Il raduno grigio-bianco strappato al Sestriere

Torino

Le sette “madamine” del Tav hanno scelto di nuovo il colore arancione, come per la manifestazione del 10 novembre, pure per il flash mob di ieri. Una scelta fatta dopo un serrato dibattito sulla pagina Facebook del comitato “Sì, Torino va avanti”. L’arancione infatti, come hanno ponderato le samurai ad alta velocità, “aggiunge un tocco, sottolinea o esalta un abbigliamento un po’ troppo smorto. E se il bleu e il marron fanno a pugni o il nero deve stare attento al grigio, l’arancione ha una caratteristica tutta sua: si abbina con ogni altro colore”.

Alla fine il tocco arancione è stato assorbito dalle tinte predominanti dei Sì Tav che hanno affollato (non certo in 20 o 30 mila, ma in alcune migliaia sì) la piazza Castello di Torino: il grigio e il bianco.

Età piuttosto elevata, dunque: assai più della mezza età sdoganata negli anni Sessanta da Marcello Marchesi. E davvero pochissimi giovani, surclassati nella presenza persino dai cani e dei cagnetti con gli adesivi “Sì Tav” appiccicati dai padroni sul pelo dei malcapitati. Ceto medio borghese, in gran prevalenza. Tra un’improvvisata e l’altra delle “madamine” con megafono ai piccoli podi, o tabouret, come li chiamano con classe subalpina, collocati per la piazza, i signori e le lor signore, i grigio-bianchi, discutono più di maglioncini di cachemire e di nipoti, di ferrovie, della neve al Sestriere o della Juve, che di ferrovie. Del resto, c’è poco da discutere.

Ogni tanto qualcuno o qualcuna grida “Sì Tav!”. I sindaci, anche in fascia tricolore, e i semplici amministratori comuni che fungono da primi cittadini, si addensano verso il Palazzo Reale, proprio sotto la loggia da cui re Carlo Alberto, il 23 marzo del 1848, annunciò la guerra all’Austria. Tengono dei piccoli cartelli bianchi con i nomi di paesi e città: da Asti ad Ascoli Piceno, da Bollengo a Milano. A un certo punto, sul declinare della mattina fredda ma soleggiata, presi da fregola patriottica, cantano tutti l’Inno di Mameli (povero Goffredo, povero maestro Novaro…), che tra l’altro fu messo in musica a una manciata di metri da qui.

Di bandiere tricolori, comunque, se ne vedono pochine, e si agitano al vento soprattutto a un banchetto del Pd, all’angolo con via Garibaldi. Seguono per la piazza le bandiere europee, ma meno numerose di quelle che rammentano con nostalgia ai manifestanti le Olimpiadi invernali del 2006. Sempre di vallate e di montagne si tratta. Tav e sciate, fuoripista e gallerie da forare, sono il segno della Weltanschauung, o concezione del mondo, dei partecipanti al flash mob. Una bella signora bionda, questa di reale mezza età, ne sintetizza l’essenza a un’amica: “Peccato, oggi avremmo potuto essere molti di più. Ma, sai, tanti sono andati a sciare, è sabato poi….”

Dai tabouret partono gli accordi di We will rock you dei Queen. Madame e “madami” non ballano, è chiaro, tuttavia fanno di sì con la testa.

Non ballano neanche i governatori di Piemonte e Liguria Sergio Chiamparino e Giovanni Toti, la Gelmini e la Bernini di Forza Italia, il Riccardo Molinari della Lega e il Maurizio Martina del Pd. In ogni caso ci sono, come non manca una discendente di Cesare Balbo di Vinadio, uno dei padri nobili del Risorgimento, e una vecchia gloria del Torino dello scudetto del 1976. Insomma, c’è tanta bella gente, tanti “cerea” e tanti sorrisi; tutta gente che, quando la piazzata finisce, va a prendere l’aperitivo da Baratti o al Caffè Torino di piazza San Carlo. Così il sabato del flash mob Sì Tav, strappato al sabato di Sestriere o di Bardonecchia, delle visite da Eataly di via Lagrange o nelle boutique di via Roma, tramonta poco dopo il mezzodì. E poi? Tutti a tavola, però con attenzione, come ammonivano le sette “madamine”, ai chili di troppo.

Demoforzaleghisti: che sia l’alleanza meno innaturale?

A furia di chiudere a ogni dialogo con il Movimento 5 Stelle il Pd potrebbe avere come unica prospettiva l’alleanza con la Lega. Ipotesi che oggi appare irrealizzabile, ma che sembra meno assurda se si guarda alle scelte concrete, come l’intesa che si sta tessendo sul treno ad alta velocità. Maurizio Martina e Sergio Chiamparino accanto a Riccardo Molinari, il “partito degli Affari” che si intreccia al partito “delle autonomie”, cioè le Regioni del nord in cerca di spazi di manovra e di cui fa parte integrante il forza-leghista Giovanni Toti.

