Per i mali d’amore consultare il secondo scaffale sulla destra

C’è chi va dallo psicologo per la fine di un amore e chi si affida alla “Piccola farmacia letteraria”. Si chiama proprio così la nuova libreria nata in via Ripoli 7 nel quartiere della Gavinana. I lettori, anzi i “pazienti”, trovano per ogni malessere un libro con tanto di bugiardino che offre indicazioni sulla diagnosi, gli effetti collaterali e la posologia. Dietro il bancone c’è Elena Molini , 35enne che, dopo aver lavorato alla Giunti, ha deciso di aprire una sua libreria nella periferia di Firenze. Per capire di cosa si tratta bisogna fare un giro tra gli scaffali e incontrare qualche “paziente”. In un angolo c’è appesa la “legenda della farmacia” con ben 62 stati fisici ed emotivi associati a un colore. Elena ha selezionato libri per chi ha ambizioni eccessive, per chi è triste, nostalgico, per chi è disoccupato o sta attraversando un periodo di stress. Se hai avuto una maternità mancata c’è il testo per te. Se vuoi regalare un libro a un’amica che soffre per un amore non dichiarato, nella piccola farmacia puoi trovare il testo giusto. Ci sono anche libri per chi si ritiene un “pigro cronico” o per chi è narciso. La giovane libraia non ha dimenticato nemmeno chi arriva in via Ripoli per cercare qualcosa di positivo: un libro sulla felicità o sulla dipendenza da viaggi.

Se ti senti abbandonato, ad esempio, sullo scaffale puoi trovare Milk and honey di Rupi Kaur. Il bugiardino scritto da Elena suggerisce il libro a chi vuole essere accompagnato in un viaggio attraverso i momenti più amari della vita e trovarvi dolcezza. Effetti collaterali: capire come un tratto di penna e una quartina possono avere la forza di un bisturi per scavare nell’animo di tutte le donne. Subito fanno male, poi danno sollievo. Posologia: da tenere sul comodino e leggere tutti i giorni. “Le persone – spiega la libraria – cercano sempre libri in base al loro stato d’animo, oppure se devono regalarli ti descrivono la persona a cui devono fare il dono. Lavorando già in libreria mi sono accorta che c’era una domanda ma serviva un’offerta mirata, precisa, dettagliata che rispondesse alle esigenze specifiche del lettore”. In un mese (l’inaugurazione è stata l’8 dicembre) si sono già presentate in “farmacia” più di 300 persone. C’è persino chi è arrivato a Firenze da Venezia o da Trieste e ha preso il taxi per raggiungere via Ripoli 7. “La maggior parte dei miei pazienti sono donne, giovani che soffrono il mal d’amore”, spiega Elena, ma c’è anche chi si è affidato a lei per un lutto o per trovare un libro in grado d’affrontare il rapporto genitori-figli.

Paola Monticelli, 33 anni, social media manager, fa parte di un “Book club” e ha conosciuto la “farmacia” grazie alle amiche: “Mi sono rivolta a Elena – racconta – cercando qualcosa sulla ricostruzione dell’autostima e per consolarmi da un amore infranto. Mi ha consigliato Il cardellino di Donna Tartt e Una vita come tante di Hanya Yanagihara”.

Paola da quando ha aperto la “farmacia” è già passata tre volte: “È bello andarci perché non c’è un commesso ma una libraia vecchio stile, che fa un po’ da psicologa”.

Elena non ama sbandierarlo ma non nasconde che per lavorare con questo stile si è fatta aiutare anche da alcune amiche psicologhe.

D’altro canto può capitare chi come Lella, 44 anni, esperta di rischi finanziari sia un po’ sottotono: “È un periodo triste ed Elena mi ha consigliato Il privilegio di essere un guru, un libro di Lorenzo Licalzi che è riuscito a farmi sorridere e mi ha aperto gli orizzonti su un autore che non conoscevo”.

Anche Lella è diventata ormai un’affezionata “paziente” della libreria. È l’effetto che fa a entrare nella “farmacia” dove si trova qualcuno che ascolta e non solo vende libri.

Lo sa bene Monia Scarpelli, 42 anni, impiegata in una grande azienda del lusso: “Ho preso dei libri per curare la fine di un amore e la voglia di rinascita. Elena ha fatto ciò che ogni buon farmacista dovrebbe fare con i medicinali: mi ha indicato dei libri che mi sarebbero stati utili”. Monia si è ritrovata tra le mani L’amore è eterno finché non risponde di Ester Viola e Le ho mai raccontato del vento del nord di Daniel Glattauer. Ho preso anche un libro per la dipendenza da viaggio: Controvento di Federico Pace. È un testo per chi ama non solo il prendere e partire, ma sapere che ogni giorno è un viaggio”.

E se arrivassero gli Avengers a salvare la cerimonia degli Oscar?

Oscar in autogestione. A quanto pare la 91ª edizione della più celebrata notte di Hollywood sarà così, a meno che non si trovi un(a) candidato(a) che voglia prestarsi a presentarla. La rivista specializzata Variety ne è ormai certa, dopo il ritiro dalle scene del designato comico Kevin Hart a fare da “host” alla cerimonia (la causa rimanda a controversi tweet omofobici che lo riguardano) non sembrano comparire idonee alternative all’orizzonte. In altre parole, nessuno si è proposto. Quasi che il popolo delle star hollywoodiane si sia schierato sulla difensiva da attacchi dei social media: parlare è rischioso, trovano sempre un modo per attaccarti, la polemica insulsa e feroce non vale la candela benché questa accenda la visibilità mondiale. E per questa, comunque, ormai Twitter, Instagram etc regnano sovrani.

