La legge del cemento soffoca anche i cimiteri di campagna

“Su croci oblique, pendio di edera, / leggero sole, profumo e canto d’api. / Felici voi che giacete al riparo / stretti al cuore buono della terra”: il titolo della poesia da cui provengono questi versi è un archetipo dell’immaginario europeo post-romantico: Un cimitero di campagna. Hermann Hesse aveva in mente quello di Sant’Abbondio, sopra Lugano, dove lo scrittore acquistò per sé “un bel posticino”, accanto agli amici e a coloro che avevano condiviso la sua semplice vita. Un progetto capace di rendere in qualche modo umana la più disumana di tutte le cose, la tomba e la morte.

Ebbene, in questa epoca senza umanità non hanno pace nemmeno i cimiteri di campagna: che non si salvano dal disumano cemento, in cui i nostri morti vengono murati per sempre, a strati sovrapposti, proprio come nei casermoni desolati che ne avevano già inghiottito le vite. È quanto sta per accadere a Santa Maria a Dofana: minuscolo, meraviglioso borgo conficcato nella Toscana centrale, quella per secoli disputata (perfino a colpi di omicidi) dai vescovi di Siena e da quelli di Arezzo.

L’amministrazione del Comune di Castelnuovo Berardenga si è convinta che, “in relazione all’andamento dei decessi annui, è emersa la necessità ed impellente urgenza di procedere ad un ampliamento del cimitero”: una convinzione curiosa, visto che per fortuna non si prevedono recrudescenze della peste nera e nel territorio comunale si trovano altri dodici cimiteri. Ma una convinzione che ha già indotto ad affidare ad un geologo la ricerca preliminare alla realizzazione del progetto per ingrandire, modernizzare, in una parola snaturare, il piccolo cimitero di campagna.

Il sindaco, Fabrizio Nepi, tira diritto, ma la cementificazione del cimiterino di Dofana è riuscita a suscitare l’opposizione compatta delle tre maggiori associazioni per l’ambiente: Italia Nostra, Legambiente e il Fai. Nella bella lettera che la presidente della delegazione senese di quest’ultimo, Donatella Capresi, ha inviato al comune si legge che “ampliare un piccolo cimitero di campagna, attiguo a un complesso abitativo sottoposto a vincoli da parte della Soprintendenza, comporterebbe, dato il contesto territoriale, un danno irreversibile all’ambiente circostante e pertanto auspichiamo che si trovino soluzioni alternative”.

Alla voce degli ambientalisti si è unita quella, particolarmente importante in terra di Siena, del Magistrato delle Contrade, che riunisce le diciassette contrade della città del Palio, e che è parte in causa in quanto proprietario del Cippo di Montaperti: il piccolo monumento che ricorda che proprio qui, il 4 settembre 1260, avvenne “lo strazio e il grande scempio che fece l’Arbia colorato in rosso”, come scrisse Dante nella Commedia. Nella battaglia di Montaperti – persa dai fiorentini e vinta dai senesi – si affrontarono 50.000 persone: e l’eco di quella carneficina tra guelfi e ghibellini non si è ancora spenta nell’immaginario toscano. Per questo il Magistrato delle Contrade ha scritto al sindaco che il rifacimento del cimitero “potrebbe arrecare un mutamento importante all’ambiente circostante e al panorama della zona, dal momento che il ‘Cippo’ si staglia all’orizzonte esattamente dietro al piccolo borgo contenente il cimitero”. E tornano in mente le parole di Piero Calamandrei: “Voi lo sapete che, specialmente in Toscana, ogni borgo, ogni strada, ogni collina ha un volto come quello di una persona viva: non vi è curva di poggi o campanile di pieve che non si affacci nel nostro cuore col nome di un poeta o di un pittore, col ricordo di un evento che conta per noi quanto le gioie e i lutti della nostra famiglia”. Nello stesso celebre discorso del 1944, Piero evocava proprio un piccolo cimitero campestre toscano, non distante dal nostro: “C’è tra Arezzo e Sansepolcro un piccolo paese, Monterchi, vicino al quale, in un camposanto in mezzo alla campagna, regna in solitudine il più bel quadro di Pier della Francesca, la Madonna del Parto: non è passato giorno che io non abbia pensato, come pensavo ai miei parenti ed ai miei amici in pericolo, a quel quadro abbandonato ai tedeschi. Che ne è successo? Si sarà salvato?”. Il cimitero si salvò dalla guerra, ma poi venne stravolto e cementificato al punto che qualcuno trovò naturale strappare l’affresco di Piero dal suo intimo contesto.