Quello che oggi rende incompatibili Pd e Lega è fondamentalmente la politica di Matteo Salvini sui migranti. Non tanto le scelte legislative, quanto la postura, l’atteggiamento “cattivista” con cui Salvini cerca di drenare consensi e guadagnare voti. Sul piano delle scelte si potrebbe a lungo discutere sulla continuità tra la gestione del ministero dell’Interno da parte di Marco Minniti e quella dello stesso Salvini. Il primo a “chiudere i porti” fu proprio “l’uomo forte” del Pd, anche se non sfugge il salto di qualità che il leader leghista ha impresso alla sua propaganda e alla propria immagine.

Dietro la vicenda immigrati c’è poi un altro ostacolo rilevante: la questione europea. Il Pd è un pilastro di questa Europa, Salvini sta cercando di incarnare un’alternativa “populista” che però punta a rappresentare una gamba che affianchi il Partito popolare. Non si tratta di un rovesciamento radicale dell’Unione, almeno non al momento, quanto di entrare con più determinazione nella “stanza dei bottoni” di Bruxelles. Non è un caso che la Lega aspiri con determinazione a conquistare un commissario europeo nel governo di quella Ue che, non dimentichiamolo mai, è ancora intergovernativa e non si basa sulla volontà legislativa dell’Europarlamento. I rapporti tra i governi e tra i principali gruppi a Strasburgo saranno ancora orientati alla concertazione e all’intesa ed è in questo gioco che Salvini sembra volersi inserire.

Per queste ragioni non vanno sottovalutate le intese progressive che Lega e Pd vanno tessendo sul terreno – quelle con Forza Italia sono acquisite – e che hanno accumulato nel recente passato. La convergenza sul Tav è quella più eclatante, anche se non sorprendente, e deriva dall’interesse verso quel “partito del Pil” che, nella sostanza, è fatto da Confindustria e dal tessuto di medie e piccole imprese, oltre che dai sindacati che a quel modello sono agganciati, e che costituisce ancora il blocco dominante del nord Italia. Questa natura “sociale”, che guarda con disprezzo alla politica del reddito di cittadinanza, cementa anche l’intesa di fatto sull’autonomia del Nord. Ne è testimonianza la lettera congiunta dei presidenti di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna i leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia e il dem Stefano Bonaccini. “Il percorso intrapreso rappresenta un’opportunità importantissima non solo per i rispettivi territori, ma per l’intero Paese”, hanno scritto i tre a Giuseppe Conte per sostenere il disegno di legge che modificherà la Costituzione.

I due partiti hanno quindi basi sociali di riferimento e interessi al nord che convergono, ma la loro sensibilità alle ragioni delle imprese risalta anche in voti come quello della scorsa legislatura sui voucher. Hanno un’attitudine istituzionale ben rappresentata da un senatore come Roberto Calderoli fautore della convergenza con il Pd sul Rosatellum, cioè l’attuale legge elettorale per il Parlamento. Votano insieme per salvare i senatori da regolari processi invocando l’immunità parlamentare (è di pochi giorni fa il voto congiunto sui casi di Cinzia Bonfrisco, Stefano Esposito, Maurizio Gasparri e Ciro Falanga) e addirittura si spingono fino a voti congiunti contro l’aborto come è accaduto a Verona lo scorso ottobre.

L’alleanza, lo ripetiamo, è oggi improponibile. Ma i due partiti hanno comunque come punti di riferimento il liberalismo e l’efficientismo produttivista. I manifestanti di Torino, espressione della città borghese e liberale, ne rappresentano i volti. Fuori dalla cerchia delle cittadelle del nord si muovono invece i diseredati e gli esclusi che in Francia si organizzano con i Gilet Gialli e in Italia guardano ancora con fiducia ai 5 Stelle. E potrebbe essere questa la contraddizione principale della politica di domani. Non è un caso se gli attacchi più duri del Pd sono sempre contro il M5S e mai contro Matteo Salvini.

Salviniani, azzurri e Pd: tutti Sì Tav in “Piazza Affari”

Il flash mob dura meno di un’ora. Il tempo di leggere i nomi dei comuni che hanno aderito alla manifestazione e di cantare l’inno di Mameli, dopodiché le persone venute per esprimere il loro “sì” alla Torino-Lione, vestite nei gilet arancioni o avvolte nella bandiera europea, possono ripartire.

Circa 25milapersone per la questura, ma 30mila per gli organizzatori, ieri mattina in piazza Castello a Torino hanno partecipato alla nuova manifestazione organizzata dalla sette “madamine” con l’ex sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi, Mino Giachino, ancora insieme dopo il primo raduno. “A due mesi dalla manifestazione di novembre oggi torniamo in piazza per chiedere un’accelerazione nelle presa di decisione su un’opera che non può essere fermata”, spiega prima dell’inizio Patrizia Ghiazza, portavoce del gruppo di donne che ha lanciato l’iniziativa. Se a novembre i protagonisti della piazza erano i rappresentanti delle imprese e i cittadini sfiduciati dai partiti, questa volta gli obiettivi sono tutti per i politici.

