cui pone 32 domande, convince poco. Molti Gilet pensano che il dibattito sia una grande farsa e che le conclusioni sono decise a monte. Nel testo il premier scrive che non ci saranno “temi vietati” ma poi sottolinea che non ritornerà “sulle misure prese per incoraggiare gli investimenti”. La riforma dell’Isf, l’abolizione dellaa patrimoniale per gli ultra-ricchi, dunque, non si tocca. Alcuni Gilet moderati preferiscono vedervi una chance. “Resto diffidente – ha detto Hayk Shahinyan dei “Gilets jaunes, le mouvement” – ma ci sono punti positivi, come l’apertura sul voto bianco e sulla riforma delle istituzioni. Ma se l’idea è solo di addormentarci per due mesi, allora si prepari al peggio”.
Sul dibattito sono scettici anche i sindaci messi loro malgrado al centro del dispositivo. Sono stati loro distribuiti dei kit: “Abbiamo l’obbligo del risultato”, ha detto Vanik Berberian, presidente dell’Associazione dei sindaci rurali di Francia, dopo aver consegnato a Macron i cahiers de doléances, cioè la lista delle recriminazioni. L’opposizione è spietata. Per l’“indomito” Jean-Luc Melenchon il grande dibattito è solo “un grande diversivo”. Il socialista Benoît Hamon ritiene che la lettera di Macron “è esplicita: non sarà fatto niente per la giusta ripartizione delle ricchezze”. Per il Rassemblement nationale, con Marine Le Pen impegnata nella campagna per le Europee, Macron sta solo tentando di “guadagnare tempo per tirare fino al voto”.
Ucciso il sindaco: voleva una Polonia accogliente
Pochi minuti prima che la lunga lama del coltello affondasse per tre volte nel suo petto, il sindaco di Danzica sorrideva sul palco. L’orchestra stava per iniziare a suonare. Tra cori, fuochi d’artificio e nastri di festa all’evento di beneficenza “Luci del Paradiso”, è stato pugnalato Pawel Adamowicz, perenne sorriso, 53 anni e due figli piccoli. Ieri non è morto solo il sindaco della città che diede inizio alle proteste contro i sovietici nel 1981, ma si è spenta la voce di tutta la Polonia liberale e democratica, sempre più piccola e silenziosa. “Un uomo di libertà, un europeo, un mio grande amico è stato ucciso” ha detto il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk.
Sembra che nessuno in Polonia adesso riesca a dire che il sindaco è morto. “Ha perso la lotta per la sua vita” ha detto il ministro della Salute, Lukasz Szumowski alla Pap, agenzia di stato polacca, dopo un’operazione durata cinque ore. “Pavel nie zyje”, Pavel non è più vivo: è il titolo di lutto di Gazeta Wyborcza, il più importante del quotidiano polacco, fondato da Adam Michnik, ex dirigente di Solidarnosc, sindacato autonomo dei lavoratori di cui aveva fatto parte in gioventù il sindaco. Per il quotidiano è un delitto politico, nato dal clima d’odio diffuso nel Paese. Il ragazzo che distribuiva stampa clandestina prima del crollo del Muro e che poi è divenuto primo cittadino di Danzica è morto in diretta tv, durante il suo sesto mandato nella città dei cantieri e del carbone. Le sue ultime parole, affidate alle telecamere pochi minuti prima, rimarranno queste: “Danzica è una città piena di bontà e tolleranza, sono convinto che in futuro lo sarà tutta la Polonia”. Attivista per i diritti umani sin dai banchi del liceo, da sindaco promuoveva i diritti Lgbt: voleva accogliere i migranti siriani nella sua patria, che invece li respinge con xenofobia diffusa e trasversale.
Da Solidarnosc alla solidarietà: quella che ora porge alla famiglia Jaroslav Kaczynski, leader del Pis, Legge e Giustizia, partito che lo aveva reso bersaglio delle sue critiche costanti su tutti i canali tv. Per i critici del governo la responsabilità di questa morte pende sul premier e sul suo partito, che alimentano l’estremismo nazionalista. Adamowicz è morto nello stesso ospedale dove voleva far curare i bambini siriani feriti in guerra, un’iniziativa bloccata proprio dal Pis, un atto di solidarietà per cui la Gioventù polacca – organizzazione dell’ultradestra – gli aveva recapitato “una notifica di morte politica”.
