Troppe sanatorie, entrate fiscali in calo

Aumenta il carico fiscale su dipendenti e pensionati, scende su società e evasori. L’ultimo spaccato della platea dei contribuenti italiani emerge dalle entrate tributarie erariali contabilizzate dal ministero dell’Economia “per competenza”, nei primi undici mesi del 2018. Si conferma in generale il trend in crescita – anche se rallentato – dell’anno precedente. Ma fa eccezione l’attività di accertamento e controllo anti evasione: le entrate si sono attestate a 9,479 miliardi, il 7,3% in meno rispetto allo stesso periodo del 2017. A drogare nel bene e nel male i conti della lotta all’evasione sono stati anche quest’anno i condoni. Sono entrate una tantum, quando ci sono fanno schizzare in alto la curva del dichiarato, quando finiscono la spingono in picchiata nel grigiore dei risultati dei controlli di routine. Che sono sempre meno. “Il risultato del periodo gennaio-novembre – confermano al Mef – è stato condizionato dall’andamento negativo del mese di agosto 2018 rispetto allo stesso mese del 2017 (-45,3%) nel quale il gettito era stato sostenuto dalle consistenti entrate della ‘Definizione agevolata’ delle controversie tributarie, introdotta nel 2016”. Nel 2017 il gettito dalla riscossione dei ruoli si è attestato nell’arco dei dodici mesi a 12,915 miliardi (+35,5%). Il risultato, spiegava allora trionfante lo stesso ministero, era dovuto principalmente agli incassi realizzati dalla rottamazione delle cartelle esattoriali e sulla definizione agevolata delle controversie tributarie. A quanto pare, quindi, siamo ritornati nel 2018 ai magri risultati del 2016 (e anni precedenti), quando il governo Renzi millantava inesistenti recuperi di somme evase che sarebbero stati realizzati con i soli controlli sulle dichiarazioni dei redditi.

È lecito aspettarsi che l’effetto yo-yo si ripeta nel 2019 con la raffica bis di condoni varati dal governo gialloverde e che si concretizzi il rischio che la pace fiscale vada ad appesantire di più l’affannata macchina acchiappa-evasori dello Stato. Nel complesso le Entrate a novembre aveva maturato un credito nei confronti dei contribuenti di 414.814 milioni di euro (+1,8%). Ma a ben guardare nel paniere del Mef c’è chi ci guadagna e chi ci rimette. Le ritenute Irpef sui lavoratori dipendenti e sui pensionati crescono di 5.317 milioni di euro (+4,0%). Anche le trattenute sui redditi dei lavoratori autonomi segnano un +2,4%, ma i versamenti spontanei in autoliquidazione sono diminuiti del 3,9%. Il gettito dell’Ires, l’imposta sui redditi delle società, si è ridotto del 7,7% a seguito del taglio del 3,5% dell’aliquota, prevista dalla Stabilità per il 2016 e dell’applicazione del superammortamento e iperammortamento contenuta nella manovra 2017. All’applicazione della ritenuta alla fonte sulle fatture dei fornitori della Pa è dovuta gran parte della crescita del gettito dell’Iva (+3,3%).

Credito, altra bicamerale. Obiettivo Bankitalia e Ue

La nuova Commissione parlamentare d’indagine sul sistema bancario è in dirittura d’arrivo e non farà sconti, tanto meno alla Banca d’Italia che sarà la prima ad essere audita. Almeno questo è il proposito dei promotori. Il disegno di legge a firma 5 Stelle era stato presentato in Senato già ad agosto. Ma ora, che pure il governo gialloverde s’è dovuto far carico dei problemi di Carige, l’iter ha subito un’accelerazione, anche perché le opposizioni hanno sfruttato il caso per assimilare l’intervento dell’attuale governo (garanzie sulle emissioni di nuove obbligazioni e ricapitalizzazione precauzionale dello Stato) a tutti quelli dei precedenti, anche quando misero 4,8 miliardi nelle Venete o mandarono in risoluzione Etruria e le altre 3 banchette a novembre 2015. Presidente delle nuova commissione sarà, secondo le indicazione del vicepremier Di Maio, il senatore Gianluigi Paragone.

