Rapine, Pac e fughe: Battisti, il criminale che si scoprì politico

La storia di sangue di Cesare Battisti inizia il 22 gennaio 1979, quando un gruppo di rapinatori comuni, niente a che fare con la politica e la lotta armata, fa irruzione al “Transatlantico”, vecchio ristorante milanese di Porta Venezia oggi rimpiazzato dal “Panino giusto”. Tra i clienti seduti ai tavoli c’è un gioielliere, Pierluigi Torregiani, che reagisce: è armato, spara. Bilancio: due morti, un bandito e un cliente, e due feriti, Torregiani e un altro cliente del ristorante.

Un mese dopo, il 16 febbraio, avviene un’azione di lotta armata che vuole essere la risposta alla sparatoria del “Transatlantico”: un commando di terroristi entra nella gioielleria di Torregiani e lo ammazza; il figlio, ferito da un colpo di pistola esploso dal padre per difesa, rimane paralizzato a vita. L’azione è rivendicata con un volantino dai Pac, Proletari armati per il comunismo, che quasi in contemporanea ammazzano vicino a Venezia anche il macellaio Lino Sabbadin, che in precedenza aveva anch’egli sparato a un rapinatore. I due sono stati puniti, spiegano i Pac, perché avevano fatto fuoco su proletari che volevano riappropriarsi di quanto era stato loro tolto dalla società del capitale.

Chi sono i Pac? Avevano cominciato la loro mattanza il 6 giugno 1978, ammazzando a Udine il maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro. La concluderanno il 19 aprile 1979 sparando a Milano all’agente della Digos Andrea Campagna. In mezzo, azioni armate, ferimenti, “espropri proletari”, rapine. Storia sanguinosa ma breve, perché durante l’assalto alla gioielleria di Torregiani, un automobilista vede gli assassini fuggire in macchina e li insegue; assiste così al “cambio auto”, quando i terroristi abbandonano il veicolo che avevano rubato per l’azione e trasbordano su un’altra vettura “pulita”. Il testimone si segna la targa e poi telefona alla polizia.

Per i Pac è l’inizio della fine. Molti militanti vengono individuati e arrestati. Alcuni parlano. Ma si scatena subito una pesante campagna di stampa: secondo familiari, compagni e avvocati degli arrestati, le testimonianze sarebbero state estorte con la tortura. Repubblica scrive che a Milano il clima è “da lontano paese sudamericano”. Il manifesto titola così un articolo su uno degli arrestati: “Per farlo confessare, la Digos lo ha castrato”. A giugno 1979 è arrestato anche Cesare Battisti.

Era un criminale comune, nato a Cisterna di Latina nel 1954, finito in carcere la prima volta a 18 anni per rapina e tornato in cella altre volte, per un sequestro di persona, poi per l’aggressione a un militare. Nel carcere di Udine aveva conosciuto un leader dei Pac, Arrigo Cavallina, e si era “politicizzato”. Nel 1981 la sua prima condanna per attività eversiva: 13 anni e 5 mesi per banda armata e possesso di armi da guerra. Ma quell’anno Battisti evade dal carcere di Frosinone e fugge a Parigi, poi in Messico.

Torna in Francia nel 1990, diventa scrittore di libri gialli ed entra a far parte della comunità di rifugiati italiani protetti in Francia dalla cosiddetta “dottrina Mitterrand” e coccolati da una parte degli intellettuali francesi, da Bernard-Henri Lévy a Daniel Pennac, convinti che i terroristi italiani siano dei martiri della libertà.

È la giornalista francese Marcelle Padovani a puntualizzare che il presidente Mitterrand, da lei intervistato, aveva precisato che l’asilo politico in Francia poteva essere concesso ai latitanti italiani a tre condizioni: che non avessero commesso delitti di sangue, che la loro condanna non fosse definitiva e che si fossero impegnati a non commettere reati in Francia. Evidente che almeno le prime due condizioni nel caso di Cesare Battisti non ricorrevano. Nel frattempo era stato infatti condannato definitivamente per quattro omicidi, tra cui quello di Torregiani.

Alla poderosa campagna pro-Battisti in Francia rispondono Barbara Spinelli e il magistrato italiano Armando Spataro, che in un articolo su Le Monde ricorda che Battisti è stato processato in Italia con tutte le garanzie e che, dei quattro omicidi per cui è stato condannato, due volte ha sparato personalmente alle vittime (Santoro e Campagna), una volta ha svolto ruoli di copertura armata (Sabbadin) e nell’altra (Torregiani) ha partecipato alla deliberazione dell’assassinio, andando personalmente a compiere, in contemporanea, l’omicidio Sabbadin. Arrestato a Parigi nel 2004, i giudici francesi concedono l’estradizione in Italia, ma solo dopo averlo messo in libertà provvisoria. Il giallista si dà alla latitanza. America latina. Fino al marzo 2007, quando viene arrestato a Copacabana, in Brasile.

Perfino la Corte di Strasburgo nel 2006 aveva respinto il suo ricorso contro la giustizia italiana, ma il Brasile di Lula rifiuta di estradarlo con la motivazione che in patria sarebbe sottoposto a persecuzione per le sue idee politiche. Arresti, liberazioni, fughe. Tramontata la stella di Lula, Battisti scappa di nuovo. Fino all’ultimo fermo, in Bolivia, e al suo ritorno in Italia.

Ma mi faccia il piacere

Bomba o non bomba/1. “Ieri sera calcetto per smaltire i cenoni. In foto il sottoscritto fisicamente disintegrato dalla fatica. Nel 2019 bisognerà dimagrire” (Matteo Renzi, senatore Pd, Twitter, 31-12). Meno del 18 per cento?

