Il pass dei positivi non si revoca. La “black list” non è mai esistita

Un caso lo hanno raccontato le cronache torinesi de Il Corriere e della Stampa, l’altro è andato in onda nell’ultima puntata di Non è l’Arena su La7. Un ragazzo di Milano, vaccinato e in possesso di Green pass, positivo al Covid con sintomi lievi e dunque in quarantena, in barba a tutte le regole è andato a Torino per incontrare la fidanzata, superando indisturbato tutti i controlli dal Frecciarossa al ristorante, all’hotel (che almeno, secondo legge, ha fatto partire la segnalazione alla Questura, che ha denunciato il giovane per la violazione della quarantena). Il programma di Giletti invece ha trasmesso un servizio in cui un inviato girava per Napoli tra cinema, ristoranti e treni con il Green pass di un’altra persona, peraltro a casa in quarantena in quanto positiva. A ogni controllo, tutto regolare.

Il pass , anche nella versione Super, ha dunque un baco: non viene revocato in caso di infezione. Eppure il Dpcm del 17 giugno 2021 (norma recepita dai successivi decreti convertiti in legge) prevedeva esplicitamente la possibilità di revocare il certificato “in caso di nuova positività accertata dopo avvenuta vaccinazione o guarigione”. L’azienda sanitaria locale di riferimento avrebbe dovuto comunicare il codice identificativo del pass del positivo per inserirlo poi in una black list. Peccato che questo non sia mai avvenuto. Il Fatto lo raccontò già il 14 agosto, quando il bug – lo stesso anche per la prima certificazione verde – fu denunciato dall’esperto informatico Matteo Flora, dal professore di cybersicurezza del Politecnico di Milano Stefano Zanero e dall’avvocato Carlo Piana. L’app VerificaC19 non era infatti implementata per avere e riconoscere un’eventuale revoca. Non solo: il pass italiano doveva – e deve tuttora – adeguarsi alla normativa del digital Covid certificate europeo, che vieta per motivi di privacy le informazioni sullo stato di salute del possessore del documento: “Rispetto ad agosto – racconta Matteo Flora – è cambiata solo una cosa: l’app, da circa un mese, è abilitata per avere una revocation list, ma solo per i pass falsi. I famosi certificati a nome Hitler o Topolino sono stati revocati, ma solo perché eliminare un falso non crea alcun problema di privacy. Il nodo della normativa europea è sempre lo stesso”. Eppure di black list abbiamo continuato a sentir parlare in questi mesi, nonostante la possibilità di revoca via app VerificaC19 (e solo per i Green pass falsi) esista da non più di un mese. Ma che una revocation list non sia mai esistita lo certifica adesso anche il governo. “Il ministero della Salute – informa l’Ansa – sta lavorando per attivare la temporanea revoca del Green pass alle persone che, già in possesso del certificato verde, risultino in seguito positive al Covid.

Al momento questo tipo di revoca non è prevista dalle norme europee in alcun Paese, ma vige la legge secondo cui un positivo al virus commette un reato se viola la quarantena. A quanto si apprende da fonti di governo, il ministero – che sta spingendo per una norma a livello europeo – sarebbe pronto ad attivare in Italia il sistema di revoca per positività del Green pass, in attesa che il Garante della Privacy possa dare il suo ok nei prossimi giorni”. E si starebbe effettivamente studiando un sistema sul modello della non fortunatissima app Immuni che “mascheri” i dati in modo che non siano troppo esposti e permetta non solo di revocare ma magari semplicemente di “sospendere” (e magari aggiornare) il pass. Pure l’Europa starebbe per ammorbidire la posizione sulle revoche. Di fatto, però, la black list era impossibile anche per altri motivi: “Ogni regione – sostiene Roberto Testi, responsabile della Prevenzione dell’Asl To1 – ha il suo sistema di gestione dei positivi e delle quarantene e non comunicano tra loro. Questo non significa che non si possa fare. Ma di fatto non accade”. Insomma, il Green pass ha un problema e la soluzione non è esattamente dietro l’angolo.