Il disegno di legge, già approvato al Senato, sarà “calendarizzato” alla Camera la prossima settimana e, secondo le aspettative di Elio Lannutti, senatore M5S tra i firmatari del ddl e che dovrebbe far parte della nuova commissione, avrà l’ok in un paio si settimane. “Poi il gruppo parlamentare Pd cercherà di fare melina con la nomina dei membri”, dice un altro parlamentare della maggioranza destinato a sedere in commissione, “ma i tempi saranno comunque brevi”. Rispetto alla commissione voluta dal Pd nel 2017, oltre alla durata, che questa volta coprirà tutta la legislatura, c’è un approccio molto battagliero: “La musica è cambiata, nessun banchiere resterà impunito”, ha scritto Di Maio sul blog dei 5 Stelle giovedì scorso. La commissione del 2017 si rivelò un boomerang per Renzi e a presiederla fu eletto Pier Ferdinando Casini.

Politico di lungo corso, ex Dc ed ex molti altri partiti, in stretti rapporti con il mondo bancario (ex genero del banchiere Francesco Gaetano Caltagirone, ex socio della fondazione Carisbo ed ex azionista di Banca Intesa), Casini pochi mesi prima della nomina aveva definito la Commissione “un impasto di demagogia e pressapochismo”. L’uomo giusto per anestetizzare qualsiasi velleità di andare a fondo. Lo strumento, nei calcoli renziani, sarebbe comunque stato utile per cercare di scaricare su Bankitalia le responsabilità dei crac bancari di Etruria, Mps e banche Venete, facendo finire in secondo piano i rapporti del mondo bancario col “cerchio magico” del segretario Pd. Solo che, dal momento che le Commissioni di indagine hanno gli stessi poteri della magistratura e i testimoni convocati sono obbligati a dire la verità, qualche verità scomoda venne fuori: per esempio le rivelazioni dell’ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, sull’interessamento chiestogli da Maria Elena Boschi, allora ministro per le Riforme, per salvare Banca Etruria, di cui il padre era vicepresidente.

Della vecchia Commissione si ricordano anche le audizioni in cui volarono stracci tra la Consob, rappresentata dal direttore generale Angelo Apponi, e Bankitalia, rappresentata dal capo della vigilanza Carmelo Barbagallo. Con la Consob che accusava la Banca centrale di non averle fornito adeguate informazioni sulla salute delle banche, specie di Etruria quando emise diverse obbligazioni sottoscritte da piccoli risparmiatori.

Votata a strettissima maggioranza, la relazione finale della Commissione presieduta da Casini, si limitò a notare che “l’esercizio di attività di vigilanza non si è dimostrato del tutto efficace”, oltre ad avanzare qualche proposta, caduta nel vuoto. Tra le principali: creare un archivio unico delle ispezioni, allargare i poteri di Bankitalia alla possibilità di usare la polizia giudiziaria, creare una super procura per i reati finanziari, introdurre nuove fattispecie di reati. Ora, secondo Lannutti, “si prenderà una direzione ben diversa. Indagheremo a 360 gradi, senza nessuna deferenza nei confronti delle banche e delle malefatte di Banca d’Italia e dei suoi affiliati, che sono stati sempre coperti, a scapito dei risparmiatori”. Tra gli obiettivi anche fare luce su come sono state introdotte le regole europee sul bail-in, costate centinaia di milioni ai risparmiatori; e poi il rafforzamento della responsabilità penale dei banchieri e la separazione tra l’attività delle banche commerciali e quelle d’investimento.