Ma, si dirà, a Dofana mica c’è Piero della Francesca! No, ma c’è qualcosa di ancora più importante, c’è ciò che ha generato Piero e il suo senso della luce e della forma: la Toscana, il suo paesaggio, la sua misura, il suo inestricabile intreccio tra natura, arte e storia.

Un gruppo di cittadini sta ora chiedendo al Ministero per i Beni culturali di fare il suo dovere: e cioè di porre un vincolo su tutta l’area che circonda Dofana, un luogo antichissimo, come dice il nome (che viene probabilmente da “duo fana”, due antichi santuari pagani): un passo generoso perché non bloccherebbe solo la “modernizzazione” del cimitero, ma anche le loro stesse future, possibili ambizioni. Ma per fortuna c’è ancora qualcuno che sogna (con Mogol e Battisti di Una giornata uggiosa) “un cimitero di campagna, e io là / All’ombra di un ciliegio in fiore senza età / Per riposare un poco, due o trecento anni, / Giusto per capir di più, e placar gli affanni”.

Vacanza-studio in Uk? “Forse in estate servirà il passaporto”

“I partecipanti di nazionalità italiana che desiderano recarsi in Gran Bretagna, Irlanda, Malta, Francia, Spagna devono essere in possesso di un documento d’identità valido per l’espatrio e in corso di validità”.

E però, “attenzione! Ferma restando la validità delle informazioni fornite in questa pagina, consigliamo a titolo cautelativo di avviare richiesta di passaporto per fronteggiare eventuali cambiamenti per l’ingresso nel Regno Unito, a seguito dell’attuazione della Brexit nel mese di marzo 2019”.

Andare a studiare in Inghilterra forse non sarà più così semplice. Il tour operator Move Language Ahead (Mla), nel richiedere ai partecipanti delle vacanze-studio a Londra i documenti necessari da inoltrare ai college, sta allertando le famiglie circa la possibilità che sia necessario, passato marzo, il passaporto. Come per un qualunque altro Paese extra-europeo. E immaginiamo che la stessa procedura stiano seguendo tutti gli altri operatori specializzati nei viaggi d’istruzione nel il Regno Unito. Se davvero tale misura si renderà necessaria, le famiglie si troveranno allora a dover affrontare un ulteriore costo di 116 euro per mettersi in regola con il nuovo documento.

Non solo: è probabile che le Questure saranno prese di mira a partire da aprile e dovranno fronteggiare un elevato numero di richieste da “smaltire” in tempi utili per le partenze di giugno e luglio (l’emissione del passaporto richiede infatti molto più tempo di quella, immediata, della carta d’identità). E così, alla fine, la Brexit peserà anche sui nostri studenti.

Brexit, verso il No Deal che spaventa Londra

Section 13(1) of theEuropean Union (Withdrawal) Act 2018. Nell’ordine del giorno della House of Commons del 15 gennaio, il voto più importante va scovato fra un aggiornamento sui lavori alla stazione di Chester-le-street e il riconoscimento della fibromialgia come disabilità.

Ma, a meno di clamorosi rinvii dell’ultima ora, domani i deputati britannici si esprimeranno sull’accordo di recesso del Regno Unito dall’Unione europea. È il punto di massima tensione dell’intero negoziato su Brexit – e degli ultimi 50 anni di storia britannica. Il futuro politico ed economico del paese. Fino all’ultimo Theresa May ha tentato di salvare il proprio piano: oltre a sollecitare invano i leader dell’Unione Europea per ottenere ulteriori concessioni, ha aperto al dialogo con parlamentari laburisti e leader sindacali, colpevolmente ignorati in due anni di negoziati.