Con una Notte delle Stelle il prossimo 24 febbraio probabile orfana del suo monologo satirico sulla politica contemporanea – ma attaccare Trump è fin troppo banale, diciamolo – e di chi avvicendi comicamente i talent sul palco del Dolby Theater, si aprono ipotesi e scenari inediti da almeno un trentennio (dopo le tre edizioni del ’68, ’69 e ’70 l’ultima senza presentatori fu nel 1988), non solo strettamente legati alla celebrazione degli Academy Awards quanto all’establishment del cinema Made in Usa.

Insomma, il mondo è inchinato ai social media e i “mediatori” risultano sempre più obsoleti, figuriamoci per un’entità per definizione legata all’immaginario collettivo come Oscar, Hollywood e dintorni. Che bisogno possono avere Lady Gaga e Christian Bale di un intermediario/clown che li faccia accomodare, dica due battute e a metà dell’estenuante nottata (anche se per volere del rieletto presidente John Bailey sarà ridotta a “sole” tre ore…) faccia magari entrare una squadra di maschere con cibarie e bevande per “tenere su” il pubblico visibilmente annoiato? È già successo lo scorso anno, e un’estremizzazione della gag è avvenuta proprio agli ultimi Golden Globe quando si sono improvvisati nel salone finti infermieri muniti di siringhe: se vi cala la palpebra, ci pensiamo noi col “rinforzino”.

Vale la pena scherzare su queste vicende benché – si diceva – possono alludere a un altrove di senso. Le istituzioni, anche le più effimere, non sono più credibili a tenere insieme i pezzi, e il populismo e le diversificate forme di anarchia comunicativa – chiamiamola pure “diretta”, e ognuno faccia come crede – suonano come il necessario antidoto al calo di audience di cui anche sua maestà l’Oscar è vittima. In un mare magnum di ipotesi e del loro contrario, i comici intanto si rinfrancano, non mettendoci la faccia si parano la reputazione laddove ormai anche il migliore dei santi ha qualcosa da nascondere. Jimmy Kimmel (“host” delle ultime due edizioni passate alla storia rispettivamente per la gaffe della busta di La La Land/Moonlight e per l’esaltazione del #metoo, ma anche per l’audience più basso della storia ..) non è più proponibile e difficilmente gli interessi unificati dell’Academy con il canale ABC troveranno a breve sostituti di Kevin Hart, durato virtualmente sul palco il tempo di un battito d’ali. A meno che con quelle ali non volino giù gli Avengers, salvatori last minute della patria, della serie ci vogliono i superpoteri per sanare questi Oscar.

Forse, un giorno, saranno gli stessi social media a presentare gli Oscar: un bel pannello sullo sfondo del palco animato di cinguettii, immagini e infiniti hashtag, mentre il pubblico chiaramente si farà i fatti suoi con la testa chinata sugli smartphone. Forse è quel che ci meritiamo.

Scamarcio, Buy, Sperduti, Giannini: così sarà Moretti

Riccardo Scamarcio, Adriano Giannini, Margherita Buy e Alessandro Sperduti: sono i protagonisti del nuovo, attesissimo film di Nanni Moretti, Tre piani. In fase di contrattualizzazione, verranno chiamati a trasporre il romanzo omonimo (in ebraico Shalosh Qomot, edito nel 2015 e tradotto nel 2017 da Neri Pozza) dell’israeliano Eshkol Nevo, scelto dal regista romano per informare il suo tredicesimo lungometraggio di finzione.

Inedito adattamento, ossia primo soggetto non originale, in oltre quarant’anni passati dietro la macchina da presa (l’esordio Io sono un autarchico è del 1976), Moretti inizierà le riprese a fine febbraio, traslocando la storia dai sobborghi residenziali di Tel Aviv a Roma, quartiere Prati: i tre piani del titolo sono quelli di una palazzina borghese, dove le istanze intrapsichiche freudiane Es, Io e SuperIo si attagliano ad altrettante famiglie.

Se ancora ventenne avrebbe voluto portare sullo schermo, “ma sarebbe stato piuttosto costoso”, La cospirazione del francese Paul Nizan, a Tre piani è arrivato dopo aver lavorato a due soggetti originali con Federica Pontremoli e Valia Santella: “A un certo punto – ha dichiarato a Movie Mag, il magazine di Rai Movie – Federica me l’ha fatto leggere, l’ho subito amato, e ho avuto voglia di farne un film”.

Non sappiamo in quale misura Nanni e le sceneggiatrici terranno fede alla lettera di Eshkol, se si limiteranno a cambiare i nomi dei personaggi e l’indicazione geografica tipica o opteranno per una differenziazione più radicale, ma probabilmente Scamarcio vestirà i panni dell’originario Arnon, residente al primo piano con la compagna Ayelet, che si vede rapire la figlia dal vicino malato di Alzheimer; la Buy incarnerà Hani, l’inquilina del secondo piano madre di due bimbi e moglie trascurata, che ospita il cognato Eviatar, presumibilmente Giannini, braccato dai creditori; Sperduti interpreterà Arad, lo sventurato figlio dell’ex giudice e vedova Dovra, domiciliata al terzo piano.