Tremila a Licata contro il gasdotto Eni: “Ambiente a rischio”

Oltre tremila persone hanno manifestato ieri a Licata (Agrigento) contro il progetto Ibleo di Eni, che intende riaprire i due giacimenti marini e costruire un gasdotto fino a Gela. Sono interessate le coste di Licata, Palma e Montechiaro. All’iniziativa organizzata dai “No Triv” locali hanno preso parte anche Legambiente Sicilia, Arci, Cgil Agrigento, Federconsumatori e Greenpeace. Quest’ultima è stata la prima nel Canale di Sicilia già nel 2014 con la campagna “U mari nun si spirtusa”, lanciata alla vigilia dello Sblocca Italia, il decreto a firma Pd che spianò la strada a gasdotti e perforazioni. Il progetto Ibleo è stato modificato nel tempo, sono state approvate varianti e oggi, secondo i No Triv, è a rischio l’economia di Licata, 40mila abitanti, che vive di pesca, turismo e agricoltura. “Stanno depredando le nostre ricchezze – denuncia il portavoce Marco Castrogiovanni – vogliono condannarci, senza tener conto dei rischi come un’eventuale esplosione”. Aggiunge Angelo Bonelli dei Verdi: “L’emendamento promesso ancora non si vede. I progetti di trivelle nello Ionio, in Puglia e in Basilicata sussistono”.

I due “gauchiste” convertiti al sovranismo

La protesta francese non si ferma. Nonostante le promesse e le minacce di repressione, le manifestazioni di ieri hanno visto una partecipazione superiore alla settimana precedente. Circa 84 mila in tutta la Francia di cui 8000 a Parigi e 5000 a Bordeaux dove si sono avuti gli scontri più duri con la polizia. Nella capitale un inedito servizio d’ordine ha garantito una giornata senza incidenti, segno che il movimento ha colto gli elementi controproducenti determinati dagli episodi di violenza.

L’ultimo sondaggio Ifop del 10 gennaio segnala infatti una diminuzione del consenso nei confronti dei Gilet passato dal 71% di dicembre all’attuale 57%. Una quota ancora alta ma che vede radicalizzare le posizioni tra chi si identifica, pienamente o parzialmente con i Gilet (il 60%) e chi invece si dichiara ostile (40%).

Il movimento deve dunque darsi una strategia più precisa, oltre le solite manifestazioni. Nella piccola città di Commercy, ad esempio, da due mesi esiste una assemblea popolare che ha indetto un incontro nazionale il 26 gennaio con l’arrivo di una trentina di delegazioni da tutta la Francia .

Altro tipo di delegazione, invece, è quella giunta ieri a Roma formata da Yvan Yonnet e Patricia Saint-Georges partecipanti all’incontro “sovranista” di cui sopra. Entrambi militano oggi nel Pardem, il “Partito della Demondializzazione” che propone di “riconquistare la sovranità della Francia” e che ha legami diretti con il P101, la formazione di Moreno Pasquinelli organizzatore dell’incontro. Entrambi, del resto, vengono da sinistra. Dalla Cgt, il sindacato comunista, Yonnet, tecnico alla Erdf, la società elettrica, sindacalista nel Calvadòs, dove si è candidato alle ultime elezioni ottenendo…93 voti. Ha un passato da trotzkista, invece, l’ottantenne Saint-George che negli anni 90 aveva la tessera della Lcr per poi passare ad Attac ed approdare al Pardem. Di loro le cronache francesi non si sono occupate, mentre hanno avuto molto più risalto altri nomi del movimento. Come Eric Drouet, che per Jean Luc Mélenchon, ricorda il “Drouet della Rivoluzione francese” quello che riconobbe il re Luigi XVI in fuga da Parigi. Priscillia Ludosky, 33 anni la cui petizione per la riduzione del prezzo del carburante ha raccolto oltre un milione di firme. Jacline Mouraud, 51 anni, che si autodefinisce “moderata”e ha dichiarato di voler fondare un partito, Les Emergents.