Troppo tardi: il suo accordo è ormai politicamente tossico, e anche i suoi ministri più leali sono pronti a riposizionarsi. Secondo una proiezione di Bbc, sarà bocciato da 433 No contro 206 Si, uno scarto di oltre 200 voti, una sconfitta senza precedenti. Ma il No di domani non significa solo respingere un accordo imperfetto, considerato asservito dai Leavers e troppo sovranista dai Remainers: al di qua del guado ci sono solo incognite. La prima è quella, spaventosa, dell’uscita senza accordo alcuno: l’esito automatico di una bocciatura dell’unica proposta esistente. Ora che il tempo stringe, che la prospettiva di un No deal si fa reale, una parte del Paese smette di credere nella retorica del recupero di sovranità e si confronta con accorati appelli dei settori produttivi e previsioni di Pil in caduta dell’8 per cento, drammatica perdita di posti di lavoro, razionamento di cibo fresco e medicine, ritorno delle violenza in Irlanda del Nord. Il futuro inconcepibile, come la vittoria del Leave al referendum del 2016 o la rivelazione al mondo della inettitudine e del cinismo di una generazione di politici britannici.

Sono proiezioni che i falchi Brexiters liquidano come Project Fear: è il sarcasmo facile di una élite anacronistica in guerra con un’élite tecnocratica. Lo spiega il giornalista irlandese Fintan O’Toole nell’illuminante Heroic Failure – Brexit and the Politics of pain: Brexit come tardivo atto di revanscismo di una Gran Bretagna traumatizzata dall’ascesa dell’Unione europea dalle rovine della Seconda Guerra Mondiale.

Un risentimento diventato di massa anche grazie al cinismo dei media, a cominciare da un giovane Boris Johnson, che da corrispondente annoiato del Telegraph a Bruxelles negli anni 90 inaugurò il fortunato sotto-genere giornalistico del “dagli al burocrate europeo”. Decenni di propaganda facile, falsa, tracimati in una campagna referendaria avvelenata da menzogne e interferenze illegali. Oggi l’antica democrazia britannica, disfunzionale malgrado gli ineccepibili meccanismi formali, si trova di fronte alla paralisi, lanciata, per mancanza di alternative, verso un iceberg-No deal a cui non è preparata, consumata da divisioni politiche che spaccano famiglie e nel pieno di uno scontro istituzionale fra Parlamento ed esecutivo.

Grazie ai voti di una coalizione bipartisan, negli ultimi giorni Westminster ha tentato di prendere il controllo del processo: ha imposto alla May, in caso di sconfitta, di presentare un “piano B” entro tre giorni, da votare entro altri sette. Domande non retoriche: la May ha un “piano B”? I parlamentari sono pronti ad una guerra di emendamenti per sterzare lontano dal No deal: ma in quale direzione? Le ipotesi sono tutte sul tavolo, e sono tutte piene di controindicazioni e a corto di tempo. Un secondo referendum? Non lo vogliono né la May né Jeremy Corbyn, ma nessuno dei due offre alternative praticabili.

Ieri alla Bbc il segretario laburista ha reiterato la linea politica uscita dal Congresso del partito a fine settembre e ha promesso di presentare al più “presto” una mozione di sfiducia se la premier dovesse uscire sconfitta dal voto. La priorità è ottenere nuove elezioni, vincere e rinegoziare con Bruxelles per ottenere “un accordo doganale che ci dia voce in capitolo e scongiurare i problemi sull’Irlanda del Nord”, ha aggiunto Corbyn, che ha confessato che un no deal sarebbe catastrofico per l’industria, catastrofico per il commercio e con effetti enormi a lungo termine. Faremo qualsiasi cosa per evitare una Brexit senza accordo”.

L’appoggio ad un secondo referendum è solo una delle opzioni alternative sul tavolo. Eppure l’80 per cento dei suoi iscritti aveva votato Remain nel 2016, mentre oggi il 70 per cento chiede un secondo referendum con l’obiettivo esplicito di invertire la rotta. Il segretario ascolta altri richiami, non solo perché culturalmente e politicamente euroscettico, ma anche perché, per la conquista di Downing Street, deve guardare agli elettori prima che agli iscritti. E degli elettori quattro su dieci (sei su dieci circoscrizioni elettorali laburiste) in aree tradizionalmente rosse hanno votato Leave. Vedrebbero l’appoggio a un secondo referendum come l’ennesimo tradimento della volontà popolare da parte dell’establishment.

La strategia di Corbyn ha due punti deboli. Il primo: per sfiduciare la May servono i voti di buona parte dei Tories e dei suoi alleati del Partito unionista Nord-irlandese, che le fanno una guerra spietata ma si guardano bene dal rischiare di cadere con lei.