In piazza si vede il presidente del Piemonte Sergio Chiamparino, che alla fine del 2018 ha lanciato il suo progetto elettorale, quella lista “Sì al Piemonte del Sì” che affiancherà il Partito democratico alle prossime regionali. Tra i big del Pd si vede Maurizio Martina, unico dei candidati segretari che si mostra in questa piazza del Sì Tav. Con lui, l’ex senatore Stefano Esposito. A Torino arriva il presidente della Liguria, Giovanni Toti. Oltre a lui, per Forza Italia ci sono Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, rispettivamente capogruppo alla Camera e al Senato. E c’è soprattutto la Lega, rappresentata dal ricercatissimo capogruppo alla Camera Riccardo Molinari e dal consigliere comunale Fabrizio Ricca.

Insomma, le principali forze politiche che hanno governato l’Italia negli ultimi anni hanno superato le linee di separazione e si sono ritrovate nella stessa marea di persone per dare un segnale al governo, o meglio: alla componente del M5s. Proprio la presenza di una forza governativa stupisce di più: “Non è incoerente che la Lega sia in piazza, c’era già l’altra volta. Ma essendo anche un’importante forza di governo deve contribuire a decidere e in fretta”, dice Chiamparino. Toti sottolinea che “la Lega ha nel suo dna un Paese che cresce, che guarda alle imprese, che vuole modernizzarsi, fatto di grandi opere e dunque mi sembra naturale che oggi sia qua”.

Molinari conferma che quella sulla Torino-Lione “è una posizione storica della Lega, che è a favore dello sviluppo e delle grandi opere”. Non nega che con gli alleati possano esserci degli attriti, ma “il contratto di governo serve a mitigare le posizione diverse: come abbiamo trovato un compromesso su altri temi lo troveremo anche sulla Tav”. Molinari non ha una ricetta per questa sintesi, ma pensa che si potrà lavorare su alcuni punti: taglio degli sprechi, maggior efficienza e se servisse una modifica del tracciato. Dice ancora Molinari: “Abbiamo rispetto di quel 32 per cento di elettori che ha votato per i Cinque stelle. Bisogna tenere conto che in questo territorio il M5s ha avuto molto seguito”. Se non si troverà un accordo, “prima di mandare in fumo questo progetto bisogna dare la parola ai diretti interessati”.

Conferma il ministro dell’Interno Matteo Salvini da Milano: “Se non c’è una sintesi all’interno del Governo, decidono gli italiani, come è giusto che sia” anche perché “nel contratto di governo ci sono i referendum propositivi come in Svizzera, giustamente, quindi se sul Tav non c’è un accordo politico la parola passa agli italiani”.

Molti dei politici di piazza Castello sono d’accordo con la consultazione popolare, invece le organizzatrici del flash mob ritengono che la presenza delle persone in piazza “è già un referendum”. Da tempo Chiamparino ha intenzione di lanciare una consultazione popolare, come previsto dall’articolo 86 dello Statuto regionale su argomenti di interesse del Piemonte. “E se non è la Tav un interesse del Piemonte non so cosa lo sia”, dice. Commenta Martina: “Se lo propone il territorio dico sì. Se lo propone un vicepremier dico di no. Il governo si deve fare carico di una decisione”. Le uniche incertezze sono all’interno di Forza Italia. Gelmini lo escluderebbe, invece Toti eviterebbe i costi di una consultazione, ma non chiude: “Facciamo il referendum, ma gli elettori hanno dimostrato molte volte che vogliono l’ammodernamento del Paese”. “Erano 10mila, 20mila persone? Bene, noi come governo dobbiamo stare attenti ai numeri perché poi quell’opera dovrebbero pagarla in 60 milioni, Lampedusa compresa”, ha risposto via Facebook il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Molto più duro il movimento No Tav che boccia l’idea di una consultazione popolare: “L’ipotesi di referendum è solo travestita da espressione popolare perché serve a legittimare il sistema delle grandi opere. Se l’analisi costi benefici fosse stata positiva non si sarebbero stracciati le vesti per chiedere il referendum ma avrebbero accettato tranquillamente lo studio”.