Classe 1987, Alessandro Sperduti ha lavorato con Ermanno Olmi (Torneranno i prati) e i fratelli Taviani (Una questione privata); figlio d’arte, Adriano Giannini ultimamente è stato diretto da Silvio Soldini ne Il colore nascosto delle cose e da Francesca Archibugi in Vivere, al fianco di Micaela Ramazzotti e Marcello Fonte, di prossima uscita: entrambi sono alla prima prova con Nanni. Viceversa, si tratta della quarta volta, dopo Il Caimano (2006), Habemus Papam (2011) e Mia madre (2015), per Margherita Buy, che supera così la “musa” morettiana Laura Morante, ferma a quota tre.

Particolarmente rilevante è la scelta di Riccardo Scamarcio, che con Tre piani corona una crescita attoriale esponenziale: nessun altro nel 2018 ha saputo ritagliarsi due ruoli, e due pezzi di bravura, come quelli del dittico Loro di Paolo Sorrentino e, ancor più, Euforia di Valeria Golino. Tra David di Donatello e Nastri d’Argento, se la vedrà con l’Alessandro Borghi di Sulla mia pelle.

Da parte sua, Moretti ha ancora in sala il documentario Santiago, Italia, uscito il 6 dicembre scorso dopo l’anteprima al Torino Film Festival. A ridosso del colpo di stato del 1973 in Cile, l’11 settembre di un’altra generazione, inquadra il ruolo dell’ambasciata italiana a Santiago, che diede rifugio e futuro a centinaia di oppositori del regime di Pinochet. Lodato dalla critica, è anche un discreto successo di pubblico, con oltre 80 mila spettatori e più di mezzo milione di euro al botteghino.

Tornando a Tre piani, produzione Fandango e titolo che potrebbe non essere definitivo, è lecito aspettarsi un approdo sul grande schermo nella primavera del 2020, con un successivo inserimento in concorso a Cannes: l’uscita nazionale anticipata è un privilegio che il festival francese concede, per l’Italia, al solo Moretti, suscitando puntuali invidie. Del resto, Nanni è uno degli aficionados della Croisette – “Volesse Dio darcene altri di abbonati come lui”, ha commentato il delegato generale Thierry Fremaux nel memoir Cannes Confidential – e l’ultimo regista tricolore a essersi aggiudicato la Palma d’Oro, nel 2001 con La stanza del figlio.

L’anno prossimo potrebbe competere con il Matteo Garrone di Pinocchio, chissà.

 

Corruzione, indagine su Takeda, mister Olimpiade 2020

Mentre Carlos Ghosn, il patron di Renault, veniva incriminato a Tokyo per illeciti finanziari, lo stesso giorno, il 10 dicembre scorso, il presidente del Comitato olimpico giapponese, Tsunekazu Takeda, era a sua volta incriminato a Parigi per corruzione. La notizia è stata resa nota solo ieri, prima da Le Monde e poi confermata da canali giudiziari. All’agenzia Reuters fonti vicine al dossier assicurano che tra i due affaire non ci sono legami. Un’incredibile coincidenza, dunque, che però potrebbe gelare le relazioni tra i due paesi. Takeda è indagato nell’inchiesta, aperta nel 2016, sull’attribuzione alla città di Tokyo delle Olimpiadi del 2020: i giudici di Parigi stanno indagando su due versamenti sospetti del 30 luglio e del 28 ottobre 2013 per un totale di 1,8 milioni di euro, autorizzati da Takeda durante la campagna vincente di Tokyo ai danni di Madrid e Istanbul. I soldi sono stati versati alla Black Tidings, società basata a Singapore e gestita da Papa Massata Diack, potente uomo d’affari accusato di essere al centro di un vasto sistema di corruzione alla Federazione di atletica. Su Papa Massata Diack, che vive in Senegal, pesa un mandato di arresto internazionale. Suo padre è Lamine Diack, ex influente membro del CIO detenuto in Francia per corruzione. Le tangenti sarebbero servite a ottenere il voto favorevole dei membri africani del CIO. A un anno e mezzo dall’inizio delle Olimpiadi di Tokyo, lo scandalo investe proprio la figura che, scrive Le Monde, li “incarna” più di tutti. Takeda, 71 anni, discendente dalla famiglia imperiale Meiji, è un ex asso dell’equitazione con cinque Olimpiadi alle spalle. Dal 2012 è a capo della commissione marketing del CIO. “Mi dispiace per la preoccupazione arrecata al popolo giapponese”, ha detto ieri, negando le accuse. La Commissione etica del CIO, che si è riunita ieri a Losanna, ha aperto un fascicolo sul caso.

Trump e lo shutdown più lungo della storia

Oggi, diventa il più lungo nella storia degli Stati Uniti: mai uno shutdown, cioè una serrata dell’Amministrazione federale, era durato più di tre settimane: oggi si apre la quarta, senza un’ipotesi d’intesa nel braccio di ferro tra il presidente Donald Trump e il Congresso a parziale guida democratica: “No muro – lungo il confine con il Messico, in funzione anti-migranti -, no accordo”, dice il vice-presidente Mike Pence, recitando un mantra di Trump. Che, in visita alla frontiera fra Texas e Messico e di ritorno alla Casa Bianca, rimugina sul ricorso all’emergenza nazionale – così per costruire il muro userebbe i fondi delle catastrofi naturali – e s’esibisce in bizzarri aforismi: “Il muro è medievale? La ruota è più antica e funziona”. I costi, calcolati da Standard & Poor, ammontano già a 3,6 miliardi di dollari. Ma un altro rovello tormenta, in queste ore, gli americani che s’interessano di politica internazionale: sulla Siria, chi mente a chi? I generali, che dicono che il ritiro è in corso o gli emissari del presidente, che fanno il giro degli alleati a dire che per il ritiro ci vorrà del tempo? O lo stesso presidente?