Bomba o non bomba/2. “Credo possa esserci un nuovo boom economico come negli anni 60: allora costruimmo le autostrade tradizionali, ora la nuova sfida sono le autostrade digitali” (Luigi Di Maio, vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo, M5S, 11.1). Oddio, un altro Bomba?

Roba buona. “Abbiamo presentato esposti a 18 Procure della Repubblica sul contenuto delle esibizioni del ‘cantante trap’ Sfera Ebbasta chiedendo di verificare se in essi si possa ravvisare il reato di istigazione e proselitismo all’uso di sostanze stupefacenti” (Lucio Malan e Massimo Mallegni, senatori FI, 9.1). Quelle che i due senatori hanno assunto prima di presentare i 18 esposti.

Beccato! “Salvini è incazzatissimo per il fondo ‘Romanzo Viminale’ di Travaglio sul ‘Fatto’ di oggi. Non per Travaglio, che non calcola proprio, ma per chè pensa che dietro c’è la manina di Casalino/Conte (non Di Maio) che si preparano a resistere a una possibile crisi accesa dal ‘Capitone’ leghista mettendo in campo l’ipotesi (che fino a qualche tempo fa sarebbe sembrata fantascienza) di un governo Conte2” (Dagospia, 11.1). Uahahahahahah.

Chi offre di più? “Carige, 1,3 miliardi dal governo” (Repubblica, 9.1). “Carige, pronti tre miliardi” (Corriere della sera, 9.1). “Salva-Carige, scontro su 4 miliardi” (Messaggero, 9.1). “Bomba da 4 miliardi sul governo: 5 stelle e Lega salvano la banca Carige, amica di Grillo e del premier” (il Giornale, 9.1). Si prega di sincronizzare le cazzate.

Abbiamo un Fassino. “Con sconcerto e amarezza ho letto ieri Massimo Giannini che ha voluto richiamare una mia battuta di quindici anni fa – ‘abbiamo una banca’ – accreditando in modo del tutto infondato una relazione con la crisi Carige e la gestione che ne sta facendo l’attuale governo” (Piero Fassino, lettera a Repubblica, 11.1). In effetti la relazione fra i due casi è del tutto infondata: Fassino, nel 2005, tifava al telefono per la scalata dell’amico Consorte di Unipol alla Bnl, mentre non risulta che l’attuale governo stia tifando al telefono per una scalata di amici alla Carige.

Colpa di Virginia. “Far West a Roma, ucciso davanti all’asilo. Pregiudicato per usura freddato da un killer mentre era coi figli. Scontro sulla Raggi”, “Ucciso a colpi di pistola davanti all’asilo dei figli. Tensione sulla Raggi” (Messaggero, 11.1). Ha sparato lei.

Terùn. “Comandano i terroni. Ai meridionali 3 cariche istituzionali su 4” (Libero, 11.1). “De Luca è l’unico intelligente fra i Democratici” (Libero, 13.1). Non hanno ancora scoperto che è terrone pure lui.

Se questo è un ministro. “Raggi: ‘Più poliziotti’. Salvini: ‘Usa i vigili’” (Corriere della sera, 11.1). O i soldatini di piombo.

Fateci ridere/1. “Il decreto che il governo varerà questa settimana per attuare quota 100 restituisce l’Inps alla politica… Verrà cancellata una conquista, l’indipendenza dell’Inps dalla politica, ottenuta quindici anni fa anche grazie all’allora ministro del Lavoro, Roberto Maroni” (Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, Corriere della sera, 8.1). Infatti gli ultimi due presidenti, Mastrapasqua e Boeri, li aveva portati la cicogna.

Fateci ridere/2. “Produzione industriale ko. Profondo rosso per il settore auto (-19,5%), male anche meccanica e macchinari” (Il Sole 24 ore, organo di Confindustria, 12.1). “La grande gelata dell’economia. A novembre produzione a -2,6%. Gli industriali: così è recessione” (Repubblica, 12.1). Cioè: la produzione industriale crolla e gli industriali se la prendono con noi.

Lezioni di satira. “Una comicità che muore è proprio la comicità di Daniele Luttazzi che spaccia per satira un comizio sulla mafiosità di Berlusconi in dialogo con Marco Travaglio” (Mattia Feltri, La Stampa, 7.1). Un po’ come quell’incompetente di Aristofane che, nelle paràbasi delle sue commedie, spacciava per satira i suoi comizi contro i politici dell’antica Atene. Ma solo perché non era andato a scuola da Mattia Feltri.

I titoli della settimana. “Nella Siberia di Casaleggio ‘deportati’ ottanta grillini. Ecco chi ha riempito il gulag M5S” (il Giornale, 7.1). “Di Maio-Tse Tung nazionalizza anche le banche. Come nei regimi”, “M5S ferma Tav e trivelle ma non la marijuana” (il Giornale, 10.1). Dài, ragazzi, passateci un po’ di quella roba buona che date ai vostri titolisti.

“Qualche alto tra i bassi”: la vita al massimo di Omar Pedrini

Il mal di cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce: finito un amore, il rischio infarto aumenta. Lo sa bene Omar Pedrini che, dopo aver sorpreso la fidanzata Elenoire Casalegno (paparazzata) mano nella mano con un altro, salì “sul palco dell’Ariston con il cuore a pezzi. Letteralmente”. Era il 2004: poco dopo Sanremo il cantante fu ricoverato d’urgenza, ed era solo il primo di tre interventi chirurgici al cuore, uno dei quali a poche ore dal più recente matrimonio.