Cavallette per tutti

Non bastando le scemenze dei giornaloni italiani, importiamo pure quelle dei giornaloni stranieri. Che, per carità, hanno tutto il diritto di dire scemenze. Ma il guaio è il provincialismo con cui i nostri se le bevono come oracoli della Pizia. L’ultima è del Financial Times, che annuncia “disordini”, “instabilità” e pericoli per le “riforme strutturali e ambiziose” del fisco e della giustizia (magari!) se Draghi ascenderà al Colle e mollerà Palazzo Chigi. Noi prendiamo sul serio la stampa estera quando c’è di mezzo la reputazione internazionale dell’Italia, ma dalle sue profezie di sventura siamo vaccinati con tripla o quarta dose. Il 21.11.2016 il Ft ci ammonì a votare Sì alla schiforma renziana perché una vittoria del No avrebbe messo “a rischio” nientemeno che “la zona euro”, con “una sequenza di eventi che potrebbe accelerare l’uscita dell’Italia dall’euro”. Mancavano solo le cavallette. Poi stravinse il No e non accadde un bel nulla, a parte il salvataggio della Costituzione e il tramonto dell’impiastro rignanese. Ora, per drammatizzare l’allarme del Ft, i nostri giornaloni scrivono che proviene dai retrostanti “mercati” e “investitori”, terrorizzati dallo spread. Che però l’8 gennaio, negli ultimi giorni del Conte-2, era a 105. Poi arrivò Draghi e ci fu garantito che avrebbe spezzato le reni pure allo spread. Che però purtroppo l’altroieri è salito di altri 4 punti toccando la quota record di 134. Quindi, delle due l’una: o lo spread non dipende dai premier, o ce l’ha con Draghi. Che però è ancora dipinto da tutti come Garante Supremo di “mercati” e “investitori”. Dunque lo saprà bene lui cosa temono: non certo la sua intenzione, ormai assodata, di andare al Quirinale. Eppure ora scopriamo che il Ft e i retrostanti mercati e investitori non vogliono. Ergo, delle tre l’una: o Draghi non è il garante dei mercati e degli investitori; o il Ft non è il loro portavoce; o c’è una guerra fra mercati&investitori e Draghi che se ne frega esponendoci al rischio di disordini, instabilità e cavallette.

Per restare nel cabaret, quel pesce di nome Zanda parla col Corriere per tentare di peggiorare le cose dette da Conte su B. E ci riesce: “Berlusconi ha creato il pluralismo televisivo”. Dev’essere stato quando si fece fare due decreti ad aziendam da Craxi per neutralizzare i giudici e la legge Mammì per santificare il suo monopolio sulle tv private. O quando emanò l’editto bulgaro contro Biagi, Santoro e Luttazzi per farli cacciare dalla Rai. Ma Zanda precisa: “Come governante non voglio giudicarlo: sono sempre stato all’opposizione”, a parte quando ci governava con Monti e Letta e ora che ci governa con Draghi. Ma non se n’è mai accorto. Così come B. non s’è mai accorto di avere Zanda all’opposizione.

Camerieri, commessi o in coda alla Caritas: che fine hanno fatto gli irriducibili dell’Indie

Il vero rock si fa ancora on the road? Quello non commerciale è come se fosse tornato indietro di quarant’anni: sparuti locali live, ridotte schiere di appassionati, emarginazione dai media. A tenere alta la bandiera è uno stoico manipolo di irriducibili, con qualche ruga in più ma non domi. Lottando letteralmente per sopravvivere: “Rispetto a quando si andava di passaparola e dovevamo incontrarci nei negozi di dischi per conoscerci – osserva il 55enne Lucio Drusian, cameriere a Cesenatico, cantante dei punk Upset Noise negli 80 e oggi nei Methedrine – c’è la differenza che passa fra i giornaletti erotici dei camionisti e Pornhub. Andare in giro a suonare era eccitante, avventuroso. Era tutto più complicato e lento, ma anche più umano. Adesso coi clic si è perso il fascino della trasgressione”.

Forse il segreto della longevità, secondo Ulderico “Wilko” Zanni, anima dei Rats (primo album nel 1981) e commesso in un negozio di strumenti a Modena, sta nella “solidarietà reciproca” che difetta alla Generazione Z: “Li vedo scollati fra loro, ognuno per i fatti suoi. Per noi non era così, perché la musica è la meta, non il mezzo”. Non costituendo un gran mercato, di competizione allora non si parlava: “Nella scena ci si conosceva tutti e ci si aiutava”.