Trump, di sicuro, non l’ha contata giusta, visto che tre settimane fa dava il ritiro per imminente e adesso prospetta che non sia cosa fatta per almeno quattro mesi. I russi appaiono più divertiti che irritati dal minuetto americano: “Abbiamo l’impressione – dice Maria Zakharova, portavoce del Ministero degli Esteri, usando lo strumento per lei inconsueto dell’ironia – che se ne stiano andando dalla Siria per rimanervi”.

Zakharova reagisce a una dichiarazione del portavoce della Coalizione internazionale anti-Isis a guida Usa, citato dai media panarabi, secondo il quale gli Stati Uniti hanno iniziato il ritiro militare dalla Siria, dove mantenevano circa duemila uomini, soprattutto nell’Est e nel Nord del Paese. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria sostiene che un convoglio di mezzi militari americani ha lasciato la Siria in direzione dell’Iraq, varcando il valico di Fishkhabur, sul Tigri, dalla città siriana di Rmeilan verso il Kurdistan iracheno.

Forse per non rendere troppo stridente il contrasto fra le notizie al terreno e le assicurazioni fornite dal segretario di Stato Mike Pompeo e dal consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton a tutti gli alleati e partner mediorientali, il Pentagono ha poi precisato che è cominciato il ritiro dalla Siria di alcuni equipaggiamenti, ma non dei soldati americani.

L’annuncio del ritiro, fatto a sorpresa da Trump il 20 dicembre, aveva innescato le dimissioni del segretario alla Difesa James Mattis e del suo capo di gabinetto, Kevin Sweeney, ed aveva pure messo in allarme Bolton, che vorrebbe prima certificata la neutralizzazione dell’Isis (che, da giorni, dà invece segni di ritrovata virulenza).

In ritardo nel colmare i vuoti creati nella sua Amministrazione da dimissioni e licenziamenti, Trump ha ieri nominato Charles Kupperman come vice di Bolton, al posto di Mira Ricardel, cacciata perché invisa alla first lady Melania.

Tessile, tremano i marchi low-cost. Proteste a Dacca

Sei giorni di sciopero consecutivi, stabilimenti bloccati, un ragazzo morto negli scontri con la polizia e 500 feriti tra i lavoratori. Questo il bilancio delle agitazioni portate avanti dai lavoratori del tessile a Dacca, capitale del Bangladesh, che hanno bloccato un centinaio di stabilimenti, protestando per la scarsa entità dell’aumento del salario minimo. Mentre la polizia disperdeva oltre 5 mila lavoratori con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, oltre 10 mila manifestanti nei giorni scorsi bloccavano una delle principali arterie stradali nella periferia della capitale: “Nonostante i numeri, non si tratta di uno sciopero generale, ma spontaneo e sporadico, in alcune aziende del tessile”, spiega al Fatto Mubashar Hasan, docente e ricercatore del Dipartimento di Lingue e culture orientali dell’Università di Oslo.

Per il Bangladesh, secondo maggiore esportatore mondiale di abbigliamento dopo la Cina, il tessile è un settore chiave per l’economia nazionale. Ogni anno il Paese trasferisce fuori dai suoi confini 30 miliardi di dollari in prodotti tessili, pari all’80 per cento dell’export nazionale. Un recente report del Center for Business and Human Rights dell’Università di New York, parla di oltre 8 mila industrie tessili sul territorio, subappalti compresi. Una sfida, e non solo in termini economici, viste le precarie condizioni di lavoro: nel 2013 nel tragico crollo del Rana Plaza, nel distretto industriale di Savar, nella capitale, morirono più di mille persone. “A Savar e Ashulia – spiega Hasan –, si trovano gli stabilimenti che producono per brand come Zara, H&M e Uniqlo. Non ci sono dati certi che ci dicano, al momento, per quali marchi siano impiegati gli uomini e le donne in stato di agitazione, ma visti i distretti produttivi coinvolti, è molto probabile che lavorino per brand di fast-fashion. Quanto alla ragione della protesta di massa, tutto parte dalla decisione della premier Sheikh Hasina, rieletta proprio alla fine del mese scorso, di approvare un aumento del salario nazionale minimo per il settore tessile, aumento entrato in vigore proprio a inizio del mese. Dire però che i lavoratori stiano protestando perché si aspettavano un maggiore aumento dello stipendio minimo, sarebbe una semplificazione. Ogni cinque anni, infatti, il governo organizza un Comitato per il salario minimo nel settore tessile”, per fissare un aumento: “E quest’anno l’aumento è stato ben poca cosa, se comparato al tasso d’inflazione e all’aumento del costo della vita degli ultimi cinque anni. Da qui l’agitazione dei lavoratori”, precisa Hasan. Sulle pagine del quotidiano bengalese ProthomAlo, i giornalisti Golam Mortuja, Shuvankar Karmakar e Arup Roy hanno provato a fare un calcolo: la paga minima mensile per un lavoratore di settimo livello, il più basso nel tessile, è aumentato del 51%, passando da 5.300 a 8.000 taka (da 55 a 83 euro). Per i lavoratori di livello più alto (terzo, quarto e quinto grado), l’aumento è stato rispettivamente del 41, 44 e 46%, per un totale di +700 taka (5 euro) per i lavoratori con più anzianità. Nel 2013 l’aumento era stato invece del 60-70%.

A essere chiamato in causa non è solo il governo, ma anche i proprietari delle aziende, che hanno preso parte alla decisione. “I proprietari dell’industria tessile del Bangladesh non sono affidabili, quando si parla di tagliare i profitti. Discorso che vale per gli stipendi minimi, così come per la sicurezza sul posto di lavoro”, continua Hasan.