Dopo Cane sciolto del 2017 (Chinaski Edizioni), Pedrini torna a raccontarsi in Angelo ribelle (La nave di Teseo), l’autobiografia di una vita irregolare con “qualche alto tra i bassi”. Come molti mémoire d’artista c’è qualcosa di fatale e magico che tiene impigliato il musicista al suo destino, alla sua musica: il cantautore – chitarrista, docente, ambasciatore della Franciacorta, padre, marito, ex leader dei Timoria… – iniziò, guarda caso, a suonare a 5 anni e a 14 sperimentò il primo infuocato abbraccio con la chitarra elettrica, anche meglio del primo amplesso con Patrizia.

La musica, per lui, è quasi una malattia genetica, ereditata per via paterna, ma soprattutto materna. La più contagiosa di tutti fu certamente Nonna Nina, strimpellatrice di chitarra per passione e aforista per vocazione: “Con la musica non sarai mai solo”, eh Omar, e così Omar ha obbedito. Pedrini proviene da una famiglia bresciana operosa quanto creativa, tra cui spiccano musicisti e liutai amatoriali e compulsatori di musica classica professionisti. Omar lo volle il padre, in onore a Sivori, “l’ultimo degli artisti ad aver calcato un campo di calcio”. È un nome di “origine araba ed ebraica”, il suo, facilmente anagrammabile in amor, orma, ramo, armo, mora, Roma, una per ogni faccia della personalità cangiante e poliedrica.

Nato sotto il segno dei Gemelli, il 28 maggio del 1967, Pedrini vede da sempre il mondo “a testa in giù”, proprio perché a testa in giù è venuto al mondo, lui che di vita ne ha attraversata più d’una, e pericolosamente: tra le pagine si inseguono gli incontri importanti, nella realtà come nelle opere, musicali, romanzesche, pittoriche. Il catalogo è lungo: Ugo Tognazzi; Raymond Carver; John Donne; Omero (“un rocker immenso”); Pablo Picasso; Neil Young; Walt Whitman; Carmelo Bene; Michelangelo; Dino Buzzati, che forse gli ispirò il primo cattivo proposito d’infanzia: diventare giornalista.

Tante, ovviamente, le donne amate – dalla Nina alla moglie, dalla figlia alle infermiere – e altrettanti i vizi: in primis, alcol, droga e rock’n’roll, l’unico rimasto dopo la “cura del samurai”, mentre il peyote lo salvava dall’abuso di sostanze stupefacenti (sic). “Rissaiolo” e fumantino, Pedrini dice di essere “nato incendiario ma voglio morire piromane”: odia che il piatto si freddi, intrattenersi troppo al telefono, invitare gli amici ai concerti… Seguono riflessioni pensose e concilianti sulla coscienza, l’amore e altri guai, politica compresa, analfabetismo di ritorno compreso.

Tuttavia le pagine più belle del libro non sono quelle di riflessione e pentimento, buoni sentimenti e struggimento; le pagine più belle sono quelle avvelenate, avventate, alcoliche, frizzantine: dopotutto, “la vita è troppo breve per bere vini cattivi”.

Romanzi e lezioni americane: il mestiere di vivere. Da poveri

Si sfiancano a furia di fare autopromozione (ormai il tempo speso nel marketing è arrivato al 25%), girano il Paese per fare reading e lezioni, fanno editing di libri oppure li scrivono come ghostwriter, producono articoli, tengono corsi di scrittura: tutto per racimolare altri soldi. Questo quando non hanno proprio un altro mestiere, dall’insegnante all’impiegato, perché sopravvivere sia di soli diritti d’autore e anticipi sia delle attività connesse alla scrittura è oggi quasi impossibile. Sembra l’Italia, invece è l’impietosa fotografia degli scrittori statunitensi, scattata da un’amplissima ricerca effettuata dall’autorevole associazione di scrittori The Authors Guild su 5.067 professionisti e i cui risultati sono stati resi noti pochi giorni fa.

È una “crisi di dimensioni epiche” e i numeri lo dimostrano: le entrate medie di questo variegato mondo di scrittori a tempo pieno, part time e ibridi era, nel 2017 (anno a cui si riferiscono i redditi della ricerca conclusa nel 2018), di 6.080 dollari annui, di cui 2.594 ricavati da soli libri e 3.600 da attività legate alla scrittura, con un calo del 42% rispetto ai 10.500 dollari del 2009 e ancor più rispetto ai 12.850 del 2007: si tratta del 36% del reddito di questi professionisti, che in totale è 16.889 dollari, provenienti ovviamente da altri lavori di tutt’altro genere.

Ma se anche si isola il reddito dei soli scrittori a tempo pieno il calo è drastico: da 25.000 a 20.300 dollari, “sotto la soglia di povertà per una famiglia di tre persone o più”. Solo il 21% degli autori full time vive di sola scrittura e solo il 57% di scrittura più attività a essa legate.

Non solo: un quarto degli autori, di cui il 18% degli autori a tempo pieno, nel 2017 ha guadagnato ben 0 dollari. Si tratta di autori che non fanno media, altrimenti, sostiene la ricerca, il reddito da libri più attività scenderebbe addirittura a 1.784 dollari e quello da soli libri a 490.

In questo quadro di fatica e relativa miseria, la ricerca punta il dito contro la grande dominatrice dell’industria del libro, e cioè Amazon, attraverso cui negli Stati Uniti passa il 72% delle vendite di libri. Certo, come editore ha reso la pubblicazione più democratica: il numero di self published è cresciuto del 72% in 5 anni: lo usa in maniera esclusiva il 27% degli autori, mentre poco più di metà utilizza entrambi e solo il 46% pubblica unicamente in maniera tradizionale. Le entrate di questi autori sono raddoppiate, ma parliamo di 1.951 dollari annui, visto che i suoi autori guadagnano comunque il 58% in meno degli autori tradizionali. Anche perché, ad esempio, Kindle Direct Publishing prevede royalties del 35% invece che del 70% sui libri sopra i 9.99 dollari.