Una tribù che bene o male ha retto fino al primo decennio degli anni 2000. Poi, è arrivato internet. “Ha rivoluzionato tutto”, dice Massimo Gasperini della Black Widow Records. “La musica si comprava, adesso si scarica”. Il web, in ogni caso, “ha dato qualche possibilità in più”. In tempo di pandemia, ad esempio, è nata Giù la testa, versione web delle fanzine, i autoprodotte che giravano ai bei tempi: “L’idea è raccontare i progetti low profile ignorati dai canali ufficiali”, racconta la portavoce Michela Benvegnù.

Paladino degli oppressi dal pop, Fabio “Silver” Perissinotto, già manager di Roy Paci, non essendoci più posti dove fare headbanging indiavolato ne ha ricavato uno dal garage di casa. Il Krach, covo vintage nella campagna di Monastier (Treviso), segue una filosofia precisa: “Quello che manca è lo stimolo a scoprire band nuove. Noi ci proviamo. Siamo quattro gatti, ma la musica più bella del mondo può essere per pochi fratelli”. Il giro underground è penalizzato, anche perché le nuove leve “difficilmente si fanno la strada per ascoltare chi non è famoso, mentre io mi ricordo, quando macinavamo centinaia di chilometri con la nebbia, pur di raggiungere luoghi improbabili dove magari trovavi venti persone, ma che ti rimanevano nell’anima”. Uno che ne ha macinata tantissima è Domenico Petrosino, 63 anni, in arte Dome La Muerte, leggenda del punk nazionale. “Non ho mai voluto firmare con una major per scelta, ma ora ne pago le conseguenze”. Dopo una vita passata fra palco, djset e mille lavori, un anno fa ha lanciato una raccolta firme online per accedere alla legge Bacchelli. “Durante il lockdown per tre mesi sono andato alla Caritas per mangiare. Come me ce ne sono altri che non vedranno mai la pensione”.

Gufi, api e coccodrilli rock: che animali questi musicisti

Laurie Anderson era contraria ad adottare la cagnolina Lolabelle fortemente voluta da Lou Reed. Eppure da quell’incontro è nata l’idea del concerto per cani: “A loro non importa cosa suoni ma come lo fai”. È solo una delle mille testimonianze del connubio tra musica e animali, un intreccio di ispirazione artistica raccolto nel libro di Ezio Guaitamacchi e Antonio Bacciocchi Crocodile Rock per Hoepli Editore.

Le citazioni sono infinite: “Quando dici Beatles pensi a qualcosa che striscia per terra, ma quando lo leggi evoca il beat” sentenzia John Lennon, mentre Robert Plant ammette che “il black dog della canzone era un vecchio labrador nero che entrò nel giardino dello studio di registrazione”.

Paul Winter sceglie l’iperbole: “I canti delle balene mi hanno dato le stesse emozioni della musica di Charlie Parker” e introduce un capitolo sugli strumenti musicali ricavati dal mondo animale, quali ossi, pelle, corna, chele e persino ragnatele: “In essi risuona ciò che gli iniziati udivano” chiosa Rudolf Steiner. E poi l’analisi del nome stesso scelto dagli artisti: Eagles, Birds, Bee Gees o il titolo della canzone (dal Crocodile Rock di Elton John a The Year Of The Cat di Al Stewart) o di un album mitico (Pet Sounds dei Beach Boys).

La relazione tra note e bestiole non è un fenomeno solo all’estero, basti ricordare i Camaleonti, i Pooh, i Gufi, gli Albatros di Toto Cotugno e la celebre Alla fiera dell’est di Angelo Branduardi e la sequenza di matrioske di topolino, gatto, topo, cane e toro: “Nelle mie canzoni faccio spesso riferimento a tutte le creature della natura. C’è una lunga tradizione favolistica che risale ai greci dove, per descrivere la realtà, si fanno parlare gli animali. Come nelle favole di Esopo”. Anche le copertine hanno spesso cristallizzato l’intreccio musica e animali, da Tusk dei Fleetwood Mac a Odelay di Beck, per non parlare della celebre mucca di Atom Heart Mother dei Pink Floyd.