Proprio questo mese si dovranno ridiscutere i termini di due delle principali iniziative di sicurezza nate dopo Rana Plaza, cui sono soggetti marchi e aziende del tessile: la Alliance for Bangladesh Worker Safety (conosciuta come l’Alleanza) e l’Accord on Fire and Building Safety (l’Accordo). “In futuro, l’Accordo e l’Alleanza potrebbero essere sostituiti da una agenzia governativa, il che spaventa i lavoratori, perché senza una supervisione indipendente e internazionale, il legame tra governo e industrie potrebbe diventare non solo meno conveniente, ma anche meno sicuro per i lavoratori”.

Berlino criminale. Altro che fiction: le mani dei clan arabi sulla città

Accanto alla Berlino degli hipster e delle start-up, quella che si esprime in un inglese fluente, c’è un’altra Berlino, che parla turco e arabo e ha il suo cuore a Neukölln. È la città raccontata nelle serie tv di Netflix, Dogs of Berlin, e 4 Blocks, distribuita da Amazon. Una città dove fioriscono gli affari della “mafia araba”, come la definiscono i media tedeschi.

Berlino, Mitte. Sono le 3.30 di notte. Tre sagome nere camminano sulla ferrovia della S-Bahn, nel tratto che passa in mezzo agli edifici storici dell’isola dei musei. Da una parte il Pergamon, dall’altra il Bode-Museum. Siamo nel centro della città guglielmina, a pochi metri di distanza vive la cancelliera Merkel. È qui che viene messo a segno il più spettacolare furto degli ultimi decenni in Germania. La gigante moneta d’oro da 100 chili, la Big Maple Leaf sulla quale è ritratta l’effigie di Elisabetta II – valore stimato 3,75 milioni di euro – viene trafugata dal Bode Museum con estrema semplicità. Con l’aiuto di una scala per entrare dalla finestra, un’ascia per rompere la vetrina, una carriola per trasportare la moneta, e un’auto per scappare. Sembra un film ma non lo è. È quanto accaduto davvero in una notte di fine marzo del 2017, secondo le ricostruzioni degli inquirenti nel processo aperto ieri a Berlino.

Una provocazione per le forze di sicurezza, così è stata definita dalla stampa locale. Gli imputati al processo di Berlino, infatti, non hanno nomi qualunque: si chiamano Wissam R., Ahmed R., Wayci R., e Denis W.

R. sta per Remmo, una delle famiglie più importanti della criminalità arabo-berlinese. Il furto sarebbe una manifestazione di potenza del clan libanese per dimostrare alle altre famiglie e alle autorità che loro, i Remmo, hanno varcato le frontiere del quartiere e si sono presi Berlino. Un classico.

Non più solo Neukölln, quindi. Ora le operazioni di polizia si svolgono anche nei quartieri borghesi di Charlottenburg e Willmersdorf e naturalmente a Marzahn, l’arena setting della serie di Netflix Dogs of Berlin, il quartiere nella periferia a nord-est della città di più recente immigrazione. È lì che i clan reclutano la manovalanza minuta, i rifugiati più “freschi”, quelli arrivati con la crisi dei migranti del 2015: siriani, afghani, iracheni.

Neukölln rimane comunque il centro del mondo dei clan. Hermannplatz, Kottbusser Damm, Sonnenallee, Karl-Marx-Strasse: lungo queste strade si concentrano gli affari delle famiglie che si contendono la scena criminale nella capitale tedesca. In tutto una decina circa. I loro nomi sono Miri, Al Zein, Omeirat, Abou-Chaker, Remmo. Le vetrine dei negozi hanno insegne in arabo, le pasticcerie sono arabe, Shisha bar (dove si fuma il narghilé), rosticcerie mediorientali. “Una società parallela”, è questa la definizione che capita spesso di leggere sulla stampa. Gli affari dei clan libanesi sono gli stessi della nostra mafia italiana: commercio di droga, riciclaggio, estorsione, ricettazione e prostituzione. Uguali anche i metodi mafiosi: intimidazione e omicidio. Ma i traffici illegali sono sempre un trampolino di lancio, a tutte le latitudini.

Appena si mettono da parte un po’ di soldi, il problema diventa come investirli, come farli diventare puliti, magari per ripulirsi. Il sogno del protagonista della serie 4 Blocks, il capo clan Toni Hamady, è quello di diventare un imprenditore immobiliare. A fine giornata, per svago, va a controllare come procedono i lavori di ristrutturazione di un enorme edificio da 5 milioni di euro che vorrebbe comprare. Usare i proventi del mondo sommerso per permettere alla figlia una vita normale nel mondo legale: questo il suo desiderio. Excursus tipico di ogni mafioso. La serie, le cui riprese sono iniziate nel 2016, ricalca in maniera impressionante le vicende del capo famiglia della famiglia Remmo.

“Faccio affari con gli immobili”, dice Issa, 51 anni, ma “non sono come mi descrivono il capo-clan che riscuote e ricicla denaro”, ha raccontato in un’intervista al Berliner Zeitung. “Ho fatto tutto nero su bianco con un notaio. È tutto giuridicamente pulito, tutto dimostrabile”, continua. La Procura di Berlino però nutre dei dubbi e per questo il 19 luglio scorso gli sono stati sequestrati 77 immobili per un valore di circa 10 milioni di euro. La famiglia viveva in una deliziosa villetta liberty di 500 mq in una strada residenziale alberata di Alt-Buchow, a sud di Neukölln. La casa era intestata a uno dei 13 figli di Remmo, un ragazzo diciannovenne che ufficialmente viveva del sussidio di disoccupazione Hartz IV. Inutile dire che davanti alla villa erano parcheggiate più di una Mercedes, rigorosamente di color nero.