Calcio Teramo, arriva il nuovo ad: “Camorra è una scelta di vita”

“La camorra è una scelta di vita, io ho sempre rispettato loro, loro hanno rispettato me”. Parole e musica di Nicola Di Matteo, amministratore delegato del Teramo calcio. L’incredibile dichiarazione è stata rilasciata alla fine della sua presentazione ufficiale nello stadio degli abruzzesi, accanto al presidente Luciano Campitelli. “La camorra è una scelta di morte e non di vita. Nessun cittadino teramano si riconosce in queste parole”, ha replicato il sindaco Gianguido D’Alberto. Il capogruppo del Pd in consiglio comunale, Luca Pilotti, ha invece espresso “sconcerto e disapprovazione” a nome del suo partito. La Lega Pro – dove milita il Teramo calcio – ha segnalato le dichiarazioni alla procura federale della Figc e ha attivato il Comitato etico. “La camorra è una organizzazione criminale. Siamo e saremo contro sempre, senza se e senza ma”, dice il presidente Ghirelli. Dopo le polemiche Di Matteo ha provato a chiarirsi con una nota, ma senza smentire la sua dichiarazione: “Ognuno di noi ha il diritto di scegliersi la sua strada e di disegnare il proprio percorso, ma quel tipo di vita non mi piaceva, né la reputo raccomandabile. Chiedo di non essere giudicato per i classici luoghi comuni”.

Rustichelli, le 6 delibere del maxi fuori-ruolo

L’unica via di Roberto Rustichelli per poter fare il presidente dell’Antitrust è quella delle dimissioni dalla magistratura. In punto di diritto, non può ottenere il necessario fuori ruolo, perché il Csm, carte alla mano, glielo ha già concesso per oltre un decennio, come dimostrano le delibere del Consiglio che il Fatto ha potuto visionare. E sia la legge Severino sia la circolare del Csm sono chiare: il tetto massimo è di 10 anni.

Rustichelli è stato nominato il 20 dicembre scorso dal presidente della Camera Roberto Fico e dalla presidente del Senato Elisabetta Casellati. La stessa che, fino all’anno scorso, era consigliera del Csm. È quindi curioso che non abbia verificato se Rustichelli fosse legittimato ad andare fuori ruolo, nonostante abbia come capo di Gabinetto Nitto Palma, ex magistrato ed ex ministro della Giustizia e come consigliere giuridico il magistrato milanese Claudio Galoppi, collega della Casellati alla scorsa consiliatura di Palazzo dei Marescialli.

Il presidente in pectore dell’Antitrust è entrato in magistratura nel 1993, ma dal 2001 al 2013 ne è rimasto fuori. La prima richiesta di fuori ruolo che lo riguarda risale al secondo governo Berlusconi ed è datata 24 luglio 2001, con “immissione in possesso” il primo settembre, per ricoprire l’incarico di “Esperto ufficio per la semplificazione normativa” a Palazzo Chigi. Un anno dopo, poiché Rustichelli cambia ufficio, viene riformata parzialmente la delibera del fuori ruolo, sempre confermato: va all’ufficio del ministro della Funzione pubblica. Due anni dopo, nel 2004, ancora come “ Esperto ufficio per la semplificazione normativa” torna a Palazzo Chigi, naturalmente con il consenso necessario del Csm: delibera di conferma del fuori ruolo del 12 maggio 2004 “fino al 30 giugno 2005”.

Proprio nel 2005, però, con il governo Berlusconi ter, Rustichelli cambia incarico: vice capo di Gabinetto del ministro per le Attività produttive, Antonio Marzano. Si rende necessaria una delibera del Csm ex novo: è datata 27 gennaio 2005, con “immissione in possesso il primo febbraio 2005”. L’anno dopo, a marzo 2006, Rustichelli torna a fare l’esperto di semplificazione normativa al ministero della Funzione pubblica con il via libera del Csm il 15 marzo ma con presa di possesso dell’incarico qualche mese dopo, il 3 luglio. E si arriva al 2009, quando, sempre fuori ruolo – ormai da 8 anni – Rustichelli torna a Palazzo Chigi con lo stesso incarico. L’ultima delibera del Csm per il suo fuori ruolo è del primo luglio. Quattro anni dopo, rientra in magistratura. Il Csm decide il “richiamo in ruolo” il 13 febbraio 2013 con “immissione in possesso” il 10 giugno. Da oltre cinque anni è giudice civile al tribunale dell’Impresa di Napoli, “presidente del collegio B”. Dunque, fino a quando Rustichelli non è tornato a indossare la toga come giudice è rimasto fuori ruolo esattamente per 11 anni e 5 mesi.

E saranno proprio queste delibere a essere studiate dalla competente Terza commissione del Csm che deve proporre al plenum se negare il fuori ruolo, perché così dice la legge, o se dare il via libera, anche se è difficile pensare ad un appiglio giuridico. Rustichelli non può nemmeno appellarsi all’aspettativa perché contano ugualmente gli oltre 10 anni di fuori ruolo. Dunque, o resta magistrato e non fa il presidente Antitrust o lascia la toga.

“Fine poltrona mai”: al Consiglio di Stato promozioni per tutti

Vincenzo De Luca è un uomo fortunato. Potrà continuare ad avvalersi del suo fidatissimo capo di gabinetto, Sergio De Felice. Che si è dovuto dimettere dall’incarico perché lo attendeva a Roma la promozione a presidente di sezione del Consiglio di Stato. Ma se De Luca è fortunato, De Felice lo è di più: appena promosso è stato autorizzato a tornare a Napoli. Dove? Sempre al servizio di De Luca, ma come consigliere giuridico.