Ma tra zebre a pois e Kobra le canzonette possono assurgere a concept-album ricchi di visioni, quale è stato Diamond dogs di David Bowie o The Dream Of The Blue Turtles di Sting: in un sogno premonitore l’artista riconobbe alcune tartarughe giganti devastare il suo orto, metafora della scelta futura di giovarsi di giovani jazzisti in contrasto con le sue radici rock dei Police. Chiude l’intrigante e divertente volume uno spaccato sulla scelta salutista di molti cantanti, da Paul McCartney a Thom Yorke: “Se vuoi diventare vegetariano devi apprezzare davvero le lenticchie o sei fottuto!”.

Dall’Italia montagne incantate

“La montagna non è solo nevi e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo d’avanti all’altro, silenzio tempo e misura”. È forse il passaggio più esemplare di Le otto montagne, il romanzo con il quale Paolo Cognetti ha vinto il premio Strega nel 2017.

L’autore è tornato in libreria, sempre per Einaudi, con La felicità del lupo, storia di uno scrittore fallito che ripara in un villaggio sulle Alpi valdostane. Entrambi i romanzi rincorrono una suggestione che lo stesso autore incide nella sua prefazione al Walden di Henry David Thoreau: “Non fuori dal mondo ma abbastanza lontano dal mondo da non sentirne più il rumore”.

Mario Rigoni Stern, che al pari di Primo Levi fu debitore delle altitudini per la resistenza fisica e mentale che gli consentì di sopravvivere ai rigori della guerra, immerso nel suo Arboreto di Asiago scrisse: “Viene da pensare che la violenza, l’angoscia, l’apatia e la solitudine, siano da imputare all’ambiente generato dalla nostra civiltà”. È una frase tratta da una nota in Uomini, boschi e api, uno dei cinque titoli della sua bibliografia che Einaudi ristampa per celebrarne il centenario della nascita. Per lo scrittore – assurto al rango di classico con Il sergente nella neve, storia della ritirata di Russia con il reggimento degli alpini – la passione per le montagne non si esaurisce nella contemplazione delle vette ma per ciò che si muove ai loro piedi. Le stagioni di Giacomo, attraverso le piccole storie quotidiane della comunità sull’Altopiano, dove il calore del fieno contrasta con le macerie della guerra, mostra tutta la contraddizione dell’uomo, che prima uccide e poi dimentica di avere ucciso.

Rigoni Stern e Cognetti, che si ritrovano in questi giorni sugli scaffali in una ideale staffetta generazionale, appartengono a una leva di narratori e di poeti invero assai nutrita. La letteratura di montagna, per restare al di qua delle nostre frontiere, si risolve in cime che solo a nominarle evocano universi di carta: l’Etna di Giovanni Verga, l’Amiata di Mario Pratesi, il Gennargentu di Grazia Deledda, il Carso di Scipio Slataper.

Innumerevoli le pagine che si arrampicano lungo i pendii. Dalla montagna del Purgatorio in Dante all’ascesa al monte Ventoso in Petrarca. Dalle “altissime rupi” in una delle Ultime lettere a Jacopo Ortis di Ugo Foscolo al Resegone immortalato nel celebre incipit dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti…”. Da Piero Jahier che in Con me e con gli alpini scrive: “Dall’alto viene – indiscutibile – il tuo bene e il tuo male” a Carlo Emilio Gadda nel Giornale di guerra e di prigionia: “Mi sono immerso con gioia nelle bufere di neve dell’Adamello, perché esse bufere erano nell’ordine naturale delle cose e io in loro ero al mio posto”. Da Un anno sull’Altipiano dell’interventista sardo Emilio Lussu al “Macigno bianco”, il Monte Rosa nei versi di Dino Campana. Senza dimenticare Antonia Pozzi, tormentata figlia della Milano bene, morta suicida nel 1938. Nelle sue “mamme montagne” tentò di sciogliere la sua inquietudine interiore. Lungo il profilo verticale della Grigna, tra “vuoto dell’umano” e “pienezza di Dio” ha dettato il suo testamento lirico: “Inalberiamo sopra l’irta vetta/ la nostra fragilezza ardente”.