Issa Remmo è nato nel 1967 nel campo profughi palestinese di Mar Elias, a Beirut. La sua storia è simile a quella di tante famiglie libanesi o del sud della Turchia arrivate negli anni 80 in Germania, in fuga dalla guerra in Libano. Sono sbarcati a Berlino, nel Nord Reno Vestfalia, in Bassa Sassonia e a Brema. Ancora oggi l’assillo per i membri dei clan è il riconoscimento e la normalità. “Anche noi vogliamo arricchirci, anche noi vogliamo il riconoscimento degli altri”, dice con candore Khaled, un giovane della famiglia Miri, in un’intervista alla tv pubblica Ard. Gli fa eco Martin Lutz, presidente dell’Ufficio criminale federale (Bdk): “Senza dubbio la criminalità dei clan in tutte le sue sfaccettature è un esempio paradigmatico della mancata piena integrazione”, ha dichiarato in un’intervista a Die Welt. La società parallela a Berlino è un fatto.

I paesani indolenti fanno morire i piccoli borghi

Bisogna arieggiare i paesi portando persone da fuori. I paesi non si fanno cambiare, non credono al bene, sono troppo abituati alla sconfitta, non credono ad altro. Ho detto più volte che nei paesi i soggetti più attivi sono gli scoraggiatori militanti. Hanno un’insolenza che non si dà tregue. Non ti puoi illudere di essere risparmiato. Più fai qualcosa per il paese e più diventi un problema. Sei una persona sospetta.

Il paese resiste quando vuoi salvarlo. Gli piace stare con la trave sulla pancia. Ma la mia idea è che non bisogna arrendersi, anzi la mia idea è che bisogna tornare e ingaggiare una battaglia con gli scoraggiatori. Per prima cosa quando qualcuno parla male di un tuo amico tu devi andare via, non devi dare nessuno spazio alla maldicenza. Bisogna isolare i maldicenti, fargli sentire che sono squallidi, che non meritano nessun ascolto.

E bisogna assolutamente provare a fare ogni giorno qualche esercizio di ammirazione, indicare all’attenzione degli altri chi nel paese sta facendo qualcosa di buono. Non è possibile che non ci sia nessuno che meriti una lode. In fondo ne basta uno, basta che ci sia ancora un generoso in giro e loro non hanno vinto. Una persona di valore è la prova che il valore è ancora possibile, che i miserabili non hanno cancellato il piacere di fare cose belle e giuste.

I paesani stanno uccidendo i paesi perché oggi i paesani non sono più i cafoni di una volta, quelli potevano essere inchiodati alle tradizioni, ostili al nuovo, ma almeno erano solidali col luogo, avevano dei saperi, avevano una dignità, una cultura. I paesani di oggi a volte sono relitti antropologici, sottomarini dell’autismo corale, fringuelli dell’insolenza.

In ogni paese andrebbe aperto un conflitto con queste persone. E la politica dovrebbe tenere conto della situazione psicologica di questi luoghi prima ancora che di quella economica. Gli scoraggiatori spesso sono persone ben stipendiate, sono persone che mandano i figli nelle scuole del Nord. Io qui sto parlando dei paesi del Sud, sono quelli che conosco meglio. Immagino che molte delle cose che sto dicendo valgano anche per i paesi del Nord. Anzi, io nemmeno dei paesi del Sud posso parlare veramente. Io posso parlare solo del mio paese. E anche sul mio paese non posso dire di conoscere tutto. Il paese cambia, si formano nuovi riti. Devi sempre tenere lo sguardo sveglio, altrimenti ti sfuggono i nuovi movimenti che il paese produce. Un paese non è un luogo inerte. Dieci anni fa aveva un colore che adesso non ha più. Il paese che io amo è quello dello spazio fisico, il paese dei gatti e della luce, il paese vuoto mi dà pena, ma almeno è un paese che non sparla. In fondo per ogni porta chiusa c’è un maldicente in meno.

Bisogna riconoscere che spesso alcuni paesi sono piccoli inferni. L’innocente è fuori posto. Chi non si ubriaca, chi studia, chi è operoso sembra uno da cui guardarsi, uno che non c’entra con lo spirito del luogo. Io so che la mia battaglia è difficilissima. La paesologia in fondo viene riconosciuta più nelle città. Se guardo alle persone che in questi anni si sono iscritte alla casa della paesologia, vedo che raramente vengono da piccoli paesi. Il mio lavoro dovrebbe essere sostenuto proprio nei paesi più piccoli e invece questo non accade. La mia ambizione forse è troppo grande, è voler cambiare la postura dei paesi, farla finita coi paesani, creare dei residenti legati al luogo ma non alle sue maldicenze. Mi ribello al paese che si ubriaca, al paese che elegge sindaci dal cuore piccolo. Mi ribello a quelli che Carlo Levi chiamava i Luigini e che oggi ci sono ancora, sono i conservatori che stanno qui per prendere senza dare, sono i tirchi a oltranza. Io ho il cuore gonfio di rabbia, mi sento imprigionato come una mosca nella loro tela. Combatto, cerco aiuto, ma l’aiuto che arriva non è mai abbastanza. Dovremmo portare nei paesi eserciti di incoraggiatori, persone che diano un altro colore alle piazze, che invitino i buoni a uscire di casa. Invece accade che le persone migliori vanno via, chi vuole fare qualcosa trova troppi ostacoli, anzi finisce per immaginare anche gli ostacoli che non ci sono. Questa è la forza degli stronzi, quella di apparire più forti di quello che sono. C’è come un difetto della vista che ci porta a ingigantire le miserie e a minimizzare la bellezza. Il paese ti dà questa ottica distorta. E devi fare esercizi durissimi per avere uno sguardo giusto, per vedere il bene e il male nelle loro proporzioni reali. La casa della paesologia a me adesso sembra l’unica possibilità per chi vuole allearsi e sostenere le mie posizioni. È un tentativo di creare una comunità contro gli scoraggiatori. Più che una casa è una trincea. È un presidio per combattere la grettezza. Non si può essere inermi, la grettezza non si fa i fatti suoi, tende a conquistare anche te, non si accontenta del suo terreno, vuole averne anche altri. Ecco perché se loro si fanno i fatti tuoi, se loro vogliono osteggiare il tuo chiarore, tu devi osteggiare la loro oscurità. Non si può fare a meno del conflitto. Non si può pensare che il paese si rassegni al bene, si disponga da solo all’ammirazione e alla gratitudine.