C’è poi Benjamin Cauchy, 38 anni di Tolosa, un passato nella destra francese, e sospettato di frequentazioni di estrema destra . Che invece sono certe per Frank Buhler, talmente razzista da essere espulso dal partito di Marine Le Pen e oggi responsabile del partito di Debout la France, sempre estrema destra. O, infine, Ingrid Levavasseur, volto noto di BFM Tv con la quale ha però dovuto cessare la collaborazione dopo le intimidazioni ricevute dal movimento stesso.

 

Roma, l’improbabile farsa dei Gilet gialli alla vaccinara

La calata a Roma dei Gilet gialli è in un albergo alle spalle della stazione Termini. Inizia con patriottismo a volontà e le due bandiere tricolori che sventolano durante la staffetta tra la Marsigliese e l’inno di Mameli. E finisce quasi a schiaffi: al momento degli interventi conclusivi uno dei moderatori dell’incontro strappa di forza il microfono dalle mani di un anziano signore del pubblico (“E basta, vaffan…!”), colpevole in effetti di una clamorosa incontinenza verbale.

I due ospiti transalpini – Patricia Saint-Georges e Yvan Yonnet – osservano con un’espressione tra lo sbigottimento e il disappunto: è il momento in cui realizzano, probabilmente, che la rivoluzione non è esportabile.

Spieghiamo: Saint-Georges e Yonnet sono considerati (qualcuno scrive “autoproclamati”) portavoce del movimento di protesta che sta scuotendo la Francia. Loro stessi rifiutano la definizione: non ci sono capi, ognuno parla a titolo personale. Intanto però i due sono in tour in Italia per raccontare le battaglie transalpine: venerdì a Foligno, ieri a Roma.

Il loro vero problema è il comitato d’accoglienza. Ad organizzare la conferenza dei Gilet gialli francesi nella Capitale è Moreno Pasquinelli, fumantino 63enne ex Potere Operaio, noto alle cronache per l’organizzazione dei “campi antimperialisti” di Assisi. Cioè campeggi estivi frequentati da militanti ed estremisti di sinistra e di destra, talvolta in odore di terrorismo; baschi, curdi, palestinesi, hezbollah, black bloc, iracheni (tra gli ospiti, un anno, ci fu un compagno di scuola di Saddam Hussein). Pasquinelli, personaggio poliedrico, ora s’è messo alla guida del Movimento Popolare di Liberazione/Programma 101: si definiscono sovranisti di sinistra.

L’altro padre nobile della conferenza romana è l’economista Antonio Maria Rinaldi, che forse ha meno bisogno di presentazioni, visto che è ospite un giorno sì e l’altro pure dei talk show politici in tv. È anche lui fautore del ritorno alla sovranità nazionale e ferocemente euro scettico.

La risposta del pubblico all’adunata di Pasquinelli e Rinaldi non può dirsi memorabile: in sala ad ascoltare i due Gilet gialli ci sono una trentina di presenti, giornalisti compresi. Alcuni portano il giubbotto fluorescente, diversi si qualificano come “forconi”. E infatti l’altro promotore della conferenza è Mariano Ferro, che di quel breve e sfortunato movimento (nato anche qui con dei blocchi stradali nel 2013) fu uno dei protagonisti più controversi.

Ecco come si traduce un grande fenomeno di protesta nella piccola sala di un hotel romano: i Gilet gialli sembrano quasi dei Forconi che ce l’hanno fatta.

I due ospiti provano a volare alto: “Siamo come i Sanculotti della Rivoluzione, siamo il popolo, vogliamo rimettere in discussione l’intero sistema economico”. La scena però se la prendono gli organizzatori e il pubblico. Dall’uditorio si alza in piedi Andrea, giubbino catarinfrangente e bandiera italiana in pugno. Strilla parole quasi incomprensibili. Vuole sapere – apparentemente – perché i francesi non abbiano citato le battaglie degli antivaccinisti. I due non sanno cosa rispondere.