Un altro maestro del Novecento resta Dino Buzzati che con le sue opere – da Bàrnabo delle montagne a Il segreto del bosco vecchio, a Il deserto dei Tartari – converte la montagna in una dimensione fiabesca tra guardaboschi in lotta coi briganti, gnomi e ufficiali in avamposti sperduti. A raccoglierne oggi l’eredità è un autore come Mauro Corona, vedi i miti e le leggende raccolti nel suo Storie del bosco antico. Attraverso il filtro narrativo della catastrofe, con il disastro del Vajont a ispirare le sue pagine, l’autore di Erto rievoca con vena malinconica le tradizioni scomparse. “Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, vedere dentro. La montagna mi ha insegnato anche questo”. Stessa filosofia che anima l’amico scalatore Erri De Luca, autore di Sulla traccia di Nives, dialogo con la famosa alpinista Nives Meroi sull’Himalaya. Nel suo Il peso della farfalla mette in scena un duello tra un camoscio e un cacciatore. Il fascino della montagna è nella sua incorruttibile indifferenza all’uomo: “Poteva anche scalare difficoltà superiori ma restava incapace dell’intesa di cervi e stambecchi con l’altezza. Loro ci vivevano dentro, lui era un ladro di passaggio”.

Il Csm à la Cartabia nasce già “storto”

Al decennale della Scuola superiore della Magistratura il presidente Mattarella ha rivolto una vibrata esortazione per una celere riforma del CSM, la velocizzazione dei processi penali e uno stile di vita dei togati scevro da protagonismo e autoreferenzialità.