Programmi come Kindle Unlimited inoltre spingono verso il basso le vendite e pure i guadagni degli autori self published, 76 dei quali su 100 pubblicano su piattaforme Amazon. Non solo: come distributore Amazon fa pressioni per tenere i costi bassi sugli editori, i quali – anche perché investono tutte le loro risorse in anticipi e promozioni delle celebrità – di fatto finiscono per trasferire le perdite sugli autori.

Pesano ancora: l’aumento dei libri di seconda mano tramite Amazon Reseller, la folle scontistica, le rese dei negozi rimesse nel mercato, l’aumento della competizione con un milione di titoli pubblicati nel 2017, le scarse risorse di editori piccoli o accademici.

Il risultato è che gli scrittori sono costretti a limitare la scrittura ai pochi momenti di tempo libero, e la qualità si abbassa. Sempre più alta invece la frustrazione di chi vorrebbe farne un lavoro. “Essere un autore oggi è come avere un hobby molto costoso”, dice uno scrittore che ha partecipato alla ricerca, mentre una scrittrice nota: “Se mio marito non mi sostenesse, non potrei mai scrivere, pur pubblicando con un grande editore”. E il pluridecorato biografo e scrittore T.J. Stiles, che sul suo sito ammette di essere diventato scrittore a tempo pieno “solo nel 2018”, ha commentato la ricerca così: “La povertà? È ormai una forma di censura”.

“Con Ugo c’era sempre gente. Sono quasi arrivato a odiarli”

“C’è un aspetto genetico che viene tramandato: tutti gli occhi di noi fratelli, nonostante le madri differenti, sono sempre di Ugo. Così i nipoti. Con dietro una profonda onestà di chi sa accettare i propri limiti e ha la consapevolezza dei punti di forza. E mio padre è stato questo: uno da successi, eccessi, fallimenti, ma ha sempre alzato la mano senza nascondersi”. Quando Gianmarco Tognazzi lo racconta, delimita con indice e pollice la “finestra” genetica, e non è suggestione, non è una traccia forzata figlia di una necessità interiore. È vero.
All’improvvisino non ti trovi più davanti solo un uomo, ma una storia decennale e condivisa come una buona bottiglia di vino, al centro di una tavolata di amici.

Gianmarco, 51 anni solo per la carta d’identità, è tra i protagonisti di Non ci resta che il crimine, ultima commedia di Massimiliano Bruno, tra i rari (anzi, oramai rarissimi) casi di film italiano con un immediato riscontro al botteghino; un super cast (oltre a lui Marco Giallini, Edoardo Leo, Ilenia Pastorelli e Alessandro Gassmann: “Finalmente siamo tornati a recitare insieme. Però il cinema resta un hobby serio”) e una storia che è un omaggio alla commedia, al grottesco, al surreale, con venature nazional-popolari.

Come un hobby serio?

Perché non sei padrone delle opportunità che ti crei. L’attore è subordinato ai periodi, alle scelte, alle mode.

E qual è il lavoro?

La Tognazza, l’azienda vinicola nata con mio padre, che da anni ho ripreso in mano: lì sono padrone e artefice del successo e insieme agli altri del gruppo.

I nomi dei vini sono “Tapioco”, “ComeSeFosse” e “Antani”. È “Amici miei”.

In realtà i termini sono nati durante le tante serate con Benvenuti, De Bernardi e Monicelli, e ben prima del film: è Amici miei ad aver attinto dalla vigna, e non il contrario.

Con i Tognazzi la tavola è sempre presente.

Maria Sole è specializzata di ristoranti, Ricky è il migliore di noi ai fornelli, io sono sempre stato quello affezionato alla memoria, alla storicità, alla campagna e mi sono innamorato della cantina. Thomas vive in Norvegia e quando viene in Italia si fa cucinare da Ricky, prende i prodotti da me e va al ristorante con Maria Sole. Ognuno di noi ha sviluppato una costola di Ugo…

Verdone racconta come in una scuola di cinema non sapevano chi fosse suo padre.

È successa la stessa cosa a me e in un istituto di comunicazione: davanti a duecento studenti, domando: “Chi conosce Ugo Tognazzi?”. Hanno alzato la mano in quattro.

Come mai?

Quei ragazzi non sono vittime della loro ignoranza; la responsabilità è nostra: in questi ultimi trent’anni non abbiamo fatto nulla per difendere un’eredità culturale.

E non solo con suo padre.

Se parli di Gassman oggi pensano solo ad Alessandro, se nomini Tognazzi collegano il cognome a me o ai miei fratelli; a volte mi fermano e poi mi dicono: “Saluti suo padre”.

Chi?

Credono che Ricky sia mio padre. La rimozione è legata anche a nomi fondamentali quali Risi, Rossellini, Germi, Salce, Ferreri… questi ragazzi non sanno e non sapranno e non basta trasmettere un film in televisione, questo Paese non si può scaricare la coscienza così facilmente.

Alberto Sordi negli ultimi anni aveva predetto: “Ci dimenticheranno tutti”.

Ugo non lo diceva, ma lo aveva percepito da molto prima e la fonte della sua depressione non era solo professionale, ma legata anche alla situazione del Paese. (scopre delle foto sul tavolo). Cosa sono?

Sue immagine scattate da Umberto Pizzi: è quasi sempre con belle donne.

Prima di mia moglie, mi sono dato da fare parecchio. Anche questo l’ho preso da Ugo.

Erotomane.

Non tanto l’erotismo, piuttosto la seduzione, la compagnia femminile, e certi lati di mio padre non sono mera imitazione. Sono proprio lui. Qualche donna con cui sono stato neanche la ricordo.

Torniamo al vino: prima sbronza.

Riesco sempre a mantenere il controllo della situazione.