Lo ha deciso l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa nella seduta di venerdì scorso. Dove tutti gli occhi erano però puntati su Luigi Carbone, autorizzato ad assumere l’incarico di capo di gabinetto del ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Nonostante gli oltre 10 anni passati fuori ruolo, lontano da Palazzo Spada: per lui i 5 anni trascorsi all’Authority dell’Energia sono stati classificati come “carica elettiva”, esclusa dal tetto dei 10 anni imposto dalla legge Severino.

Nessuno insomma l’altro giorno ha badato troppo al caso De Felice su cui però si lavorava da tempo. Per trovare una soluzione che non frustrasse le sue aspirazioni di carriera al Consiglio di Stato, ma neppure le esigenze di De Luca di tenerlo con sé: l’affiatamento tra i due è totale e non solo per le comuni origini salernitane. Il governatore gli ha affidato tutti i dossier che contano. Dal nuovo statuto della Fondazione Ravello, fino al comitato di indirizzo del Teatro San Carlo. Dove De Felice siede dal 2017 accanto al sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, sempre per volontà di De Luca.

Alla fine tutti sono stati accontentati. Per De Felice è stato revocato l’incarico fuori ruolo in Campania come capo di gabinetto. Ma il rientro in servizio a Roma non gli precluderà un posto nel cerchio magico del governatore campano, con un incarico assai impegnativo ma – a quanto risulta – che svolgerà a titolo gratuito. Come farà ad assolvere ai due compiti, resta un mistero. Cosa poi spinga De Felice a lavorare pro-bono a Napoli, anche.

Ma le forme sono salve. La legge, per chi ambisca alla promozione a presidente di sezione al Consiglio di Stato, comporta l’obbligo, per il nominato, di permanere nella sede di assegnazione per un periodo non inferiore a tre anni. E per lo stesso periodo non gli è consentito il collocamento fuori ruolo. Ma non è tutto: una volta promosso chi non assuma le funzioni legate al passaggio di qualifica, decade dalla nomina. Questo in teoria, ovviamente. Perché poi, sempre ricorrendo all’interpretazione acrobatica delle regole, si può fare tutt’altro.

Come due anni fa di questi tempi, quando sempre l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa decise l’avanzamento di carriera per tre consiglieri di Stato che in quel momento erano impegnati in incarichi extragiudiziali. E senza che si scomodassero neppure a tornare in servizio. Di chi si trattava? Di Roberto Garofoli, allora capo di gabinetto al Tesoro, che ha lasciato pochi giorni fa. Roberto Chieppa, allora segretario generale dell’Antitrust e oggi in forze a Palazzo Chigi come segretario generale della presidenza del Consiglio. E infine Paolo Troiano che era appena rientrato dall’incarico alla Consob ed era stato promosso nonostante fosse fuori ruolo da 11 anni e 7 mesi. A dispetto della norma che impedirebbe l’idoneità a ricoprire incarichi direttivi per chi abbia prestato servizio effettivo inferiore a due terzi dell’intera carriera.

Eppure nulla ha impedito che ai tre venissero riconosciuti i galloni di presidente di sezione. Ma c’è di più. Perché in quella occasione, oltre a loro fu necessario promuovere anche altri due magistrati. Che, bontà loro, erano davvero in servizio al Consiglio di Stato. Insomma, per coprire tre posti furono necessarie 5 nomine: Garofoli, Chieppa, Troiano; ma anche Gerardo Mastrandrea e Carlo Deodato. Anche loro diventati presidenti di sezione a febbraio 2017 ma ora già impegnati in tutt’altre faccende: il primo da giugno 2018 è capo dell’ufficio legislativo del ministero dell’Economia. Deodato è invece diventato capo di gabinetto del ministro per le politiche Ue, Paolo Savona. Palazzo Spada può attendere, le promozioni no.

Reddito: non si potrà rifiutare un lavoro dopo i primi 12 mesi

“Arriva giovedì”.Luigi Di Maio è sicuro che quella che arriva è la settimana buona per approvare il decreto che introdurrà quota 100 sulle pensioni e il reddito di cittadinanza. Le nuove bozze circolate ieri, peraltro, disegnano nuove ipotesi sulla concreta applicazione della norma bandiera dei 5 Stelle. La lettera dell’Insp: per essere certi che tutte le famiglie in difficoltà siano raggiunte dal beneficio, l’Inps potrà fare una campagna informativa sulla base dei dati Isee. Via l’assegno al primo no dopo 12 mesi: il sostegno al reddito durerà 18 mesi, rinnovabili, ma sono previste clausole di decadenza, comprese quelle legate al rifiuto di proposte di lavoro “congrue”. Lo stop al beneficio scatterà non solo al terzo rifiuto, ma anche al primo o al secondo se le offerte arriveranno dopo 12 mesi. Moduli in 30 giorni: l’Inps avrà 30 giorni di tempo per predisporre i moduli per fare richiesta del reddito: in questo modo si potrà partire ad aprile visto che il reddito viene riconosciuto “dal mese successivo” alla richiesta. Bonifico dell’affitto: la carta attraverso cui verrà erogato il reddito consentirà anche di effettuare un bonifico mensile per pagare l’affitto. La quota massima di contributo all’affitto è di 280 euro mensili.