Il secondo: Bruxelles non intende rinegoziare né concedere di più. Ma l’ipotesi di un No deal pesa in modo diverso fra gli stati membri, in particolare Paesi Bassi e Irlanda che ne soffrirebbero le conseguenze economiche più pesanti, e per evitarlo oggi le autorità europee faranno arrivare a Londra nuove rassicurazioni sul fatto che la backstop al confine nord-irlandese, il nodo gordiano di questo negoziato, sarà temporanea. Difficile che basti. In caso di bocciatura dell’accordo, l’Ue sembra disposta a concedere una estensione dell’art 50, previo assenso dei 27 paesi membri, solo se il governo britannico dovesse presentare un “piano B” con un forte consenso parlamentare e che non stravolga gli accordi già presi. Attenzione ai tempi: a luglio si insedia il nuovo parlamento europeo ed è improbabile che Bruxelles accetti di andare oltre quella scadenza. Off the records, due anni di estenuanti negoziati hanno esasperato gli animi verso un Regno Unito mai amato e un’uscita drammatica, alla vigilia delle elezioni europee di maggio, servirebbe di lezione agli altri paesi membri con velleità sovraniste.

C’è poi la via più semplice, almeno dal punto di vista procedurale: cancellare la Brexit revocando l’art 50 del Trattato di Lisbona che l’ha innescata. Per la Corte di Giustizia europea il Regno Unito può farlo unilateralmente, purché entro la scadenza del 29 marzo e “in buona fede”, cioè non per fermare il contro alla rovescia fino a nuovo avviso. Scenario pulito ma non indolore: Londra andrebbe incontro ad una umiliazione globale e le divisioni che stanno lacerando il paese rischierebbero di polarizzarsi pericolosamente.

La Cina batte gli Usa e conquista la luna. Il resto del mondo fa finta di non vedere

La Cina è sull’altra faccia della Luna, quella che nessuno vedrà mai. Per la prima volta nella storia, la ricerca astronomica dell’uomo – più specificatamente l’Agenzia spaziale cinese – arriva laddove fino a oggi solo Cyrano de Bergerac, Astolfo e Giacomo Leopardi erano riusciti, far propria la luna.

I primi due – entrambi uomini d’arme – arrivano lì, sopra la nostra testa, con i loro viaggi. Per incantarsi d’amore, vi vola, il nasuto spadaccino; per recuperare il senno d’Orlando paladino – in groppa all’Ippogrifo – vi galoppa il secondo. E tutti e due sostano, il tempo che ci vuole, nella parte a tutti noi buia: the dark side of the moon, per come cantano i Pink Floyd.

Il poeta di Recanati, nelle Operette Morali, la fa scivolare lungo la manica della galabia del Profeta (su di Lui la Pace), per così baloccarsi di delicata malia e ruotarne il verso, sia ponente che crescente, affinché ella, la signora luna, segni il tempo delle donne, degli uomini e dei popoli tutti, accostandosi alla punta dei minareti.

La Cina, dunque, riesce a far allunare il lander Chang’e 4 nell’emisfero nascosto di Selene.

La terra della Muraglia – l’unica opera dell’uomo visibile a occhio nudo dalla luna, come leggenda vuole – fa quindi un passo in più rispetto ai russi che nel 1959, con la sonda Luna3, scattarono le prime immagini. Da quel marchingegno volante, dopo l’assestamento, oggi ne sta venendo fuori un rover, ossia un robot, per perlustrare l’ambiente circostante e seminarvi patate, cavoli e, perfino, collocarvi uova di baco da seta eppure – come fosse una quisquilia buona al più per allunati – di questa impresa immane non se ne parla.

Fosse un fumetto – già solo l’idea di piantarvi tuberi e broccoli, ararla come terra fertile, – sarebbe già faccenda di Archimede Pitagorico, invece è scienza vera. E siccome è una realtà fatta di ricerca, analisi, tecnica e ingegno se ne parla poco in Occidente, anzi, niente, perché prevale – ahinoi – la necessità di minimizzare la portata epocale dell’impresa giusto per non mancare di rispetto al riflesso condizionato. Va da sé che se fosse stata la Nasa, ossia gli Usa – presso l’informazione più autorevole e pregiata – non ci sarebbe stata altra narrazione che l’epica, con relativo omaggio al genio a stelle e strisce, magari già con un trattamento hollywoodiano e con speciali tivù, anzi, con serie televisive fichissime per fare di ogni facente parte della missione, fosse pure lo stagista addetto alle fotocopie, come minimo un Argonauta. Il riflesso condizionato che ci fa volgere all’omertà del sorvolare sull’avventuroso cammino del lander Chang’e-4 è quello di un nostro disagio mentale. È la difficoltà di accettare che una civiltà di cui a malapena riusciamo a comprendere gli involtini primavera primeggi, oggi, nella gara di conquista delle stelle. E non se ne parla, appunto. Col risultato che un miliardo e mezzo di cinesi sanno di essere nella parte nascosta della luna, dove la Cina vola. La restante parte di mondo – la minoranza – sul fatto in sé, restando indietro, sorvola.