Danzica ora lo piange e Varsavia ha dichiarato tre giorni di buio e lutto. Il Paese si interroga su chi sia davvero Stefan V., 27 anni, un pugnale di 15 centimetri e una fedina penale lunga e sporca. Il ragazzo che ha ucciso il sindaco era uscito di prigione lo scorso mese e adesso due psichiatri stanno valutando se è capace di intendere e volere. Alla folla, prima di uccidere, ha urlato che Piattaforma Civica, partito di Adamovicz, era responsabile della sua incarcerazione avvenuta nel 2014: “Ero in prigione da innocente, questo partito mi ha torturato, ecco perché lui muore”, ha detto prendendo il microfono sul palco dell’evento organizzato da Jerzy Owsiak, dell’organizzazione di beneficenza “Luci del Paradiso”. Owsiak ha rassegnato le sue dimissioni, ma ha detto che continuerà ad aiutare i bambini cui erano destinati i fondi della serata.
Come il sindaco, anche lui ha ricevuto messaggi di odio dell’ultradestra e ha denunciato: “La polizia non fa niente per fermarli”.
Eroina, buco nero delle città
Capita di dover ricominciare a parlare di eroina. Capita di dover ricominciare a parlare di droghe, perché da un pezzo non se ne parlava più. O meglio, da un pezzo si parlava solo di cocaina: droga pulita, droga bene, droga per “ricchetti”, droga milanese che scorre persino nelle acque reflue della città, droga globale che viene buona per fare tante serie tv e merchandising su Narcos e dintorni.
E invece si viene a scoprire che non solo l’eroina non se ne è mai andata, ma è anche diventata molto più a buon mercato, venduta in tagli adattabili alle paghette dei più piccoli, spacciata trasversalmente a tossicodipendenti di ogni età e condizione, consumata in posti degradati, di periferia (il “bosco della droga” di Rogoredo), pericolosi e abbandonati, isolati. Capita dopo un anno, quello passato, aperto e chiuso da due omicidi di ragazzine (Pamela Mastropietro, Desirée Mariottini, 18 e 16 anni), la cui fine terribile è stata usata dalla propaganda leghista per alimentare la crociata contro gli immigrati neri, spacciatori e violentatori, più che per fermarsi a riflettere sul ritorno fra i giovanissimi di una sostanza che si pensava antica, superata, archiviata.
Capita di dover ricominciare a parlare di droga per non lasciare l’argomento a sciagurati politici. Mentre negli Stati Uniti e in Canada si depenalizza e legalizza la cannabis, qui tocca confrontarsi con i fautori del decreto “Scuole sicure” (magro bilancio a dicembre 2018: 2 milioni di euro per 5 kg di droga sequestrata, come dichiarato dal ministro Salvini stesso) o con assessori all’Istruzione come Elena Donazzan che in Veneto propone schedature di massa mediante test antidroga obbligatori e conseguenti bocciature per gli studenti consumatori di hascisc. Politiche destinate all’inutilità e dichiarazioni improntate all’ignoranza.
Ben venga, dunque, questo libro della storica Vanessa Roghi, Piccola città, una storia comune di eroina (Laterza, 218 pg., euro 19) che arriva al momento giusto, dopo decenni di silenzio e rimozione. Libro di storia ma anche memoir: perché la storia di questo “progressivo suicidio di massa” riguarda moltissimi dei nati fra gli anni 60 e 80, ed è dunque una comune storia generazionale, ma riguarda anche le storie dei piccoli paesi di provincia e del Paese tutto, e riguarda la storia di migliaia di famiglie. Ed è su questi piani che Vanessa Roghi conduce la sua ricerca e la sua ricostruzione. Lo fa attraverso la storia della sua famiglia, del suo babbo diventato tossico “da grande” quando già era sposato e aveva una bambina, lo fa attraverso la storia della sua piccola città, Grosseto, lo fa attraverso la storia della percezione sociale e culturale della figura del tossico. Lo fa con gli strumenti della storica, analizzando le leggi che si sono succedute (la prima nel ’54, poi quella storica del 1975, infine la terribile Giovanardi-Fini del ’90), seguendo i testi via via usciti (Blumir, Cancrini, Lombardo Radice, Jervis), riprendendo articoli e inchieste dell’epoca (Zavoli, Rivolta, Marrazzo), ricostruendo il contesto politico (il Movimento, i rapporti con il Pci, l’atteggiamento delle destre).