La casa della paesologia a me sembra uno strumento importante se diventa uno strumento fatto di tante voci, se dai paesi e dalle città si riesce a creare un movimento ampio. Chi non può essere fisicamente ai nostri incontri, comunque ci può aiutare iscrivendosi. Non si può far finta che questa cosa non esista. Non si può pensare che sia una faccenda solo mia. I paesi sono bellissimi, ma i paesani troppo spesso sono avvilenti. Da qui bisogna partire se ci sta a cuore interessarci dei nostri paesi. Non bisogna fare sconti a nessuno, ai sindaci e ai giovani disoccupati. Bisogna essere delicati, ma duri, incoraggiare chi merita di essere incoraggiato e non dare nessuna complicità al rancore, alla perfidia. Si tratta di lottare se si vuole cambiare un luogo. I luoghi possono cambiare solo in peggio se ci affidiamo alle dinamiche naturali. Bisogna seminare il bene, non stancarsi mai di farlo. Se non lo facciamo poi non possiamo lamentarci di essere circondati dal male. Nei paesi potrebbe germogliare un nuovo umanesimo. Ci sarebbe lo spazio per pratiche di vita meno rapinose rispetto alla vita del pianeta. Gli uomini e le donne potrebbero riabilitarsi al sacro o almeno alla gentilezza. E mentre scrivo queste cose è come se volessi spingere il terriccio che ogni giorno mi frana sul cuore. Sì, siamo sotto una frana, ma possiamo ancora aiutare, aiutarci. Ai buoni è concessa la piccola eternità delle cose amorevoli.

Ogni cosa amorevole ci sottrae alla morte, ci rende meno accidiosi. Io spenderò la mia vita fino all’ultimo respiro per avvicinare i generosi, per scavare nelle macerie alla ricerca di un respiro, di uno sguardo che non vuole morire.

Attenti, l’ambiente non perdona chi fa propaganda

“La natura ripristina sempre il caos da cui cerchiamo di redimerci”

(da “Ogni coincidenza ha un’anima” di Fabio Stassi – Sellerio, 2018 – pag. 186)

Dallo stabilimento dell’Ilva che minaccia la salute degli abitanti di Taranto al batterio della Xylella che attacca gli ulivi secolari, fino alle trivellazioni petrolifere nel mar Ionio sospese ora dal ministero dello Sviluppo economico, la contestazione popolare nei confronti del M5S in Puglia è arrivata al punto di bruciare in piazza le bandiere a cinque stelle. Diciamo subito che in tutti questi casi si tratta di problemi antichi, che risalgono indietro nel tempo e a responsabilità altrui. Fatto sta, però, che in campagna elettorale gli esponenti del Movimento avevano promesso di risolverli in un battibaleno, alimentando le aspettative e le speranze a colpi di propaganda. E ora si ritrovano a fare i conti con la realtà. Valga per tutti l’esempio di Alessandro Di Battista, che recentemente ha chiesto scusa agli elettori salentini – e bisogna dargli atto della franchezza – per aver suscitato troppe illusioni.

Ma il caso va oltre i confini di quella regione e trasmette alcuni insegnamenti di carattere generale. Il primo è che non si può essere ambientalisti solo all’opposizione. Il secondo è che non si possono, e non si devono, fare promesse elettorali senza essere sicuri di poterle mantenere: in questo campo meno che mai, perché sono in gioco interessi vitali della popolazione. Il terzo insegnamento è che la propaganda non giova all’ambientalismo. E tutto ciò vale, ovviamente, non solo per i Cinquestelle.

Chi milita su questo fronte da quarant’anni e passa, sa che l’ambientalismo è un esercizio continuo di responsabilità, nei confronti di noi stessi e delle generazioni future. Una pratica di solidarietà verso il prossimo. E perciò la tutela dell’Ambiente spetta a ciascuno di noi nell’interesse di tutti, dell’intera collettività.

Questo non significa, però, tornare all’età della pietra o regredire alla “civiltà della caverna”; bensì controllare e limitare lo sfruttamento delle risorse naturali, ridurre al minimo l’impatto ambientale, combattere l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento del pianeta, perseguire il risparmio energetico, sviluppare le energie alternative, favorire il più possibile una “crescita felice”. E invece, spesso il massimalismo rischia di diventare la “malattia infantile” dell’ambientalismo, come l’estremismo – secondo Lenin – lo è del comunismo. Così si finisce, appunto, per tradirne spesso i principi e i valori.