Proprio mai?

Ah sì, due volte. La prima per un errore clamoroso: quando vendemmiavamo con Ugo e gli altri, realizzavamo un vino grezzo, e la spremitura la versavamo in delle tinozze; dall’euforia mi sono attaccato al rubinetto e inevitabilmente ho succhiato tutto il gas. Avevo otto anni.

La seconda?

Durante le riprese di Io no, dovevo girare delle scene dove il personaggio era sbronzo: iniziai a bere convinto di mantenere il controllo, solo che girammo tutto il giorno e a fine giornata vagavo fino a quando mi hanno ritrovato a terra.

Da attore come si giudica?

Non mi guardo, non vado al monitor, amo vedere solo il film finito, perché la pellicola è del regista, mentre a teatro la mia idea è molto differente: il regista è importante, poi tocca all’attore, e ogni sera te la devi vedere con uno stimolo interno, con il termometro che hai su sala e pubblico.

Dal palco guarda la platea?

Se mi infastidisce.

Cosa?

È cambiato l’approccio del pubblico e il grado di educazione: è difficile trovare una serata senza qualcuno che estrae dalla tasca il cellulare; un tempo facevo pippa, ora inizio a non tollerarlo.

Soluzione.

Da quast’anno entrerò in scena con il cellulare in tasca e se becco qualcuno illuminato dallo schermo, tiro fuori il mio e per cinque minuti farò i cazzi miei.

Punisce i non colpevoli.

C’è bisogno di un segnale: se chi gli sta accanto non interviene, allora ci penso io.

È incazzoso.

Nella mia vita non ho mai dato uno schiaffo, al massimo le ho prese; però quando sono andato fuori registro, non mi sono più controllato. Quindi evito, perché rischio di passare dalla parte del torto.

Insomma, come si giudica da attore?

Ho iniziato consapevole di essere un esibizionista e mi serviva per rompere con la timidezza: ridicolizzarmi mi ha aiutato, quindi all’inizio portavo me stesso, non studiavo il personaggio, e sono stato adolescente oltre il limite temporale concesso.

Cioé?

Scemotto più del normale, poi sono diventato assolutista e reazionario.

Un esempio di reazionario?

Su alcune battaglie degli attori, in particolare sul fine degli anni Ottanta: mi aspettavo una reazione collettiva rispetto a delle storture dell’ambiente, ma c’è sempre qualcuno che ti dice “e io come faccio?”; ognuno pensa sempre al suo orticello; a me piace fare squadra, amo stare insieme.

Atteggiamento di famiglia.

Può essere. A me piaceva duettare con Alessandro Gassmann o con Bruno Armandoi, perché voleva dire avere un amico accanto nei momenti di difficoltà, nel superare la montagna. Ho sempre vissuto così. E per questo amo il calcio, non molto il tennis.

Un suo difetto.

Non ho il dono della sintesi, mi perdo.

Non finge.

Vado diritto, niente tattiche o strategie.

Mai.

Nemmeno con le donne. Forse se avessi messo in campo qualche strategia, avrei ottenuto di più nel mio lavoro.

Serve?

Molto.

Riproviamo: lei attore.

Sono partito con il portare me stesso, senza alcun pensiero dietro, così in Vacanze in America o Sposerò Simon Le Bon; quindi il botto da conduttore su Canale5, e i primi veri bei soldi guadagnati, la fama, gli autografi, le ragazzine sotto casa.

Soldi guadagnati.

Lì ho cercato di spiegare a mio padre che non era lui a finaziarmi grazie alle migliaia di lire allungate da mamma.

Non ne era convinto?

Non ci credeva, poi quando gli ho mostrato il contratto firmato con Canale 5, ha strabuzzato gli occhi: “Cacchio, guadagni più di me”.

Primo acquisto.

Fiat Uno Turbodiesel.

Diesel?

Delle macchine non me ne è mai fregato nulla, ma anche del resto, non ho molti vezzi: nessun orologio, braccialetto, o tatuaggio.

Comunque una svolta.

E poco dopo mi chiamano per presentare Sanremo: lì la mia popolarità si moltiplica di quattro volte e si apre la possibilità di diventare un vero presentatore.

Eppure molla.

La fortuna è stata quella di conoscere Beatrice Bracco: in venti secondi riesce a radiografarmi psicologicamente, e ribalta ogni certezza. Lì scopro le finestre della vita e ogni finestra offriva una chiave su come costruire il personaggio; e poi mi insegna a rilassarmi, a gestire la carica emotiva. A studiare per capire.

Tornare con i piedi a terra.

E non sentirmi ‘sto cazzo’, perché è un attimo montarsi la testa. E da lì posso sentirmi attore, non come ai tempi di Vacanze in America.

Lì si sarà divertito…

Ero minorenne e in California mi dovette accompagnare mamma: la sera loro si concedevano tutte le mattate del mondo, io niente.

Scopre il teatro.

Con serate in strutture da quaranta posti, neanche una lira, poi di nuovo cinema. E comprendi che non sei più solo Gianmarco, ti poni le domande, cerchi risposte, e inizi a lavorare in base a quello che vuole il regista.

Sempre.

Molti dicono: “Stai meglio senza parrucca, perché la metti?”

Risposta.

Non è importante come sto meglio nella vita, ma cosa è utile al film, poi fuori dal set non la indosso, anche perché sono uno dei pochi al mondo felice di aver perso i capelli.

Davvero?

Se fosse capitato negli anni Ottanta, avrei rimorchiato venti volte di più.

Non è schiavo della telecamera.

Quindici anni fa, poco dopo la separazione da Alessandro, sono tornato a vivere a Velletri e nel momento in cui forse avevo più bisogno di vita sociale romana.

Per alcuni una fuga.