La Chiesa “salviniana” non si ferma e torna a minacciare lo scisma

Continua ad allargarsi sempre di più la frattura tra la Chiesa di papa Francesco, quella ispirata dall’amore evangelico e dalla misericordia, e la destra clericale e sovranista che tenta di mettere insieme Salvini e la fede in Cristo. Al punto che si torna a minacciare lo scisma.

Ormai la canea del network antibergogliano (quotidiani e siti tradizionalisti) procede di pari passo con la campagna elettorale per le Europee della Lega salviniana. Due i pilastri del sovranismo cattolico. Il primo è l’odio per “questa Chiesa a trazione demagogico-ambiental-migrazionista”: la definizione è da Stilum Curiae, il blog di Marco Tosatti, megafono delle accuse a scoppio ritardato contro Francesco di monsignor Carlo Maria Viganò sulla pedofilia. Il secondo pilastro è invece l’odio per gli omosessuali, amplificato dall’immagine di Bergoglio descritto come un Anticristo gay-friendly.

Secondo i clericali farisei, sarebbe stata proprio la linea morbida del Vaticano a favorire l’innalzamento della “sodomia a bene giuridico”. Di qui lo spauracchio dello scisma, che fa capolino più volte nel lungo appello di Roberto de Mattei, ex finiano oggi a capo di Corrispondenza Romana e Fondazione Lepanto: “Uno dopo l’altro, i principali Stati europei, compresi quelli di più antica tradizione cattolica, hanno elevato la sodomia a bene giuridico, riconoscendo, sotto diverse forme, il cosiddetto matrimonio omosessuale e introducendo il reato di omofobia”.

Il tutto favorito dal silenzio della Chiesa, ma questa “strada porterà danno al Papato e affretterà lo scisma nella Chiesa”. Il dogma della famiglia naturale, in chiave populista e salviniana, è stato declinato ieri pure dalla Verità di Belpietro, in difesa del Congresso mondiale delle famiglie che si terrà a Verona alla fine di marzo.

Gli ospiti d’onore sono tutti integralisti: il ministro omofobo Lorenzo Fontana (lo stesso che per conto di Salvini ha incontrato gruppi europei dichiaratamente nazisti), il governatore del Veneto Luca Zaia, la fasciosovranista Giorgia Meloni, il leader del Family Day Massimo Gandolfini. Contro di loro è già scesa in campo quella che La Nuova Bussola Quotidiana chiama Gay-stapo.

Moix ha ragione e noi mature siamo in cerca di autostima

“Si rende conto che questo è orribile per le donne?”. Sì, è orribile che la giornalista di Marie Clairesi sia adontata perché Yann Moix, scrittore cinquantenne poco noto al di qua delle Alpi, interpellato in proposito, ha risposto che le sue coetanee non lo attizzano e preferisce le più giovani. È ancora più orribile per le donne che la risposta di Moix, in linea con l’80 per cento della popolazione maschile mondiale, abbia sollevato un polverone planetario. Un’alzata di scudi seconda solo a quella scattata contro Weinstein, solo che nel mirino non c’è un molestatore seriale, ma solo uno che, come Cecco Angiolieri, preferisce “le donne giovani e leggiadre/e vecchie e laide lascerebbe altrui”. Facciamo scattare l’anatema anche per lui e per De Andrè che ha cantato i suoi versi, e chiediamo a entrambi ritrattazioni via seduta spiritica?

La differenza è che quando studiavamo Cecco e ascoltavamo De André eravamo giovani pure noi, e non ci facevamo caso, anzi, gli davamo ragione. Oggi invece siamo donne mature, ma (questo è il dramma) bisognose di approvazione e conferme come adolescenti. Con tanta fatica e denaro per scongiurare rughe, capelli bianchi e infrollimento, pretendiamo che tutti, tutti, compreso uno scrittore francese di cui non leggeremo mai una riga, dicano che non solo siamo belle, ma amabili e scopabili, come continuano a ripeterci Marie Claire e simili mostrandoci foto ritoccatissime di Sharon Stone e Nicole Kidman – tanto sexy che ormai nei film fanno solo la parte della madre della protagonista.