In sala appare anche Stefano Fassina (omaggiato calorosamente da Rinaldi) ma si allontana alla chetichella prima che sia troppo tardi. Assenti invece i Cinque Stelle, che in questi giorni hanno flirtato pubblicamente con i Gilet gialli francesi (e con i quali – fanno sapere – i primi contatti informali sono iniziati diverse settimane fa). Yonnet ha confermato di non avere in programma incontri: “Non vedremo Di Maio o altri perché non abbiamo alcun mandato a parlare, se non per esprimere opinioni personali”. Domani intanto Di Maio e Alessandro Di Battista iniziano la lunga campagna per le Europee a Strasburgo. Forse pure per incontrare alcuni protagonisti delle proteste francesi.

La scoperta degli antisemiti in curva

Hanno suscitato giusta indignazione, ieri, gli ultrà della Lazio che, durante la partita di Coppa Italia con il Novara, hanno intonato il coretto “Su cantiamo tutti in coro giallorosso ebreo” sulle simpatiche note di “Viva Topolin”. E anche “Questa Roma qua sembra l’Africa”. Purtroppo l’indignazione è intermittente, ora se ne parla solo perché c’è stata Napoli-Inter, i “buu” contro Koulibaly, l’agguato ai napoletani, l’ultrà filo-interista investito e ucciso e la polemica sullo stop alle partite. Però una parte della Curva laziale canta quei motivetti razzisti da molti anni, quasi a ogni partita. E un giudice romano, nel 2017, ha escluso che “giallorosso ebreo” configuri il reato di istigazione all’odio razziale: “L’espressione ha la finalità di deridere la squadra avversaria”, si legge nella discutibile sentenza assolutoria, peraltro confermata dalla Cassazione. Nei giorni scorsi il quartiere borghese della Balduina è stato tappezzato di manifesti in cui si leggeva: “Lazio Napoli Israele, stessi colori, stesse bandiere, merde”. Erano di ultrà romanisti, le cui frange estreme non sono meno antisemite di quelle laziali anche se i media faticano a parlarne. Antisemitismo e razzismo da stadio dilagano, peraltro, anche lontano da Roma. Bisogna discuterne, stigmatizzarlo, estirparlo. Scoprirlo a giorni alterni, invece, è un po’ ridicolo.

Solidarietà ai giornalisti dell’Espresso: sala piena in nome dell’antifascismo

Istruzione, pluralità, protesta. Oppure dissenso organizzato, coscienza, persino ironia. Ci sono mille modi per definire l’antifascismo, e altrettante sensibilità diverse: quella dell’intellettuale e del partigiano, della grande firma del giornalismo o del sindacalista. Tutti uniti da una parola, che non è ancora passata di moda.

Erano in centinaia ieri al nuovo cinema Sacher di Nanni Moretti, per raccontarsi ed ascoltare “La parola antifascista”. Come il nome dell’evento organizzato in solidarietà con L’Espresso, dopo l’aggressione subita il 7 gennaio da un giornalista e un fotografo del settimanale da parte di neofascisti andati al Verano per commemorare le vittime di Acca Larentia, tra i quali il plurindagato Giuliano Castellino di Forza Nuova. Perché, appunto, “la parola è antifascista. Il ragionamento, il dubbio e l’ironia sono antifasciste”, spiega il direttore Marco Damilano.

Sul palco della sala, tutta esaurita per l’occasione, si sono avvicendati studenti, partigiani, volti noti del cinema o della tv: dalla scrittrice Michela Murgia, autrice di un satirico pamphlet sui neofascisti, al sindacalista dell’Usb Aboubakar Soumahoro fino a Diego Bianchi, in arte “Zoro”, per scegliere la loro parola. Una specie di “gioco”, ma anche un monito perché come ricorda Fabrizio Gifuni “a destra le loro parole se le ricordano bene, a sinistra c’è un po’ d’imbarazzo a parlare di fascismo e antifascismo”.