È giusto, allora, predicare lo “sviluppo sostenibile”, a condizione di razzolare poi sul terreno di un “ambientalismo sostenibile”: compatibile cioè con le ragioni del progresso e del benessere collettivo. L’Ambiente, insomma, come motore e regolatore dello sviluppo. Il riformismo ambientalista come antidoto contro gli animal spirits del capitalismo selvaggio. Questa è l’unica forma di ambientalismo che si può praticare coerentemente sia dal governo sia dall’opposizione.

Il “caso Puglia” assume, dunque, un valore emblematico che va al di là della sua dimensione territoriale e del suo ambito specifico. E può riguardare perciò i Cinquestelle e tutti gli altri movimenti o partiti, dalla politica europea al salvataggio delle banche e al Tav. Per evitare la nemesi storica, la regola d’oro resta quella della reciprocità suggerita dallo spirito evangelico: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Non conviene, insomma, promettere un “mondo migliore” per tutti in campagna elettorale, ma piuttosto cercare di realizzare il mondo migliore possibile quando si è chiamati a governare.

Torino, sfilano le “madamine” in tuta da sci

Oggi le famose sette “madamine” si apprestano a scendere di nuovo in piazza, a Torino, per manifestare a favore del Tav. Lo faranno assieme a un po’ di sindaci e a qualche presidente delle regioni nordiste, a un gruppo di industriali e di industrialotti, ai soliti notai/avvocati/architetti e affini, e a un’ammucchiata da campagna elettorale, che va dal Pd alla Lega e a Forza Italia. Per le signorone, signore e signorine del comitato “Sì, Torino va avanti”, tuttavia, quello dell’Alta velocità sembra essere soprattutto un pretesto per fare qualcosa, vedere gente, non perdere le stimmate di “madamine”.

Anche perché alle sette samurai del Rotary e del caffè Baratti e Milano (quello di Guido Gozzano), del mercatino chic della Crocetta e della prevedibile lacrima ai funerali dell’avvocato Gianni Agnelli, l’idea di organizzare una nuova piazzata adesso è venuta per questioni sciistiche. Lo hanno spiegato loro stesse, a Repubblica, che ha scritto: “Poi sono arrivati i conteggi ufficiali dell’aumemto del pedaggio approvato dal governo per l’autostrada Torino-Bardonecchia e le madamine hanno rotto gli indugi”. Ovvero: “Non potevamo più stare zitte”. Certo che no. Ora, per chi non lo sapesse, la suddetta autostrada, peraltro un grande scempio ambientale, è quella che porta alle piste da sci e alle località di villeggiatura predilette dai torinesi più o meno benestanti e quindi anche dalla nostre “madamine”: da Sauze d’Oulx a Sestriere. Luoghi, le piste da sci, in cui le sette samurai del Tav elaborano pensieri e parole. Infatti una di loro, madama Giovanna Giordano Peretti, in questi giorni su Fb ha postato un ricordo, che recita: “Oggi sono stata molto religiosa. Fantastica giornata fuoripista con ottima compagnia”. Sotto campeggia una foto montana, con la citazione di un esploratore norvegese: “È meglio andare a sciare e pensare a Dio piuttosto che andare in chiesa e pensare a sciare”. A sciare, del resto, le pasionarie del Rotary andarono, e lo rammentarono pure, quando a Torino, l’8 dicembre scorso, sfilarono migliaia anti-Tav. La fenomenologia da neo-edoniste reaganiane in tuta da sci delle “madamine”, che indossano l’arancione di piazza sopra l’abitino classico e borghese, però, non si ferma qui. Repubblica domanda se non temono un flop, domani in piazza, rispetto all’oceano No Tav dell’8 dicembre. E loro sette, a colpo sicuro, forse con sette sorrisini, replicano: “Non temiamo alcun confronto fotografico, al massimo quello per qualche chilo messo su nelle abbuffate dei pranzi delle feste”. La regina Maria Antonietta, quella delle presunte brioche per la plebaglia, non avrebbe saputo architettare una risposta migliore.

Il Sì Tav, per le sette samurai della buona borghesia torinese, vuole dire soprattutto sciare, abbuffarsi a Natale, rispondere ai post e alimentare, come dicono, la community della pagina Fb, oltre che a tenersi in allegro contatto: “Basta una connessione”, che “ti tiene compagnia anche durante il pranzo di Natale”. A volte con il Tav si può pure sognare. Ecco che cosa sognava Giovanna Giordano Peretti, il 12 settembre, e lo confidava a La Stampa: “La rievocazione dell’Assedio di Torino ha suscitato in me alcune riflessioni un po’ amare”. E cioè: “Oggi continuo ad ammirare il suo esempio di abnegazione”, ossia di Pietro Micca, “e anche quel suo essere un po’ ruvido, da minatore, segno che gli alti ideali non risiedono solo nei lombi dei nobili” (perbacco!). Eppure “ultimamente mi sono trovata a pensare: che sarebbe successo a noi piemontesi se nel 1706 Pietro Micca quella scala non l’avesse fatta saltare? Beh, da più di trecento anni faremmo parte della nazione francese, Torino sarebbe la seconda città della Francia. (…) Caro Pietro Micca, non potevi sapere tutto questo e hai certamente agito per il meglio, ma se quella notte te la fossi data a gambe levate…”. Ma in Francia ci sono i gilet gialli, non le “madamine”.