È come se, in fondo, la parità che più ci preme fosse quella fra corpi femminili giovani e vecchi agli occhi degli uomini, e il loro gradimento l’unica misura del nostro valore. E se è così, allora ha ragione Moix. A parità di insicurezza e di poca autostima, una giovane è meglio di una cinquantenne. Ma solo perché è meno patetica.

Cinquantenni da buttare? L’idea di bellezza è spesso imposta

“Un corpo di una cinquantenne? Invisibile, mentre quello di una venticinquenne, specie asiatica, è straordinario”. Impossibile dunque amare una donna non giovane, ha detto la settimana scorsa lo scrittore francese Yann Moix alla rivista Marie Claire, suscitando un vero putiferio mediatico. Le risposte sono state di segno diverso, ma hanno insistito per lo più – sbagliando – sulla rivendicazione della bellezza di corpi di donne famose di cinquant’anni o più. Ma il punto non è dire che a cinquanta il corpo può essere come a venticinque, cosa che con tutta evidenza non è (e infatti queste attrici sono costrette a passare una micidiale quantità di ore in costosi trattamenti di bellezza) ma spiegare a Moix, e agli analfabeti sentimentali come lui, che il desiderio sessuale non è legato esclusivamente alla giovinezza. Specie, oltretutto, nell’epoca in cui il sesso non serve più a fare figli e in cui i figli si possono fare anche in età avanzata.

La vera questione è un’altra: Moix ha detto che il suo è un gusto, per cui non ci può fare niente e la cosa gli sembra anche un po’ tragica (posizione simile a quella di molti intellettuali nostrani che rivendicano la natura “animale” del maschio). In parte non ha torto, e da questo punto di vista più che rabbia dovrebbe farci pena. Dall’altro però lo scrittore sembra non sapere che il gusto non è qualcosa che ti capita nella vita a caso ma è, guarda caso, culturalmente orientato. Il che significa che in una società invasa da corpi femminili giovani gli uomini tenderanno a desiderare quelli, mentre ciò non accadrebbe in un’altra società dove i modelli proposti fossero diversi, per esempio più realistici e umani. Non capire questo legame mi sembra, da parte di uno che si definisce scrittore, veramente imperdonabile. Intellettualmente, ben prima che moralmente.

Salvini nelle mani di Genny ’a Carogna

Si gioca oggi a Genova, alle ore 15, la partita di Serie A Genoa-Milan, originariamente programmata per le 21 e spostata al pomeriggio per decisione del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Poichè lo spostamento d’orario ha suscitato un vespaio di polemiche, abbiamo bussato alle porte del Viminale per fare un po’ di chiarezza.

Ministro Salvini, il mondo del calcio pare non aver gradito la decisione di spostare Genoa-Milan alle 15. A cominciare da Miccichè, presidente di Lega.

“Intanto mi faccia dire che di Lega ce n’è una sola: la Lega di cui sono segretario federale e alla quale sono iscritto dal 1990. Non mi sembra che Miccichè possa dire altrettanto della sua Lega, quindi zitto e a cuccia”.

I tifosi del Genoa però sono furibondi. Alle 15 lavorano tutti e soprattutto i 18 mila abbonati si sentono defraudati.

“Ma io devo pensare anche alle minoranze: come i 1000-1500 tifosi del Milan che andranno allo stadio. Come sapete, la legge dice che se qualcuno si intrufola in casa tua puoi sparargli a patto che sia notte. Ebbene: si gioca in casa del Genoa e l’orario notturno avrebbe potuto favorire una carneficina di tifosi rossoneri. Alle 15 invece non si può sparare – anche se in linea di principio trovo la cosa incomprensibile – e quindi i tifosi del Milan possono stare tranquilli”.

A dire il vero, i rapporti tra le due tifoserie parevano ricuciti a 24 anni dall’uccisione di Spagnolo.

“Spagnolo, portoghese, francese: sapete che il mio motto è prima gli italiani!”.