Tagli ai giornali e soldi a Radio Padania. Ma sono i fondi stanziati da Gentiloni

A Napoli si dice “chiagni e fotti”. Se Matteo Salvini, insieme a Luigi Di Maio, ha chiuso il rubinetto dei fondi per l’editoria, il leader leghista si appresta a ricevere altri 70 mila euro di contributi per Radio Padania, la radio della Lega, che dal 2017 trasmette solo sul web. Soldi che arrivano dal ministero dello Sviluppo economico (Mise) e fanno parte del fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione per le emittenti locali. Secondo la nuova graduatoria, come scrive Repubblica, 70.000 euro sono destinati alla radio leghista. “Non abbiamo ancora dato un euro, verificheremo. E comunque si tratta di un bando del 2017 del governo Gentiloni”, ha spiegato ieri Di Maio. “Radio Padania sarà trattata come tutti gli altri”, ha risposto Salvini. Uguale agli altri in realtà non è mai stata: negli ultimi 20 anni ha incamerato notevoli risorse pubbliche grazie a leggine ad hoc promosse dai leghisti.

Tutto parte da un emendamento alla legge di bilancio del 2001 a firma Davide Caparini, deputato leghista ed editore di Radio Padania, allora voce della Lega di Umberto Bossi: alle radio che hanno una concessione comunitaria in ambito nazionale viene consentito di attivare nuovi impianti per le frequenze che, dopo 90 giorni, diventano di loro proprietà. Così Radio Padania inizia a fare incetta di frequenze sul territorio nazionale a titolo gratuito, salvo poi rivenderle al miglior offerente. Alla fine buona parte di esse verranno cedute al gruppo R101 e a quello di Rtl 102.5 dell’imprenditore Lorenzo Suraci, portando bei soldi nelle casse leghiste.

Ma non basta. Nel 2004 un altro emendamento, sempre di Caparini, stabilisce un contributo pubblico alle radio comunitarie d’interesse nazionale grazie al quale Radio Padania si porterà a casa, dal 2005 al 2013, da 320 mila a 840 mila euro, a seconda del numero di concorrenti (all’inizio solo Radio Maria, poi sono aumentati). La pacchia dura fino al 2014, quando la Corte dei conti stabilisce che la radio leghista non ha i requisiti per accedere a quei denari perché il suo segnale non arriva su tutto il territorio ma copre solo nove regioni. Piccolo particolare: dal 1999 al 2013 direttore della radio è Salvini. “Matteo? Mi chiedeva continuamente soldi per Radio Padania”, ha dichiarato l’ex tesoriere Francesco Belsito ai magistrati nell’inchiesta sui 49 milioni spariti.

Senza più soldi dallo Stato (e Salvini sostituito da Alessandro Morelli), la radio inizia il declino: vende frequenze e impianti a Rtl 102.5 di Suraci per 2,1 milioni (così nasce Radio Freccia) e nel 2017 abbandona l’etere per trasmettere solo sul web. Nel gennaio 2018 Davide Franzini, presidente della cooperativa che la gestisce, chiede di accedere al fondo per le radio locali. Ora arrivano i soldi.

Anticorruzione e rimborsi, ecco il comma salva Rixi&C.

“Il Salva-Rixi”, al Palazzo di Giustizia di Genova c’è chi lo chiama così. È l’articolo 316 ter del codice penale modificato dalla legge anticorruzione che ha aggiunto un nuovo paragrafo: tre righette in mezzo a un mare di codicilli introdotte da un emendamento a firma di dieci deputati della Lega. A dicembre così è stato modificato il reato di “indebita percezione di erogazioni da parte dello Stato”; una novità che potrebbe portare alla prescrizione di decine di processi per spese pazze in cui sono imputati consiglieri regionali delle passate legislature. Uno in particolare: il vice-ministro leghista Edoardo Rixi che per Matteo Salvini è “un fratello”.

Ma andiamo con ordine: il testo definitivo della legge anti-corruzione ha modificato appunto l’articolo 316 ter. Al reato è stato aggiunto un paragrafo: “La pena è della reclusione da uno a quattro anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri”. Modifica introdotta da un emendamento che dagli atti della Camera risulta a firma di Gian Luca Vinci, Roberto Turri, Luca Paolini, Gianluca Cantalamessa, Fabio Massimo Boniardi, Manfredi Potenti, Anna Rita Tateo, Ingrid Bisa, Riccardo Marchetti e Flavio Di Muro, tutti parlamentari leghisti. A prima vista pare trattarsi dell’introduzione di un’aggravante, quindi di un giro di vite. Ma nelle pieghe della legge potrebbe nascondersi una sorpresa. Il vecchio articolo infatti diceva: “Chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti…”.