Mi interessa poco, cerco l’onestà nei miei confronti e nelle persone che mi circondano.

Allora, perché?

Avevo capito che se avessi riposto tutte le mie energie su questo mestiere sarei andato fuori di testa.

E…

Ho smesso di fare il criceto sulla ruota, angosciato dalle opportunità, e all’improvviso, da quando sono in questa dimensione più emarginata, la mia non perenne presenza si è avvertita rispetto a quando ero a disposizione.

Chi la viene a trovare in campagna?

Nessuno.

Nessuno?

Casa nostra è da sempre aperta: oggi è più difficile.

Cosa?

Ai tempi di mio padre c’era il telefono a gettone, eppure si organizzavano con facilità e leggerezza, e in momenti complicati come gli anni di piombo; oggi la domanda è “quando mi inviti?”, e la naturalezza si va a far fottere: questa libertà ha creato molto più isolamento.

Allora no…

A casa nostra tutti i giorni c’erano dieci o quindici persone che andavano e venivano. Cena, cena, cena, pranzo, cena. A ripetizione. Stop solo quando Ugo partiva per un film, poi tornava e si ricominciava. Il cinema veniva da noi, invadeva il nostro spazio, e avevo molta più difficoltà a vivere la città.

Perennemente a tavola.

Se hai questa roba qua, o la ami, o a un certo punto senti di odiarli: ti tolgono lo spazio centrale con tuo padre.

Non semplice.

Ho chiesto consiglio a chi è cresciuto nella mia stessa condizione, come a Marco Risi. Oggi intorno a me non sento questa reale voglia di stare insieme.

Nel 1978 “Il Male” scrisse in prima pagina: “I capi delle Brigate Rosse sono Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi”.

A causa di questo hanno provato a linciarmi.

Metaforico.

Reale! Allora non esisteva internet, i canali tv erano pochi, per informarti c’era l’edicola: quando uscì la notizia, molte persone ci hanno creduto, e io apparivo come il figlio di chi aveva ammazzato Moro.

Chi provò a linciarla?

Quel giorno vado a scuola con il nostro autista, arrivo, vedo la folla, scendo dalla macchina e sento qualcuno gridare “assassino”. Neanche capivo. All’improvviso l’autista mi riporta dentro e fuggiamo. Mio padre fu costretto ad andare in televisione per rivendicare il diritto alla cazzata.

Spaventato.

Avevo 11 anni ed ero ragazzino, uno ingenuo. Sono rimasto adolescente fino ai 19.

Prima donna?

Lì un po’ meglio, verso i 15 anni e mezzo e dopo aver rotto le palle a mamma perché volevo andare a una festa a Roma: in campagna mi sentivo troppo isolato.

Ai suoi figli cosa ha raccontato di suo padre?

In questo caso è accaduto qualcosa di incredibile: da subito, e tutti e due, bastava mostrargli una foto e lo indicavano. Sempre. Senza sbagliare mai, anche se era giovane, su un set, o da adulto.

Il loro film preferito?

In generale?

No, con suo padre.

Non ne hanno mai visto uno. Il rapporto con Ugo non è attraverso il lavoro.

Il suo soprannome da ragazzo.

Pollo.

Motivo.

Sono sempre stato in qualche modo una sponda, anche a tavola con mio padre: poteva portare ai massimi livelli l’ironia cinica di un genitore, ben consapevole che non mi sarei offeso. A volte mi chiamava il Defi piuttosto cente. Poi sono diventato Gimbo (ruolo nel film Lovest), che è il personaggio che più si avvicina al me Pollo.

Diceva: sono felice di lavorare con Alessandro.

È stato bello, e lo dico senza retorica, perché ci conosciamo da sempre e litighiamo da sempre. È impossibile non discutere con lui, come per lui non è possibile non discutere con me. Però quando ci ritroviamo è un attimo, un click e siamo noi. La stessa cosa accadeva ai nostri genitori.

Ai tempi in cui si stava sempre insieme.

Papà e Vittorio no, però erano grandi amici. E sapevano guardarsi negli occhi.

 

Parigi, panetteria esplode dinanzi all’hotel dove si trovavano gli inviati Rai

Dalla finestra della sua camera dell’hotel Mercure, in rue de Trévise, l’inviato di Cartabianca, Valerio Orsini, ha filmato la panetteria di fronte devastata dall’esplosione, in preda alle fiamme, e la strada coperta di macerie: “Mi è praticamente esplosa in faccia”, ha detto il videomaker, che è stato poi ricoverato con ferite lievi. Era a Parigi per seguire la protesta dei Gilet gialli, al nono sabato consecutivo di mobilitazione, insieme al collega di Rai3, il giornalista Claudio Pappaianni, rimasto illeso.

In quell’albergo, c’era anche un altro cronista della Rai, Matteo Barzini di Agorà che ha ripreso la sua camera con le lenzuola macchiate di sangue. “È stato investito da alcune schegge, ma per fortuna niente di grave”, ha fatto sapere la conduttrice Serena Bortone. Barzini è stato ricoverato per alcuni punti di sutura a una gamba. L’esplosione, avvenuta al numero 6 dove si trovava la boulangerie Hubert, è stata devastante: ha sventrato il palazzo e le auto parcheggiate davanti e investito gli edifici, spazzando via i vetri delle finestre. La strada del quartiere turistico dell’Opéra, con il teatro delle Folies Bergère vicino e diversi alberghi, si è risvegliato alle 9 di ieri come se fosse scoppiata una bomba. Si è pensato a un attentato.