È storia della sostanza e della sua diffusione. L’Italia, all’inizio, è luogo di passaggio dall’oppio che arriva dalla Turchia per approdare a Marsiglia, centrale di raffinazione. Negli anni Sessanta è il mercato legale delle ricette mediche e delle industrie farmaceutiche, prima ancora di quello illegale dello spaccio, che causa la diffusione della droga non solo nelle élite ma in ogni strato sociale. Ma è il 1970 l’anno dell’emergenza nazionale, di quella che comincia a essere chiamata “epidemia”, con la formazione di un’ideologia intorno alla droga: nei giornali cominciano a diffondersi allora termini come contagio, malattia, male oscuro, flagello da cui non c’è salvezza. Nell’estate del 1975, l’eroina arriva nei paesi con meno di 20 mila abitanti. Non più solo borghesi annoiati o freak marginali, ma ragazzi qualunque, operai, studenti. Il numero dei consumatori comincia a salire vertiginosamente, viene varata la nuova legge che si occupa di droga come di emergenza sanitaria con la nascita di appositi centri specialistici antidroga e la distinzione fra droghe leggere e pesanti. Parallelamente si cerca di fare informazione, o meglio controinformazione, perché sull’argomento regna la confusione e molti cominciano a bucarsi senza avere la più pallida idea o conoscenza riguardo alla dipendenza.
Questo libro è anche una storia dei tossici: per generazioni, per percezione. Con il Pci che si batte contro la criminalizzazione ma poi non vuole che entrino nelle Case del Popolo, con i sentimenti comuni verso di loro, che sono rancore, paura, rimorso (dichiara la sociologa Maria Giuliana Luna al manifesto nel 1979). Con i tossici che si sentono “vittime del sistema” e con le narrazioni deresponsabilizzanti: “Ci hanno fatto fuori” e la sconfitta storica di una generazione (“ma di quale sconfitta stiamo parlando e soprattutto: di quale generazione?”, chiede Vanessa Roghi, perché l’eroina “non colpisce solo i movimenti politici, non stronca progetti, non frena la rivoluzione. E solo in minima parte appartiene alla sinistra extraparlamentare.”)
Da Bolzano a Palermo 300.000 persone diventano eroinomani in Italia nei primi anni Ottanta. Sorgono le prime comunità di recupero. Con la legge del ’75 sono arrivati i soldi e la questione delle dipendenze diventa, per alcuni, un grosso affare.
C’è un prima e c’è un dopo, nella storia dell’eroina e dei tossici in Italia. La comparsa dell’Aids. Altra storia rimossa. Altra storia a tappe che rievoca stigma e terrore, confusione e mancanza di informazione. I tossici diventano appestati, zombie, intoccabili: a San Benedetto del Tronto (la mia piccola città), alla fine degli anni Ottanta circola questa storia terrificante di un tossico che si è ferito ed è andato a lavarsi nella fontana della Rotonda e l’acqua è diventata “tutta rossa” e sono arrivati uomini con tute, autopompe e disinfettanti a svuotare e sterilizzare tutto. È psicosi.