La sua decisione tuttavia potrebbe creare un pericoloso precedente. Il 26 gennaio ad esempio c’è Milan-Napoli e…

“Alt! Fermi tutti! Posso dire fin da ora che la partita Milan-Napoli del 26/1 sarà giocata in un clima di fratellanza assoluta. Domani m’incontrerò infatti con il capo ultrà del Milan, il mio amico Luca Lucci, quello che chiuse un occhio a un tifoso interista al culmine di alcuni simpatici sfottò, e con Genny ‘a carogna, leader dell’ultra-tifo napoletano: tre intelligenze a confronto. Dopo il summit incontreremo la stampa e poseremo per le foto di rito: Lucci e Genny ‘a carogna lo faranno con un gattino in braccio, io con un barattolo di Nutella formato famiglia”.

I napoletani potranno quindi recarsi a San Siro in tutta tranquillità?

“Direi di sì. Ma essendo una partita internazionale, italiani contro napoletani, confido che l’Uefa esca dal suo torpore e ci dia una mano; purtroppo i tempi sono stretti e non ce la faccio a rimpatriare in un sol colpo le migliaia di immigrati napoletani che ormai da anni hanno invaso Milano e il Nord Italia”.

Un’ultima domanda. Cosa succederebbe se nel prosieguo della Champions League il sorteggio mettesse di fronte Juventus e Liverpool?

“Non ci faremo trovare impreparati. Le partite di Champions, come noto, si giocano alle 21; ebbene, quando saranno gli inglesi a venire in casa nostra troveranno pane per i loro denti. Potremo sparare a man bassa e la ministra della Difesa, Trenta, metterà a mia disposizione un F35: dopo aver guidato la ruspa che ha abbattuto la villa dei Casamonica, guiderò il caccia che ricaccerà il nemico Oltremanica. Vincere e vinceremo!”.

L’ansia degli Usa per la Cina: la guerra fredda tecnologica

Il primo dicembre Cina e Stati Uniti hanno sancito una tregua nella guerra commerciale e si sono dati 90 giorni per negoziare. Lo stesso giorno Meng Wanzhou, responsabile finanziaria di Huawei e figlia del fondatore, veniva arrestata in Canada su richiesta degli Stati Uniti, con l’accusa di aver violato le sanzioni contro l’esportazione di tecnologie americane in Iran. Pochi credono che si tratti solo di una vicenda giudiziaria. E i cinesi meno di tutti.

L’arresto di Meng Wanzhou ha rivelato la preoccupazione principale degli Usa: il primato hi-tech e l’ambizioso piano pluriennale – Made in China 2025 – approvato dal governo cinese. Il piano – con un mix di Stato e mercato – vuole spostare l’industria cinese nelle parti più alte delle catene di produzione globali e di accrescerne l’indipendenza tecnologica. Nel 2018 il think tank statunitense Council on Foreign Relations lo ha definito una “minaccia esistenziale per la leadership tecnologica statunitense”. Huawei, che nega tutte le accuse, è oggi il più grande produttore mondiale di apparecchiature per le telecomunicazioni, e nel 2018 ha superato Apple come secondo produttore di smartphone. É soprattutto l’impresa cinese di punta nel 5G, la prossima generazione di comunicazioni wireless. Un’infrastruttura critica. Su questa rete si appoggeranno banda larga mobile e internet delle cose; correranno nel futuro i dati globali; e si svilupperá la nuova ondata di innovazioni digitali. La sua sperimentazione commerciale comincerá quest’anno. E per la prima volta in una corsa tecnologica, la Cina si presenta in pole position. Dispone di tecnologie analoghe o piú avanzate di Stati Uniti e Europa. E piú economiche.

Anche nell’intelligenza artificiale la Cina ha mostrato di essere in grado di puntare alla leadership dell’innovazione, specie dove l’interesse del governo coincide con quello delle imprese. Molti cominciano a temere che nelle tecnologie basate sull’uso dei dati, come l’intelligenza artificiale, la Cina disponga di un doppio vantaggio: i numeri e la libertá di usare i dati. Tanto per la Cina come per gli Usa, la questione é gestire l’inevitabile ascesa cinese. Il governo cinese ha appena festeggiato 40 anni di marcia trionfale di sviluppo. Si puó fermare questa ascesa? O almeno ritardarla? Se non si puó con la forza del mercato, é possibile appellarsi a una questione di sicurezza.