È stato invece un incidente, probabilmente una fuga di gas. Circa 200 pompieri sono arrivati sul posto per spegnere il fuoco e evacuare i feriti. Un’infermeria è stata improvvisata sulla strada. Il quartiere è stato isolato per rischi di crolli. “Il bilancio è pesante”, ha detto il ministro dell’Interno Christophe Castaner: tre morti, due pompieri di 27 e 28 anni e una turista spagnola, e 47 feriti, di cui 10 gravi. Tra loro Angela Grignano, una ragazza di Trapani che lavora all’hotel Ibis come cameriera. Si era trasferita a Parigi da neanche due mesi. Operata all’ospedale Lariboisière, sarebbe fuori pericolo.

L’Fbi e l’indagine su Trump “minaccia per la sicurezza”

Ancora una volta, l’ombra di The Manchurian Candidate s’allunga sull’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti: l’approdo alla Casa Bianca, sventato nel remake del 2004 di Va e uccidi, un film del 1962, di un individuo assoggettato a una potenza straniera. Il New York Times rivela che l’Fbi non si peritò d’indagare se il magnate presidente lavorasse in segreto per la Russia, più o meno volontariamente, magari solo per incompetenza, e le sue azioni fossero una minaccia alla sicurezza nazionale.

La molla fu il licenziamento del capo dell’Fbi, James Comey, cui Trump chiese di andarci leggero con il Russiagate, l’inchiesta sui contatti tra emissari del Cremlino e la sua campagna. Comey fu cacciato il 9 maggio 2017: Trump s’era insediato appena 110 giorni prima.

L’Fbi si chiese se l’allontanamento di Comey potesse costituire ostruzione alla giustizia: un’ipotesi di reato tenuta pure presente dal procuratore speciale sul Russiagate Robert Mueller, nominato contro voglia da Trump dopo il licenziamento di Comey e l’ ‘auto-sospensione’ di Jeff Sessions, segretario alla Giustizia. Le indagini allora abbozzate dall’Fbi sono ora confluite nell’inchiesta di Mueller. La notizia dei NYT suscita una reazione sopra le righe del presidente, che spara una raffica di tweet, e della Casa Bianca. “Wow, ho appena appreso dal ‘fallimentare New York Times’ che gli ex capi dell’Fbi, corrotti e quasi tutti licenziati o costretti a lasciare l’agenzia per alcune davvero pessime ragioni, avevano aperto una indagine su di me, senza motivo e senza prove, dopo il licenziamento del ‘bugiardo’ Comey, un viscidume totale!”. Non è la prima volta che Trump e l’Fbi sono ai ferri corti, ma questa è forse la crisi peggiore, almeno a giudicare dalla virulenza dei termini.

Nei tweet, Trump è un fiume in piena: Comey era “corrotto”, l’Fbi era “nel caos per la sua leadership”: il suo licenziamento “è stato un grande giorno per l’America”, “Tutti volevano il licenziamento di Comey, sia i repubblicani sia i democratici”. E ancora: “Comey è protetto dal suo miglior amico, Bob Mueller, e da 13 democratici arrabbiati, che non hanno interesse a perseguire la vera collusione, quella di Hillary Clinton, della sua campagna elettorale e del Democratic National Committee”.

Anche la portavoce della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders, ancora al suo posto, nonostante la si desse in partenza dopo il voto di midterm, affianca il suo capo nella contraerea all’Fbi e al NYT: “Tutto questo è assurdo. Comey fu licenziato perché era incompetente, il suo vice Andrew McCabe pure licenziato è un bugiardo inveterato… A differenza del presidente Obama, il presidente Trump è duro con la Russia”.

Tasto battuto pure da Trump: “Sono stato più duro con la Russia di Obama, Bush o Clinton, probabilmente sono stato il presidente più duro” con Mosca, anche se “andare d’accordo con la Russia è una cosa positiva: mi aspetto che un giorno avremo buoni rapporti”.

La tempesta con l’Fbi mette la sordina allo shutdown, cioè la serrata dell’Amministrazione federale, da ieri il più lungo nella storia dell’Unione, e alle polemiche sul finanziamento del muro al confine con il Messico. Ma fa rumore l’indiscrezione del Financial Times che ci sarebbero Ivanka Trump, ‘prima figlia’, e Nikki Haley, una cocca di Trump, fra le papabili alla guida della Banca Mondiale, al posto di Jim Yong Kim, dimissionario dal 31 gennaio, con tre anni d’anticipo sulla sua scadenza.

Lo Zar e la “sua” Africa. Contractors e affari nel Continente nero

Ripetere lo schema siriano in Africa. Protezione in cambio di affari ed appalti. Quando la Russia del presidente Vladimir Putin non vuole schierarsi apertamente, ecco l’imprenditore della ristorazione Yevgeny Prigozhin mettere a disposizione non arti culinarie, ma eserciti privati come il gruppo Wagner o Euro Polis. In Siria è andata così: Euro Polis ha stretto un accordo con la Syria’s General Petroleum Corp per proteggere i pozzi di petrolio al prezzo del 25 per cento dei proventi. Notizia rivelata da Associated Press nel dicembre 2017. Prigozhin, detto lo “chef di Putin” è fra le dodici persone che il procuratore speciale Mueller, negli Stati Uniti, ritiene coinvolte con l’Internet Research Agency sull’interferenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016.

Se è andata bene in Siria, figuriamoci nel Continente nero, terra di conquista: secondo uno studio pubblicato dall’European Council on foreign relations a firma di Sergey Sukhankin – i guadagni per gli affari con i Paesi africani per la Russia è aumentato da 3,4 miliardi nel 2015 a 14,5 miliardi nel 2016. Sono tanti soldi, e devono essere protetti. Così entrano in campo i contractors, la cui presenza sarebbe passata inosservata ai più se non fosse stato per l’omicidio nel luglio scorso di tre giornalisti: Orkhan Dzhemal, Alexander Rastorguyev e Kirill Radchenko; erano andati nella Repubblica Centrafricana proprio per documentare la presenza del Gruppo Wagner, agenzia privata che ha già combattuto in Ucraina con i filorussi e in Siria accanto all’esercito di Assad.