Questo libro è anche un libro sulle tante nostre piccole città, di provincia o più grandi (Grosseto come San Benedetto, ma anche Fasano, Bari, Pescara, Foggia, Bergamo, i paesi attorno a Torino, e Milano, Roma, Bologna ovviamente, e Verona – 15.000 tossici su 300.000 abitanti – e i paesini della Calabria: è tutto il Paese, tutto). E Vanessa Roghi l’ha costruito anche alternando i capitoli di storia a pagine di “Voci”, come grande racconto collettivo, di storie arrivate via facebook e raccolte da protagonisti, parenti, fratelli e sorelle minori. Ed è una storia privata, di una bambina che aveva genitori giovani e li ha osservati, ascoltati, raccontati e che, quando già era al liceo, nella sua piccola città ha avuto il padre arrestato per droga e ora, da grande, prova a fare i conti con tutto questo. Con rigore di storica e amore di figlia.
Nel ghetto la Storia la scrivono i vinti
“Saranno i tedeschi a scrivere la nostra storia, o saremo noi ebrei?”. Lo studioso Samuel D. Kassow ha disseppellito la risposta e l’ha affidata a un libro, Chi scriverà la nostra Storia? L’archivio ritrovato nel ghetto di Varsavia (Mondadori), che poi è diventato il docufilm Chi scriverà la nostra Storia (Who Will Write Our History).
Sceneggiato e diretto da Roberta Grossman, prodotto dalla sorella di Steven Spielberg, Nancy, con Kassow consulente scientifico, è stato presentato in anteprima al San Francisco Jewish Film Festival lo scorso luglio, quindi è meritoriamente ma nascostamente transitato alla Festa di Roma e il 27 gennaio arriverà in sala con Wanted e Feltrinelli Real Cinema per la Giornata della Memoria. Non dovete perderlo, ha una qualità cinematografica importante, un valore storico preminente, un lascito esistenziale incommensurabile.
Narrato da Adrien Brody e Joan Allen, propala una, forse la, storia non raccontata della Shoah: quando nel novembre del 1940 i nazisti rinchiudono oltre 450mila ebrei nel ghetto di Varsavia, c’è chi s’oppone, non con le armi bensì con carta e penna. Perché se è vero che la storia la scrivono i vincitori, si può accostarne un’altra, che non si consegni alla prospettiva dei vinti: “I tedeschi mandano troupe cinematografiche nel ghetto – dice Kassow nel film – per mostrare quanto siamo sporchi e disgustosi. Stanno dicendo al mondo che siamo la feccia della terra, e a meno che non assembliamo la nostra documentazione i posteri ci ricorderanno sulla base delle fonti tedesche e non di quelle ebraiche”.
Denominata Oyneg Shabes, “La gioia del Sabato” in yiddish, una compagnia segreta guidata dallo storico Emanuel Ringelblum e formata da sessanta tra ricercatori e giornalisti, rabbini e sionisti cerca di contrastare la supremazia della memoria nazista, raccogliendo decine di migliaia di documenti e artefatti, diari, interviste e ritratti per dare contezza della vita e della morte nel ghetto. E non solo, basti pensare ai primi report dello sterminio provenienti da Chelmo e fatti rimbalzare sulle onde corte della Bbc Radio. Un’impresa rischiosa e vieppiù coraggiosa, nata quale forma di resistenza non convenzionale e cresciuta, quando i destini personali volgono al termine, quale trasmissione di sapere, non dei filosofi e dei rabbini ma della gente comune, secondo le coordinate apprese dal sionista di sinistra Ringelblum all’Istituto per la Ricerca Ebraica.
Dei sessanta della Oyneg Shabes, con proporzioni estendibili all’intero ghetto dato alle fiamme nel ‘43, non sopravvivranno che tre membri, di cui solo uno, Hersch Wasser, conosce la localizzazione dell’archivio. Assistito da un’altra compagna, Rachel Auerbach, Wasser porta all’individuazione di scatole metalliche seppellite sotto una scuola: è il settembre del 1946. Nel dicembre del ’50 alcuni muratori porteranno casualmente alla luce una seconda porzione del “tesoro”, custodita in due contenitori d’alluminio per il latte.