Le parole, del resto, servono a raccontare le esperienze di vita vissuta. Federico Marconi è il cronista aggredito lo scorso 7 gennaio: “Le loro minacce vogliono trasmettere una cultura senza libertà, con la connivenza di chi sta più in alto”. Per il suo collega Giovanni Tizian, che con lui lavora a un’inchiesta sulle sigle della galassia neofascista, questi episodi di violenza non sono del tutto slegati dalla situazione politica attuale: “Quelle sigle hanno una forza che li rappresenta. È il governo giallonero, che considera la minoranza qualcosa di cui fare a meno”. Mentre gli attivisti di Baobab Experience, l’associazione che si occupa di diritti umanitari e di accoglienza dei migranti, parlano di intolleranza e raccontano dei 27 sgomberi subiti. Non solo ora, fin dai tempi dell’amministrazione Marino.

Dopo un paio d’ore di testimonianze, citazioni, tocca a Damilano chiudere. La sua parola antifascista è “istituzioni” e ringrazia il presidente Mattarella.

I voltagabbana del Tav: quando Lega e Renzi erano contrari

Tutti a bordo: il Tav non dev’essere fermato e sono in tanti a voler salire sul treno che oltre all’alta velocità garantisce affari, commesse e interessi vari. In prima linea la Lega di Matteo Salvini, pronta a lanciare un referendum se il governo dovesse bocciare l’opera sulla base dell’analisi costi-benefici. Oppure il Pd (ancora) di Matteo Renzi, che spera in una ripartenza, sua e dell’infrastruttura. Ieri manifestavano tutti a Torino, ma non deve sorprendere ritrovarli l’uno a fianco all’altro nel flash mob delle madamine: sono gli stessi che nel corso degli anni hanno cambiato idea più volte.

La Lega, del resto, ha una lunga tradizione a riguardo. Se si torna indietro nel tempo, a cavallo tra Anni Novanta e Duemila, si ritrovano vecchi volantini in cui lo stemma del Carroccio è associato agli slogan dei comitati anti-Tav. Una Lega Nord ruspante, molto più di lotta che di governo, si schiera contro l’opera, prima di lasciarsi convincere da Berlusconi a passare sul fronte opposto una volta al governo col centrodestra. Non sarà l’unico ripensamento.

“I lavori della Torino-Lione devono andare avanti solo se saranno garantiti gli standard di sicurezza e sarà tutelata la salute.” Siamo a fine 2005 e stavolta a mettere in dubbio l’alta velocità è Roberto Cota, allora segretario regionale, che sarebbe poi diventato governatore del Piemonte e grande sostenitore dell’infrastruttura. Il governo di centrodestra è agli sgoccioli e così si capisce il cambio di linea. Sul quotidiano di partito La Padania cominciano ad uscire una serie di editoriali sempre più sferzanti, nelle agenzie rimbalzano le dichiarazioni dei principali leader dell’epoca. Come ad esempio Roberto Maroni, che da ministro dell’Interno nel 2011 avrebbe elogiato l’operato delle forze dell’ordine negli scontri di Chiomonte, ma qualche anno prima giustificava la rivolta delle popolazioni locali: “Non si può mandare la polizia e basta, bisogna capire le ragioni della protesta”.

Prima pro, poi contro, ora di nuovo d’accordo. Per decifrare l’opinione ondivaga dei leghisti basta guardare la loro posizione in Parlamento: tendenzialmente a favore se al governo (e possono magari beneficiare dalla sua realizzazione), contrari se all’opposizione. Sarà forse anche per questo che Matteo Salvini ora che è vicepremier e uomo forte dell’esecutivo gialloverde, ha deciso di guidare il partito pro Tav.