L’arresto di Meng non é un’occorrenza individuale. I servizi segreti dei Paesi anglosassoni – i Five Eyes: l’alleanza di intelligence che comprende Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti – si sono riuniti nel 2018 e si sono fatti una domanda: affidereste infrastrutture e dati a un’impresa cinese? E hanno stabilito che c’é un rischio di spionaggio. Il congresso Usa, in ottobre, ha impartito ad amministrazioni e imprese la raccomandazione di evitare due compagnie, Huawei e Zte, accusate di avere forti legami con governo ed esercito. Il fondatore di Huawei é un ex-ingegniere dell’esercito. E tutti sanno che nessuna societá cinese puó scappare dall’accusa di collaborare col governo.

Altri governi si stanno allineando. Australia, Nuova Zelanda, hanno emanato norme. Il Giappone é in procinto di farlo. Diverse compagnie private vogliono rivedere i loro accordi con Huawei, anche in Europa. La Germania, tuttavia, per il momento, non si é allineata. I servizi segreti tedeschi hanno concluso uno studio sulle apparecchiature Huawei, e hanno dichiarato che non hanno trovato evidenze di rischi di spionaggio.

Il timore dei cinesi é che gli Usa puntino a una strategia di parziale “disaccoppiamento”. Se una scissione integrale dalla Cina é impossibile, si puó erigere una nuova cortina di ferro, limitata alle tecnologie critiche. Non é facile immaginarsi le implicazioni. L’interdipendenza é oggi elevata. Metá della produzione Apple é assemblata in Cina, che é anche il suo secondo mercato.

Soprattutto, se si andasse verso doppi standards tecnologici, verso la creazione sfere d’influenza (tecnologiche, ma anche economiche, politiche), come si allineeranno i paesi terzi? I costi sarebbero elevati per tutti ed é facile immaginarsi le resistenze del il governo Usa: dentro gli stessi Stati Uniti, in Occidente, e ancor di piú nel resto del mondo. Una rottura di questa portata, con le nubi che si addensano sull’economia mondiale, fa paura a tutti.

La Cina é comunque molto vulnerabile. La scorsa estate Zte – l’altra azienda cinese di punta nel 5G – sotto accusa come Huawei – é stata messa in ginocchio dal divieto di esportazione di componenti dagli Usa. Costretta a pagare una multa stratosferica, ha dovuto cambiare l’intero staff manageriale.

La Cina ha risposto accelerando i suoi piani di “autosufficienza” tecnologica, investendo in microchip, la sua maggiore vulnerabilitá. Ma cerca l’accordo. Gli Stati Uniti chiedono modifiche al Made in China 2025: l’apertura del mercato cinese, meno discriminazioni per le imprese straniere, riduzione dell’economia statale protetta, un cambio nelle politiche industriali considerate mercantilistiche. La Cina sa che il tempo gioca a suo favore ed é pronta a ridurre piani e ambizioni. Ma quello che la Cina è disposta a concedere potrebbe non bastare. Tanto l’accordo come la rottura sono scenari irrealistici.

*ricercatore presso l’IGOP – UAB Barcellona

Com’è nato il museo dell’arte in ostaggio

Siamo a Cassina De Pecchi, a Nord Est di Milano. Proprio dentro il torrione di un’antica cascina del Seicento c’è un piccolo museo che raccoglie tutte le opere trafugate durante la seconda guerra mondiale e sono censite da Rodolfo Siviero.

O meglio, raccoglie le riproduzioni multimediali e interattive degli originali.

Si chiama “Museo dell’Arte in Ostaggio” ed è nato nel 2015 da un’idea di Salvatore Giannella, ex direttore de “L’Europeo” e “Airone” e autore di alcuni libri tra cui “Operazione Salvataggio” (edizioni Chiarelettere) su quei funzionari ed esperti che salvarono le opere italiane dalle guerre. “All’interno del museo vengono conteggiate le opere ancora da recuperare.

La lista contiene 1.653 nomi, ma dalla sua apertura ne sono state recuperate sette – spiega lo stesso Giannella -.

A ogni recupero un ufficiale del nucleo Tpc di Monza viene qui a scrivere ‘Recuperato’ vicino al titolo della medesima opera”.

Per tenere alta l’attenzione sul recupero e sulla tutela dei beni culturali, Giannella coordina anche la giuria del “Premio Pasquale Rotondi ai salvatori dell’arte”, che quest’anno giunge alla ventiduesima edizione.