Regista solida ed esperta, la Grossman lega estratti degli archivi e interviste inedite, raro materiale di repertorio e drammatizzazioni storicamente accurate e ben recitate. Brividi e occhi lucidi accompagnano ineludibilmente la visione, che nel ghetto ritrova un bivio atroce – “Che cosa significa passare davanti a persone che muoiono per strada. Per alcuni mostra quanto siamo diventati insensibili, altri hanno detto di no, invece. Mostra quanto siamo diventati forti” – e un “tragico dilemma: dobbiamo servire la zuppa col contagocce a tutti? O dobbiamo darne una porzione intera ad alcuni così che pochi abbiano abbastanza per sopravvivere?”. Scriveva la Auerbach, che vi fu addetta, “le mense pubbliche ebraiche non hanno mai salvato nessuno dalla fame”, tra impotenza diffusa e crepuscolo degli uomini ci si chiede solo se “morirà prima la mia o la tua famiglia” e a quel punto “si può parlare di etica?”. Chi scriverà la nostra Storia non elude nulla, nemmeno i membri della polizia ebraica che si trasformavano “in segugi per salvare la pelle” e, prima di finire nell’omissis post-bellico, facevano interrogare su “chi ha cresciuto queste mele marce tra noi?”, ma non abdica alla speranza: è “il trionfo dell’umano sull’inumano” di Ringelblum e soci, “ché la nostra volontà di vivere è più forte della volontà di distruggere”.
Nel 1999 il programma Memoria del Mondo dell’Unesco ha incluso tre collezioni polacche: le composizioni di Frédéric Chopin, i lavori scientifici di Copernico, e l’archivio Oyneg Shabes.
Tornano i Green River con il “Seattle Sound”
Quando nel 1983, a Seattle, nascono i Green River, il punk e il metal vivono su pianeti paralleli che difficilmente comunicano tra di loro. Nonostante una breve esistenza, tra concerti per pochi intimi e dischi che vendono solo qualche migliaio di copie, questo gruppo “seminale”, composto da musicisti che in seguito fonderanno grandi band grunge come Pearl Jam e Mudhoney, avrà un’influenza sul cosiddetto “Seattle Sound”, grazie alla loro abilità nel fondere il blues, il punk e l’hard rock. Decisiva affinché il rock potesse rinnovarsi, sopravvivere e arrivare fino ai nostri giorni. I Green River pubblicano il loro primo vero album quando si sono oramai sciolti da 7 mesi – per dissapori interni e per essere perennemente al verde –, subito dopo aver concluso un concerto in apertura dei Jane’s Addiction. Il loro materiale per anni è stato introvabile, almeno su vinile, ma ora, sull’onda del revival in corso degli anni 90, vengono ristampati Dry as a Bone e Rehab Doll, chicche imperdibili per gli appassionati del genere.
Le frecce di Cupido tra il granturco e l’abete
Un erbario dell’amore. Nel secondo album di Cecilia, cantautrice e arpista, ogni brano è associato a una pianta o a un fiore: dal granturco per Say Something Nice all’abete rosso per Maine sino all’ipomoea bianca per Lonely Moon e così via. “Ho scritto queste dieci canzoni perché pensavo di aver capito tutto dell’amore e invece non ne avevo capito molto”, racconta Cecilia, “le promesse degli amanti e le prove con le quali l’innamorato deve misurarsi sono sempre uguali, come fossero tratte da uno stesso catalogo”.
Tra immaginario fiabesco e citazioni colte l’album è un trip dalle varie sfaccettature: dal primo incontro, quello acerbo, al sentimento maturo sino al disincanto. Too Much Love Too Soon Cecilia lo definisce un “valzer malinconico; l’invito – reiterato nel refrain – è quello di continuare a volteggiare, in modo interrotto e grottesco, per la vita intera”. Rispetto a Guest, l’esordio del 2015, Cecilia ha abbandonato le ritmiche ostentate e ha raffinato la tecnica di creare piccoli loop del suo strumento: suonare l’arpa come un basso pop.
Prodotto da Fabio Rizzo – da tenere d’occhio per aver lavorato in modo eccellente con Il Pan del diavolo – Cupid’s Catalogue trasuda originalità e profondità, il pathos è il suo fil rouge. Maine ha un suono irresistibile (che sia questo il futuro del pop ovvero campionare un riff di arpa?): ricorda When In Rome della Penguin Cafe Orchestra, un volo pindarico tra le note di questo strumento indecifrabile.