Gli avvocati dei consiglieri regionali accusati di “spese pazze” hanno spesso chiesto che ai loro assistiti fosse applicata questa fattispecie e non il peculato. Con un vantaggio duplice: pene meno severe e soprattutto prescrizione più breve. Ma si erano sempre scontrati contro la prima parola dell’articolo: “Chiunque”. Quindi, rispondevano i pm, una norma disegnata soprattutto per i comuni cittadini (ad esempio dichiarazioni Isee non veritiere) più che per i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblici servizi. Ma ecco che la nuova legge afferma che l’indebita percezione sarebbe applicabile anche a loro. Non solo: il codice penale stabilisce che se la legge al tempo in cui fu commesso il reato e quelle successive sono diverse prevale quella più favorevole al reo.

Secondo avvocati e docenti interpellati dal Fatto il nuovo articolo potrebbe consentire ai difensori dei consiglieri regionali di chiedere una derubricazione del reato. E quindi di sperare in una prescrizione di 7 anni e mezzo (invece di 12 e mezzo) che per molti imputati sarebbe già scattata e per altri interverrebbe prima della Cassazione.

È la seconda volta che gli emendamenti all’anticorruzione suscitano polemiche. Era già avvenuto con il peculato: a novembre il governo era stato battuto. A sorpresa era passato un emendamento cui si erano opposti M5S e Pd. Una norma che qualcuno aveva definito “ad Legam” perché avrebbe tolto le castagne dal fuoco al Carroccio che vede tanti ex consiglieri indagati. Il colpo di spugna del peculato è stato cancellato, ma stavolta la frittata è fatta.

Rixi è imputato di peculato e falso ideologico con altri 18 consiglieri e vari capigruppo della Regione Liguria (legislatura di centrosinistra). I vari filoni dell’inchiesta hanno toccato oltre metà dei consiglieri liguri tra il 2010 e il 2015. La richiesta di rinvio a giudizio per Rixi parlava di rimborsi per 108.237 euro. Di questi 19.855 sono riferibili direttamente a spese sue dirette. Il grosso riguarda spese sostenute dal collega di partito, Maurizio Torterolo, e rimborsi indistinti del gruppo Lega. Ecco il punto: Rixi era il capogruppo. Quindi, secondo i pm, a lui spettava la vigilanza. L’accusa ha portato in aula centinaia di scontrini: dalle ricevute, decine, di un ristorante dell’entroterra ligure alle spese per rifugi di montagna sulle Dolomiti nei giorni di Ferragosto. “Sono viaggi di nostri collaboratori. Erano andati per studiare lo statuto speciale del Friuli”, è stata la difesa. Ma ci sono anche acquisti in negozi di cioccolata e di fiori.

I leghisti hanno rimborsato alla Regione 80 mila euro, ma questo non cancellerebbe il reato se fosse stato commesso. Un processo che impensierisce il Carroccio per il legame strettissimo tra Salvini e Rixi: “Se qualcuno nella Lega sbaglia, sono il primo a prenderlo a calci nel culo, ma Rixi è un fratello e lo difenderò fino all’ultimo da quella schifezza che è la magistratura italiana”, disse il segretario leghista nel 2016. Intanto il processo è andato avanti. L’ex consigliere Torterolo, accusato di rimborsi certificati da Rixi, ha patteggiato due anni. E i pm hanno chiesto per il viceministro una condanna a 3 anni e 4 mesi. Se condannato, Rixi rischia l’applicazione della legge Severino.

Oggi sposi

È una fortuna che ieri le madamine Sì Tav e gli umarell, sempre a caccia di nuovi cantieri per passare il tempo, si siano ridati convegno in piazza a Torino. Quella che i giornaloni chiamano comicamente “Onda Arancione” era un po’ meno folta gente dell’altra volta: da circa 25 a circa 15 mila manifestanti. Forse qualcuno s’è informato e ha scoperto che non vale la pena perdere tempo prezioso a manifestare per un buco di 60 chilometri e 15-20 miliardi per guadagnare 20 minuti nel trasporto ad altissima velocità di poche merci da Torino a Lione. Forse qualcuno ha capito che l’opera più inutile della storia dopo il ponte sullo Stretto non si farà mai. Forse qualcuno s’è stufato di farsi strumentalizzare da un sedicente “movimento spontaneo” che in realtà è il paravento piuttosto spintaneo dei soliti, vecchi, marci poteri torinesi e nazionali. Ormai talmente impresentabili che a novembre preferirono travestirsi da madamine e nascondersi dietro gli umarell per non far scappare la gente, ma ora devono uscire allo scoperto perché a maggio si vota per la Regione e il Parlamento europeo e qualche prestanome devono pur candidarlo. È questo l’aspetto positivo della marcetta di ieri: finalmente li abbiamo visti in faccia.