Un ruolo che prova a contendergli Matteo Renzi, altro campione di giravolte, che prova a rilanciarsi come uomo del fare. Ai suoi esordi sulla scena politica nazionale, quand’era ancora rottamatore, non aveva invece esitato a schierarsi sul fronte dei contrari: “Oggi non farei la Torino-Lione, manca una visione Paese”, postava su Twitter, beccandosi la risposta piccata di Stefano Esposito, che nel giro di qualche anno sarebbe diventato un suo fedelissimo in Parlamento. “Lo Stato deve uscire dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e concentrarsi sulla manutenzione delle scuole e delle strade. La Tav non è dannosa, rischia semplicemente di essere un investimento fuori scala e fuori tempo”, scriveva senza appello in suo libro nel 2013.

Sono passati 5 anni, il Tav praticamente è ancora allo stesso punto ma lui ha cambiato idea: del resto le manifestazioni “sì Tav” sono state tra i pochi momenti felici per il Pd degli ultimi mesi. E così anche ieri Renzi ha schierato in piazza Castello il suo candidato alla segretaria, Maurizio Martina, per poi esultare sui social: “Oggi Torino dice sì al futuro. Basta con quelli che vogliono bloccare l’Italia: chi ferma la Tav, ferma la crescita. Grazie Torino”.

Quasi una conversione sulla via di Damasco. Anzi, di Lione.

Di Battista netto: “Non si deve fare e non si farà”

“Il Tavnon si deve fare e non sì farà”. È netto Alessandro Di Battista durante l’intervista condotta da Andrea Scanzi e Luca Sommi durante il programma Accordi & Disaccordi sul Nove, venerdì sera. E si smarca dalla narrazione che lo vede come principale avversario del segretario leghista: “Io l’anti-Salvini? Maddeché?”. E aggiunge “Se il Movimento 5 stelle avesse fatto un accordo con il Partito democratico la legge sull’anticorruzione non ci sarebbe neppure stata”. Spiega subito quale sarà il suo ruolo nell’immediato futuro: “Non farò il ministro né mi candiderò alle Europee ma farò campagna elettorale. Non ho chiesto poltrone, non le voglio, ho un rapporto fraterno con Luigi”. Ma non dissipa i dubbi sul futuro a medio-lungo periodo: “Non so se sarò io il prossimo candidato leader. La politica è una passione ma per me attualmente è un’attività di volontariato”. Ed elenca quali possono essere i prossimi obiettivi M5s: “In primis i Benetton” e gli istituti di credito, “queste cose si faranno, ho chiesto garanzie a Luigi e lui mi ha rassicurato”. Sulla polemica Baglioni-Salvini: “Per me Baglioni fa benissimo a esprimere la sua opinione, poi a me è sempre piaciuto”.

Il Carroccio e l’ipotesi del nuovo percorso: “Prevalga la politica”

“Speriamo prevalga la politica sull’analisi dei tecnici come è avvenuto per il Terzo Valico, magari trovando nuove modalità di esecuzione ma senza mettere in discussione l’opera”. Il piemontese Riccardo Molinari, capogruppo alla Camera della Lega ieri era in piazza Castello a Torino. E da lì ha rilanciato indirettamente la proposta di mediazione fatta trapelare ieri mattina dal Carroccio sul Messaggero. E l’opzione che potrebbe essere la base di un accordo è di rinunciare al tunnel sotto la Collina Morenica tra Rivoli e Avigliana, con un risparmio, nelle stime del quotidiano romano, di circa 2 miliardi. E poi ridurre la stazione di Susa rispetto al progetto attuale, con un risparmio di altri 500 milioni. Questa proposta servirebbe, nelle intenzioni di Salvini, a trovare l’accordo con il Movimento 5 Stelle scongiurando l’ipotesi del referendum. Ma il progetto resterebbe comunque com’è, inutile. E comunque le prime, ufficiose reazioni nel M5S ieri sera erano tutte negative. Perché un progetto ridotto sarebbe comunque insostenibile per i 5Stelle, già in difficoltà per alcuni totem abiurati, a cominciare dal Tap.