Il Dossier Center di Mikhail Khodorkovski, ex magnate del petrolio e acerrimo nemico del presidente Putin, sostiene che Wagner ha responsabilità nella fine dei tre cronisti. Di certo non vi è nulla, ma in Africa Mosca non vuole ripetere gli errori fatti in guerre civili come quelle in Etiopia (1974-1991) e in Angola (1975-2002) che hanno falcidiato le casse del Cremlino, spesso senza che si ottenessero i risultati sperati.

Dal 2005, i russi si sono riorganizzati e hanno intrapreso nuovi rapporti con Angola, Namibia, Mozambico, Zimbabwe, Etiopia e Repubblica Centrafricana. Nel 2014, Mosca ha firmato 19 contratti di cooperazione militare nell’Africa Sub-Sahariana, inclusa la Nigeria. L’agenzia Bloomberg ricorda che l’Egitto ha ottenuto un prestito russo di 25 miliardi di dollari per costruire la sua prima centrale nucleare e il Cremlino ha un dialogo aperto con l’Eritrea per stabilire il suo primo centro logistico sul Mar Rosso, non lontano da Gibuti dove si trovano l’unica base del Pentagono in Africa, e la prima struttura militare della Cina.

Nel marzo scorso, Sergej Lavrov, ministro degli Esteri, ha viaggiato in cinque nazioni attraverso l’Africa: nello Zimbabwe, compagnie russe sono coinvolte in un investimento di platino da 3 miliardi di dollari. Ancora Bloomberg ricorda che emissari di Prigozhin erano in Madagascar in vista delle elezioni: il Paese è il più grande produttore al mondo di vaniglia e detentore di importanti depositi di nichel, cobalto e uranio. L’antropologo Dmitri Bondarenko conferma alla Reuters: “L’Occidente non è amato da molti paesi africani, e altrettanti vedono la Russia come l’oppositore dell’Occidente”.

Fra i punti forti della sua offerta, il Cremlino ha le armi, gli istruttori e la sicurezza. Con la Repubblica Centrafricana del presidente Faustin-Archange Touadera, il rapporto è particolare: con la guerra fra cristiani e musulmani, il Paese è soggetto a un embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite. La Russia però ha ottenuto una dispensa ufficiale, sostenendo che le armi – 5.200 Kalashnikov, pistole, lanciagranate, fucili da cecchino e altro hardware – erano per il governo sostenuto dall’Onu. Oltre i rapporti fra i ministri ci sono quelli fra uomini d’azione, e qui entrano in gioco le compagnie private, sebbene in Russia la professione di mercenario sia illegale.

Ma è proprio grazie a queste organizzazioni che Mosca fa sentire la sua presenza, e se le cose vanno male, come è accaduto qualche volta in Siria dove Wagner ha subito forti perdite, basta scrollare le spalle e far finta di nulla: non si tratta mica di soldati con la divisa della madrepatria, in fondo.

I contractors lavorano in Sudan – oltre a ottenere le sue risorse naturali il Cremlino potrebbe coronare un sogno, avere un giorno una base navale sul Mar Rosso – e sono anche nella Repubblica Centrafricana e in Burundi dove oltre a Wagner c’è il personale di Patriot, altra agenzia di sicurezza. Sempre secondo lo studio dell’European Council on foreign relations, i primi operatori si occupano di addestramento militare, i secondi di sicurezza, sia a Vip che infrastrutture. Quanti siano i paramilitari russi in Africa è difficile dirlo: la Reuters ha riportato le indicazioni di Yevgeny Shabayev, fra i responsabili di un gruppo cosacco; secondo lui potrebbero esserci 1.000 operatori in Centrafrica e fra i 5.000 e i 10.000 in tutta l’Africa, compresi Sudan, Sud Sudan e Libia. Il punto centrale però resta la negazione di Mosca sulla connessione con Wagner, Patriot o altre agenzie. L’unico dato certo è che il presidente Putin, il responsabile operativo di Wagner lo conosce: si chiama Dmitry Utkin, è un ex membro delle forze speciali. Il nome dell’agenzia lo si deve a lui (è soprannominato Wagner, o Vagner). Utkin è stato fotografato nel 2016 con il presidente al ricevimento del Cremlino in occasione del Giorno degli Eroi: Putin gli ha appuntato al petto l’onorificenza “Ordine del Coraggio”.

Per il Cara di Gradisca rischiano il processo anche due ex prefetti

Indagine chiusa per 42 persone nell’inchiesta della procura di Gorizia sulla gestione del Cara di Gradisca d’Isonzo. Tra i nomi degli indagati anche quelli di due ex prefetti, Maria Augusta Marrosu e l’attuale prefetto di Venezia, Vittorio Zappalorto. Marrosu aveva ricoperto l’incarico nel capoluogo isontino dal 2008 al 2013; Zappalorto le era subentrato.

A riportare la notizia è Il Piccolo: “L’avviso di conclusione delle indagini è stato notificato ai primi di gennaio a 42 indagati, tra cui 39 persone fisiche e tre persone giuridiche, ossia società”.

I fatti risalgono al periodo 2011-2015.

Tra le accuse – si legge sul quotidiano -c’è la turbativa d’asta sullo svolgimento della gara di appalto che “s’era conclusa con l’aggiudicazione della gestione del Centro di Gradisca al Consorzio Connecting People”.

Le altre contestazioni: ipotesi di associazione a delinquere in capo ai presidenti, amministratori e dipendenti della Connecting People, per “una serie indeterminata di delitti, tra cui quelli di frode in pubbliche forniture”.