Sulla velocizzazione dei processi penali: la riforma Cartabia conduce piuttosto alla loro estinzione tramite l’improcedibilità dell’azione penale, istituto che consegna l’ordinamento italiano alla rassegnata commiserazione dei giuristi delle moderne democrazie. La riforma del CSM è senz’altro indispensabile, a patto che risponda pienamente ai principi sanciti dalla Costituzione e si ponga mano con lucida coerenza alla disciplina che quell’organo deve applicare. In quest’ottica si palesa innanzitutto necessario il divieto di nominare componenti laici del CSM membri del Parlamento, eliminando l’attuale grave compromissione del principio della divisione dei poteri. Per la normativa da applicare il problema resta serio. Si consideri l’esempio di maggiore impatto: le nomine a posizioni direttive, rispetto alle quali le correnti l’hanno fatta da padrone in barba, talvolta, all’effettivo merito. La trasmodante ambizione ai posti direttivi non è fenomeno nuovo se perfino nel periodo fascista (telegramma-circolare n. 2473/1940 del Guardasigilli Grandi) si sottolineava l’opportunità di evitare il flusso in Roma dei magistrati che assediavano i componenti del Consiglio superiore impegnati in scrutini e promozioni (F. Rigano). I criteri allora vigenti davano il maggior rilievo alla condotta, all’anzianità, e alla quantità e qualità della produzione giudiziaria degli aspiranti e non erano del tutto aggirabili, consentendo a molti magistrati professionalmente assai capaci di ottenere riconoscimenti di carriera. Oggi la situazione è complicata: a) dalla proliferazione delle funzioni (se ne contano 13 cui fanno presupposto ben sette progressive valutazioni di professionalità, cioè poco meno dei gradi statali della Russia zarista); b) da una disciplina funzionalmente inidonea a far emergere i migliori (d. lgs. n. 160/2006). Le valutazioni di professionalità riguardano: indipendenza, imparzialità ed equilibrio; capacità; impegno; diligenza; laboriosità. Ammesso che il relativo giudizio non si risolva nel non demerito, è evidente come chi pure risponda in pieno a quei criteri non abbia alcun titolo prioritario per conseguire un incarico direttivo. Per quest’ultimo, in particolare, occorre l’attitudine direttiva, della quale il d. lgs n. 160/06 fornisce una definizione tautologica, egualmente utile per la nomina di un magistrato, di un dirigente ministeriale, di un direttore commerciale del settore privato e, con modestissimi aggiustamenti, anche di un allenatore di calcio. L’arbitrio del decisore è praticamente assoluto nonostante il profluvio di indicatori elencati nel testo unico sulla dirigenza giudiziaria del CSM (raccolta priva di valore normativo). È il medesimo testo a comprovarlo all’art. 26 laddove indica il giudizio attitudinale come esito di una “valutazione integrata e non meramente compilatoria degli indicatori”. Come dire che la sintesi può non tener conto dell’analisi con buona pace della reale utilità degli stessi indicatori. Senza tacere della chicca procedurale contenuta nell’art. 37 c. 2 del Regolamento interno CSM: nella seduta del Consiglio che esamina la proposta sugli incarichi presentata dalla competente Commissione, un membro che non abbia fatto parte della Commissione, può chiedere il ritorno degli atti in Commissione per consentire la valutazione di uno o più aspiranti diversi di quelli considerati nella proposta. Legittimo domandarsi quanto sia stato in realtà corretto l’operato istruttorio della Commissione. La verità è che tale sistema produce in prospettiva effetti deleteri: il giovane magistrato ambizioso, si occuperà sin da subito della carriera, “spendendosi nell’acquisizione di incarichi di collaborazione nella gestione degli uffici e privilegiando nella trattazione degli affari quelli che gli attribuiscano visibilità, oltre che a cercare i contatti, le relazioni e la visibilità necessari a ottenere l’appoggio essenziale per conseguire la nomina” (F. Rigano). Ciò induce sete di protagonismo e autoreferenzialità. Se, per taluni, si aggiungono profili irrisolti di identità sociale, il cerchio fatalmente si chiude. La verità è che la normativa sugli incarichi in magistratura non è sostanzialmente diversa da quella operante in altri settori come la sanità (con i primari scelti ad libitum secondo una scandalosa normativa che il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 all’art. 18 intende modificare profondamente) e altri nei quali, attraverso il meccanismo della terna, il preposto politico può esercitare il pieno arbitrio, anche con ragionato disprezzo dell’autentico merito. Quella perniciosa disciplina, basata sulla nozione astratta e quasi scurrile di managerialità, è frutto dell’insegnamento di cattivi maestri, intimamente avversi al principio democratico e sostenitori indefessi della cooptazione e dell’intrigo. Il meccanismo è il seguente: si stabilisce che, astrattamente parlando, buona parte degli aspiranti è ugualmente idonea a svolgere un determinato incarico (utilizzando, nel caso nostro, la positiva valutazione di professionalità) e che proprio per questo la scelta deve far riferimento alla specificità attitudinale che solo il decisore è in grado d’individuare. La logica che sorregge la nomina di un primario da parte del direttore generale ASL e di un Procuratore della Repubblica da parte del CSM è la stessa: cioè logica di una discrezionalità esorbitante fino all’arbitrio, seppure ammantata di paritario farisaismo. Va, invece, restituita centralità alla figura del magistrato e al suo lavoro che si misura in provvedimenti giurisdizionali e in anni di continuo, certosino lavoro che lascia poco spazio alle performance di mero carrierismo. La funzione in concreto esercitata (unita alle indispensabili doti etiche e comportamentali) dovrebbe costituire il massimo indicatore attitudinale, mentre oggi è presupposta nella modesta e generica voce: “esperienze”. L’eliminazione del valore dell’anzianità è un altro grave errore: tale elemento si basa sull’acquisizione di maggiore professionalità attraverso una più lunga esperienza e lo studio di un numero più elevato di casi. Si dimentica che il buon magistrato è come il buon vino: invecchiando migliora.

 

Rimosso il presepe con il ponte Morandi

Via il presepe del crollo del Ponte Morandi di Genova – la stalla dove nasce Gesù Bambino è sotto uno dei piloni che rimase in piedi quel tragico 14 agosto 2018 – da una mostra natalizia allestita a Firenze nel Rivoli Boutique Hotel. La direzione dell’albergo ha accolto l’invito di Egle Possetti, la presidente del Comitato ricordo vittime ponte Morandi, che l’aveva definito “orripilante”, chiedendo di toglierlo. Dall’hotel hanno spiegato che il presepe del crollo del ponte Morandi era stato già esposto nel 2019 con il titolo “Per non dimenticare” e che tra gli altri presepi esposti nella mostra, oltre a quelli tradizionali, ce ne sono molti con riferimento a temi dell’attualità come quello in un reparto Covid o a Lampedusa.