Per chi vuol leggere tra le righe c’è molto di spirituale. Il testo di Cypress Vine è sospeso tra poesia e sensualità: “Aria fredda attraverso la sciarpa ti spettina i capelli, calze spesse e lo scricchiolio di un tappeto di ghiande, sento la terra muoversi. Ci sarà un lago giusto sotto la superficie, il tuo impermeabile è aperto e io voglio toccare”. Cecilia è molto attiva anche nell’attività teatrale, ha collaborato con Max Gazzè (allo scorso Festival di San Remo) ed è stata opening act di Fabi e De Gregori. Il suo tour inizierà il 18 gennaio a Torino e proseguirà in tutta Italia fino a marzo.
Meta: “Che brutto l’italiano di questi nuovi cantautori”
“Se devo individuare un punto di svolta nella mia carriera, ti rispondo che è stata la partecipazione a Sanremo con Vietato Morire (2017) quando la mia esistenza – musicale, intendo – è stata percepita come non mi sarei aspettato”: sta producendo l’album del giovane Cordio (condividono l’etichetta, la Mescal) ed è circondato dai suoi 85 strumenti in studio (“Sono fissato!”) quando risponde al telefono.
Può prendersi una pausa mentre qualcuno cerca di intonare un sintetizzatore più ostile del previsto. Pochi fronzoli e idee svelte, Ermal Meta. Sta appuntando nuove idee per un disco futuro, ma non sta ancora scrivendo (“Se comincio adesso, finisce che non esco più”). Al nuovo album, si dedicherà poi.
Il 25 gennaio uscirà un cofanetto con il dvd del concerto al Forum di Assago del 28 aprile scorso, due dischi live e due brani inediti (vedi singolo con J-Ax): la consacrazione di un anno che si è portato dietro la coda lunga della vittoria all’Ariston 2018 al fianco di Fabrizio Moro, non scevra di polemiche a metà corsa. E ritorna l’importanza di quel palco, alla faccia di chi lo considera lo scaffale impolverato della musica italiana: “L’attenzione si concentra lì ed è lì il momento di maggiore visibilità. Si tratta di un contenitore e come tale è fatto di canzoni straordinarie così come di pippe. Bisogna prenderne il meglio. Ti regalerò una rosa di Cristicchi non è meravigliosa? Per non parlare delle canzoni di Patty Pravo o di quelle di Vasco”.
E se sulle polemiche da talent non ha voglia di esprimersi, ha da dire qualcosa sullo stato del cantautorato oggi: “Sta cambiando faccia e questo è sotto gli occhi di tutti. Mi spiace solo per la lingua italiana, perché mi sembra che il cambiamento stia andando a discapito del linguaggio. Tutti questi neologismi… D’altronde, questo riflette il momento storico e il notevole abbassamento culturale che stiamo vivendo”.
Le eccezioni le trova – “Salmo, quei due geni di Sinigallia e Caparezza, Coez, Motta, Cristicchi” – e dal canto suo premia chi crede porti avanti una certa qualità nella scrittura, come il suddetto Cordio, che aprirà i suoi concerti. Il nuovo tour, a partire dal 2 febbraio (Arcimboldi, Milano), riflette la voglia di far sedimentare quanto accaduto negli ultimi tre anni: Ermal Meta sarà nei teatri italiani al fianco degli Gnu Quartet (viola, violino, violoncello e flauto).
“Saremo solo loro e io, senza altri musicisti, e le canzoni saranno portate sul palco nella loro nudità. Mi piace sempre l’idea di fare un passo indietro nell’arrangiamento”. E infatti, anche nei live, conserva per sé dei momenti in acustico, mentre il pubblico chiede ancora pezzi dei suoi esordi con la band La Fame di Camilla: “Mi divertono le parentesi acustiche perché ho iniziato così. La canzone arrangiata è un film, mentre fatta chitarra e voce è come un libro, lascia spazio all’immaginazione”.