C’erano un centinaio di sindaci del Nord con la fascia tricolore, ma stavolta nessuno ha trovato nulla da ridire. Invece il vicesindaco M5S di Torino Guido Montanari, che a dicembre osò sfilare con gli 80 mila No Tav, fu linciato con la sindaca Chiara Appendino da opposizioni e giornaloni. Piero Fassino, che è un po’ il portafortuna dei Sì Tav, tuonava: “È una penosa ipocrisia, quella fascia è un simbolo istituzionale, il tricolore non può essere usato come foglia di fico per coprire le proprie ambiguità. La sindaca si preoccupa più di assecondare la sua maggioranza che dell’interesse di tutti i cittadini torinesi”. E il suo dioscuro Sergio Chiamparino rincarava: “La Appendino è in minoranza su tutti i temi. Il mio rammarico è che non tenga una posizione da sindaca di tutti”. Poi si appellava all’alleato Matteo Salvini: “È lui che deve imporsi con i 5Stelle per il Tav”. Appello raccolto. Ieri, finalmente, dopo mesi di flirt e fuitine clandestine, il Partito Trasversale del Cambianiente ha fatto coming out, ufficializzando in piazza la Grande Ammucchiata: oltre al leggendario Mino Giachino, lobbista ed ex sottosegretario forzista (era il vice di Lunardi nel governo B., per dire), c’erano 33 sigle imprenditoriali e prenditoriali sempre a caccia di soldi pubblici. C’era l’aspirante segretario del Pd Martina, a braccetto col governatore Chiamparino.

E soprattutto gomito a gomito col governatore forzaleghista ligure Toti. C’era il forzista Alberto Cirio, candidato di centrodestra contro (si fa per dire) il Chiampa. C’erano i parlamentari Pd per nulla imbarazzati di sfilare con la capogruppo forzista Gelmini e con deputati e senatori leghisti dal segretario piemontese e capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, che non ha perso occasione per mentire: “La Lega è sempre stata a favore della Tav, lo sapevamo già quando abbiamo firmato il contratto di governo”. Doppia balla: nel Contratto di governo, la Lega ha firmato l’impegno sul Tav a “ridiscuterne integralmente il progetto”; ed è falso che sia sempre stata Sì Tav. Come ricorda il sito Lettera43, il Carroccio nel 2005- 2006 diffondeva volantini e manifesti col suo simbolo e le scritte cubitali: “Stop Tav”, “Stop Tav dalla nostra Valle”. Maroni difendeva i No Tav sulla Padania: “Non sono i no global. La protesta della Val Susa non va ignorata, bisogna comprendere le ragioni della gente… Quando c’è una rivendicazione sensata non si può mandare la polizia e basta”. Borghezio, europarlamentare, urlava “Tav uguale mafia”. E il futuro governatore Cota: “Due pesi e due misure. Se a protestare è la gente del Nord (i No Tav, ndr), prima o dopo arriva il manganello, se invece i tumulti avvengono al Sud, i metodi per un ritorno all’ordine si fanno decisamente più leggeri e sfumati”.

Del resto Salvini era No Triv fino al referendum di tre anni fa e ora è Sì Triv. Era contro gli inceneritori e ora vuole moltiplicarli. Era per le manette agli evasori e ora le blocca. Ma, essendo l’ultima scialuppa di salvataggio dell’Ancien Régime, nessuno ne smaschera i voltafaccia. Dopo aver firmato il contratto di governo con la clausola anti-Tav, l’estate scorsa disse che era favorevole all’opera “ma mi rimetto all’analisi costi-benefici”. E ora che questa la boccia senz’appello butta la palla in tribuna vaneggiando di un fantomatico “referendum” che richiederebbe tempi lunghi e sarebbe comunque solo consultivo. Ma viene preso molto sul serio dai giornaloni: persino da firme un tempo nemiche delle grandi opere inutili, come Stella e Rizzo, che non ricordiamo schierate per un bel referendum pro o contro il Ponte sullo Stretto; persino dai famosi cultori della scienza e della competenza, che ora se ne infischiano dell’analisi costi-benefici firmata da competentissimi scienziati. Il referendum-patacca sul Tav affratella Salvini, Zaia, Fontana, Toti & C. al Pd, che ha smesso per un giorno di dare dei fascisti ai leghisti e di lanciare l’allarme democratico, per salvare gli affari dei soliti noti. Del resto i pidini che agitano ogni giorno a favore di telecamera lo spauracchio fascioleghista sono gli stessi che nell’ultimo anno hanno votato in Parlamento, con B. e con la Lega, il Rosatellum, il colpo di spugna sul peculato, gli emendamenti per svuotare il Dl Dignità e i salvataggi di onorevoli e senatori dai loro processi (anche per corruzione e associazione a delinquere) e altre fantastiche porcate. Un bel colpo d’occhio, dalle Camere alla piazza. E perché, prossimamente, non anche al governo?