Trento, Vasco Rossi non fa sold-out: Pd contro il concerto

Tutto esaurito per Vasco Rossi in tutte le date del suo tour 2022 tranne la prima, quella di Trento in programma il 20 maggio 2022, che da mesi fa disperare non tanto lo staff del Blasco, quanto il Pd del Trentino che teme per le finanze pubbliche visto che l’organizzazione e la gestione dell’evento sono regolati da una convenzione stipulata dalla Provincia Autonoma di Trento con due società private, mentre l’arena che ospiterà il concerto ancora non c’è. A spiegare tutto in un’interrogazione alla giunta provinciale di Trento è il consigliere del Pd Alessio Manica, secondo il quale “su 120 mila biglietti a disposizione, allo scorso 26 ottobre ne risultavano venduti solo 70.675”. Manica ha anche messo a confronto la convenzione sottoscritta nel 2017 dal Comune di Modena (dove Vasco Rossi ha segnato il record mondiale per il più alto numero di spettatori paganti) scoprendo che la provincia di Trento non ha previsto dei ristori nel caso di biglietti invenduti al contrario di quanto aveva stabilito il Comune di Modena. Per lo staff di Vasco la data di Trento è un grande successo.

Progettavano attentato di Natale: arrestati due islamisti radicali

Hanno entrambi 23 anni i due francesi che progettavano di compiere un attentato di matrice islamista in Francia a Natale. Secondo Le Figaro, che cita una fonte giudiziaria, erano sotto sorveglianza dei servizi segreti, che avevano intercettato alcuni loro scambi sui social. I due, ora incriminati per “associazione a un’organizzazione terroristica criminale”, volevano colpire, armati di coltello, un centro commerciale o una via affollata per fare quante più vittime possibili. Nelle loro abitazioni a Meaux, perquisite dalle forze dell’ordine, sono stati sequestrati coltelli, computer, telefonini e propaganda jihadista. Nel corso degli interrogatori, uno dei due giovani ha confessato di voler uccidere “infedeli” e di voler morire da martire, rivendicando la sua appartenenza all’Isis. L’altro arrestato ha invece negato ogni accusa.

Khashoggi, il killer fermato era il saudita sbagliato

Scambi di persona. Arrestato dall’intelligence francese per errore un omonimo dell’assassino di Khashoggi. Il processo per l’omicidio continua in Turchia Khalid Aedh al-Otaibi. L’uomo arrestato per sbaglio all’aeroporto Charles de Gaulle a Parigi martedì scorso si chiama proprio come uno degli assassini del giornalista Jamal Khashoggi, ma – hanno riferito prima le autorità saudite, poi quelle francesi –, non aveva niente a che fare con il commando che fece a pezzi il dissidente nell’ambasciata di Istanbul nell’ottobre del 2018. Il cittadino saudita – omonimo della fedelissima guardia reale del principe Mohamed bin Salman (Mbs), indicato tra i principali responsabili dell’omicidio da un rapporto della Cia – si stava imbarcando per Ryad, ignaro dell’allerta dell’Interpol in base al mandato internazionale richiesto dalla Turchia il 5 novembre 2018 che ha fatto scattare l’intervento di due giorni fa. A Istanbul intanto continua in contumacia il processo contro 26 sauditi per assicurare alla giustizia i responsabili della brutale morte dell’editorialista del Washington Post. La prossima udienza si terrà il 24 febbraio, l’ultima si è invece svolta il 23 novembre scorso: i giudici turchi hanno chiesto all’Arabia saudita i nomi di quanti sono già stati condannati, nel settembre del 2020, dalla Corte del regno durante un processo che Hatice Cengiz, fidanzata del dissidente, ha dichiarato “una farsa, parodia della giustizia”. Ryad ha deciso di commutare ai 5 colpevoli la pena di morte in decenni di carcere. Finché i veri responsabili non saranno ammanettati e portati in Turchia, il processo “attualmente a un punto morto, sarà solo simbolico”, ha affermato il rappresentante turco di Reporter senza frontiere, Erol Onderoglu, che ha chiesto ai togati turchi che venga incluso nella lista degli indagati il vero nemico numero uno del giornalista: il principe bin Salman.